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Salvatore Rotta Quattro temi dell'Esprit des Lois* |
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IL CLIMA |IL PRIMATO DELL'EUROPA |SCHIAVITU'|POPOLAZIONE I. 1. Quattro
libri dal XIV al XVII sono consacrati al "clima". A questi va
aggiunto il XVIII sul rapporto delle leggi con la "natura del terreno".
Tre dei quattro dedicati allo studio dell'influenza climatica sono, nello
stesso tempo, dedicati al problema della schiavitù: schiavitù
civile (XV), schiavitù domestica (XVI), servitù politica
(XVIII). Una cosa è subito chiara: lo studio delle influenze climatiche
sull'uomo è funzionale al tentativo di Montesquieu di mettere in
rapporto la "natura umana" e l'ambiente fisico con le istituzioni
politiche e sociali. L'emergenza stessa del suo interesse per il clima
come fattore esplicativo del mondo sociale è tardiva: si manifesta
più o meno a partire dal 1730. Tale interesse è dunque,
anche cronologicamente, connesso con l'esecuzione del grande progetto.
L'esperimento con la lingua di montone è probabilmente posteriore
al 1737. E posteriore al 1742 data della traduzione francese
è la lettura del saggio di Arbuthnot sugli effetti dell'aria sul
corpo umano: un'opera verso la quale egli contrasse indubbi debiti. L'idea
essenziale dell'allungarsi e rilassarsi delle "fibre" dei corpi
viventi per effetto del calore è del medico inglese. Questo non
significa che Montesquieu non avesse manifestato anche prima attenzione
ai fattori climatici. L'osservazione, così preziosa per l'antropogeografia,
che la specie umana, malgrado l'indiscutibile (indiscutibile, si badi,
anche per Montesquieu) unità specifica, non è ubiquitaria
si legge nelle Lettres Persanes: "gli uomini devono restare
dove sono; molte malattie nascono dal fatto che si cambia un'aria buona
con un'aria cattiva; altre traggono origine precisamente dal fatto che
si cambia cielo: quando siamo trasportati in un altro paese ci ammaliamo
[...]" (L. P. 121). L'installazione dei vari gruppi etnici
in regioni climatiche diverse è difficile, forse impossibile: "tutte
le deportazioni di popoli fatte a Costantinopoli non sono mai riuscite".
La distruzione delle popolazioni locali è irreparabile: la Palestina
è rimasta deserta dal tempo che gli ebrei sotto Adriano ne furono
cacciati; i vuoti lasciati in Spagna dall'espulsione dei mori non sono
stati ancora colmati; nessuna razza, né bianca né nera,
è riuscita a ripopolare l'America, dopo che le razze indigene furono
sterminate dagli spagnoli: "per una fatalità, che dovrei piuttosto
chiamare giustizia divina, i distruttori si distruggono a loro volta e
si consumano tutti i giorni". La derivazione di grandi nuclei di
popolamento in paesi lontani incontra troppi ostacoli, impone un costo
umano troppo elevato: "i principi devono dunque rinunziare a popolare
grandi paesi con colonie". Esistono, è vero casi individuali
di adattamento; e questo è sufficiente per creare piccoli insediamenti,
quegli scali commerciali appunto necessari all'ampliamento dei traffici. 2. Che concentrasse
la sua attenzione sul clima non sorprende; era anzi in sé una scelta
più che comprensibile. Non è il fattore dominante? Alla
distribuzione zonale dei climi non corrisponde forse una distribuzione
zonale dei grandi insiemi vegetali? Le anomalie nella distribuzione dei
climi non turbano forse la zonalità degli insiemi vegetali e la
loro fisionomia? La comunità vivente flora-fauna non interessa
forse l'uomo? E infine: l'uomo biologico, l'organismo umano non è
il primo e più sensibile registratore del clima? E' la piega dell'indagine
che sorprende. Non è una climatologia biologica che Montesquieu
vuole fondare. Non si limiterà dunque a studiare i meccanismi di
adattamento, i dispositivi anatomo-istologici che permettono ai vari gruppi
etnici di sfuggire alle specifiche determinazioni ambientali; non a fissare
i limiti assoluti di soddisfazione dei bisogni fisiologici dell'uomo,
oltre i quali il deterioramento organico è tale da non permettere
più insediamenti stabili. In questa direzione si sarebbe mosso
forse l'autore delle Persanes. Ma l'autore delle Lois ha
ambizioni maggiori: rendere ragione, grazie ai complessi climatici considerati
a grandi blocchi, del diverso mondo morale, del diverso sentimento della
vita, del diverso comportamento sociale, del diverso destino storico delle
collettività umane. Il Montesquieu delle Persanes si limitava
a riconoscere che l'esistenza dei vari gruppi etnici era favorita in ambienti
specializzati; quello delle Lois stabilisce delle gerarchie, introduce
nella classificazione criteri di valore. Ma vediamo come si articola in
concreto la sua analisi. 3. Quando
si tratterà di giudicare gli effetti dell'inoculazione, avvertirà
l'importanza delle valutazioni quantitative e del ragionamento statistico:
"bisogna saper calcolare... "; "non si vorrà mai
calcolare e io voglio farlo". Lodevole scrupolo. Come mai però
non lo aveva provato a proposito del clima? La posta in gioco era ben
più grossa. Si era invece limitato a studiare una sola delle due
variabili: la reattività nervosa individuale. L'altra l'habitat
climatico era semplificata all'estremo: temperatura e basta. È
vero che la climatologia umana non è la meteorologia; che il clima
agisce globalmente, come complesso indivisibile, sull'uomo; che prima
vengono le reazioni dell'organismo umano all'azione degli stati dell'atmosfera.
Ma bisogna prima o poi passare all'analisi: studiare l'azione di ogni
elemento col clima sull'essere vivente. Quand'è possibile, s'intende:
ancora oggi lo studio strumentale degli effetti fisiologici dell'evaporazione
non ha oltrepassato lo stadio di laboratorio. Un vento umido oltre una
certa velocità può comportarsi come un vento fisiologicamente
secco. La macchina dell'uomo è una macchina più complessa
di quanto non potesse immaginare un cartesiano del secolo decimottavo.
Tuttavia bisogna ammetterlo anche se le premesse iatromeccaniche
non erano le più idonee allo studio delle malattie nervose, qualche
progresso si andava facendo. Gli effetti della pressione barometrica avevano
già attirato l'attenzione dei fisiologi: le discussioni sulla "nostalgia",
sul mal du pays un'afflizione che pare colpisse allora soprattutto
gli svizzeri emigrati svoltesi nei primi anni del secolo stanno
a provarlo. Montesquieu fu molto meno ingegnoso nell'analisi che egli
tentò dello spleen degli inglesi. Per spiegar il fatto che molti
inglesi "sono infelici in mezzo alla felicità stessa"
non trovò di meglio che ricorrere al "clima", entità
misteriosa. A meno che non pensasse senza saperlo a carenze vitaminiche,
visto che lo assimila allo scorbuto. E anche nell'analisi delle sensazioni
termiche non andò molto in là. La messa in scena scientifica
nello studio della fisiologia animale nasconde, del resto, appena la banalità
dei risultati. Eccoli, in breve. 4. Per farla corta: la classificazione montesquiviana dei climi, è la più arcaica che si possa immaginare: torrido, temperato, freddo. E almeno si fosse informato bene. Tra i paesi "caldissimi" mette la Cina, la Corea, il Giappone. Si era limitato puramente e semplicemente a considerare i paralleli? L'ipotesi fila per la Cina e la Corea. Ma il Giappone? Il fatto è che dell'arcipelago nipponico, soprattutto della sua parte settentrionale (fino ai viaggi d'esplorazione di La Pérouse, fino vale a dire al 1787) si avevano in Europa conoscenze molto vaghe. Consultando le carte dell'epoca, che egli stesso trovava imprecise e discordanti, Montesquieu individuò un paese che nella sua parte meridionale le isole di Kyushu, di Shikoku, la più gran parte della maggiore, Honshu, dove fiorivano le città maggiori: Edo (Tokyo), Kyoto, Osaka era situato all'altezza dell'Africa settentrionale, e che si spingeva a nord non oltre il 40° parallelo, non oltre cioè la fascia comprendente la Spagna meridionale, la punta estrema d'Italia, la Grecia, la Turchia (P. 1301). E in Asia il 40° parallelo era il punto critico: quello oltre il quale si passava bruscamente dal caldo estremo a un freddo quasi polare (P. 1356). Ignorando l'esistenza delle fredde correnti oceaniche che rendevano temperato il clima e tanto pescosi (com'egli ben sapeva) i mari del Giappone, si spiega il suo errore. Si spiega, ma non si giustifica. Un uomo che posava a scienziato avrebbe dovuto essere meno perentorio nelle sue affermazioni. Allo stato delle conoscenze, le prudenza era d'obbligo. Come ragionare fondatamente il dottor Johnson aveva ragione sui rapporti tra le leggi e il clima di paesi immensi come la "Tartaria" (che corrisponde alla Mongolia, al Sin Kiang, alla regione del Kuku-nor, del Tsaidam), la Cina, l'India? E per giunta quando sia le loro leggi sia la loro configurazione fisica sia la loro storia erano pressappoco sconosciute? 5. L'esplorazione
della Siberia era appena cominciata. La grande spedizione Gmelin-Bering
era stata intrapresa nel 1733. Tra i membri della spedizione c'era anche
un francese: il ben noto geografo Delisle de la Croyère. Durerà
dieci anni. Subito che ritornò in Europa, nel 1746, Gmelin aveva
pubblicato, a Gottinga la sua Flora sibirica. Montesquieu avrebbe
dunque potuto procurarsela. A onor del vero, nell'agosto 1751, richiese
al suo corrispondente in Danimarca, La Beaumelle, l'opera che Gmelin aveva
cominciato a pubblicare in quell'anno: il giornale appunto del suo viaggio
siberiano (Reise durch Siberien, Gottinga 1751-1752, 4 voll.).
Ma pare che il suo desiderio non fosse stato esaudito. In ogni caso, ignaro
com'era del tedesco, avrebbe potuto trarne poco profitto. La lettura della
prima opera, se gli fosse capitata tra le mani gli avrebbe rivelato l'esistenza
della taiga, della immensa foresta siberiana; e non leggeremmo più
come leggiamo nelle Lois che in Siberia non crescono che abeti
nani e arboscelli (XVII, 3). Le sue idee sulla storia asiatica, la sua
bella costruzione geopolitica della quale dovremo riparlare, avrebbero
dovuto subire una radicale revisione. Sarebbe stata per lui un'operazione
estremamente penosa. Quella costruzione si reggeva infatti sull'assenza
in Asia di zone climatiche intermedie, diciamo freddo-umide. E questo
spiega la sua fretta di abbandonare i climi caldissimi per ritrovarsi
al più presto nelle desolate regioni della tundra e delle nevi
perpetue. Non è del resto l'unico punto sul quale la sua informazione
geografica si rivela carente. La linea naturale di demarcazione tra la
"grande Tartaria" la sterminata regione delle steppe
e la Siberia era costituita, per lui, dall'ininterrotta catena
di montagne che si stende dalla Cina al Caucaso. La catena, ovviamente,
esiste; ma costituisce il confine meridionale, non quello settentrionale
dell'Asia centrale. Adam Brand (il viaggiatore che gli servì da
fonte), partito da Mosca alla volta di Pechino, alludeva alle catene del
T'ien-shan, dell'Ala Tau zungarico e del Khrebet Tarbagatai. Prolungarle
fino alla Cina non era poi un arbitrio troppo grave. Montesquieu, ci ha
abituato a ben altro. In Asia constatava si sono visti sempre
dei grandi imperi, mentre in Europa non hanno potuto sussistere. Perché?
Per le dimensioni stesse dello spazio asiatico? No. Ecco la sua risposta:
"perché l'Asia che noi conosciamo ha pianure più ampie,
è divisa in zone più vaste dai mari, e siccome si trova
più a mezzogiorno, le sorgenti si possono prosciugare più
facilmente, le montagne sono meno coperte di neve, e i fiumi, ingrossando
in misura minore non formano grandi barriere (XVII, 6). Nel manoscritto
e nelle prime edizioni, quelle del 1748 e 1749, aveva scritto: "par
les montagnes et les mers". Questo mettere e togliere montagne (e
quali montagne); questo ridurre la portata e il corso dei fiumi (e quali
fiumi) la dicono lunga sul metodo di lavoro di Montesquieu. Possibile
che nessuno dei suoi viaggiatori ci si chiede gli avesse
parlato delle terribili inondazioni dell'Indo a causa dello scioglimento
delle nevi dell'Himalaya; o di quelle, ancor oggi spaventose, del Brahmaputra?
Domanda ingenua. Montesquieu sapeva benissimo che l'India era un paese
di grandi fiumi, che i suoi abitanti facevano continue "lozioni",
che "pregavano Dio nell'acqua corrente". Tant'è vero
che aggiungeva: "ma come eseguire queste cose in altri climi?"
(XXIV, 26). Soltanto gli faceva comodo ignorarlo. Non meglio trattata
era, del resto, la storia politica dell'India. L'unità nazionale,
la creazione di un grande impero panindiano o anche una confederazione
di stati non è mai stata la tendenza profonda della storia indiana.
Al contrario, carattere dominante della sua tradizione è stato
il pluralismo politico, il pluricentrismo delle monarchie regionali indipendenti.
Le tendenze unificatrici degli imperi, nati tutti nella grande pianura
gangetica, sono sempre state tenute in iscacco dalle resistenze dell'India
meridionale. L'ultimo tentativo, quello che più si era avvicinato
alla realizzazione di tale ambizioso progetto, l'impero moghul sotto il
grande Aurengzeb (questo degno contemporaneo del re Sole) si era chiuso
con un fallimento; e il suo destino era stato deciso proprio sull'altopiano
del Deccan. Anche in questo caso, Montesquieu sapeva bene dell'esistenza
di forze centrifughe, in India come in ogni altro stato despotico. Tanto
bene da essere costretto a postulare per giustificare non solo la loro
durata, ma la loro esistenza stessa, una spietata volontà accentratrice:
"senza di essa ci sarebbe uno smembramento delle parti della monarchia;
e i diversi popoli, stanchi di un dominio che giudicherebbero straniero,
comincerebbero a vivere secondo le proprie leggi". E ancora più
chiaramente: "il potere deve sempre essere dispotico in Asia, perché
se la servitù non vi fosse estrema, si farebbe subito una divisione
che la natura del paese non tollererebbe (Réflexions sur la
monarchie universelle, 1733-1734; Nagel III, 368). Ecco il perché
di tanti sensazionali colpi di mano ai danni della geografia: Montesquieu
vuol dimostrare "scientificamente" una tesi politica. Quale,
vedremo. È il politico che fa torto al geografo e allo storico. 6. La documentazione
incerta di cui disponeva avrebbe dovuto trattenerlo almeno dal fare previsioni.
Ma così non è. L'uomo delle nuances volentieri dogmatizza:
"Le Indie sono state, le Indie saranno quello che sono oggi; e in
tutti i tempi coloro che negozieranno con le Indie vi porteranno denaro,
e non ne riporteranno" (XXI, 1). Bernier, sua fonte, aveva parlato
del commercio indiano di prodotti di lusso nell'Indonesia e nell'Indocina:
"non posso conciliare gli obiettava ciò che
dice di un commercio così vantaggioso con l'estrema miseria del
paese da lui stesso ammessa" (Nagel II, 953-954). Dunque, un paese
immutabile nei secoli, dominato imperiosamente sia dalla sua religione
"indistruttibile" sia dal suo clima: "il clima non richiede
agli indiani né loro permette nessuna merce di provenienza europea".
I loro atteggiamenti mentali, lo stesso modo di vestire non erano cambiati
da mille anni in qua (XIV, 4). Marx, impressionato egli pure dalla immobilità
delle società asiatiche, "così stranamente in contrasto
con la dissoluzione e ricostruzione incessante degli stati", ne cercherà
la ragione nella semplicità delle strutture produttive. II. 7. Libertà
dell'Europa, servitù dell'Asia; forza dell'Europa, debolezza dell'Asia:
è il tema cruciale, il nodo di tutte le sue riflessioni. I conquistatori
tatari dell'India, non diversamente da Goti e Franchi, si appropriarono
delle terre e le distribuirono a titolo di feudi. Ma mentre i feudi in
Europa divennero col tempo ereditari, lo stesso processo non si ebbe in
Oriente: i feudi restarono a vita, o piuttosto dati o tolti dalla volontà
capricciosa del principe. L'agricoltura ne risentì un danno immenso:
ben presto la precarietà distrusse nell'Indostan i villaggi, i
contadini, le terre, e lo rese il più gran deserto del mondo (popolato,
sia detto di passata, da circa cento milioni di anime). Perché?
Perché in Europa regnava lo "spirito di libertà",
in Oriente no (P. 1730). Lo stesso Montesquieu non fu soddisfatto
della risposta. Sempre alla ricerca della "grande ragione" della
diversa storia dei due continenti, in sostanza della superiorità
europea, si lusingherà finalmente di averla trovata: l'Asia non
ha zona temperata (XVII, 3). I luoghi a clima molto freddo confinano direttamente
con quelli a clima molto caldo (che sono ricordiamolo la
Turchia, l'India, la Cina, la Corea, il Giappone). In Europa si passa
invece insensibilmente dal clima della Spagna e dell'Italia a quello della
Svezia e della Norvegia; la zona temperata è molto vasta: ogni
nazione vi ha un clima simile a quello delle nazioni vicine. Le conseguenze?
Enormi. 8. Ha riflettuto sulle istituzioni politiche proprie a ogni genere di vita, che è essenzialmente determinato dal modo di procurarsi la subsistance; sui popoli "selvaggi", sui popoli "barbari", sui popoli "coltivatori". Fermiamoci per ora sui primi due. La differenza è questa. I primi sono gruppi umani (petites nations) isolati, dispersi, di dimensioni minime: in genere, cacciatori. 1 secondi sono gruppi umani che possono "riunirsi", formare cioè delle piccole società, delle "orde": in genere, pastori. L'Asia gli offre proprio i casi tipici. i cacciatori della Siberia "non potrebbero vivere riuniti, perché non potrebbero nutrirsi"; i tatari, pastori, possono riunirsi "per qualche tempo, perché le loro mandrie possono essere radunate per qualche tempo": le loro condizioni materiali di vita glielo consentono. Ma possono anche momentaneamente dar vita a più ampi organismi politici: "tutte le orde possono dunque riunirsi; e ciò avviene quando un capo ne ha sottomesso molte altre". Ma tale organizzazione, creata con la forza, è artificiale, quindi non è durevole: o si dissolve oppure si trasforma in un'organizzazione militare che vada a fare "qualche grande conquista" nel mezzogiorno (XVIII, 11). L'elemento di coesione sociale diventa, dunque, la terra. D'altra parte, essi come tutti i popoli cacciatori, pescatori, pastori ignorano la moneta: non c'è nessuno tra loro che possa accumulare tanti "segni di ricchezza" da corrompere gli altri; ciascuno ha pochi bisogni che può agevolmente soddisfare: "l'uguaglianza è dunque forzata; e i loro capi non sono despotici" (XVIII, 17). Questo discorso va bene per l'orda; perché più avanti riconosce che i pascoli sono dei beni, per il possesso dei quali possono nascere, e nascono ogni giorno, contrasti tra orda e orda: "quando un khan è vinto si mozza la testa a lui e ai suoi figli"; e tutti i suoi "sudditi", non potendo essere fatti schiavi (a cosa servirebbero in una società non agricola?), vengono incorporati alla nazione, ma in stato di inferiorità politica. È dunque il modo stesso con il quale si è compiuta l'unificazione politica a far sì che i tatari, pur abitando in una terra incolta, non siano liberi: "in effetti, in un paese nel quale le diverse orde si fanno continuamente guerra e si conquistano di continuo tra loro; in un paese dove, con la morte del capo, il corpo politico di ogni orda vinta è sempre distrutto, la nazione in generale non può essere libera" (XVIII, 19). "Circostanze" diverse fanno sì che, nelle stesse condizioni, gli arabi fossero liberi e i tatari no. 9. Quali
circostanze? La diversa configurazione del territorio. Privi di difese
naturali, i tatari vinti non potevano trattare la resa. Gli arabi al contrario
diceva altrove avevano grandi "foreste". Di conflitti
intertribali neppure l'ombra tra loro: popolazioni "oziose, tranquille,
poco agguerrite", portate più al commercio avevano
delle "grandi ricchezze" naturali che alla guerra. Era
stata la vicinanza di Parti e Romani a farli diventare guerrieri: "Maometto
li trovò guerrieri, comunicò loro il fanatismo, ed eccoli
conquistatori" (XXI, 16). Più coerenti, Gibbon e Malthus non
vedranno tra tatari e beduini alcuna differenza: c'erano state, calcolava
Gibbon, tra le tribù arabe prima di Maometto ben 1700 battaglie.
Ma torniamo ai tatari. Nel capitolo precedente aveva scritto: "i
popoli dei nord dell'Europa l'hanno conquistata da uomini liberi; i popoli
del nord dell'Asia l'hanno conquistata da schiavi e non hanno vinto che
per un padrone". E spiega: "la ragione di ciò è
che il popolo tataro, conquistatore naturale dell'Asia, è diventato
schiavo a sua volta". Era stato insomma corrotto dal contatto con
le popolazioni meridionali: "esso fa continue conquiste nella parte
meridionale dell'Asia, forma degl'imperi; ma la parte della nazione che
resta in patria si trova sottomessa a un gran signore, che, despotico
nel mezzogiorno, vuole esserlo ancora nel nord; e disponendo di un potere
arbitrario sui sudditi conquistati, pretende anche di esserlo sui sudditi
conquistatori" (XVII, 5). E ancora più esplicitamente: "è
questa la causa che ha fatto sì che il genio della nazione tartara
o getica è sempre stato simile agli imperi dell'Asia". 10. Allora:
virtù dei goti o virtù dell'Europa? Non sono, ovviamente,
schemi sovrapponibili. Quelle virtù dei goti, a ogni modo, avrebbe
dovuto cercarle non tra i visigoti della Gallia narbonese, rapidamente
romanizzati com'egli ben sapeva (XXVII, 4, 7); ma in quelli di Spagna.
Invece, nell'importanza politica assunta dall'episcopato nella chiesa
di stato spagnola ("tutti gli affari erano decisi nei concili")
egli vide soltanto un fatto negativo, l'origine stessa dell'inquisizione:
"noi dobbiamo ai codici dei visigoti tutte le maniere, tutti i principi
e tutte le mire dell'odierna inquisizione; i monaci non hanno fatto che
copiare, contro gli ebrei, leggi fatte un tempo dai vescovi" (XXVIII,
1). 11. Con la
stessa chiave d'oro si poteva conoscere il segreto dei regimi africani
e americani. L'Africa ha "un clima simile a quello dell'Asia meridionale
e versa in un'uguale servitù". Ma quale Africa? Non quella
nera della costa occidentale l'Africa subsahariana ed equatoriale
che più avanti dice abitata da popolazioni "selvagge"
e "barbare" per ragioni d'ordine naturale e ("io credo
che ciò derivi in gran parte dal fatto che dei paesi quasi inabitabili
circondano piccoli paesi abitabili") destinatarie ideali del commercio
di paccottiglia: "prive d'industriosità, non hanno arti, possiedono
in abbondanza metalli preziosi offerti direttamente dalle mani della natura"
(XXI, 2). Dopo il 1751 apprese tuttavia dal resoconto di un ingegnere
inglese l'esistenza nella Guinea di "piccoli regni" dai costumi
sessuali più che liberi, nei quali la devoluzione della corona
avveniva per via matrilineare (XVI, 11; XXVI, 6). Non l'Etiopia, che nonostante
la grandezza territoriale e il "vizio del clima" doveva alla
religione il fatto di non essere un impero despotico: il cristianesimo
aveva portato "nel cuore dell'Africa i costumi dell'Europa e le sue
leggi" (XXIV, 3). Nel vicino Sudan, il regno di Sennar stato
musulmano versava nel più spaventoso despotismo. Pensava
dunque soprattutto all'Africa settentrionale: alle reggenze di Algeri,
Tunisi, Tripoli; all'impero del Marocco; all'Egitto. Tutti stati musulmani.
Ma l'Egitto dei Mamelucchi sembra che costituisse per Montesquieu, almeno
nelle due prime edizioni, un'eccezione: malgrado che facesse parte dell'impero
ottomano era un governo moderato, come lo era stato a suo tempo l'Egitto
dei Faraoni (XVIII, 6). 12. Tiriamo
ora le fila. Un rovesciamento della prospettiva eurocentrica, nella cultura
francese dell'epoca, c'era stato. Ma non per opera di Montesquieu. A battere
energicamente, sin dal 1740, sul primato dell'Asia nella storia dell'umanità
era stato Voltaire. Lì in India, in Cina era nata
la civiltà: "Asia culla di tutte le arti, e che ha dato tutto
all'Occidente" (Essai sur les moeurs, Avant-propos). Montesquieu
faceva sì dell'Asia un termine assiduo di confronto con l'Europa,
ma gira e rigira i conti tornavano sempre o quasi a vantaggio della seconda.
Come non ammirarla? Dominava sugli altri tre continenti; era "illuminata",
mentre altrove la vita intellettuale era sepolta in una "densa notte";
era prospera, mentre tutto il resto del mondo gemeva nella miseria e nella
schiavitù. 13. Ma quali
erano i confini dell'Europa di Montesquieu? Tutto il territorio fino all'Ob,
senza dubbio. Ma funzionava il suo schema del partage naturel del
territorio per l'Europa orientale e balcanica? Come poteva applicarsi
alla "frontiera" mobile, a quella vasta "terra di nessuno"
che si stendeva tra l'impero ottomano, i domini asburgici, il regno di
Polonia, l'impero russo? Si pensi all'Ucraina (regione profonda da 3 a
400 Km. tra il Dnepr e il Don), frontiera teorica tra Polonia e Russia,
in realtà terra libera popolata da seminomadi cosacchi, refrattari
a ogni organizzazione statale. E dov'erano, nel caso della Polonia, le
sue frontiere naturali? Chi come Montesquieu aveva trascorso tanto tempo
a Lunéville a godersi le delizie della corte di re Stanislao poteva
fermare un po' la sua attenzione sul problema. Equilibrio delle dimensioni
degli stati: poteva sostenerlo per quelli dell'Europa occidentale e centrale.
Ma la Russia? Sapeva bene quanto incommensurabile fosse con ogni altro
stato non solo d'Europa ma del mondo l'impero dello zar: "due mila
leghe da Mosca all'ultimo avamposto sul confine della Cina" (L.P.
51). Tanto che, alla fine della vita, pensò bene di dimezzarlo:
"mille leghe" (misura più verosimile: 1 lega = 415 Km.).
Malgrado l'uso disinvolto delle cifre, era pur sempre uno stato monstre. 14. Quello
che Montesquieu non volle vedere è che una nuova, ancor più
straordinaria apertura di orizzonti, dopo la "distruzione del commercio"
consecutiva alle invasioni barbariche, si era avuta tra il secolo X e
il XIV ad opera dei porti d'Italia e in seguito di quelli dell'Europa
meridionale: Francia meridionale, Spagna meridionale. Gli ebrei ebbero
qualche parte in questa straordinaria avventura, ma non la parte esclusiva
che Montesquieu pretende: "si vide il commercio uscire dal seno stesso
della vessazione e della disperazione" (XXI, 20). Se è al
commercio degli schiavi che alludeva, aveva ragione. Ma non furono gli
ebrei a inventare la lettera di cambio. Quando cominciò la loro
persecuzione sistematica, nel 1215, l'economia europea era da un pezzo
in movimento. Che l'Italia avesse avuto per secoli una parte dominante
nella rivoluzione commerciale dei basso medio evo era costretto ad ammetterlo,
sia pure di malagrazia. Non aveva potuto non parlare di Venezia. Fino
alla scoperta delle nuove strade marittime "i veneziani avevano fatto
[...] il commercio delle Indie attraverso il paese dei turchi, e lo avevano
continuato in mezzo ad angherie e oltraggi". Con la scoperta della
via dei Capo, "l'Italia non fu più al centro dei mondo commerciale":
fu "messa, per così dire in un canto dell'universo, e vi è
rimasta" (XXI, 21). Lo stesso commercio del Levante era diventato,
per la penisola, "accessorio". III. 15. Due sono
le specie di schiavitù: la personale e la reale. La reale è
quella che lega l'uomo alla terra. Era il tipo di schiavitù in
uso presso gli antichi Germani e ancora vigente nell'Europa settecentesca:
in Ungheria, in Boemia, nella bassa Germania. Possiamo aggiungere non
soltanto il Meclemburgo, la Pomerania, la Polonia, la Russia ma la Francia
stessa: erano ben servi della gleba i contadini mainmortables della
Borgogna, della Marche, della Franca Contea. Voltaire condurrà
contro questi avanzi di barbarie una celebre polemica nel 1775, scendendo
in difesa dei servi del capitolo di St-Claude. Ma di contro a Voltaire,
di contro ai fisiocratie a quanti, in pieno secolo dei lumi, non giustificheranno
e magari loderanno questo modo di soggezione (il presidente Bouhier, l'intendente
Joly de Fleury), Montesquieu, quanto a lui, ne parla con il dovuto orrore,
ma riferendosi ai primi tempi della terza race (i capetingi) (XXX,
11). La schiavitù della gleba è per lui comunque la schiavitù
dei "popoli semplici". Presso i Germani gli schiavi non avevano
alcuna mansione domestica; erano soltanto obbligati a consegnare al padrone
una certa quantità di grano, di bestiame o di stoffa (XV, 10).
Quando la servitù era introdotta a seguito di una conquista (pensava
ai Franchi) lo "schiavo coltivatore" doveva necessariamente
trasformarsi col tempo in colono parziario del padrone. Soltanto una società
di perdita e di guadagno poteva riconciliare coloro che erano destinati
a lavorare e coloro che erano destinati a godere dei frutti del loro lavoro
(XIII, 3). Uomo del sud-ovest della Francia, Montesquieu giudica la mezzadria
il migliore dei contratti agrari. L'"abuso estremo" della schiavitù
si aveva quando alla servitù reale si aggiungeva quella domestica,
come a Sparta: era "contro alla natura delle cose" (XV, 10;
XIII, 4). Che invece la nobiltà francese facesse coltivare la terra
a proprio profitto da servi non lo era. Si trattava di una forma particolare
di rapporto di lavoro, tutto sommato tollerabile per il prestatore d'opera,
purché non fosse assoggettato a un doppio tributo, quello dovuto
al padrone e quello dovuto al sovrano. Ridotto allo stremo, lo schiavo
sarebbe morto di miseria o sarebbe fuggito nei boschi (XII, 5). Se il
sovrano voleva assolutamente levare un'imposta in denaro sugli schiavi
della sua nobiltà, il sistema forfettario adottato da Pietro il
Grande che cioè il nobile pagasse un tributo fisso sia che
il numero delle "anime" aumentasse sia che diminuisse
era il migliore, perché metteva lo schiavo al sicuro dalle vessazioni
del padrone (XIII, 6). La restrizione della libertà del servo,
il suo legame di dipendenza dal padrone anche nel caso della servitù
reale, non pare che abbiano particolarmente offeso la sua sensibilità.
Reagì però vivamente all'idea, suggerita per la prima volta
apertamente dall'amico J.F. Melon nel suo Essai politique sur le commerce
(1734), di introdurre la schiavitù in Francia (XV, 9). Non
il modo di appropriazione del prodotto, non il sistema stesso di produzione
era in sé oppressivo per il contadino. Diveniva esoso soltanto
quando la commercializzazione della produzione agricola eccedente all'unico
fine di alimentare il lusso dei magnati latifondisti impediva che il prodotto
nazionale venisse redistribuito all'intero paese: "Se la Polonia
non commerciasse con nessuna nazione, la sua popolazione sarebbe felice"
(XX, 23). 16. Impossibile prendere sul serio le argomentazioni degli schiavisti. Gli schiavi coloniali così dicevano "sono neri dalla testa ai piedi; e hanno il naso così schiacciato che è impossibile compiangerli; è inammissibile che Dio, essere saggissimo, "abbia messo un'anima, soprattutto un'anima buona, in un corpo tutto nero" e che prìncipi cristiani abbiano potuto tollerare un abuso (XV, 5). Oltre la presa di posizione antischiavistica c'è da registrare quella antirazzistica: non si può giudicare dell'essenza dell'umanità dalle caratteristiche morfologiche, dal colore della pelle e da quello dei capelli. Atteggiamento molto avanzato se lo si confronta con quello poligenistico che Voltaire, pur nemico anch'egli del traffico negriero, andava assumendo in quegli stessi anni. Il rifiuto d'umanità ai negri era, per Montesquieu, una forma di "falsa coscienza" dell'uomo europeo: ammetterla obbligava infatti quest'ultimo a dubitare dei propri principi cristiani. In una prima stesura scartata aveva scritto: "bisogna ben guardarsi dal dare loro una conoscenza della religione cristiana, perché se ve li istruissimo supporremmo che essi sono uomini e se noi supponessimo che essi sono uomini cominceremmo a dubitare di essere cristiani" (Nagel III, 592). Discorso che quadra a perfezione con l'atteggiamento dei coloni anglosassoni. La testimonianza che George Berkeley, questo generoso amico degli indiani, ci ha lasciato sul trattamento che la colonia "eretica" del Rhode Island il fiore del nonconformismo religioso riservava nel 1729 ai propri schiavi negri è eloquente: queste "bestie" erano rigorosamente escluse dalla partecipazione alla vita religiosa. Non era, questo, il caso del cattolicesimo, come lo stesso Berkeley si affrettava a notare (G. Berkeley, Works, Oxford 1901, IV, 403-404). Si ricordi che nel 1513 il fratello di re Alfonso del Congo, Dom Henrique, era stato fatto vescovo da Leone X. E più di un africano venne, anche in seguito, ordinato prete. Nel 1652 il gesuita portoghese Antonio Vieira, obbligato nel viaggio di ritorno da Lisbona in Brasile a far scalo alle isole di Capo Verde, era rimasto colpito dalle qualità umane del clero locale. Quei "chierici e canonici più neri dell'ambra" possedevano "una tale dignità, una tale autorità naturale, erano così dotti, così buoni musici, così saggi e di così seri costumi da superare di molto diceva quelli che vediamo in Portogallo nelle nostre cattedrali". La preoccupazione della conversione è sempre viva nella chiesa cattolica, soprattutto tra i suoi più intrepidi rappresentanti: da Alonso de Sandoval a Pedro Claver. Lo stesso Vieira, ritornato a Bahia, non si stancherà di ricordare ai coloni che i loro schiavi negri "né per il colore, né per la libertà, né per la dignità erano loro inferiori". E se raccomandava agli schiavi di accettare il proprio stato come mezzo di salvezza, andava però ricordando a quegli infelici, obbligati a vivere nell'"inferno dolce" degli engenhos, dei mulini da zucchero, la "libertà" della loro anima e con tale calore da invitarli persino alla disobbedienza: "se il padrone ordina a uno schiavo, o pretende da uno schiavo qualcosa che offende l'anima e la coscienza, poiché non può pretenderlo né ordinarlo, lo schiavo non è tenuto a obbedirgli". Andava dunque più in là di S. Paolo che aveva detto: "servi, obedite per omnia dominis carnalibus" (Ad Coloss. III, 22-24). Il riconoscimento dell'umanità dei negri, e dei negri schiavi, da parte cattolica non era dunque mancato. Il che non semplificava certo il compito dei canonisti e dei casisti cattolici quando dovevano trattare della schiavitù. Tanto più che c'erano state ferme prese di posizione da parte pontificia contro la riduzione in schiavitù per motivi di religione: per Montesquieu il più rivoltante degli abusi. La bolla emanata da Paolo III il 2 giugno 1537 in difesa degli indiani d'America parlava chiaro: "dichiariamo e decidiamo [...] che essi possano liberamente e lecitamente usare e godere della loro libertà e delle loro proprietà e acquistarle: che essi non possono essere ridotti in schiavitù e che tutto quanto sarà fatto contro questo editto è nullo e non avvenuto; che gli indiani e gli altri popoli devono essere invitati alla fede del Cristo con la predicazione della parola di Dio e con l'esempio di una buona vita". L'unico argomento al quale i casisti potevano appigliarsi l'argomento classico del giusnaturalismo cattolico, da S. Tommaso a Mariana era questo: la schiavitù, istituzione non dell'ordine della natura ma dell'ordine della società, era ammissibile soltanto come effetto di una guerra "giusta". Ma vi si appigliarono con sempre minore convinzione. Il parere reso da un dottore in vista della Sorbona, Germain Fromageau, nel 1698 sulla liceità morale della compravendita di schiavi africani ne è una prova (Dictionnaire des cas de conscience, Paris 1733, I, col. 1437 ss). E non mancò infatti teste Labat di sollevare malumori e proteste tra i piantatori delle colonie. Come accertare la "giustizia" delle guerre tra stati africani? Acquistare e vendere schiavi negri in "buona coscienza" diveniva sempre più problematico. Ma la schiavitù in se stessa era tollerabile? Vediamo cosa ne pensa Montesquieu. 17. Il suo
bersaglio sono, ovviamente, i giureconsulti romani: "non si potrà
mai credere che sia stata la pietà a stabilire la schiavitù";
e cita Instit. I, tit. III (XV, 2). E' evidente che Montesquieu
o non ha ben interpretato i passi citati oppure ha attribuito ai giureconsulti
romani le idee dei commentatori. Infatti: i giureconsulti romani non avevano
parlato di "pietà"; avevano semplicemente parlato di
un diritto di guerra ("servitus autem est constitutio juris gentium,
qua quis dominio alieno contra naturam subijcitur"). Di "pietà"
era stato Grozio a parlare. Né nelle Institutiones si legge
che fosse permesso al debitore insolvibile di vendere se stesso. Semplicemente,
era condannato a diventar schiavo del suo creditore; in età più
antica, a essere venduto all'estero (trans Tiberim) a profitto
del creditore. Non in virtù di una convenzione, ma per sentenza
del tribunale il debitore diveniva dunque schiavo. Barbeyrac era stato,
nelle sue note al Pufendorf, di una precisione ammirevole: "E' sorprendente
che i giureconsulti romani non facciano neppure menzione in nessun luogo
della servitù volontaria, la quale è per lo meno altrettanto
conforme alla ragione naturale [...] quanto quella nella quale si cade
per la sorte delle armi". E aveva spiegato: "Forse questo silenzio
è dovuto ai principi del loro diritto civile, secondo il quale
nessuno poteva direttamente vendere o trasferire ad altri la propria libertà
per qualche convenzione" (PUFENDORF, Du droit de la nature,
Amsterdam 1709, VI: III, § 3 n. 1). È evidente che Montesquieu
non lo avesse letto, o letto comunque con attenzione. Altrettanto evidente
è che la sua conoscenza del diritto romano, malgrado la gran fatica
che fece quand'era magistrato del Parlamento di Bordeaux per rimediare
a un'educazione universitaria tra le più infelici che si possa
immaginare (professori novantenni, ciechi, sordi, assenteisti o impreparati)
fatica documentata dalla sua Collectio juris non
era eccellente: prova ne sia la sua sottovalutazione dell'importanza del
diritto pretorio nell'evoluzione del diritto romano. L'altra prova è
quella che stiamo esaminando. 18. La schiavitù
è per Montesquieu, come si è visto, contraria al diritto
delle genti. La derivazione del diritto di schiavitù dal diritto
di uccidere durante la conquista era una concezione del più antico
diritto greco (ARISTOTELE, Politica I, 1255 a) recentemente rinverdita
da Grozio (De jure, III, 7), da Hobbes (Leviathan, II, XX,
5), da Pufendorf (De officio, II, 1), da Locke (Two Tracts on
Governement, II, 4 e 7). Soltanto Bodin, prima di Montesquieu, aveva
negato il diritto di uccidere i prigionieri di guerra o di farli schiavi.
Montesquieu è, su questo punto, ancor più netto ed esplicito:
"l'obiettivo della conquista è la conservazione"; la
schiavitù non può dunque essere un fine, ma un mezzo per
assicurare la conservazione: "non si ha il diritto di ridurre in
schiavitù se non quando ciò è necessario per il mantenimento
della conquista". Ne consegue che è "contro la natura
delle cose che questa schiavitù sia perpetua". Quando stato
conquistatore e stato conquistato si sono fusi, quando tra i due popoli
nasce la fiducia reciproca, la schiavitù deve cessare (X, 3). La
posizione particolarmente avanzata di Montesquieu nel campo del diritto
internazionale il conquistatore non avendo il diritto di distruggere
la società nemica non ha neppure quello di distruggere gli uomini
che la compongono vanificava il tentativo dei giusnaturalisti di
applicare alla relazione schiavo-padrone la teoria del contratto, sia
pure forzato nel caso del prigioniero di guerra. In realtà, la
schiavitù è contraria al diritto civile. Il contratto di
vendita di se stesso è vizioso. Pufendorf non soltanto non lo aveva
ammesso; ma aveva addirittura asserito che la servitù volontaria
precede storicamente quella del diritto di guerra. Il complicarsi dei
bisogni dell'uomo e l'accentuarsi delle disuguaglianze sociali col progresso
dell'organizzazione comunitaria erano per il giureconsulto tedesco la
vera origine della schiavitù: i più ricchi e abili attrassero
a sé i meno abili e i più poveri che stipularono con i primi
un contratto perpetuo di facio ut des, accettando dì entrare
nella famiglia alla sola condizione di aver cibo e vestiario assicurati
(De jure naturae et gentium, I. VI, cap. VIII, §§ 4-5).
Grozio, per parte sua, si era limitato a mostrare i vantaggi della servitù
perfetta per colui che vi si sottomette (De jure, II: v, §
27). 19. Ma Montesquieu
non cesserà mai di sorprenderci. Il contratto che aliena la propria
libertà è inconcepibile a Roma, stato popolare, dove "la
libertà di ogni cittadino è una parte della libertà
pubblica"; ma non altrove. La vendita della propria libertà
è cosa normale in paesi dispotici: in Moscovia, nell'isola di Sumatra
(ancora una volta una regione islamizzata) è tutta una corsa a
vendersi. Perché? Perché la loro libertà non vale
niente. La schiavitù personale compensa la schiavitù politica.
A Sumatra "gli uomini liberi, troppo deboli contro il governo, cercano
di diventare gli schiavi di coloro che tiranneggiano il governo".
Ecco "l'origine giusta, e conforme a ragione, di quel diritto di
schiavitù mitissima che troviamo in qualche paese; e deve essere
mite perché è fondata sulla scelta libera che un uomo, per
propria utilità, fa di un padrone; il che costituisce una convenzione
libera tra le due parti" (XV, 6). L'amico Grosley gli fece osservare
che questi schiavi rassomigliavano piuttosto ai clientes romani,
o ai vassalli e valvassori dell'epoca feudale. Montesquieu gli rispose
secco che era un tipo ideale: "non ho cercato [...] l'origine della
schiavitù, ma l'origine della schiavitù che può o
deve essere" (Nagel III, 1294). Non sembra che si sia avveduto della
debolezza contrattuale di chi compie il proprio atto di dedizione in condizione
di nullità politica. Senza dire che la schiavitù entro le
mura domestiche per mite che sia l'osservazione è di Hume
è "più crudele e oppressiva di qualsiasi civile
soggezione". L'obbedienza a un padrone lontano da noi per residenza
o per rango ci lascia più liberi (Sulla popolosità delle
antiche nazioni, 1752). 20. La schiavitù,
la "schiavitù crudele" regna in molte regioni della terra.
Come spiegarlo? Per noi la risposta è ovvia: con la forza. Non
era però una giustificazione; mentre è proprio di una giustificazione
che Montesquieu ha bisogno. In mancanza di una giustificazione ideale
che lo soddisfaccia pienamente, ne cercherà una "naturale":
La "natura" è così flessibile [...] La schiavitù
è si contro natura e contro ragione, ma in certi paesi è
fondata su una "ragione naturale". Ambigua natura: "bisogna
saper distinguere questi paesi da quelli nei quali le ragioni naturali
stesse la rifiutano, come i paesi d'Europa, dove essa è stata felicemente
abolita" (XV, 7). La rifiutano, come egli stesso era costretto ad
ammettere, in un'epoca; ma l'avevano resa possibile in un'altra. Ma Montesquieu,
lo "storicista", immola volentieri la storia ai suoi pregiudizi.
Quali sono le regioni del globo nelle quali la schiavitù è
"tollerabile", anzi "urta meno la ragione"? La risposta
è scontata: i paesi caldi, nei quali l'uomo stemprato dal clima
non può essere costretto a un lavoro penoso se non per timore di
una punizione. Addio, dunque, mite schiavitù contrattuale dei paesi
despotici. Lasciamo correre. L'importante è quello che dice subito
dopo: "Bisogna dunque limitare la servitù naturale a certi
paesi particolari della terra". L'Africa era forse tra questi. Non
gli avevano detto i proprietari di schiavi di Santo Domingo che i negri
sono "così naturalmente pigri che quelli diventati liberi
non fanno niente, e vivono la più parte alle spalle di coloro che
sono schiavi chiedendo l'elemosina oppure trascinando un'esistenza miserabile"
(P. 1886)? Tra questi c'era l'India? A rigor di logica si dovrebbe rispondere
di sì: avrebbe dovuto essere anzi il paese d'elezione della schiavitù
"naturale". Eppure le fonti greche che Montesquieu conosceva
bene (Diodoro Siculo, Arriano), tutte dipendenti dalla relazione di Megastene,
che aveva visitato la corte di Candragupta allo spirare del IV secolo
a. C. in qualità di ambasciatore dì Seleuco I, negavano
enfaticamente l'esistenza in India della schiavitù: "è
stabilito per legge che assolutamente nessuno debba essere schiavo".
Gli indiani "da uomini liberi onorano in ciascuno l'uguaglianza".
Così Diodoro. E Arriano: "anche questo è meraviglioso
nel paese degli Indiani: che tutti gli Indiani sono liberi e nessuno di
essi è schiavo " . Né vi erano, come in Grecia, schiavi
appartenenti ad altri gruppi etnici: "presso gli Indiani nessun popolo
è schiavo". E' vero che le fonti indiane parlano sempre dei
doveri degli schiavi, dei dasa; e distinguono diverse specie
da quindici a sette di servitù domestica. Ma tali fonti
erano sconosciute a Montesquieu. In ogni caso, il loro numero era così
poco elevato da sfuggire all'osservatore greco. L'India non era una società
schiavistica. 21. Negli
stessi anni, Benjamin Franklin, che era stato negriero ed era razzista,
giungeva, calcoli alla mano, a conclusioni molto simili: il costo della
manodopera negra era più alto di quella libera in Inghilterra (Observations
Concerning the Increase of Mankind, 1751). Costo eccessivo, bassa
produttività del lavoro schiavile: saranno i più importanti,
i più persuasivi argomenti sui quali batteranno gli economisti,
Josiah Tucker e Adam Smith soprattutto. Montesquieu, quanto a lui, non
si pose mai il problema dell'incidenza del "capitale fisso"
costituito dagli schiavi negri sulle spese generali dell'impresa. Si limitò
a riferire l'opinione degli zuccherieri: "lo zucchero sarebbe troppo
caro, se non se ne facesse lavorare la pianta che lo produce da schiavi,
e se li si trattasse con qualche umanità". Nella seconda stesura
cassò la battuta. Nella redazione definitiva lasciò cadere
l'accenno al trattamento degli schiavi (XV, 5). Tanto più icastica
la battuta che Voltaire metterà in bocca nel Candide allo
schiavo del Surinam mutilato dal padrone: "è a tal prezzo
che mangiate dello zucchero in Europa". 22. Se Montesquieu non fu un emancipatore dei servi della gleba; se non fu un emancipatore degli schiavi coloniali, fu almeno un emancipatore delle donne, delle donne orientali soprattutto? La tragedia con la quale si chiudono le Lettres Persanes la rivolta della "virtù" di Rossana faceva presumere che egli avrebbe giudicato inumano oltreché inefficace il regime del serraglio (L.P. 147-161). Ma così non è. La contraddizione è addirittura urtante. Nelle Lois si dichiara risolutamente favorevole alla claustrazione, anzi alla doppia claustrazione, della donna in Oriente. In regime di poligamia, bisogna non soltanto "recludere le donne", impedire loro qualunque rapporto con l'esterno (XVI, 9); ma segregarle anche all'interno della casa stessa: "le donne non devono soltanto essere separate dagli uomini chiudendole a casa, ma devono esserlo anche dentro la casa stessa, in modo da costituire una famiglia particolare nella famiglia" (XVI, 10). E ancora: "non le si separerà mai abbastanza da ciò che potrebbe far nascere in loro altre idee, da tutto ciò che è considerato divertimento, da tutto ciò che si suol chiamare affari". Più la claustrazione è severa, più i costumi delle donne sono "ammirevoli". È quanto si verifica negli imperi turco, persiano, moghul, cinese e giapponese. Nell'Asia sud-orientale e nell'Insulindia invece la miseria delle popolazioni impedisce una prigionia così rigorosa: la lascivia delle donne vizio del clima vi esplode senza ritegno. A Pattani nel regno del Siam gli uomini sono costretti a ricorrere a certe cinture per proteggersi dall'aggressività femminile. E altrettanto accade si dice nei piccoli regni della Guinea. 23. È
stato detto che Montesquieu è antifemminista. La cosa è
innegabile. Non ammette che esse dirigano la casa: "è contro
la ragione e contro la natura che le donne siano padrone nella casa".
Non ne sarebbero capaci: "lo stato di debolezza nel quale si trovano
non permette loro la preminenza". Ma possono, per lo stesso motivo,
governare un impero: "la loro debolezza stessa dà loro più
dolcezza e moderazione" (VII, 17). Approva tuttavia il regime di
comunità dei beni: "la comunità dei beni introdotta
nelle leggi francesi tra marito e moglie è convenientissima nello
stato monarchico, perché indirizza le donne agli affari domestici
e le richiama, quasi loro malgrado, alla cura della casa (VII, 15). Né
trova alcun inconveniente nel sistema matrilineare (XXIII, 4). Una loro
partecipazione però alla vita pubblica è una prospettiva
che Montesquieu non prende neppure in considerazione. In Inghilterra
una nazione dove ogni uomo a suo modo prende parte all'amministrazione
uomini e donne formano come due mondi separati, incomunicanti (XIX,
27). In Cina, la loro "separazione assoluta" dagli uomini assicura
la stabilità, l'"indistruttibilità" delle tradizioni
(XIX, 13). Frequentandosi liberamente i due sessi infatti si "guastano":
"perdono l'uno e l'altro la loro qualità distintiva ed essenziale,
e s'introduce l'arbitrio in ciò che era assoluto" (XIX, 12).
Montesquieu non ama una società come quella francese nella quale
le donne "danno il tono". Il mutamento dei costumi domestici
imposto dallo zar Pietro, la libertà cioè concessa alla
donna di frequentare la società, "influirà grandemente
sul governo della Moscovia" (XIX, 15). 24. Questo superamento non c'era stato, invece, nella sua concezione della patria potestà (XXIII, 21). È il padre a combinare il matrimonio "l'azione del mondo che deve essere più libera" (è lui stesso a dirlo) dei figli: "tocca ai padri di decidere il matrimonio dei figli"; o comunque a dare il suo consenso. E' un suo diritto: "il consenso dei padri è fondato sul loro potere, cioè sul loro diritto di proprietà [dei beni dei figli]". La sollecitudine per la felicità degli interessati viene in seconda linea: "esso è anche fondato sul loro amore, sulla loro ragione, e sull'incertezza di quella dei figli". Un matrimonio d'amore è inammissibile: le "passioni" generano uno stato di "ebrezza" (XXIII, 7). Bisogna tutelare i giovani dai loro impulsi. Il comportamento delle fanciulle inglesi, che si maritano spesso à leur fantaisie, è deplorevole. Ma forse quest'abuso è dovuto al fatto che, non essendovi monasteri, esse non hanno la "risorsa del celibato" (XXIII, 8). Battuta stonata in bocca a un avversario così deciso di quest'ultimo. Pur di salvare i suoi princìpi, Montesquieu ha messo da parte, per una volta, la sua preoccupazione della moltiplicazione della specie: una delle sue ossessioni. IV. 25. L'interesse per il problema della popolazione è antico in Montesquieu: undici Lettres Persanes (112-122), un libro intero delle Lois (il XXIII) sono consacrati a questioni demografiche. A questi testi si aggiungono le tante riflessioni al riguardo seminate qua e là nella sua opera: per limitarci alle Lois, nei libri VII, XIV, XV, XVI. Le sue tesi non passarono inosservate. Proprio da esse il rev. Robert Wallace fu stimolato nel 1750 a comporre quella sua Dissertation on the Numbers of Mankind in ancient and modern Times, letta alla Philosopbical Society di Edimburgo e pubblicata anonima nel 1753, l'anno dopo cioè la pubblicazione dei Political Discourses di Hume, che nel sesto di quei discorsi aveva polemizzato amichevolmente con lui e con Montesquieu a proposito della loro tesi centrale: non era possibile sosteneva Hume che l'umanità fosse in antico più numerosa che al presente. Non era una questione accademica: grazie a Wallace, essa assumeva un aspro sapore d'attualità. Egli conosceva l'enorme potere riproduttivo della specie umana, aveva anzi elaborato delle tavole algebriche per calcolare la discendenza di una sola coppia e nemmeno troppo prolifica: ogni 33 anni e 1/3 (Malthus ridurrà il periodo di una generazione a 25 anni) la popolazione raddoppiava. Ma era convinto che il genere umano non cresceva come ci sarebbe stato da aspettarsi dalla sua virtù prolifica: troppi freni naturali e soprattutto "morali" vi facevano ostacolo. La popolazione attuale dei globo era di gran lunga inferiore al suo potenziale riproduttivo. Bisognava dunque incoraggiare al massimo il popolamento: il pericolo di un eccesso di popolazione era remotissimo. Il numero degli abitanti era, a ogni modo, la pietra di paragone della moralità dei costumi e della buona politica di un governo. Wallace si muoveva, dunque, sulla linea di Montesquieu, dal quale in molti punti della sua analisi strettissimamente dipendeva; si mostrava anzi più ottimista e più energico di lui nelle proposte pratiche. Montesquieu fu in rapporto con i due uomini; ebbe tra le mani quei saggi; li apprezzò tanto da adoperarsi per farli tradurre (usciranno entrambi in veste francese nel 1754). Invitato a rendere posizione nella contesa si schermì: "non ne sono capace". Preferì mantenersi neutrale (Nagel III, 1457, 1463, 1470, 1516). Il grande dibattito malthusiano era a ogni modo cominciato; e Montesquieu aveva contribuito ad accenderlo. Di lì a dieci anni Wallace capovolse il suo atteggiamento e cominciò ad agitare lo spettro della sovrappopolazione. Le risorse della terra erano limitate, a meno che non si trovasse eventualità molto dubbia per lui il modo di moltiplicarle (Various Prospects on Mankind, Nature and Providence, 1761, 114-119). Quanto a Malthus stesso, non c'è che da aprire l'Essay, soprattutto nell'edizione definitiva del 1803, per rendersi conto dell'attenzione con la quale egli aveva letto e meditato l'opera montesquiviana. 26. Cosa
vale dunque l'opera di Montesquieu dal punto di vista demografico? Cominciamo
col domandarci: aveva confidenza con i metodi di calcolo statistico messi
al punto nella seconda metà del Seicento da quegli uomini che in
Inghilterra avevano creato le matematiche sociali? Le loro opere fanno
epoca. Le Natural and Political Observations di John Graunt sono
del 1662; la Political Arithmeticks di William Petty, terminata
nel 1676, era stata pubblicata postuma nel 1690; nel 1696 erano uscite
le Natural and Political Observations and Conclusions upon the State
and Condition of England di Gregory King; tre anni prima lo stesso
Edmund Halley aveva studiato con finezza i degrees della mortalità
umana (Phil. Trans., n.° 196, 596-610). Per non parlare dei
contributi posteriori di Davenant, Maitland e via enumerando. 27. Che cosa
giustificava questa visione catastrofica? Anche se la Francia del 1720
registrava è probabile una demografia stagnante o,
mettiamo pure, un calo, restava pur sempre il paese più densamente
popolato d'Europa. Censimenti ufficiali, è vero, non esistevano.
Ma esisteva la stima fattane da Vauban con lo scrupolo che tutti sanno,
principalmente sulla base delle rilevazioni eseguite dagli intendenti
in occasione della grande inchiesta ordinata nel 1697 dal duca di Beauvillier
per istruzione del primogenito degli enfants de France, il duca
di Borgogna, l'oggetto di tante speranze. La Dixme royale era uscita
nel 1707 e Montesquieu la possedeva. Con buona approssimazione, il maresciallo
fissava la popolazione francese attorno al 1700 a 19,1 milioni. Meno attendibile
Gregory King nel 1696 aveva parlato di 14 milioni. Vossius nel 1685 gliene
aveva attribuito soltanto 5. Nelle Persanes Montesquieu non azzarda
alcuna cifra. Ma avendo calcolato la popolazione del globo non superiore
ai 100 milioni c'è da pensare che accettasse il valore di Vossius,
anche se a rigore avrebbe dovuto tenersi anche più basso. Di lì
a poco però, al tempo del suo viaggio in Italia, sembra che accettasse
sostanzialmente la cifra di Vauban: "il regno di Francia, che ha
18 milioni di abitanti [...] " (Nagel II, 1027). È strano
che vent'anni dopo, nel 1747, in un periodo di sia pure lenta ripresa
demografica, si ricredesse: "cinquanta milioni di abitanti potrebbero
vivere comodamente nel regno di Francia: non ce n'è che quattordici".
Forse fu influenzato dall'amico Dupré de Saint-Maur, che nel 1746,
nell'Essai sur les monnaies, aveva parlato di 16 milioni; cifra
accolta ancora nel 1755 da Quesnay. 28. Quali
le cause del declino demografico dell'umanità? Nelle Persanes,
da buon cartesiano, pensava in primo luogo alla perpetua instabilità
della sua dimora terrestre: ogni istante produce nuove "combinazioni"
della materia (L.P. 113). L'umanità che, può anche
essere distrutta per cause fisiche, a maggior ragione può. sempre
per cause fisiche, aumentare o diminuire di numero. Il diluvio non l'aveva
forse ridotta a una sola famiglia? Tanto più che l'universo è
coeterno a Dio: "non bisogna contare gli anni del mondo"; i
grani di sabbia del mare non sono, in confronto, che un "istante".
Questa infinitizzazione dell'universo non soltanto nello spazio, ma nel
tempo sia detto per inciso è certamente un elemento
di grande novità; ed è cosa degna di nota che la "scoperta
del tempo" della lunghissima età dell'universo
avvenga in una prospettiva cartesiana, non newtoniana. Tutte le distruzioni
non sono però violente: "vediamo molte regioni della terra
diventare a poco a poco aride e infeconde, "stancarsi di fornire
la sussistenza agli uomini". Può darsi dunque che siano già
attive "cause generali, lente e impercettibili, di stanchezza". 29. Delle
altre cause di spopolamento da lui indicate, due erano inconfutabili.
Che la tratta incidesse negativamente sul bilancio demografico dell'Africa
non lascia luogo a dubbi; e neppure l'ampiezza del crollo delle popolazioni
americane, fosse o no dovuto esclusivamente alle crudeltà degli
spagnoli. Due erano invece "mitiche" il celibato ecclesiastico,
le conseguenze sociali disastrose del "fatalismo islamico".
La prima era però d'effetto e diverrà un'arma tra le tante
dell'arsenale anticlericale degli illuministi fino a che Moheau nel 1778
dimostrerà che in Francia il numero dei celibi ecclesiastici era
trascurabile (130.000). Ma anche prima, all'epoca di Montesquieu, Cantillon
da quel freddo descrittore del sistema che era non solo
non aveva deplorato il celibato ecclesiastico ma l'aveva approvato, come
opportuno correttivo all'esuberanza degli uomini, che tendono a moltiplicarsi
diceva "come i topi in un granaio". Ma Cantillon
era del tutto immune dai pregiudizi popolazionistici dei contemporanei:
per lui non erano i bambini, erano i mezzi di sostentamento che scarseggiavano. 30. Comunque sia: bastavano tutte queste cause messe insieme (e altre ancora: le guerre provocate dal fanatismo religioso, cristiano o musulmano; Nagel III, 618-619) a farlo fantasticare come fantasticava di una recessione demografica dalle dimensioni apocalittiche? Non è neppure il caso di fermarsi a discuterlo. L'importante è sottolineare il fatto che nelle Lois, pur tenendo fermo alla tesi della tendenza generale allo spopolamento, egli è molto più moderato nelle sue formulazioni. Se mai, insiste di più sulle fluttuazioni della popolazione nel tempo (spunto che nelle Persanes era rimasto senza svolgimento) e sulle condizioni dello sviluppo demografico. Differenza d'atteggiamento, che i lettori più attenti del tempo notarono subito: Giuseppe Pelli, per esempio, nella prefazione alla traduzione italiana eseguita da Giulio Perini della Dissertation di Wallace (Livorno 1757). Tra l'una e l'altra opera c'erano stati, oltretutto, i viaggi europei. Rhédi poteva scrivere che in Italia non c'erano ormai più che le rovine del passato, che era un paese d'ombre (le campagne abbandonate le città "interamente deserte e spopolate"), che la floridissima Sicilia di un tempo non aveva "più niente di considerevole che i suoi vulcani" (L.P. 112). Dopo un anno di soggiorno dall'agosto del 1728 all'agosto 1729 non poteva più dirlo. Aveva visto, se non altro, Napoli con i suoi 300.000 o 500.000 abitanti: indolenti, straccioni, superstiziosi ("i più miserabili uomini della terra"; "plebe [peuple] più plebe che altrove"); ma numerosi. In Sicilia non si era spinto; ma aveva visitato con grande attenzione l'Italia centrosettentrionale: un paese dinamico, pieno di vitalità. In Piemonte i contadini erano ricchi a volte quanto i loro signori. Avidissimo di notizie sulla popolazione, sulle attività produttive, sulle entrate dei vari stati, aveva raccolto cifre su cifre. Utilizzandole e manipolandole un po' misteriosamente aveva calcolato che la popolazione dell'intera penisola era di 7.200.000 anime, cifra inferiore probabilmente di qualche milione alla realtà (da 10 a 13 milioni) ma insomma abbastanza realistica. Aveva visto Amsterdam, con le sue 200.000 "formiche": "è come la Salento del Télémaque: tutti lavorano" (Nagel II, 1296). Le sue idee d'un tempo andavano temperate. Ma non troppo. Le sue riflessioni sulla storia universale lo portavano sempre a credere che prima delle conquiste d'Alessandro, dei Cartaginesi, dei Romani "tutte le nazioni vivevano per così dire separate"; "ogni nazione o molte piccole nazioni potevano ingrandirsi senza uscire dal proprio territorio"; "un popolo non era la spoglia di un altro". La conclusione ovvia avrebbe dovuto essere che l'isolamento reciproco dei vari gruppi umani, la discontinuità nei loro insediamenti, l'esistenza di vasti spazi vuoti tra gli uni e gli altri comportava una popolazione globale meno numerosa. La conclusione di Montesquieu è opposta: "la terra era più popolata quando le nazioni non si conoscevano, perché le grandi distruzioni erano più rare e c'erano imperi meno grandi" (Nagel III, 618). L'imperialismo, le guerre di conquista, la formazione di grandi unità politiche: ecco le cause maggiori dello spopolamento del globo. Tesi che ritroviamo nelle Lois: "sono le perpetue riunioni di piccoli popoli che hanno prodotto questa diminuzione". Aveva in mente la Francia, la Francia pluralistica anteriore all'accentramento monarchico, che ne aveva spento tutta la ricchezza dì vita locale: "un tempo ogni villaggio di Francia era una capitale; oggi non ce n'è che una grande; ogni parte dello stato era un centro di potere, oggi tutto si riferisce a un centro; e questo centro è per così dire lo stato stesso" (XXIII, 24). Ma aveva in mente anche l'Europa devastata dai barbari alla fine dell'impero: "si sarebbe creduto che essa non avrebbe potuto ristabilirsi, soprattutto quando, sotto Carlomagno, essa non formò più che un solo vasto impero". Fu salvata allora dalla frammentazione dell'impero carolingio in "un'infinità di piccole sovranità". L'avversione di Montesquieu ai grandi stati si dichiara, in questo e in altri luoghi, con la maggiore nettezza (XXIII, 19). Con altrettanta forza batteva però, nello stesso tempo, sul vantaggio incalcolabile di vivere in una "grande società", in un mondo aperto agli scambi, in un circuito economico sempre più allargato (XX, 1-2). L'Europa dei suo tempo quell'Europa che faceva "il commercio dell'universo" era, a ogni modo, ancora nella necessità di aumentare gli effettivi della popolazione, aveva bisogno di leggi favorevoli alla propagazione della specie. La navigazione transcontinentale era perigliosa: dei marinai olandesi che ogni anno prendevano la via delle Indie non ne ritornavano che due terzi: "il resto muore o si stabilisce laggiù" (XXIII, 25-26). 31. Una cosa
è però chiara: Montesquieu non è più favorevole
come un tempo a un aumento illimitato della popolazione. L'aumento è
desiderabile soltanto quando le condizioni materiali lo permettono. In
Cina, il clima è più favorevole del terreno: "il popolo
vi si moltiplica e le carestie lo distruggono". I padri sono costretti
a esporre la prole o a vendere le proprie figlie. Lo stesso accade nel
Tonchino. In questi casi il legislatore deve intervenire e frenare l'incremento
naturale della popolazione (XXIII, 16). Preoccupazioni analoghe di fronte
alla galoppante demografia del suo paese esprimerà alla fine dei
secolo un economista cinese, Hung Liang-chi. Non credo di forzare i testi
asserendo che Montesquieu aveva già elaborato con sufficiente chiarezza
il concetto di popolazione massimale (se non quello, del resto ambiguo,
di popolazione ottimale), relativa sempre al "genere di vita",
al livello tecnico della produzione e all'utilizzazione sociale delle
risorse. Dovremo ritornarvi. 32. Quali
mezzi suggerisce Montesquieu per frenare l'espansione demografica eccessiva?
Autorizzare l'omosessualità maschile come a Creta? Quella pratica
gli faceva tanto orrore da non riuscire neppure a nominarla (XXIII, 17).
L'infanticidio? Era inumano (XXIII, 22). L'interruzione di maternità
nei primissimi mesi di gravidanza, "prima che il feto abbia vita"?
Aristotele la consigliava; ma Montesquieu giudicava l'aborto contrario
ai sentimenti naturali (XIII, 17). Le pratiche onanistiche? Erano condannate
dal diritto naturale (P. 205). Lasciar agire liberamente i freni
repressivi "malattie popolari": endemie, epidemie
che sfoltivano drasticamente la popolazione più debole, più
vulnerabile? Montesquieu non sembra essere stato meglio disposto verso
questi meccanismi di "selezione naturale". Si avvide in effetti
fu l'amico Martin Folkes a richiamare l'attenzione sul fenomeno
dell'assenza di un andamento numerico ascensionale degli animali
allo stato selvatico: fenomeno tanto più sorprendente per lui,
che credeva in una fecondità "costante" delle femmine
degli animali (XXIII, 1). Ma pensò, come Darwin del resto, all'azione
di ostacoli distruttivi, in altre parole a un'alta mortalità provocata
dall'incerta base alimentare: "per parte mia ho spiegato la rarità
di tutti questi animali carnivori [i lupi] col fatto che non hanno una
sussistenza assicurata e che sono distrutti dal cibo o troppo abbondante
o troppo scarso" (Nagel II, 889). Sarebbe rimasto costernato ad apprendere
che non soltanto gli uomini delle società evolute ma gli animali
stessi limitano volontariamente la propria fecondità. 33. Se nell'indicazione
dei mezzi per limitare le nascite Montesquieu era tradizionalista o elusivo,
su un punto era però esplicito: compito dei legislatore era assicurare
l'equilibrio, variabile nel tempo, tra popolazione e risorse naturali
utilizzabili. Un controllo sociale della propagazione della specie s'imponeva:
occorreva una politica demografica. Le possibilità di espansione
demografica erano infatti diverse a seconda del livello tecnico e della
cultura materiale delle società: era il modo di sfruttamento delle
risorse del territorio da parte dell'uomo a decidere del massimo di popolazione.
I popoli "selvaggi", viventi sui prodotti aleatori della raccolta,
della caccia e della pesca, e incapaci di dominare la natura, non avevano
che minime possibilità di espansione (XVIII, 10). Di poco maggiori
quelle dei popoli pastori. Era stato l'insediamento agricolo, la coltura
di piante commestibili, a far salire la densità delle popolazioni
a livelli prima impensabili. Ma il prodotto agricolo è inelastico:
non si può aumentare all'infinito il rendimento delle terre. Tanto
più che Montesquieu non si pose, o non si pose chiaramente, il
problema delle innovazioni tecniche in campo agricolo: l'uso per esempio
dei concimi problema cruciale per la Francia dell'epoca
o l'adozione di colture intercalari o l'introduzione o generalizzazione
di colture nuove (mais, riso, patata). Tutt'alpiù pensò
di utilizzare a fini commestibili, in tempi di carestia, vegetali già
esistenti: scorze d'albero, piante medicinali (Observations sur l'histoire
naturelle, 1721; Nagel III, 116-117). Il lavoro degli uomini rimase
sempre per lui il fattore essenziale dello sviluppo agricolo. Si potevano
ricavare dalla terra risorse illimitate: "la terra dà sempre
a proporzione di ciò che se ne esige". L'ottimismo di Wallace
prima maniera l'aveva contagiato. Ripeteva con lui "la fecondità
dei terreni nei dintorni delle città deve farci giudicare di ciò
che si potrebbe sperare dagli altri". Pensava forse alla trasformazione
dell'arretrata agricoltura francese, dominata ancora dalla cerealicoltura,
in agricoltura intensiva colture industriali, frutticoltura
sull'esempio- dei Paesi Bassi: un successo dovuto soprattutto alla forte
densità della popolazione rurale? Parrebbe di sì. Ma resta
purtroppo uno spunto isolato. Nel corso del suo viaggio in Olanda nel
1729 va pur detto non aveva avuto occhio che per il commercio:
Overijssel, "pessimo paese"; Groninga, "cattivo e senza
commercio"; Frisia, Utrecht e Gheldria, "buoni in parte, ma
senza commercio". Si salvarono soltanto la Zelanda e l'Olanda: "la
Zelanda ha commercio e una terra prodigiosamente fertile, soprattutto
in grano; l'Olanda, buona" (Nagel II, 1289-1290). Della "nuova
agricoltura" dei Paesi Bassi, meridionali e settentrionali che un
secolo prima, nel 1645, aveva suscitato l'ammirazione dell'agronomo inglese
Richard Weston non sembra che si fosse accorto. 34. L'agricoltura
favorisce dunque il popolamento. Ma il modo d'appropriazione del suolo
non è dovunque e sempre lo stesso. C'è il regime di uguale
divisione delle terre (Montesquieu non prende mai in considerazione un
regime dì proprietà comunitaria: l'ipotesi di un comunismo
primitivo, neppure nell'apologo dei Trogloditi; L.P. 13); c'è
quello, ormai generalizzato in occidente, di disuguale distribuzione della
proprietà fondiaria. 35. Nessun dubbio invece circa la desiderabilità del superamento dell'economia di sussistenza. Montesquieu è perentorio: "supponiamo che si tollerino in un regno soltanto le arti assolutamente necessarie alla coltura della terra, che sono tuttavia un bel numero, e che ne vengano bandite tutte quelle che non servono che alla voluttà e alla fantasia; ebbene, io sostengo: questo stato sarebbe il più miserabile del mondo" (nel 1754 attenuò: "uno dei più miserabili") (L.P. 106). Il paese si spopolerebbe; lo stato diverrebbe ogni giorno più debole; i redditi privati sarebbero ridotti a zero e, di conseguenza, quelli del principe; si arresterebbe quella meravigliosa "circolazione di ricchezze e quella progressione di redditi che deriva dalla dipendenza reciproca di tutte le arti"; ognuno vivrebbe della sua terra e ne ricaverebbe appena quanto gli occorre per non morire di fame. Montesquieu sta parlando è vero di una monarchia, cioè di un sistema socio-politico che vive, secondo lui, sui consumi di lusso. Non solo: prospetta in questa lettera gli effetti di una violenta destrutturazione di un'economia in pieno sviluppo. Tuttavia le sue preferenze personali non sembrano dubbie. Un'economia di sussistenza mantiene in uno stato "barbaro e infelice". Montesquieu non predica, come Wallace nella Dissertation, la frugalità, anche se non ignora il costo umano della "civiltà": "affinché un uomo viva deliziosamente occorre che cento altri lavorino ininterrottamente". Per Wallace, al contrario, per rendere il mondo popolato quanto può esserlo, bisogna proscrivere assolutamente le arti d'"ornamento" e tollerare soltanto le arti utili: "per avere dunque il numero d'abitanti del mondo maggiore che sia possibile, tutto il genere umano dovrebbe essere direttamente occupato a procurare gli alimenti"; e questo dovrebbe avvenire fintanto che tutta la terra non fosse pienamente coltivata. Soltanto allora "si potranno ammettere quelle arti che non tendono che all'ornamento", alla produzione del superfluo, quali sono, per esempio, le "dispendiose manifatture" delle tele e delle lane, la lavorazione dei gioielli, perfino quella degli utensili di legno di metallo o dì terra. In un solo caso si doveva ricorrere alle manifatture: quando in uno stato vi era più gente di quello che le terre, benché ben coltivate, riuscissero a mantenere. Quanto al commercio, esso non moltiplicava affatto le risorse alimentari, a meno che tale attività non riesca a introdurre in un paese una "maggiore quantità dì nutrimento" di quella che sarebbero in grado di introdurvi l'agricoltura o la pesca: "non si vive di denaro ma di cibo". Moltiplica invece i bisogni; e la moltiplicazione dei bisogni fa salire il prezzo delle cose essenziali. Anche a supporre un aumento corrispettivo dei salari, questi ultimi non riuscirebbero mai a tener dietro all'aumento costante del tenore di vita. In conclusione: si vive meglio "dove i bisogni sono minori e dove è più facile soddisfarli". Montesquieu non è su queste posizioni estreme. Al contrario. Tra l'altro notava nello Spicilège i rapporti internazionali dì forza erano mutati: "un tempo le nazioni povere erano padrone delle altre; oggi lo sono quelle ricche". Ormai il mondo era dei paesi ricchi. Quali sono dunque per lui le condizioni della ricchezza e dello sviluppo di un paese? |
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Note * Questo scritto è apparso originariamente in "Miscellanea storica ligure", 19 (1987), n. 1-2, pp. 1347-1407 (Studi in onore di Luigi Bulferetti, vol. III). Le citazioni in numero romano seguito da numero arabo rinviano al libro e al capitolo dell'Esprit des lois; LP = Lettres Persanes; P = Pensées seguite dal numero d'ordine adottato dal Masson (Oeuvres complètes de Montesquieu, Paris, Editions Nagel, 1955, 3 volumi). A questa edizione si rinvia con l'espressione "Nagel", seguita dal numero del volume e della pagina. |