Jacobus Middendorpius, cattedratico e poi, nel 1580, rettore dell’Università
di Colonia, era uomo dalle vaste ambizioni intellettuali. Sui vent’anni,
aveva incominciato a lavorare a una storia delle università di
tutto il mondo;[1] tutte quelle
– si capisce – che erano fiorite sulla terra all’indomani
del diluvio. I primi risultati di quell’immensa inchiesta pubblicò
nel 1567. I due libri del 1567 divennero otto nell’edizione del
1602, ultima uscita lui vivente (morirà settantaquatrenne nel 1611).
In testa a tutte, vi era l’università fenicia di Kiriath-Sepher
(la città dei libri), ossia di Debir (una delle città della
Palestina che gli archeologi avevano cercato a S.O. di Ebron) presa dalle
esigue schiere di Otniel, figlio di Kenaz, fratello minore di Caleb, al
tempo di Giosuè. Una università – dico questa di Debir
– che occupa, nella storia del mito dell’università,
un posto di riguardo. Ne parleranno, con entusiasmo, nei loro commenti
al Vecchio Testamento – tanto per fare qualche esempio – il
gesuita fiammingo Cornelius a Lapide e Ugo Grozio.
Tra tutte le università post-diluviane censite dal Middendorpius,
il nome di quella di Genova non si trova. Né si trova nelle giunte
e correzioni che il dottissimo Johann Heinrich Seelen (1687-1762) fece
nel 1756 all’opera del Middendorpius.[2]
Queste giunte e correzioni riguardano, del resto, principalmente alcune
grandi università di Germania (Rostock, Greiswald, Wittenberg,
Frankfurt a. Oder). Eppure, fra il 1611 e il 1756, un istituto di studi
superiori a Genova, bene o male, era nato e funzionava – parlo,
si capisce [XLII], del Collegio
gesuitico che, tra il 1642 (anno nel quale si era trasferito nel nuovo
palazzo, costruito per esso sull’area dell’antico convento
di san Girolamo) e il 1670, aveva completato il suo assetto e, a partire
dal 1676, aveva ricevuto dalla Repubblica la facoltà di conferire
lauree in teologia e in filosofia.
Il Collegio gesuitico genovese, tra i tanti collegi della compagnia sparsi
per il mondo, non era stato – per dire la verità –
uno dei più brillanti. Ma meritava forse, se non altro per la continuità
con la quale l’insegnamento vi era stato impartito, una qualche
menzione da parte del maestro di Gottinga, Christoph Meiners, che egli
pure, nel cadere della vita, tra il 1802 e il 1805, si era fatto storico
dell’origine e dei progressi degli studi superiori nel nostro continente.[3]
Ma il Meiners, che pure era uomo attentissimo a quanto succedeva attorno
a lui e servito da una rete estesissima d’informatori, né
nominò lo studio generale
gesuitico né prese in considerazione la stentata e rachitica università
che dalle ceneri di quello era nata, una volta soppressa la Compagnia,
tra il 1774 e il 1784. Non esagero. Nel 1792, le cattedre era complessivamente
undici, comprese quella di umanità, quella di grammatica e quella
d’aritmetica e scrittura mercantile.[4]
Alcuni dei prefessori erano considerati buoni a tutto: il padre Felice
Danna, francescano, che aveva supplito, fino ad allora, alla cattedra
di teologia dogmatica (era versato nel greco e nell’ebraico), fu
messo a insegnare nel 1784 fisica generale. Bisogna, però, dire
che tra, quei pochissimi, non mancavano tuttavia gli uomini di talento,
e di grande talento: l’ingegnere militare Francesco Pezzi (1764-1813),
traduttore e continuatore di Eulero, il medico Cesare Canefri.
Questa mini-università era appena nata che venne subito contestata.
Come forma di organizzazione e di trasmissione del sapere, apparve, non
a torto, un’istituzione obsoleta. Il progetto di riforma scolastica
elaborato dall’Istituto ligure – il nuovo consesso accademico
creato nel dicembre del 1797 col compito sia di attrarre e concentrare
in sé sia di promuovere l’attività di ricerca scientifica
e tecnica della giovane Repubblica democratica – ne prevede l’istituzione.
Al vertice [XLIII] del sistema
educativo nazionale i riformatori preferivano mettere otto licei, privilegiando
in tal modo l’insegnamento tecnico-pratico a base scientifica a
detrimento degli
Poco importa che questo progetto sia rimasto nel limbo dei buoni propositi:
esso è pur sempre una spia delle tendenze e delle esigenze dell’epoca.
A ogni modo, con l’effimera restaurazione della Repubblica dogale,
l’Università riprese i suoi diritti. Il 3 novembre 1803,
un nuovo assetto dell’Università è varato. Da un trentennio
di tentativi e di ripensamenti, usciva finalmente un’università
che, almeno sulla carta, rassomigliava a un moderno istituto di studi
superiori. Novità maggiore: tra le quattro facoltà nelle
quali si articolava, figurava per la prima volta e in posizione decorosa
quella di medicina: meritato riconoscimento dei rapidi progressi compiuti
in Genova dalla scienza e dalla coscienza medica nel corso del secolo,
tra il 1736 (instaurazione delle tre nuove lettorie in Pammatone) e il
1789 (creazione nello stesso ospedale della scuola clinica). Ma, al buon
funzionamento di questa nuova facoltà scientifica, mancavano ancora
troppe cose. Il medico Giovanni Antonio Mongiardini si faceva portavoce
delle esigenze di coloro che, come lui, miravano all’integrazione
effettiva del sapere medico con le altre scienze della natura e che, unitamente
a lui, avevano dato vita nel 1801 alla Società medica di emulazione.
Il quadro che descriveva, nel suo Rapporto
presentato all’Istituto il 15 dicembre 1803, poco dopo l’apertura
della nuova università, era nerissimo:
Ma un’università che appena nasce, un’accademia
medica senza appoggio, un fisico gabinetto cui mancano molte macchine,
un chimico laboratorio, che certamente non si merita quel nome, un museo,
che eccettuate poche conchiglie nulla contiene delle immense produzioni
del regno animale, una specula che deve ancora innalzarsi in vantaggio
dell’astronomia e della nautica, un orto botanico, che tuttavia
si desidera, le stesse tenuissime pensioni assegnate a’ professori,
alle sperienze, alle dimostrazioni troppo ci attestano e ci comunicano
dello stato infelice in cui si trovano le scienze fisiche nella Liguria.
E non esagerava. In ogni modo, la nuova università era giunta
appena al suo secondo anno di attività allorché, nel giugno
1805, l’atto di dedizione del popolo ligure all’Impero sembrò
che dovesse troncarne l’esile vita. Napoleone pose brutalmente il
problema della sua sopravvivenza. Fu salvata dall’arcitesoriere
Lebrun. Nel suo Rapport sur la situation
de l’instruction publique en Ligurie sostenne calorosamente
l’opportunità di mantenere in piedi quell’unico foyer
de [XLIV] culture
esistente in Liguria. E per i bisogni della causa insistette, tra
l’altro, sull’antichità dell’istituto, sui suoi
legami con un passato che sarebbe stato inopportuno e forse pericoloso
disconoscere. Il tema dell’antichità si configura, già
in Lebrun, come un argomento per scongiurare le minacce di morte. Situazione,
come vedremo, che si ripeterà nel corso dell’Ottocento: le
ricerche e l’esaltazione di un’origine lontana, sempre più
lontana, servirà da compensazione alle umiliazioni del presente
e da arma di difesa nella lotta per la sopravvivenza.
L’Università fu, dunque, conservata e riorganizzata, e ricevette
il titolo d’Imperiale. Ma la nuova università imperiale era,
rispetto alla dogale, più povera d’insegnamenti: delle quaranta
cattedre attive al momento dell’annessione, sopravvissero ventiquattro.
La riforma colpì, soprattutto, la facoltà di teologia, che
fu soppressa (un doppione) e quella di giurisprudenza, le cui cattedre
furono ridotte a quattro. In compenso, il ventaglio degli insegnamenti
era più largo. Alle quattro facoltà di un tempo vennero
sostituite sei scuole speciali: diritto, medicina, scienze fisiche e matematiche,
scienze commerciali, lingua e letteratura, farmacia. Tra l’altro,
fu, finalmente, risolta l’annosa vertenza tra l’Università
e l’Accademia di Belle Arti circa la Scuola di nautica e di idrografia,
istituita per testamento da Gian Giacomo Grimaldi nel 1777: penosa vicenda
di puntigli e di gelosie, nella quale l’Accademia recitò
fino all’ultimo la parte di vilain
de la pièce.
Ma, ormai, l’instabilità era divenuta per lo Studio genovese
la condizione naturale. Il 4 giugno 1809, da Ebersdorf, l’Imperatore
decideva la riunione dell’università di Genova all’antica
università di Parigi, e cambiava il suo titolo in quello di Académie
Impériale. Passata sotto la direzione del Gran Maestro, Fontanes,
ebbe un rettore (che fu Girolamo Serra) e quattro facoltà: diritto,
medicina, scienze e lettere. Conservò tuttavia con quella di Torino,
a differenza di tutte le altre dell’Impero, la sua autonomia amministrativa.
Anche l’Istituto Nazionale fu trasformato in Accademia Imperiale
di scienze, lettere ed arti: trasformazione non indolore, perché,
nel passaggio, esso perdette allo stesso modo del suo modello francese,
l’Institut (la cittadella degli odiati idéologues),
la classe di scienze morali e politiche. Ma, già da tempo, aveva
perduto il vigore e l’entusiasmo intellettuale, che ne aveva fatto,
nei primi anni di vita, un incomparabile strumento di rinnovamento culturale.
L’Académie Impériale, voglio dire l’Università,
si dibatté, nei cinque anni che visse, in difficoltà economiche
sempre più gravi. Dal punto di vista didattico, non pare che brillasse,
malgrado tutti gli sforzi compiuti dal Serra per combattere l’assenteismo
di docenti e studenti, e assicurasse lo svolgimento [XLV]
ordinato dei corsi. Il personaggio chiave di questa università
ripiena di professori vecchi, o infermi o poco solerti o distratti da
altre mansioni, divenne il supplente. E, nel reclutamento dei supplenti
alle cattedre di questi vegliardi malvivi e malpagati, si consumarono
le migliori energie del Rettore. Del resto, l’entusiasmo della “studiosa
gioventù” non era caldissimo. Per ragioni economiche o per
antica abitudine, molti preferivano all’Università locale
quelle di Pisa o di Parma. Ma, soprattutto, i giovani non gradivano le
materie nuove. Emile Vincens (che più tardi si farà autore
di una delle più belle e documentate storie di Genova), chiamato
nel gennaio del 1811 a professare teoria del commercio e dei cambi, non
riuscì ad avere che un solo ascoltatore. Desolato, lasciò
Genova e andò a creare casa di commercio a Milano. Del resto, gli
effettivi delle facoltà erano modesti, neppure un centinaio, così
ripartiti nell’anno scolastico 1811-1812: una cinquantina a medicina,
una quarantina a giurisprudenza, sette a lettere e due a scienze. Nel
caso del corso di Vincens, si poteva addurre a scusante la congiuntura
internazionale sfavorevole al commercio; nel caso delle scienze, non so
quale attenuante la carità di patria potrebbe suggerire.
Il corpo accademico esaminava (gli esami erano cinque: esame d’ammissione;
due anni dopo, esame per il conseguimento del baccellierato; esame per
ottenere la licenza o attestato di capacità al terzo; esame di
laurea al quarto) e concedeva il titolo. Novità importante. Il
conferimento del grado era, infatti, riservato in passato ai collegi (ora
soppressi).
La Restaurazione comportò, come ognun sa, la resurrezione della
Compagnia di Gesù. Fu, per l’Università di Genova,
che fino allora aveva vissuto sul patrimonio gesuitico, un colpo durissimo:
con la restituzione, nel 1816, alla Compagnia di quasi tutti i suoi beni
(tranne il palazzo di strada Balbi, la chiesa di san Girolamo e alcuni
dei luoghi annessi), essa perdette, d’un tratto, l’autonomia
economica (che perfino Napoleone le aveva lasciato) e dipese in tutto
e per tutto dal governo di Torino, che non pare fosse disposto nei suoi
confronti a largheggiare. E stava per riperdere, dieci anni dopo, anche
quella che essa considerava ormai la sua
sede e per essere trasferita (orrore) a Palazzo Doria Tursi. Ma la Deputazione
agli Studi, questa volta, tenne duro; e a Tursi, nel 1837, finirono con
l’andare i gesuiti. Non basta: gli ignaziani rivolevano tutte le
cattedre che essi tenevano al momento della soppressione, a mano a mano
che si rendessero vacanti e intanto si adoperavano ad assicurarsi la direzione
del convitto accademico, da poco creato. D’altra parte, se l’Università
esaminava (gli esami erano cinque: uno privato per il baccellierato, uno
privato e uno pubblico per la licenza, e altrettanti per la laurea), l’autorità
di conferire [XLVI] il grado supremo
era stata data direttamente all’arcivescovo e al suo vicario (in
passato, l’arcivescovo era soltanto – lo vedremo – vicecancelliere),
salvo i casi nei quali il sovrano, tornato ad essere sovrano assoluto,
con regio biglietto, senza iscrizione né esame, si fosse compiaciuto
di concedere qualità di dottore. Se i collegi ricostituiti ritolsero
all’arcivescovo per qualche tempo, in virtù della bolla papale
del 1471, quell’autorità (e parve a molti un trionfo del
laicismo), la riperdettero, tuttavia, nel 1835, allorché si dovette,
essendo stata ripristinata la facoltà teologica, richiamarlo al
cancellierato e al conferimento di tutti i gradi.
Ridotta a “regio stabilimento diretto come ogni altro da una regia
amministrazione, mantenendo con fondi ogni anno a buon piacere di Sua
Maestà bilanciati”; privata del diritto di conferir gradi;
chiusa d’autorità e addirittura occupata militarmente dal
1821 al 1823 e dal 1830 al 1835, l’Università di Genova –
questa università umiliata e incertissima del proprio futuro –
cominciò a interrogarsi sul proprio passato, a costruirsi un blasone
da opporre ai suoi persecutori. Inutilmente. La legge del 13 novembre
1859 – la famigerata legge Casati – tolse in effetti ad alcune
università del Regno sardo, tra cui Genova, taluni insegnamenti
di matematiche, negò ad taluna, fra cui Genova, l’autorità
di dar lauree in lettere, ridusse gli insegnamenti giuridici, cosicché
gli studenti non poterono conseguire a Genova altra laurea oltre la medico-chirurgica.
La legge del 31 luglio 1862 (legge Matteucci) introdusse fra le università
del Regno d’Italia due categorie di stipendi per i professori e
collocò Genova nella seconda. E ci fu un momento in cui si temette
che il regio governo volesse sopprimere questa università ischeletrita,
per mantenere nelle antiche province soltanto la torinese. Più
ancora, seduceva le menti dei riformatori, che già in quegli anni
si erano fatti attivissimi, il sistema francese dell’unico studio
centrale; funesta innovazione, come dimostrava con veementi parole e buonissimi
argomenti il professor Angelo Bo, un patologo, nella prolusione tenuta
in apertura dell’anno accademico 1859-1860.
La reazione della classe politica genovese, in difesa della propria università,
fu in principio inconcludente. Basta leggere la petizione, rivolta al
governo del re il 27 novembre 1862, dal consiglio comunale. Per allontanare
il sospetto, alimentato dalla flessione preoccupante del numero degli
studenti, che l’ateneo genovese fosse un inutile aggravio per lo
Stato, gli estensori (Emanuele Celesia, Pareto, Ageno) accumulavano le
prove che avrebbero potuto dimostrare il contrario. Eccone alcune:
Le popolose città ove sorgono grandi ospedali presentano
soltanto le condizioni necessarie per cui possa riuscire, nelle parti
più essenziali, completo lo insegnamento medico-chirurgico. [XLVII]
E sono la molteplicità e varietà di mallatie e l’abbondanza
dei cadaveri. Genova, oltre di possedere uno degli spedali maggiori, che
ricovera giornalmente in media mille e più malati, essendo città
commerciale e porto di mare a cui approdano navi di tutte le nazioni e
provenienti da ogni parte del globo, fornisce allo spedale copia abbondantissima
delle più svariate malattie. Nel che trova l’insegnamento
medico-chirurgico un terreno più adatto e fecondo per prosperare
e progredire, che non al certo negli spedali delle città dell’interno
in cui le malattie sono più uniformi o ripetono esclusivamente
il carattere speciale delle comuni influenze od il carattere stazionario
delle località. L’avanzamento delle scienze matematiche,
fisiche e naturali può anche Genova favorire grandemente. Qui due
superbi acquedotti, monumento l’uno de’ secoli trascorsi,
e l’altro del secolo nostro, i quali da oltremonte per diverse vie
conducono a Genova due grosse colonne d’acqua, possono dar largo
campo all’insegnamento dell’idraulica; qui la dolcezza del
clima permette nutrire in piena terra migliaia di piante che altrove si
chiudono nelle stufe; Qui l’approdo continuo di bastimenti acconsente
di avere più che altrove le produzioni del regno vegetale delle
altre parti del mondo; qui possibile lo studio di molti fenomeni delle
alghe, e delle basse classi degli animali che solo può farsi quando
sono dal mare estratte; qui la variabilità del clima potentemente
favorisce gli studi della meteorologia.[5]
Ma l’unica proposta concreta, uscita dalla mente del Pareto, fu
d’incrementare il numero degli studenti, con l’annua distribuzione
di medaglie. Sarà il rettore Cesare Cabella, un quindicennio dopo,
a trovare la via efficace, promuovendo, nel 1877, la costituzione di un
Consorzio Universitario, con il quale la Provincia e il Comune si obbligavano
a un costituto anno complessivo di lire trentamila, da erogarsi per l’aumento
delle cattedere nelle diverse Facoltà, per l’incremento del
materiale scientifico e per maggiori assegnamenti ai professori più
segnalati. Questo modesto consorzio fu trasformato, sei anni dopo, in
un altro consorzio di ben maggiore importanza, non solo per il più
cospicuo contributo degli enti locali (108.000 lire contro 30000), ma
per lo scopo cui era indirizzato: “promuovere il pareggiamento dell’Università
di Genova alle Università primarie”. Il pareggiamento di
diritto venne con la legge del 13 dicembre 1885; e la lapide, murata il
9 maggio 1886 nell’Aula Magna, ricorda il memorabile evento. In
quell’occasione, l’avvocato Ponsiglioni, professore di economia
politica, tenne un discorso che fa spicco nella letteratura del tempo
sulla questione universitaria.[6]
Da liberale qual era, il Ponsiglioni si dichiarava appassionato nemico
del centralismo e per un innesto, per un’inserzione [XLVIII]
viva dell’università, come oggi si direbbe, nel suo
territorio. Il modello era costituito, naturalmente, dalle università
tedesche:
le Università germaniche per lo spirito di libertà che
le informa, per l’autonomia onde governano i diversi interessi,
per l’immedesimarsi della loro vita colla vita della città
e della provincia in cui son poste, non sono esse [...] le dirette e
legittime discendenti dalle Università italiane del Medio Evo?
Per effetto del pareggiamento, alle facoltà e alle scuole già
esistenti a spese dello Stato e ai corsi complementari di giurisprudenza
e lettere istituiti dal consorzio universitario vennero aggiunti la completa
facoltà di Scienze fisiche e naturali, la completa facoltà
di Filosofia e lettere e il primo anno della scuola d’applicazione
per gl’ingegneri. E intanto, a spese della Provincia, del Comune
e della Camera di Commercio e con il concorso dello Stato, era stata fondata,
nel 1870, la Scuola superiore navale e, nel 1884, da un’idea lanciata
da Giacomo Cohen nel 1881, sempre con il contributo degli enti locali
(che ebbero allora, come si vede, un dinamismo, una capacità di
progettazione e di azione, un’incisività da lasciarci invidiosi),
sul modello delle Ecoles supérieures du Commerce di Anversa e di
Parigi e della Scuola Superiore di Venezia, la Scuola superiore di applicazione
per gli studi commerciali (scuola consorziale autonoma, che assumerà
carattere e grado universitari soltanto nel 1913). Ormai, l’Università
di Genova, dopo tanti faux départs,
era partita davvero. E poteva, a buon diritto, considerarsi un’università
giovane: “L’Università di Genova, relativamente ancor
giovane, non può emulare le illustri consorelle, la cui fama da
secoli va gloriosa nel mondo”.[7]
Sono parole, scritte nel 1923 dal rettore Prospero Fedozzi, che, pure,
si era adoperato e si adoperava al suo ampliamento, tentando di realizzare
– sempre col concorso degli enti locali, questi alleati preziosi
– quel grande politecnico la cui idea era stata lanciata nel 1912
dal rettore Maragliano. Ma, quello stesso anno 1923, la riforma Gentile,
che collocava l’Università di Genova fra quelle di tipo A,
cioè quelle a totale carica dello Stato, troncò forse per
sempre questa preziosa collaborazione.
E’ umanamente comprensibile e anche scusabile che coloro –
universitari per la più parte – che, nei primi decenni dell’Ottocento,
si misero a ricostruire le vicende del loro istituto – di quell’università
umiliata, insidiata, mutilata e addirittura minacciata di estinzione,
che ho appena descritta – s’industriassero a rialzarne l’immagine,
andando a cercarne le origini nell’epoca del comune mercantile,
in quel secolo XIII che era stato quello della massima libertà
e della [XLIX] massima grandezza
della città. Ed è anche comprensibile che tutti, timorosi
com’erano di dar nuovo pretesto alle rivendicazioni dei gesuiti,
fossero freddi o addirittura ingiusti nei confronti dell’opera educativa
dei Reverendi Padri e della parte da loro avuta nella costruzione dell’Università.
Tanto più che alcuni di essi – barnabita era lo Spotorno,
scolopio l’Isnardi – facevano parte di famiglie religiose,
tradizionalmente poco amiche della Compagnia.
La preoccupazione dell’immediato futuro dell’Università
era stata la prima molla che aveva indotto il matematico Isnardi, rettore
dal 1853, a farsene lo storico. La prefazione al primo volume, uscito
nel 1861, all’indomani della legge Casati, è esplicita: “D’onde
può nascere – si era chiesto – il pensiero [...] di
menomare la nostra università o di mutarne lo scopo?”. “Non
da altro – così aveva pensato – che dal non tenerla
nel debito pregio, che è quanto dire dal non essere conosciuta
abbastanza l’altezza a cui sorse, il prezioso patrimonio che possiede,
gli utili sussidi che può prestare alle scienze [...]”. Ecco,
dunque, la genesi della sua toria:
“Sorse quindi in noi il proposito di descrivere il vero e genuino
stato della nostra Università”. E sarebbe stato ripagato
dalle sue fatiche se avesse “in qualche parte giovato sia col rimuovere
ognor meglio dalla nostra Università i pericoli e le minacce di
mutamenti dannosi, sia ancora col riaffermare la speranza di ulteriore
ampliamento”.[8]
Malgrado l’intento pratico che lo aveva messo a comporla, l’Isnardi
seppe tener, nella sua Storia,
il giusto mezzo e resistette alla tentazione, alla quale altri avevano
già ceduto e altri in seguito cederanno, di farla più antica
di quanto fosse. Ma procediamo con ordine. Il primo, che si era provato
a delineare la storia dell’Università, in un saggetto apparso
sul Poligrafo del 1829, era stato
Giovanni Battista Canobbio, un professore di chimica: Canobbio era stato
uno storico equilibrato. La data più antica alla quale si poteva
far risalire la fondazione era, naturalmente, la bolla sistina del 1471.
Prima erano esistiti corpi o collegi di avvocati, medici, notai: “Molte
prerogative essi godevano, e moltissime franchiggie, ma nessun insegnamento
era loro affidato. Dopo la bolla di fondazione, l’esistenza di un
insegnamento pubblico è provata saltuariamente e solo col 1572
e la creazione del collegio gesuitico inizia l’insegnamento regolare
di rettorica e filosofia”. Tranne la data (che va spostata al 1603),
tutto esatto.
Lo Spotorno, in un articolo del 1841, uscito primamente nel Dizionario
[L] del Casalis e ripubblicato,
tale e quale, dal Banchero nel 1846, era stato ancor più tranchant:
“L’Università ebbe cominciamento nell’anno 1773”.
Ma, intanto, siamo arrivati al 1846. Genova, destinata a ospitare quella
grande kermesse patriottica che
fu l’VIII Congresso degli scienziati italiani, volle solennizzare
l’evento con la pubblicazione di una sontuosa Descrizione
di Genova e del genovesato. Nel terzo e ultimo volume, compariva
una breve storia dell’università.[9]
All’anonimo compilatore, di parte ghibellina senza dubbio, non piaceva
che a fondarla fosse stato un papa. Nel grande zibaldone manoscritto del
Federici, conservato alla Biblioteca Universitaria, trovò il fatto
suo. Vi lesse che “si poteva addottorare in Genova per concessione
di Federico II imperatore l’anno 1220, cioè al tempo stesso
in cui egli stabiliva leggi mediche per le scuole di Salerno e di Napoli,
come in fasti e quinterno AE”. La bolla del 1471 appariva perciò
“un mezzo con cui siasi inteso ad autenticar meglio ed ampliare
lo stato delle cose a quell’epoca, anzi che a far la creazione affatto
nuova. E dicesi ampliare, poiché se tanto faceasi dal Papa, nientemeno
si fece nel 1496 dall’imperatore Massimiliano I quando dava facoltà
di porre studi e conferir lauree da pareggiarsi a quante altre italiane”.
All’Isnardi non riuscì difficile dimostrare l’infondatezza
dell’affermazione del Federici.
Ma era duro rinunziare a una data così alta, che collocava senz’altro
l’Università di Genova fra le più antiche d’Italia.
Dileguato il sogno del diploma imperiale, si continuò a cercare
di scoprire in Genova scuole che avrebbero potuto servir di nucleo all’università.
Fu Emanuele Celesia a specializzarsi in questo tipo d’indagini.
Nel 1873, fu lieto di aver trovato un collegio di dottori in grammatica
già nel 1298. Francesco Bertinaria, direttore e unico docente ordinario
dell’Istituto di Filosofia, se ne rallegrò oltremodo. Ma
anche la data del 1298 gli andava stretta. Nell’inverno 1878-1879,
discorrendo dalla sua cattedra consorziata di letteratura dei primi secoli,
era felice di annunziare un suo nuovo fortunato ritrovamento:
ma avendo altrove accennato che le origini dell’ateneo
genovese ànnosi a fermare nel 1298, poiché ci occorre in
quell’anno un collegio di dottori in grammatica, debbo ora aggiungere
che nuove indagini ci consentono di portarle più innanzi assai,
avendosi, prima d’allora, memorie di un collegio di giurisperiti
o notai, che siedea nelle case domini
Petri De Nigro causidici. In una delle sue congreghe, quella del
6 dicembre 1243, disse ivi una sua concione sulla filosofia morale il
celebre Albertano da Brescia, legista venuto in Genova con Emanuele Maggi,
eletto a podestà del comune.[10]
Si trattava di un codice della Biblioteca della Chiesa di san Fedele,
segnalato e descritto dal gesuita Francesco Antonio Zaccaria sin dal 1754,
oggi perduto.[11] E’
curioso che questa data – 1243 – figuri anche come data di
nascita della nostra Università nella carta elaborata da Alberto
Tenenti per il suo manuale La formazione
del mondo moderno, uscito presso il Mulino nel 1980. In realtà,
quella riunione di causidici e notai, nell’orto di Pietro De Nigro,
causidico ad ascoltare l’orazione di Albertano da Brescia, non prova
affatto che essi formassero già una corporazione, né ancor
meno che fossero un gruppo di maestri. Del resto, non pare che quei collegi
(giureconsulti, medici e teologi), quando, più tardi, regolarmente
si costituirono, esercitassero, né collettivamente né individualmente,
funzioni didattiche.
Il conferimento dei gradi che diremo universitari non sorge in Genova
che nel 1471 per una bolla del pontefice Sisto IV Dudum
in nostrae mentis del 26 novembre; e tanta autorità non
fu neppur da lui data ai collegi dottorali esistenti, ma concesse alla
comunità e agli anziani di Genova facoltà di deputare un
rettore e un certo numero di dottori a
loro arbitrio per fare i convenienti esami e investire in tutti
i gradi (magistero, licenza
e dottorato) in leggi, teologia
e arti liberali, colla consegna di tutti i simboli e insegne, con la piena
parificazione dei graduati in Genova a quelli di tutti gli studi generali
“perinde ac si in aliqua universitate seu studio praedictis gradus
et insigna praedicta suscepissent”. Anche in questo caso, non v’è
traccia né di preesistenza né di fondazione di uno studio
(perinde ac si: come se!). Anzi,
Genova ne viene esonerata.
La Repubblica deputò davvero i collegi già esistenti in
città e delegò loro l’autorità ricevuta perché
dessero esami e gradi in sua vece, rispettivamente ciascuno nella sua
materia, ma si riservò pure tacitamente la facoltà di provvedervi
anche da sé, quando al Senato piacesse, senza intervento di quelli.
Nel 1491, l’arcivescovo fu eletto vicecancelliere in
doctorandis, in dandis insignis doctoralibus (non cancelliere,
come era costume nelle altre città italiane); la qualità
principale di cancelliere fu riservata al Comune.
Qualche anno dopo, nel 1496 e ne 1513, l’altra potestas
generalis, l’imperatore Massimiliano I, riconobbe e confermò
alla comunità e al consiglio della città imperiale di Genova
la facoltà di conferire gradi di ogni specie quemadmodum
ipsis ab Apostolica sede esse asseruerunt indultum.
[LII] Alla fine del secolo XV,
o al principio del XVI, anche a Genova, le due somme potestà universali
attribuirono dunque, concordi, alla Repubblica il potere di dar lauree,
licenze, e magisteri, senza senza istituire
a Genova nessuno studio generale, cioè un gruppo d’insegnamenti
coordinati in modo che, alla fine di essi, si conseguissero i gradi. Certo,
il diploma imperiale concedeva contestualmente a Genova la facultas
legendi in sacra pagina, in utroque iure, in medicina atque in aliis liberalibus
artibus, cioè la facoltà di tenere pubbliche lezioni,
come negli altri studi e università. Solo da questo momento fu
possibile costituire, se non uno studio completo, un insegnamento di grado
superiore, non più privato e transitorio, ma continuo.
Era possibile. Ma non fu fatto. Il governo della Repubblica sembra se
ne sia disinteressato, lasciando la cura della creazione di cattedre pubbliche
alla generosità dei privati. Orbene, i benefattori genovesi sono
una specie particolare di uomini. A Genova c’era San Giorgio, c’erano
i moltiplichi, i benedetti moltiplichi.
A Parigi, Robert de Sorbon decide, nel 1257, di costruire un collegio
di teologia? Detto fatto: il collegio nasce. A Oxford, il vescovo Fox
vuole, nel 1517, creare un “alveare” per gli studenti che
“come api ingegnose e industriose, producano cera notte e giorno,
per rendere onore a Dio e dolcissimo miele per il proprio bene e per il
bene di tutti i popoli cristiani”? Nasce il Corpus
Christi College, il modello di tutti i collegi.[12]
A Genova no. A Genova, bisogna aspettare secoli
prima che i luoghi della Casa di San Giorgio costituiscano il capitale
prestabilito dal disponente e le rendite possano essere destinate agli
scopi prefissati. Esempi?
Ettore Vernazza ordinò, nel suo testamento del 1512, che l’ufficio
dei protettori di San Giorgio comperasse una casa comoda, nella quale
quattro dottori, scelti tra i più dotti, insegnassero, ogni
giorno diritto e quattro medicina, oltre a due maestri di grammatica
e rettorica. Le rendite rimasero inassegnate fino al 1735, allorché
il Serenissimo Trono decise, finalmente, di devolvere l’annua rendita
di lire tremila, frutto della colonna Vernazza, alla creazione di tre
cattedre di medicina in Pammatone. Quelle legali erano state assolutamente
dimenticate.
Ansaldo Grimaldi, altro benemerito. Nel 1536, aveva assegnato un grosso
capitale, affinché al tempo preordinato si mantenessero coi proventi
anche quattro pubblici professori, nominati dagli eredi e dai Serenissimi
Collegi, i [LIII] quali istruissero
nelle umane lettere e nelle arti liberali, nella metafisica e nella fisica,
nelle teologia e nelle scienze legali. Il moltiplico, sufficiente a mantenere
non quattro, ma otto professori, si compì soltanto nel 1647. Ma
solo nel 1669 cominciarono a funzionare, unite alle altre dei gesuiti;
fu, anzi, grazie a quest’assorbimento che il loro collegio assunse
nome di università.[13]
Angelo Giovanni Spinola. Nel 1579, investì quattromila luoghi in
San Giorgio, per centoventi anni, al fine di costituire varie opere: tra
queste, un collegio o una scuola, nella quale fossero quattro dottori
e lettori, i quali pubblicamente insegnassero la medicina, la filosofia,
il diritto civile e il canonico, più due grammatici. Nel 1652,
il Senato, derogando in parte al testamento del donatore, rivolse considerevole
parte del capitale duddetto e dei suoi proventi per la fondazione dell’Albergo
dei Poveri. La scuola poteva attendere.
Come si vede, il Serenissimo Trono, oltre a non spendere un soldo per
l’istruzione, usava del suo potere di modificare i testamenti, per
distrarre i fondi che dei privati lungimiranti, troppo lungimiranti, avevano
destinato a quello scopo.
Agli ingegni genovesi non rimase, si sa, altra via che andare a studio
fuori di Genova e farsi poi addottorare dai collegi della Repubblica.
Finché, nel 1773, lo scioglimento della Compagnia non costrinse
di colpo gli oligarchi ad affrontare il grave problema della creazione
di un’università moderna. A Genova non c’era Humboldt
e non ne venne fuori – lo sappiamo – un’Università
di Berlino.
|