Il filosofo sedentario è Paolo Mattia Doria.
Nato a Genova il 24 febbraio 1667, era figlio di Giacomo e di Maria Cecilia
Spinola, donna di gran casato e piena dei pregiudizi del suo stato[1].
Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli per recuperare certi suoi crediti,
tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale del Regno che non se
ne mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel 1746).
Non accettò neppure il pressante invito, fattogli nel 1730, dal
generale sassone Johann Mathias von Schulenburg (1661-1747) a visitare
Corfù che costui, passato al servizio di Venezia dopo aver militato
in tutti gli eserciti d’Europa, aveva abilmente difeso contro i
Turchi nel 1716: per il Doria l’azione più brillante di questo
sperimentatissimo uomo di guerra[2].
Amicissimo del Vico, nel 1709 aveva pubblicato quel suo trattato della
Vita civile, che, a parere del più accurato radiografo dell’opera
del Montesquieu, Robert Shackleton, sarebbe una delle fonti dell’Esprit
des lois[3]. In ogni caso,
anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera
francese, apparsa – si sa – nel 1748. Il Doria fu scrittore
copioso di filosofia politica e, ahimè, di matematica. I testi
che ci interessano sono quattro, due editi, due inediti: Il capitano
filosofo,[4] ponderoso trattato
di teoria militare uscito nel 1739; le Lettere, e ragionamenti varj,
apparso nel 1741, dove si legge un esame critico dell’Histoire
de Charles XII del Voltaire pubblicata dieci anni avanti; due opere
lasciate inedite dall’autore tra i tanti suoi manoscritti, tratte
in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, e in modo non proprio impeccabile,
da un gruppo di studiosi dell’Università di Lecce: il Politico
alla moda del 1739 (che già aveva ricevuto miglior cura nelle
mani di Vittorio Conti) e Il commercio mercantile del 1742: una
delle sue ultime opere[5]. Che
il Doria fosse osservatore politico acuto si può dimostrare, per
esempio, con un passo del Politico alla moda sulla Prussia. Re
ne era ancora Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del potentissimo
esercito prussiano: [34] “Pare che egli aspiri – commenta
il Doria – ad ingrandire il suo stato [...] con l’acquisto
della Slesia, quando si divideranno li stati ereditarj dell’Imperatore”[6].
Federico Guglielmo, alieno d’altra parte a sciupare con una guerra
quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo l’anno
successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani
dei defunto re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II.
I due saggi nutriti che ho pubblicato su questo autore mi consentono di
essere breve. Bestia nera dell’ultimo Doria, dell’autore cioè
del Commercio mercantile (non a caso proprio in quest’opera
egli si fece propugnatore della disobbedienza civile[7])
era la politica “mercantile” del suo tempo, espressione che
in lui non connota un sistema di scambi, ma un modo perverso di concepire
i rapporti politici: quelli tra governanti e governati, quelli tra stato
e stato, quello degli ordini all’interno degli stati, quelli infine
tra uomo e uomo. Proprio quel gran mercanteggiare, quel disporre della
vita dei popoli senza minimamente consultarli, quel passarseli di mano
in mano era ciò che più faceva ardere di sdegno il Doria.
Quei prìncipi bassamente calcolatori, che non coltivavano altro
disegno politico che quello di arricchire il loro erario privato, non
erano forse più simili a mercanti – e a mercanti indegni,
perché mancatori di fede – che a guide e mantenitori di quegli
organismi delicati, sempre pronti a esplodere a causa delle tensioni interne
e della naturale turbolenza degli uomini che sono le società politiche?
Caso esemplare di questa “mercantilizzazione” della politica:
la Russia. La sua situazione internazionale era, prima dell’avvento
di Pietro, del tutto marginale. Paese vastissimo sembrava che fosse “utilissimo
più che niun altro regno del mondo dei commercio” e capace
“d’inondare l’Europa”. Ma era purtroppo spopolato
(“a cagione che è stato governato da i loro czari con tirannia,
era poco men che tutto spopolato” tranne “quelli paesi che
sono vicini al fiume Volga”). Non era stato perciò temibile
da parte dell’Europa: “un’inondazione de’ soli
moscoviti” era allora impensabile. Il clima rigidissimo non favoriva
d’altra parte il commercio con i forestieri; e meno ancora lo favoriva
il bassissimo livello culturale delle popolazioni: “Li popoli [...]
sono stati incolti sino alla venuta di Pietro Alexiovitz nelle virtù
militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro czari ad uso di
bestie, onde poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che
come uomini, hanno avuto pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni
altro non facevano che ubbriacarsi e poi si cadevano a terra”. Le
donne non facevano eccezione. Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi.
Nelle molte guerre combattute con i Polacchi “sono sempre stati
battuti sin’a tanto che li Polacchi hanno dato il sacco a Mosca”;
e pochissima perizia e scarsa disciplina avevano dimostrato nei frequenti
conflitti col Turco. Di questa incapacità militare è prova
il fatto che Carlo XII, nel 1700, poté battere a Narva con soli
ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Né migliore
era la situazione religiosa. Greci scismatici, erano “osservantissimi”
dei riti e delle “penitenze [35] esteriori” e obbedientissimi
dello zar e del loro patriarca; ma i loro costumi erano pessimi. Le tre
quaresime all’anno che facevano e tutte le messe che sentivano non
li facevano migliori: “in mezzo alla loro ignoranza ed alla loro
barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel commercio e cattivi uomini”.
La loro non era religione, ma “superstizione”; e c’era
da augurarsi che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i cattolici
romani.
Pietro, uomo “dotato dalla natura capace di altissime virtù”,
aveva concepito il disegno lodevolissimo di “civilizzare”
la sua nazione e di “coltivarla nella virtù per lo mezzo
del commercio colle altre nazioni”. In breve: “mutare la forma
del governo barbaro in forma di governo politico”[8].
Commise però l’errore, comune a tutti i prìncipi europei,
di credere che la politica “consista nel commercio [...] e nel mantenere
esercito numeroso, e che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora
per massima la massima che hanno li nostri principi, cioè che la
gloria del principe consista nel dominare il popolo a sé soggetto
e nel conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando
la cura di promuoverne i popoli la vera morale e quelle vere virtù
le quali sono [...] li veri e li soli fonti della vera politica”.
Per raggiungere il suo fine di “coltivare li moscoviti nelle arti,
nel commercio e nella guerra” non aveva risparmiato fatiche. I suoi
successi erano sotto gli occhi di tutti. Aveva creato dal nulla un’eccellente
scuola di architettura navale e li aveva resi abili in molte altre attività
tecniche (“oggi li moscoviti fabricano vascelli, e fabricano tutte
le altre cose alle quali nei passati tempi non hanno mai veramente pensato”);
aveva aperto il commercio con la Cina, con la Persia, con l’Olanda,
con la Svezia, con la Francia e altri paesi ancora (“i1 czar ha
introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio”); aveva, con
l’aiuto di ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi, disciplinato
e ben istruito nell’arte di combattere l’esercito (“l’infanteria
moscovita è la migliore che sia in Europa”). L’ultimo
perfezionamento dell’esercito era sì dovuto all’opera
di due stranieri – il tedesco Burchard Christoph Münnich (1685-1767)
e l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) – ai quali la zarina
Anna, buona continuatrice della politica petrina, aveva concesso i maggiori
poteri. Ma era stato pur sempre Pietro che aveva dato il primo e decisivo
impulso e li aveva ingaggiati al suo servizio. E sua era stata la cura
d’introdurre in Russia lettere e scienze, chiamandovi “con
grandissimi soldi” molti scienziati delle università d’Europa
per formarvi quell’Accademia delle scienze che Caterina I aveva
poi realizzato.
Se i russi avevano assimilato dunque perfettamente le tecniche e l’organizzazione
delle risorse dell’Occidente non per questo erano però divenuti
più “virtuosi”: che pure era il secondo punto dei programma
di Pietro. Bisognava cercare la radice di questo fallimento nella ristrettezza
della sua visione politica: “non era filosofo, non era capace d’intendere
l’origine e l’essenza della vera politica”. I rapporti
dei cittadini con il potere non erano mutati: i Russi schiavi erano e
schiavi erano rimasti[9].
La loro ferocia si era [36] tutt’al più convertita
in malizia[10]. Il commercio,
la disciplina militare, il progresso nell’uso delle tecniche non
bastano per far avanzare in civiltà. Il Doria non pensava tuttavia
che quell’europeizzazione precoce e violenta avesse compromesso
per sempre la possibilità d’incivilimento dei russi. Sarà
questa un’idea di Rousseau: “Les Russes ne seront jamais vraiment
policés, parce qu’ils l’ont été trop
tôt”[11].
Pietro era stato un eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi –
così aveva detto sin dal 1709 – “quegli uomini forti
e coraggiosi ma dotti e savj tutto ad un tempo, i quali alla felicità
del popolo e dello stato le loro eroiche azioni indirizzarono ed in conseguenza
di ciò prima penseranno agli interni ordini politici dello stato,
dai quali nasce l’interno utile e naturale commercio, e poscia al
commercio con le straniere nazioni ed in questa guisa faranno fiorire
nei lor paesi la ricchezza alla virtù congiunta”. Il Doria
è molto avaro nel rilasciare patenti di eroismo: la nega anche
a Carlo XII. Era stato sì “un mostro di coraggio, d’intraprendenza,
di costanza nelle fatiche”: un temerario, non un eroe. Aveva rovinato
la Svezia, il suo paese, e non si era proposto nessun fine virtuoso, come
sarebbe stato quello di liberare dalla servitù i popoli che conquistava[12].
E la nega, in polemica con Voltaire, al suo grande antagonista: Pietro.
Il successo delle riforme compiute da quest’uomo brutale era incontestabile:
la Russia era divenuta, vasta e ricca com’era, “la più
potente Nazione d’Europa”[13].
Ma egli non aveva saputo dare alla sua autorità la forza di un
fondamento morale. Il potere degli zar era enorme, ma fragile. I supplizi
più atroci non bastavano a spegnere nei russi il desiderio di “divenire
liberi” alla maniera dei vicini svedesi alla morte di Carlo XII;
come avevano inutilmente tentato nel 1730. “Le congiure contro la
Czara – pronosticava – come prodotto da una piaga assai profonda,
si multiplicheranno sempre e alla perfine scoppieranno in una universale
rivoluzione, e ciò malgrado li numerosi supplicj che la czara [indubbiamente
Anna] prattica contro li congiurati”[14].
Per l’intrinseca debolezza del potere zarista, non nutriva grandi
timori per il futuro d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia,
questo “gigante di smisurata grandezza”, fosse riuscita a
soggiogare l’impero turco – era questo, del resto, il suo
compito storico[15] –
e a formare uno stato che si stendesse dal Baltico al Mar Nero e al mar
di Grecia, fino ai confini con Venezia, non era da temersi. Un’iniziativa
russa ai danni di qualche paese europeo avrebbe per prima cosa suscitato
una grande coalizione contro l’aggressore[16].
Ma esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione territoriale
degli stati, e tanto più gravi quanto più il potere centrale,
per la sua natura autocratica, mancava di profonde radici. La forza degli
eserciti non bastava ad assicurare il successo durevole di un tirannico
conquistatore.
Il filosofo viaggiatore – è appena il caso di dirlo –
è Francesco Algarotti. Durante i diciotto mesi trascorsi a Parigi,
dov’era giunto ventiduenne [37] nella tarda estate del 1734,
Algarotti aveva stretto importanti amicizie (Maupertuis, Clairaut, Fontenelle,
Voltaire...) e portato a buon punto la stesura di quei dialoghi sull’ottica
newtoniana e più in generale sull’attrazione che aveva messo
in cantiere sin dal 1730. Il 24 gennaio 1736 li dedicò con bella
sfrontatezza (dice bene il Boss) a Fontenelle, il più tenace e
noto esponente del cartesianismo. Passato in Inghilterra nella primavera
di quell’anno aveva continuato, fra tutti quei newtoniani, a lavorarvi
attorno[17]. Tra gli altri,
entrò in rapporto strettissimo con il principe moldavo Antioch
Kantemir (1709-1744), il figlio del celebre ospodaro Demetrio, divenuto
residente russo alla corte di San Giacomo[18].
Vi era stato promosso poco più che ventenne nel 1732 dalla zarina
Anna, non immemore dell’aiuto ricevuto nel 1730 da quel “progressista”,
allievo di Feofan Prokopovič, a riprendere il potere autocratico
e a “se remettre à couper les têtes selon son bon plaisir”,
lacerando la convenzione da lei accettata a Mittau che rimetteva il potere
sovrano nelle mani del supremo consiglio privato[19].
Non che fosse, per carità, un partigiano del dispotismo. Aveva
sempre pensato che la monarchia temperata dall’aristocrazia fosse
il migliore dei governi. Ma, benché ammiratore del regime d’Inghilterra,
aveva creduto che “dans les circonstances prèsentes il convenoit
mieux de respecter l’ordre établi”[20].
Di quanto dubbia lega fosse il suo liberalismo, lo dimostrò proprio
durante il soggiorno inglese. Erano uscite anonime a Parigi nel 1735 le
Lettres moscovites del bergamasco Francesco Locatelli Lanzi. Era
ai suoi occhi un vile pamphlet dove “con la più estrema
sfrontatezza ed ardire – così ne scrisse al conte Ostermann
– se la prende con la corte, i ministri e tutto il popolo russo”[21].
Ostermann gli ordinò di conseguenza sia d’impedire la pubblicazione
della traduzione inglese dell’opera sia d’identificare e punire
a dovere l’autore. Il Kantemir non si diede per vinto. Ancora nel
1738, non aveva rinunziato all’idea di “battere fortemente”
l’autore, se non proprio di sopprimerlo[22].
Quel libro, che era divenuto l’ossessione del principe, venne certamente
nelle mani dell’Algarotti (che dimostrò di essersene servito)[23]
entrato a far parte, durante i sei mesi del suo soggiorno inglese, di
quel club di bons vivants – diplomatici italiani per lo più
– che si era venuto formando attorno allo splendido (ma splenetico)
Kantemir[24]. Come negoziatore,
per la verità, concluse poco. Non riuscì a far riconoscere
dal governo inglese il titolo imperiale della zarina (l’Inghilterra
lo riconobbe a Elisabetta soltanto nel 1742) né a concludere con
l’Inghilterra quel trattato di alleanza militare che da San Pietroburgo
si sperava: i due obiettivi specifici della sua missione[25].
Ma se poco negoziò, molto tradusse. Era una sua passione. Sin dalla
sua prima satira (1729) aveva invitato ad introdurre in Russia i grandi
libri che apparivano in Europa. Ne aveva lui stesso di lì a poco,
nel 1730, dato l’esempio traducendo quel gioiello cartesiano che
era la Pluralité des mondes di Fontenelle: un’opera
apparsa mezzo secolo avanti. In Inghilterra però da zelante cartesiano
era divenuto zelantissimo newtoniano[26].
Lesse il Newtonianismo [38] dell’Algarotti sùbito
che uscì, e tanto se ne entusiasmò da raccomandare agli
amici di leggerlo e rileggerlo e cominciò a voltarlo in lingua
russa[27]. Passato dalla sede
di Londra a quella di Parigi nel settembre del 1738 continuò in
quella città per lui tanto noiosa la sua fatica[28].
L’Algarotti, ritornato a Parigi da un lungo tour de France,
aiutò l’amico in quell’incombenza lusinghiera e ricevette
da lui consigli preziosi per la revisione della sua opera[29].
La nuova edizione uscirà in Napoli (ma Venezia) presso il Pasquali
nell’ottobre del 1739. Era dedicata a Anna Ivanovna. L’ode
che le va innanzi fu dunque composta prima del viaggio dell’Algarotti
in Russia[30]. Su questo punto
concordano i due migliori biografi settecenteschi dell’Algarotti:
il Mazzuchelli e il Michelessi[31].
Tutti gli accenni dell’ode che potrebbero far pensare a una conoscenza
diretta di San Pietroburgo erano in realtà ormai luoghi comuni
negli ambienti colti, anche senza ipotizzare notizie provenienti appunto
dal Kantemir: l’introduzione nel 1735 dell’opera lirica italiana,
la creazione dei giardini e del padiglione Marly a Peterhof da parte del
Leblond, allievo di Le Nôtre; le vittorie dell’esercito russo
nella guerra russo-turca in corso da quattro anni. Da notare che quei
giardini, quando li vedrà, li giudicherà di “gusto
tedesco”.
Sin dalla prima edizione dei suoi dialoghi, nei quali aveva spezzato la
“dura lingua” di Newton in “più pulite muse”,
l’Algarotti considerava se stesso efficace agente e promotore del
newtonianismo nel mondo. Cercava illustri protettori che lo secondassero
in quest’opera di proselitismo. Sùbito che furono stampati,
nel 1738, li aveva inviati a Elisabetta Farnese, regina di Spagna, affinché
li diffondesse nelle terre dei suo vastissimo impero, “Acciò
non più Newton del nostro mondo/ Sia a la metà più
bella ignoto dio”[32].
Ma la cultura spagnola – sia detto di passata – si mostrò
refrattaria alle novità scientifiche d’oltremanica: con l’eccezione
del solito benedettino Feijoo, che molti anni dopo mise Newton in testa
a tutti i novatori, non vi sono tracce a quest’epoca di ricezione
dell’opera di Newton né in Spagna né nelle sue colonie
americane, malgrado il vigoroso interesse per le scienze che in esse si
andava manifestando[33]. Il
Kantemir gli fece nascere la speranza di penetrare nell’altro emisfero.
Nell’ode a Anna espresse l’augurio che egli riuscisse a portare
a termine la sua versione: “Ed anco fia, ch’egli tua lingua
apprenda [Newton, N.d.A.]/ Se tal, ministro alle sublimi cose,/ Non ispirano
invan Minerva e Apollo”. Lo stesso augurio espresse nell’Avvertimento
al lettore: “Egli [Kantemir, N.d.A.] sia in breve il Propagatore
del Newtonianismo nel vasto Impero delle Russie, e la vera Dottrina sia
ben tosto, mercè lui, sparsa in nuovi Mondi, Et Terras alio
sub Sole jacentes”. Ironia della sorte: nel 1740 l’Accademia
delle Scienze di San Pietroburgo riuscirà a pubblicare finalmente
la versione della Pluralité des mondes, fino allora bloccata
dal Santo Sinodo, sicché il Kantemir figura, contro la sua volontà,
nella storia letteraria russa come propagatore del cartesianismo[34].
La versione dell’Algarotti, ammesso che sia stata portata a termine,
è andata invece perduta.
[39] Per parte sua, l’Algarotti era impaziente che la nuova
edizione del Newtonianismo, ornata di quell’ode che gli amici
bolognesi dicevano “maestosa” fosse recapitata nelle mani
della dedicataria[35]. Il
29 ottobre 1739, appena saputo che il libro “avec les vers à
l’Impèratrice” era ormai stampato, ne aveva fatto inviare
(era allora in Inghilterra) alla prima occasione all’amico russo
un esemplare per lui e uno per la zarina: “Je me flatte que V. E.
– gli scriveva – sera agréer questa povera opera
d’inchiostro; et que la philosophie et les muses auront un favorable
accès auprès du Trône présentées par
les mains de V. E.”[36].
Era vero che nessuno a San Pietroburgo – né il conte Ostermann
né altri – lo aveva ringraziato per quei versi; ma si lusingava
che “une fois qu’on saura que V. E. les a approuvés,
il seront trouvés egaux au grand sujet”. Nel luglio del 1740
il volume sembrava ormai avviato alla volta della capitale russa. L’Algarotti,
già fatto prussiano, se ne rallegrava: “Io sarei glorioso,
che sua maestà imperiale non indegnerà quello che la venerazione
e l’ammirazione m’hanno dettato, e son sicuro, che la bontà
di vostra excellenza per me farà valere cotesta bagatella [...]”[37].
E si offriva di farsi cantore perpetuo di quella donna straordinaria:
“Felice me, se vostra excellenza mi fa trovar grazia apresso di
sua maestà imperiale, a cui rededicherò i miei versi dai
confini della Prussia e delle rive del Baltico”[38].
Ma quella copia non giunse mai nelle mani della zarina, venuta intanto
a morte il 16 ottobre 1740. L’Algarotti non nascose il suo disappunto[39].
Si consolò con le grazie delle quali lo andava ora colmando il
nuovo re di Prussia, alla cui corte era “volato” nel giugno[40].
Le aperture del Kantemir verso il mondo russo resero l’Algarotti
sempre più curioso di quel paese entrato ormai nel numero delle
grandi potenze europee. Oltre tutto, l’amico gli aveva forse fatto
sperare onorevoli impieghi per la sua persona, così irresistibilmente
attratta verso la vita di corte. Ripassato nel marzo del 1739 a Londra,
poche settimane dopo il suo arrivo fu invitato dall’eccentrico Charles
Calvert, quinto Lord Baltimore, a unirsi a lui in un grand Tour
nel nord sul suo yacht “The Augusta”[41].
Il 21 maggio Vecchio Stile – tre giorni dopo l’invito –
l’imbarcazione fece vela da Gravesend verso il golfo di Finlandia.
Lord Baltimore era impaziente di assistere ai grandi festeggiamenti organizzati
a corte ai primi di luglio in occasione del matrimonio di Anna Leopol’dovna,
principessa del Mecklemburgo, con Antonio-Ulrico di Braunschweig-Bevern.
Questa coppia male assortita di principi tedeschi avrebbe dovuto, secondo
i piani di Anna, generare il futuro zar. I suoi desideri saranno –
bisogna dire – esauditi. Nel settembre del 1740, poco innanzi la
sua morte, riceverà tra le braccia l’infante Ivan Antonović.
Ivan erediterà il trono all’età di due mesi l’11
novembre 1740 col nome di Ivan VI e sarà detronizzato a quindici
da Elisabetta, questa “donna incapace e crudele”, che lo condannerà
a marcire in una prigione i restanti anni della sua vita[42].
Sarà ucciso dai suoi custodi nel 1764, regnante Caterina.
[40] L’Algarotti non era l’unico ospite. Sulla Augusta
erano saliti altri due giovani: l’ultimo figlio di Jean-Théophile
Désaguliers, Thomas (1725?-1790), che il padre “mandava in
mare perché apprendesse la pratica della navigazione” (si
distinguerà invece come abile artigliere)[43]
e un suo “rivale”, un certo King, che sperava di fare “un
corso di Fisica Sperimentale a quella Imperadrice” e che si era
portato dietro tutte le macchine necessarie alle sue dimostrazioni[44].
Durante la navigazione darà in effetti due prove della sua abilità,
che l’Algarotti mostra di aver apprezzato[45].
La presenza di un rampollo del Désaguliers e forse di un allievo
del celeberrimo sperimentatore al servizio Newton, “plus newtonien
que Newton” stesso, che a due riprese, nel 1722 e nel 1728, era
sceso in campo in difesa dell’ottica newtoniana contro Giovanni
Rizzetti (la bête noire pure dell’Algarotti) ci fanno
certi che a Londra egli avesse frequentato quel personaggio assai in vista
del Refuge: incontri facilitati forse dalla comune appartenenza
alla massoneria[46]. Uomo
dai gusti raffinati, Lord Baltimore si era procurato un abile cuoco francese,
al quale l’Algarotti farà allusione chiamandolo scherzosamente
col nome dell’autore di un celebre ricettario[47].
Di quell’insolito viaggio l’Algarotti volle tenere un esatto
giornale in un quadernetto di cm. 19x11 (un ottavo piccolo) di carte 74,
oggi legato in carta pecora bianca. Una mano ottocentesca gli ha dato
per titolo Viaggio da Londra a Petersburg nel vascello The Augusta
di Mylord Baltimore nel mese di maggio V. S. l’anno
MDCCXXXIX: titolo riduttivo del contenuto, poiché un terzo
del quaderno è riempito delle impressioni di viaggio in Polonia,
Sassonia e Prussia. Precede una lunga nota dell’Archivista, stesa
probabilmente allorché quella reliquia, rimasta in possesso non
si sa di chi, venne messa in vendita nel novembre del 1848. Acquirente
fu Thomas Rodd. La nota ne garantisce l’autenticità e fa
anche qualche considerazione pertinente sul suo valore documentario[48].
È ora in possesso della British Library sotto la segnatura: Add.
Mss. 17482. La scrittura, in colonna fino al foglio 57v, ossia fino alla
partenza da Kronštadt, occupa poi l’intera pagina. L’Algarotti
ha segnato in margine con una matita rossa i passi che vent’anni
dopo circa decise di utilizzare per rompere quel testo in otto lettere
fittizie a Lord Hervey, vice-ciambellano d’Inghilterra e perfetto
uomo di mondo, al quale l’Algarotti al tempo del suo soggiorno inglese
era stato particolarmente legato. Ci ha reso in tal modo due segnalati
favori: quello di ammetterci nel laboratorio dello scrittore e quello
di dare evidenza ai passi rifiutati.
Questo manoscritto, segnalato ma poco utilizzato dalla Treat nel 1913[49],
è stato preso a studiare, un quarto di secolo fa, da Antonio Franceschetti,
che nel 1976 ne trasse le pagine dedicate all’Accademia delle Scienze
di San Pietroburgo[50]. Poiché
questo studioso ha confermato anche di recente il suo proposito di darne
un’edizione completa, io – pur avendone eseguito, per stendere
la presente relazione, la trascrizione – mi asterrò dal rubargli
la preda[51].
[41] Primo problema. È il diario originario o una riscrittura
in vista di una pubblicazione? Il Franceschetti conclude per la prima
ipotesi[52]; e tale è
pure la mia conclusione. Le prove per me decisive sono tre. Il fatto che,
dopo aver descritto nei termini più duri il despotismo di Federico
Guglielmo I, arrivato a Rheinsberg, nella residenza cioè del Kronprinz
Federico, il diario ammutolisca di colpo e nelle pagine residue appaia
l’abbozzo dell’ode a Federico, che l’Algarotti compose
non solo, ma mise anche in musica[53].
Seconda prova e forse la più concludente: gli schizzi dal vero
frammisti al testo (ff. 17r, 20r, 22r, 24r, 25r). Una terza spia circa
la data di composizione dei Giornale è l’accenno ad
Azov, certamente anteriore alla pace di Belgrado del 18 settembre 1739:
“Se [i Russi, N.d.A.] potranno ritenere Azov dopo questa guerra
come è verisimile, potran dire di averlo ben comperato, ma in fine
avranno una piazza di somma importanza”[54].
I Russi conserveranno – è vero – quella conquista,
ma a patto di demolire le fortificazioni e con l’impegno a non costruire
una flotta nel Mar Nero: conclusione davvero non prevedibile di una costosissima
guerra.
Il secondo problema è quello di definire esattamente la cronologia
degli spostamenti della coppia Algarotti-Baltimore. Quella notazione –
V. S. – che tutti gli interpreti leggono “ultimo scorso”
è invece una preziosa notazione. Come è noto, la Gran Bretagna
continuò a servirsi del calendario giuliano fino al 22/31 dicembre
1752. La Russia, per parte sua, lo conservò fino alla Rivoluzione
dell’ottobre-novembre 1917. Gli altri paesi attraversati dai due
viaggiatori avevano adottato, quale prima quale poi, il gregoriano; la
Polonia nel 1586, la Germania protestante nel 1700. Tanto basti per il
nostro scopo. L’Algarotti usò il calendario giuliano –
il Vecchio Stile – finché si mosse per mare e durante l’intero
soggiorno in Russia; partito da Kronštadt il 20 luglio – dice
– “in 12 giorni fecemmo il tragitto di là a Danzica
ripetendo i passati pericoli nel Golfo di Finlandia”[55].
Da Danzica si mossero il 15 agosto. Avrebbero trascorso perciò
apparentemente nella città anseatica tredici giorni: tempo troppo
lungo per due viaggiatori premuti dal desiderio di visitare la Sassonia
(Dresda e Lipsia) e di lì la Prussia, per imbarcarsi infine ad
Amburgo, dove intanto li avrebbe attesi l’Augusta per ricondurli
in Inghilterra. Occorre perciò convertire la data della partenza
da Kronštadt nella data corrispondente del gregoriano (il décalage
è nel Settecento di undici giorni). I due lasciarono dunque San
Pietroburgo il 31 luglio, toccarono Danzica il 12 agosto, partendone il
15 alla volta di Dresda.
Questi calcoli sono necessari per fissare bene la data del soggiorno dell’Algarotti
in Russia e quella dell’incontro col giovane Federico. Il Giornale
registra infatti, giorno dopo giorno, i movimenti della galeotta, ma arrivato
a San Pietroburgo si fa generico e generico resta fino alla fine. Ma c’è,
come dire, un traguardo: gli otto meravigliosi giorni trascorsi alla corte
di Federico a Rheinsberg[56].
Su questi il Giornale – come ho detto – è muto.
Ma noi possiamo determinare con grande approssimazione la data della partenza:
il [42] 26 settembre i due non sono più a Rheinsberg[57].
Il l° ottobre l’Algarotti annunzia a Voltaire il suo ritorno
a Londra[58].
Quale impressione avevano fatto i due visitatori su Federico? Ottima,
senza ombra di dubbio: “Je crains fort de ne revoir de longtemps
dans ces contrées d’aussi aimables personnes”[59].
Lord Baltimore “est un homme très sensé, qui possède
beaucoup de connaissances, et qui croit, comme vous – scriveva Voltaire
–, que les sciences ne dérogent point à la noblesse
et ne dégradent point un rang illustre”[60].
Quanto all’Algarotti, lo trovava delizioso: “Il a beaucoup
de feu, de vivacité et de douceur; ce qui m’accomode on ne
saurait mieux”; e se ne era staccato con rimpianto. Lord Baltimore
era, a modo suo, un uomo charmant: “J’ai admiré
le génie de cet anglais comme un beau visage à travers un
voile”. E spiegava: “Il parle très mal français,
mais on aime pourtant à l’entendre parler; et l’anglais,
il le prononce si vite qu’il n’y a pas moyen de le suivre”.
Dalla sua visita, mylord non aveva tratto una grande impressione
della nuova Russia: “Il appelle un russien un animal mécanique;
il dit que Pétersbourg est l’oeil de la Russie, avec lequel
elle regarde les pays policés; que si on lui éborgnait cet
oeil, elle ne manquerait pas de retomber dans la barbarie dont elle n’est
guère sortie”[61].
Troppo presto si è concluso che questa celebre metafora non appartiene
all’Algarotti ed è stata invece coniata dall’amico
inglese[62]. Il Giornale
costringe alla cautela. L’Algarotti aveva notato la totale mancanza
di structure d’accueil della città: “Pe’
forestieri non vi ha accomodamento alcuno, né osterie, né
valletti, né carrozze”. Ne aveva perciò concluso:
“Il che manifesto segno è quanto pochi abbiano vaghezza di
vedere questo Imperio, che da così poco tempo comunica con noi
e che ci riguarda, per così dir, dalla finestra di Petersbourg”[63].
Nei Viaggi l’immagine ricompare, e sempre usata con qualche
esitazione: “Ma qualcosa le [lord Harvey, N.d.A.] dirò prima,
qual poi, di questa Città, di questo gran finestrone, dirò
così, novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in
Europa”[64]. Comunque
sia, è dall’Algarotti che tolse quell’immagine Puškin
nel suo Mednyj vsadnik [Il cavaliere di bronzo]: “Qui
da natura fu per noi disposto – è Pietro che parla –
di aprire una finestra sull’Europa”[65].
Tanto lord Baltimore piacque a Federico che a lui dedicò, dopo
la sua partenza, una Épître sur la liberté de penser
des Anglais: centosettantotto alessandrini che esordivano inneggiando
a “L’esprit libre, mylord, qui règne en Angleterre,
/ qu’on abhorre à Berlin. Mais qu’à Londres
on revère”[66].
Era un indiretto elogio di se stesso: “Il [Baltimore, N.d.A.] a
trouvé ici des gens avec, lesquels il pouvait parler sans contrainte,
ce qui m’a fait composer l’épître ci-jointe [...]”[67].
Ricapitoliamo, per comodità, i movimenti dei due turisti. Partiti
da Gravesend il 21 maggio/1 giugno, toccarono l’Olanda e di qui
raggiunsero Helsingor, all’ingresso del Sund, il 10/21 giugno. Rinunziarono
a visitare Copenhagen per non mancare allo spettacolo pietroburghese.
Entrarono in territorio russo il 17/28 giugno a Revel’ (Tallin)
in Estonia; da Revel’ si portarono a [43] Kronštadt
il 21 giugno/1 luglio e di qui, due giorni dopo, a San Pietroburgo. Ne
partirono un mese dopo, il 20 luglio/1 agosto e dopo dodici giorni di
navigazione furono a Danzica il 13 agosto. Di qui ripartirono il 15, ormai
per via di terra (“non si corre in questi paesi la posta, come in
Francia e in Italia”[68])
verso Dresda, dove giunsero sette giorni dopo, cioè il 22. Trascorsero
tra Dresda e dintorni molti giorni. Ne ripartirono il 6 settembre verso
Lipsia, già tutta infervorata nei preparativi della sua terza fiera,
quella di San Michele. Da Lipsia si portarono a una data non precisata
a Potsdam, alla corte di Federico Guglielmo I. Vi si fermarono qualche
giorno, furono invitati alla tavola di quel tiranno: “È giocoso
ne’ suoi discorsi, come ebbi campo di osservare alla sua tavola,
a cui parlò moltissimo con Mylord Baltimore in modo che gl’Inglesi
potrebbon dire ch’egli ha great deal of humour”[69].
Da Potsdam raggiunsero l’ancora poco popolata Berlino e a cinquanta
chilometri a nord di Berlino, Rheinsberg, dove trascorsero otto giorni
(17-25 settembre?). Di qui attraversarono un paese “tutto sabbia”
fino ad Amburgo per ritrovarvi, come ho detto, l’Augusta e
far ritorno in Inghilterra[70].
Come si vede, trascorsero in terra russa poco più di un mese su
tre spesi nel viaggio. Non a caso, quando l’Algarotti si mise a
rievocare quelle sue lontane esperienze, nel 1760 e poi di nuovo nel 1763,
alle otto lettere ricavate dal Giornale aggiunse quattro nuove
lettere, pure fittizie, indirizzate al defunto Scipione Maffei, diede
come titolo: Viaggi di Russia. E a questo titolo fuorviante gli
editori moderni – tutti bravissimi (Trompeo, Bonora, Vincenti, Déleyan,
Spaggiari) – si sono non so perché affezionati, pur sapendo
che l’Algarotti se aveva dato per quell’edizione una buona
sistemazione al testo, non aveva potuto, a causa della morte, rivedere
l’opera stampata.
Inutile qui ripercorrere tutte le tappe dei viaggio: sono tutte ben rievocate
nei Viaggi. Entriamo piuttosto nel vivo dell’argomento. Il
primo impatto con la realtà dell’Impero avvenne a Revel’,
capitale dell’Estonia, già provincia svedese, ma da trent’anni
entrata nell’orbita russa. La pace di Nystad (1721) ne aveva assicurato
a Pietro il definitivo possesso. La Svezia mal sopportava la perdita di
quel suo granaio. E già si andava preparando a ricorrere alle armi.
Tenterà in effetti l’avventura militare nel luglio del 1741.
Ma sarà una spedizione sfortunata. Non soltanto non riavrà
le provincie contese, ma con la pace di Åbo (Turku) perderà
una striscia di Finlandia.
L’Algarotti dava in ogni caso perduta la sua causa. Il paese stava
troppo bene sotto il nuovo sovrano. Pietro era stato assai abile nel legare
strettamente a sé quelle provincie riluttanti, concedendo loro
la più ampia autonomia municipale (“Si governano con le proprie
leggi, che son quelle di Lubeck [...]”). Gli oppositori erano stati
sconfitti: “Gli scrittori di Livonia – annoterà –
che non hanno altre volte troppo ben trattato i Russi, devono ora ritrattarsi
e farne il panegirico a cagione della dolcezza del Governo”[71].
Tutti quei baroni non pensavano ormai che ad arricchire; e si arricchivano
[44] appunto grazie alla politica poco gravosa del governo: “Non
hanno per così dire gravezza alcuna”. Tutti i loro privilegi
erano stati conservati. Cosa inaudita! “Questo è il primo
popolo che io abbia udito lodarsi e benedire il Governo”. A mantenere
l’ordine pubblico provvedeva la municipalità con una propria
compagnia di soldati ed alcuni cannonieri, i quali “frammescolati
co’ Russi fanno la notte la guardia alla città”. Ai
tre reggimenti russi di guarnigione la città corrispondeva “il
quartiere e le carriole”, “il che monta a una piccolissima
somma”. Totale l’apatia politica: “Non sanno per così
dire che la Russia faccia la guerra ai Turchi e perché non contribuiscono
nulla per questa guerra e perché si conserva sugli affari e sulle
novelle un profondo secreto”.
Se i baroni ingrassavano grazie ai loro commerci granari; se gli artigiani
vi godevano una buona posizione sociale (“Dicono che è cosa
ordinaria di vedere un legnaiuolo e un fabbro i dì di festa con
un abito gallonato e colla spada al fianco”), il popolo e soprattutto
i contadini erano “orribili a vedersi: dira illuvies, immissaque
barba”. Le donne “sopra tutto quando han passato il fior
di gioventù perdono affatto i lineamenti femminili e rassomigliano
nelle fattezze come nell’abito agli uomini”. L’allusione
alla servitù della gleba era ellittica: “Si dice: un tale
ha cento rustici [...] etc. poiché i paesani sono affatto schiavi”.
Nei Viaggi la denuncia di quell’orribile sistema si farà
invece aperta e vibrante: “Quando però io le parlo, Mylord,
della felicità di questo popolo, non vorrei già io ch’Ella.
vi: comprendesse quella parte, tanto più numerosa delle altre,
che lavora la terra...”. I contadini “sono schiavi qui, come
in Polonia ed in Russia”. Il padrone “gli vende come il bestiame”[72].
Ogni “anima” (cioè famiglia) aveva un valore convenzionale:
non si dice “un tale ha tanto di entrata in contante; ma come in
Russia: un tale ha tanti mila contadini; e si fa ragione che al Signore
della terra renda un rublo l’anno ogni testa di contadino”.
Arrivato a Kronštadt, l’Algarotti si fa osservatore attento
di quella importante base navale. Le fortificazioni del castello di Kronšlot,
creato a difesa dell’isola di Kotlin, dove giaceva Kronštadt,
erano importanti: “è una delle più forti piazze che
siano al mondo”. Le opere erano tutte di legno. Ma si cominciava
a far di pietra il molo che s’andava costruendo. E di pietra. tutta
cavata dalle vicinanze di Narva, era un canale che pure s’andava
costruendo della lunghezza d’un miglio e mezzo, largo, tanto da
lasciar comodamente passare due delle più grosse navi da guerra
e di profondità proporzionata in capo al quale si trovano i docks
per trarre le navi a secco e toglierle dalla Neva, le cui acque dolci
le facevano marcire. Era un’opera veramente “da Romani”
(ne levava la pianta). Ma era necessaria? L’Algarotti ne dubitava:
“Cui bono questo canale?”. L’errore di partenza
di Pietro era stato quello di porre l’ammiragliato e l’arsenale
a San Pietroburgo: “Ma cui bono l’ammiralità
a Petersbourg?”. Una città tra l’altro così
soggetta al fuoco e così spesso ripiena d’illuminazioni e
ben più grave, che essendo la Neva [45] poco profonda il
trasporto delle navi da San Pietroburgo a Kronštadt doveva farsi
alla maniera d’Olanda, con l’aiuto cioè di un paio
di “cammelli”, ossia di pontoni posti sotto la chiglia prima
riempiti d’acqua poi svuotati: una bella spesa. Ogni paio di cammelli
costava quarantamila rubli. Un altro grande e profondo canale per condurre
i vascelli da guerra da Pietroburgo a Peterhof senza l’aiuto di
cammelli – pur esso progetto di Pietro – si sarebbe cominciato
a scavare alla fine della guerra turca. L’Algarotti faceva proprio
il giudizio degli esperti (probabilmente l’ammiraglio Aleksander
Gordon e il contrammiraglio Christopher O’Brien) e obiettava: “Ma
non sarebbe egli meglio porre a bella prima l’ammiralità
a Kronštadt o piuttosto a Revel?”. A Revel’, dove l’acqua
era salata “secondo il Baltico”, c’era una bella e grande
baia, il mare si disgelava più presto e non c’erano “tanti
cattivi siti da passare nel golfo per menar fuori la sua flotta”.
Tanto più che “il vento di sud-ovest” e di ovest “soffiando
per lo più tutta la state” rendeva difficile alla flotta
il tirarsi fuori dal golfo di Finlandia: si sarebbe anche potuto tenere
“le galere in Kronstadt” o dove sono presentemente, e fabbricare
le pranie, i vascelli a bombe e altri piccoli bastimenti a Kronštadt,
riservando i grandi a Revel’. Soluzione quest’ultima che aveva
un altro vantaggio: “Così avrebbon bisogno di navigare alcun
poco e di tenersi in esercizio: del che hanno gran bisogno”. Nei
Viaggi dirà epigrammaticamente: “Cotesta pur era la
passion dominante dei Czar; aver navi, averle grossissime, averle e fabbricarle
vicino a sé, dove meno conveniva”[73].
Tutte queste obiezioni si ritrovano pari pari nei Viaggi e di qui
saranno tolte e fatte proprie dal cavalier De Jaucourt nella sua voce
Petersbourg dell’Encyclopédie. Non ne tenne
conto invece, come pur aveva promesso, Voltaire nel secondo tomo della
sua Histoire de I’Empire de la Russie sous Pierre le Grand (1763)[74].
Gli architetti navali erano inglesi (e scozzesi), francesi quelli militari,
italiani i civili. Una nave però l’Algarotti vide fabbricata
da un russo. Inglese era Richard Brown che aveva appena costruito l’Anna,
di centoquattordici pezzi di cannone, “la più gran machina
che sia forse in mare, che meriterebbe per teatro l’Oceano non questo
fosse pieno di scogli e di secche” che era il golfo di Finlandia.
Ma “una delle più belle navi che veder si possano”
era la Pietro I e II, di cento pezzi di cannone, fabbricata sul
disegno del gran Pietro. La poppa specialmente era “superba”.
Da buon allievo di Mauro Tesi, ne fissò sveltamente l’immagine.
Al comando di quella nave l’ammiraglio Gordon era entrato in Danzica
nel 1734. Per la verità, benché vittoriosa della flotta
franco-svedese, quella “piteuse exhibition” non meritava certo
di figurare tra i fasti della marina russa.
Fabbricavano le navi con i pezzi già tagliati delle querce che
venivano per acqua da Astrachan’, e fabbricavano allo scoperto,
“il che in un paese soggetto alle grandissime vicende di sommo freddo
e di sommo caldo come questo non può avere che pessime conseguenze
per la durata della nave”. In genere duravano dai dodici ai quattordici
anni. Kronštadt era un mezzo [46] cimitero: delle cinquantacinque
navi alla fonda in quel porto soltanto diciotto o venti erano in stato
di servire. Tutte le altre, compresa la Caterina, la nave prediletta
di Pietro, erano ridotte a pittoresche carcasse. E quelle poche in grado
di prendere il mare – quel mare insidiosissimo – mal servivano
per la crudele scarsità degli equipaggi. Dei dieci o quindici mila
che erano, i marinai si erano ridotti a soli cinquecento. E con cinquecento
marinai “non so quali grandi spedizioni potranno fare”. Gli
altri erano tutti periti nei mari e nelle paludi intorno ad Azov.
Questo deperimento della marina era dovuto alla disastrosa scelta dei
tedeschi al governo, poco ben disposti verso quella che era stata la più
antica e preferita delle creazioni di Pietro: “Hanno perduto [...]
quasi tutta la loro marina, voglio dire i marinaj”; avevano disarmato
l’importante arsenale di Kazan’; e quanto all’ammiragliato
di San Pietroburgo, al quale Pietro aveva assegnato trecentomila lire
sterline di rendita, che non doveva per nessuna ragione essere “convertita
in altro uso”, era stata invece intaccata per alimentare la guerra
russo-turca. Insomma – dirà nei Viaggi – “l’opera
degl’Inglesi; che presiedono qui alle cose di mare, è stata
come distrutta dalle imprese dei Tedeschi, che sono alla testa delle cose
di terra”[75]. E buoni
marinai non si formano con tutta la buona volontà da un giorno
all’altro. Per allevare, in quel paese di contadini, quelle “piante
esotiche” occorrevano infinite cure[76].
Pietro era riuscito a compiere il miracolo. L’Algarotti, al principio
dubbioso, aveva dovuto ammetterlo: “Il problema a buon conto che
sieno diventati essi buoni marinai” era sciolto[77].
A Helsingor un ufficiale danese che era stato a bordo dì una delle
loro fregate a Danzica nel 1734, gli aveva detto “meraviglie della
disciplina navale russa”. “Ogni cosa – così si
era espresso – andava come per via di suste”. Aveva ammesso
perfino che erano diventati “molto migliori marinaj che i Danesi”[78].
La loro marina mercantile meritava di stare alla pari di quelle più
famose: “il non avere un gran commercio fin ora in parti e in mari
estremamente remoti, come gl’Inglesi e gli Ollandesi hanno, non
gli ha ancora fatti pervenire alla fama loro”[79].
La loro forza principale sul mare erano rimaste le galee, che avevano
permesso a Pietro nel 1719-1721 di invadere e devastare la Svezia. La
costruzione in gran numero di quegli agili legni era stata una delle più
intelligenti iniziative dello zar, che al principio (1713) si era servito
di maestranze veneziane. Un superstite di quei fabbricatori di galee l’Algarotti
aveva avuto la sorpresa di incontrare nell’Arsenale. Il vantaggio
delle galee sulle navi grosse era che i soldati stessi ne erano i “remiganti”.
Ne avevano allora tra grandi e piccole cento trenta. Armate tutte di due
pezzi di artiglieria, del cannone di corsia e di falconetti dalle sponde,
potevano trasportare un esercito di trentamila uomini. La destrezza dei
Russi non temeva confronti. Semplici soldati, con l’uso della sola
accetta, sapevano costruirne di bellissime. Tutti quei natanti ausiliari
non potevano però compensare l’indebolimento dell’armata
di guerra. Benché il paese non avesse bisogno di una gran flotta,
[47] molto giovava nelle relazioni internazionali l’essere
creduti potenti sul mare[80].
Se non si poteva trasformare da un giorno all’altro i contadini
in marinai, molto più facile era trasformarli in soldati. L’uomo
russo si prestava meravigliosamente a quella metamorfosi: “la sobrietà,
si contentavano di nutrirsi con pane e sale, la pazienza della fatica
e l’assuefazione alle maggiori durezze e alle maggiori vicissitudini
dal freddo al caldo, la bravura o più tosto una certa durezza che
li rende insensibili alla morte” ne facevano le migliori truppe
d’Europa[81]. Se la
fanteria e l’artiglieria non temevano confronti, meno brillante
era la cavalleria per mancanza di buone cavalcature. Ma potevano contare
sul potente ausilio dei cavalieri Cosacchi e Calmucchi. Nel paese si fabbricavano
fucili a bassissimo costo e migliori di quelli di Sassonia; la polvere
da sparo non costava “si può dire nulla”. Alla Russia
dunque fare la guerra costava meno che agli altri stati europei:
Buon’arme e munizioni, militari a buon mercato, picciolo stipendio
pe’ suoi soldati, non gran cura de’ magazzini e perciò
poco pensiero di far sussistere le armate, scoglio altrove delle militari
imprese, gente robusta e dura e mascula militaris progenies.
Questo spiegava in parte il fatto che la Russia fosse ininterrottamente
in guerra da quarant’anni, e senza imporre gravezza alcuna: tanto
erano grandi le rendite dal suo impero[82].
I soldati apprendevano il loro duro mestiere sulla linea del fuoco, senza
esservi stati prima addestrati. Né tutti i generali, come l’irlandese
Peter Lacy, cercavano di risparmiarne la vita; il tedesco Burchard Münnich
in particolare si mostrava affatto “prodigo del sangue”. Nelle
ultime campagne contro i Turchi aveva sacrificato centomila vite umane:
Le perdite che han fatto per le eccessive fatiche, per le marcie forzate
ne’ deserti, per la mancanza d’acqua di cui hanno fatto senza
talvolta tre giorni interi, soprattutto di giovani soldati son grandissime[83].
Per riempire i vuoti il numero delle reclute levate durante quella guerra
era “spaventoso”: trecentomila. Mancavano stabilimenti per
gli invalidi come in Francia. Soltanto per i marinai era stato adattato
a ospizio l’Orangerie già del Menšikov[84].
Gli ufficiali erano a migliaia tedeschi (cinquemila) e di altre nazioni.
Ma il Münnich nel 1731 aveva creato, sul modello dei mousquetaires
di Francia, un Collegio di Cadetti per giovani nobili, che avrebbe dovuto
essere “un semenzaio di ufficiali”. Istituzione tuttavia esattamente
contraria allo spirito della riforma petrina dell’esercito, che
aveva disposto che tutti servissero in partenza nei gradi inferiori.
Il “fiore” di tanto esercito – “dieci mila uomini
delle più belle truppe che veder si possono” – erano
i tre reggimenti della guardia: i due creati da Pietro (il Preobraženskij
e il Semenovskij) e il terzo creato da Anna, l’Izmailovskij
più l’Ingermanlandskij, quasi un quarto. L’Algarotti
vide quei soldati scelti compiere in maniera impeccabile gli esercizi
militari nelle loro eleganti uniformi di parata (gialle, nere e argentee);
e se ne entusiasmò[85].
Il loro còmpito principale era proteggere la sacra persona dell’Imperatrice.
Ma il [48] loro potere andava ben al di là della sua protezione.
Come i loro predecessori strel’cy, spenti orrendamente da
Pietro, avevano un enorme potere politico, come si era visto nel caso
di Caterina I, di Pietro Il, di Anna Ivanovna: “danno e tolgono
l’imperio a posta loro”. Erano, in breve, i “pilastri
del despotismo”, questa novità. La situazione non era diversa
nel 1760.
In principio era dunque la libertà – la partecipazione del
paese all’esercizio del potere – soffocata in seguito dalla
creazione di “milizie perpetue”. Schema tipicamente liberale.
In Russia il potere dello zar era stato limitato, fino all’avvento
del primo dei Romanov – Michele III –, dallo Zemskij Sobor.
La creazione degli strel’cy aveva tolto a questo “senato”
ogni peso nella conduzione degli affari:
Furono instituiti [gli strel’cy, N.d.A.] verso il principio
del secolo passato a’ tempi di Michele Federowitz per contenere
il Sobor, o Senato, che livellato avea la potenza dei Czar a quel
segno di autorità che hanno presentemente i Re di Svezia[86].
Alludeva alla costituzione del 1720, dettata a Ulrica Eleonora dal Riksdag,
che aveva inaugurato quello che nella storia svedese è chiamato
il Frihetstid[87].
Durerà fino al 1772, alla prise du pouvoir cioè di
Gustavo III. In realtà lo Zemskij Sobor era stato formalmente
istituito da Ivan IV il Terribile nel 1549, lo stesso sovrano che aveva
dotato l’esercito moscovita dei primi reggimenti permanenti: gli
strel’cy ossia moschettieri. Questo istituto, tipico dell’età
moscovita, inizialmente scelto dallo zar ma divenuto nel secolo XVII elettivo,
non poteva propriamente dirsi un senato, ma piuttosto un’assemblea
simile agli Etats généraux in Francia e alle Cortes
iberiche. Gli zemskie sobory furono convocati spesso dal Terribile:
nel 1549, nel 1566, nel 1575 e forse nel 1580[88]
.
Si trattava di un’assemblea consultiva o di un organo deliberante?
Ancora se ne discute. È un fatto che nel 1598 uno Zemskij Sobor
aveva incoronato Boris Godunov e un altro nel 1613 aveva insediato sul
trono un Romanov. Su preghiera del giovane principe, lo aveva anzi assistito
per dieci anni nel disbrigo degli affari. L’Uloženie
(la raccolta fondamentale delle leggi russe) era stato proclamato, regnante
Aleksej, nel 1649 per iniziativa e decisione di uno Zemskij Sobor.
Una cosa è certa: questa assemblea numerosa, quali che fossero
i suoi poteri e l’estensione della sua autorità, cominciò
a essere esautorata quando il potere centrale, divenuto assoluto, non
tollerò più una qualunque forma di controllo da parte del
paese. La stessa sorte, e per le stesse ragioni, era toccata assai prima
ai suoi omologhi occidentali. E chiaro a ogni modo l’ideale politico
dell’Algarotti, conservato intatto fino ai suoi ultimi giorni, nell’età
cioè del despotismo “illuminato”. Lo aveva formulato
già nel 1737 nella prima edizione del Newtonianismo[89]:
la libertà del popolo (assemblee elettive) conciliata con la superiorità
dei grandi e con l’autorità del sovrano sull’esempio
– è ovvio – dell’Inghilterra e quello –
meno ovvio all’epoca – della Svezia. Quest’ultima diverrà
di moda dopo il 1756, dopo cioè il fallimento del colpo di stato
di Adolfo I e di Luisa [49] Ulrica (la sorella di Federico II)[90].
L’Algarotti, per parte sua, nei Viaggi raddoppierà
le sue manifestazioni di simpatia: “Incredibile [...] è il
numero de’ vascelli Svezzesi che navigano presentemente; dove a’
tempi del despotismo se ne vedeano ben di rado”[91].
Questo nuovo fervore di attività era effetto diretto della libertà:
“Ella [lord Hervey, N.d.A.] sa per altro, Mylord, quanto da alcuni
anni in qua si sieno rivolti gli Svezzesi al mare, alle manifatture, ai
traffici. Sono queste le arti che veramente allignano ne’ paesi
liberi, come ora è la Svezia”[92].
La sua tesi di fondo.
La Russia nel 1730 aveva tentato di battere la stessa strada; ma quel
tentativo di regime costituzionale era purtroppo abortito:
Si può dire in generale che la cosa che in Russia è portata
a maggior perfezione è l’arte militare e tutto ciò
che appartiene all’armata; e se i Russi non hanno ora gran generali
eglino stessi, come ne ebbero al tempo del Czar nella prima infanzia,
dirò così della nazione, ciò dee attribuirsi all’oppressione
de’ Tedeschi sotto a cui gemono e alla politica forse del governo
stesso, che vuole innalzare a così importanti dignità de’
forastieri, la cui fortuna è totalmente innestata col presente
stato di cose e non que’ Russi che vollero già, animati dal
dolce e naturale disio di liberarsi, ridurne il governo a quella forma
di Repubblica appresso a poco che è in Isvezia, all’avvenimento
alla corona della presente Imperatrice[93].
Il tema della depressione o addirittura della persecuzione dell’elemento
nazionale – il tema dell’opposizione al regime di Anna e del
favorito Biron – è un motivo costante nel Giornale:
“Se un Russo ha qualche abilità è forzato d’impegnarsi
in qualche Collegio malgrado suo o ad essere scrivano o un miserabile
subalterno, perdendo in tal modo la libertà né concependo
nessuna speranza di avanzamento”. A nulla serve un buon tirocinio
europeo, al contrario: “se ritorna alcuno da’ paesi forastieri,
dove abbia fatto a poter suo per attirarsi la stima, e la buona opinione
del ministro che lo ha impiegato, in luogo di crescere di posto, ritorna
più tosto indietro, quando è di ritorno a casa”. C’erano
“degli esempi tragici di tali Russi che han finito la miseria loro
con un laccio al collo”[94].
La Russia viveva insomma in un regime di occupazione militare da parte
di un gruppo di stranieri (tedeschi e protestanti) che cercava in modi
violenti di “mantenersi quella maggioranza e quell’autorità
di cui è in possessione, senza che ci sia il consentimento libero
del Senato e dei Grandi”. Perciò quel governo, nato per acclamazione
di “pretoriani” , senza nessun legame col paese profondo,
“ha da essere più militare che altro, e imperium armis
acquisitum armis retinendum [...]”.
In effetti l’Algarotti conobbe, e descrisse accuratamente, la Russia
alla fine del decennio più tragico di quel secolo[95]:
nell’epoca cioè del “bironismo” (bironovščina),
del pesantissimo regime di terrore instaurato dal favorito Biron: “Il
governo è il più arbitrario e lo più spaventevole
che sia forse al mondo”. Sistematica l’umiliazione della nobiltà:
Tutti quelli che [50] sono gentiluomini debbono andare malgrado
loro alla Corte e fare ciò che a lei piace di loro; talché
si ponno chiamare veri schiavi, e quelli che sono usciti dal loro paese
sentono l’infelicità loro più che gli altri, né
lasciano di deplorarla, massime quando hanno un po’ bevuto”[96].
Si poteva dire che la nobiltà russa “è tutta rovinata
e posta fuori del caso di esser temuta”[97].
Tutti coloro che avevano “fatto figura nel regno di Pietro”
avevano avuta la sorte dei “papaveri di Tarquinio”[98].
Non si mostrava a San Pietroburgo “casa di gran signore che non
vi si aggiunga che il padron suo o morì in Siberia o è rilegato
in una fortezza, o che non se ne sa più novella alcuna. Heu
fuges crudeles terras!”[99].
In breve: “I signori sono gli schiavi della corte come i paesani
lo sono dei signori”[100].
Sono – è cosa degna di segnalazione – le stesse parole
che userà Montesquieu nelle Lois, quando già era
cominciato il regno “nazionale” di Elisabetta e i tedeschi
erano stati estromessi dai vertici del potere; “Le peuple n’est
composé que d’esclaves attachés aux terres, et d’esclaves
qu’on appelle ecclésiastiques ou gentilshommes, parce qu’ils
sont les seigneurs de ces esclaves”. Non restava nessuno “pour
le tiers état, qui doit former les ouvriers et les marchands”[101].
Guardava con simpatia agli sforzi compiuti dal nuovo governo per “sortir
du despotisme, qui lui est plus pesant qu’aux peuples même”.
E citava alcune delle riforme più importanti: “On a cassé
les grands corps de troupes; on a diminué les peines des crimes;
on a établi des tribunaux; on a commencé à connoître
les loix; on a instruit les peuples”. Ma non si faceva troppe illusioni
sui risultati di quegli sforzi: “Mais il y a des causes particulières,
qui le ramèneront peut-être au malheur qu’il [vouloit]
fuir”[102].
Punto nero nella costituzione voluta da Pietro: la mancanza di una legge
fondamentale per la successione al trono. Era stato ben lui, una volta
soppresso Alessio, ed escluso il figlio di lui dalla successione, ad abolire
nel 1722 il diritto di primogenitura e a proclamare che stava in petto
dell’imperatore di nominarsi il successore, “quando anco muojano
senza eredi”. Eppure – dirà ancora Montesquieu, –
“l’ordre de succession” era “une des choses qu’il
importe le plus au peuple de savoir”. E faceva indubbie allusioni
(sfuggite ai commentatori) a quanto era accaduto in Russia a causa di
quella sciagurata decisione di Pietro: “Une telle disposition arrete
les brigues, étouffe l’ambition; on ne captive plus l’esprit
d’un prince faible, et l’on ne fait pas parler les morts”[103].
Tra l’altro la Corte imponeva un lusso rovinoso:
Altre volte i boiari erano obbligati dal Czar a far costruire un vascello;
ora sono obbligati a fare un certo numero di vestiti per anno pe’
giorni di gala alla Corte; ed ultimamente per le feste del matrimonio
i ciambellani, genere di cui non è il più soggetto né
il più schiavo al mondo, otto in tutto condannati a una perpetua
catena, ebbero ordine di fare 4 abiti ciascuno ricchi il più che
si potesse mai, di avere quattro staffieri e due lacchè ciascuno
con nuove livree.
Per fortuna, quell’ostentazione forzata di ricchezza si limitava
agli abiti: “Guai alla [51] Russia se il lusso fosse negli
equipaggi, nelle carrozze e ne’ mobili delle case come lo è
nei vestiti”. La bilancia dei pagamenti ne sarebbe stata ancor più
squilibrata: “Ma bisogna dire – commentava agro – che
come sono magnifici negli abiti, altrettanto sono meschini nelle carrozze
e succidi nelle loro case”[104].
Si poteva dire che, a parte qualche raro gentiluomo, “il resto abita
nel succidume e nella bruttura”.
Se il regime, per così dire, di occupazione militare spiegava le
atrocità del governo, lo stesso creatore della nuova Russia non
andava esente da censura:
Per l’umanità ancora può dirsi non già che
molte delle severe esecuzioni ch’egli fece non fossero necessarie
per castigare i ribelli che di tempo in tempo contro di lui sorgeano e
per avanzare la grand’opera della riforma ch’egli far volea
(se pure la pulitezza e la scienza s’introduce in un paese a forza
di bastone e di forca); ma non era già necessario ch’egli
stesso assistesse in persona alle esecuzioni e ne facesse molte di sua
propria mano[105].
Obiezione sensata, che troviamo in un fine studioso contemporaneo dei
mondo russo, Alain Besançon: “In Europa, ed anzi persino
in Asia, è mai accaduto che un re abbia trasformato il suo palazzo
in camera di tortura, come fece Pietro il Grande? O che abbia accettato
di adempiere personalmente l’ufficio di boia?”[106].
Malgrado la sua brutalità e diciamo pure la sua ferocia, poteva
dirsi tuttavia
ch’egli avea fatto molto e che niuna nazione così prontamente
emerse dalla barbarie conte fe’ questa, il che io attribuisco in
grandissima parte al despotismo del gran Czar e alla grandezza e forza
naturale della nazione benché barbara; le quali due cose poste
insieme doveano dar gran segni di mutazione se mai veniano a mutarsi e
farlo sentire al mondo, dirò così, a gran colpi[107].
Tutti gli autori francesi che avevano potuto consultare – tutti,
compreso il mite abbé de Saint Pierre (Réflexions [...]
sur CharIes XII, 1734) – giudicavano la despoticité
(è il termine usato dal Saint Pierre) uno strumento di progresso.
Così Fontenelle, che tessé nel 1725 l’elogio di quell’illustre
confrère all’Académie des Sciences;
così l’amico Voltaire nella sua Histoire de CharIes XII
(1731)[108]. Tutto nuovo
era però il riconoscimento della “grandezza e forza naturale”
della nazione che lo aveva assecondato. Alle manifestazioni di crudeltà
andavano del resto unite in quell’uomo dall’energia incontenibile,
forme patologiche di sentimentalismo: scendeva, per esempio, dalla sua
sedia “per seguire un morto che vedesse passare per la strada a
piangere col resto della processione”[109].
Una delle sorprese del Giornale è il ritratto benevolo dell’anima
nera del regime: Biron, che da poco Augusto III aveva fatto duca di Curlandia:
“Egli è un uomo di assai buon senno e di buona condotta,
e per la gratitudine che mostra alla sua benefattrice e per la maniera
onde si comporta fra’ Russi, fra’ quali si contenta senza
volere altro impiego di essere il favorito della lor sovrana, pronto a
giovare e tardo a nuocere, imbarazzato per altro a fare il personaggio
di sovrano, senza educazione né disinvoltura [52] alcuna
ed amante oltre modo i “buffoni maghi”, de’ quali questa
corte abonda”[110].
Sull’Imperatrice, per la quale abbiamo visto l’Algarotti smaniare
sfacciatamente con il Kantemir, era invece prudente rilevandone con acume
i difetti: “Ella è oltremodo divota, amante del lusso e del
fasto e della gloria, protettrice di buffoni, sprezzante di bassezza e
nimica, cred’io, degli affari, sui quali si confida col duca”.
Non gli sfuggì neanche il carattere violento dei suoi svaghi: in
particolare, il tiro a segno “nel che è peritissima”[111].
Assidua frequentatrice di vescovi (“si baciano vicendevolmente la
mano”) essa aveva tuttavia fatto di recente una legge intesa a diminuire
il numero dei monaci in linea con le intenzioni di Pietro[112].
Sui monaci, il giudizio dell’Algarotti non è meno ostile
di quello dei Locatelli, e forse ne è un ricordo[113].
Quelli del convento di San Aleksandr Nevskij – “gran fabbrica
senza gusto e senza simmetria” disegnata da Pietro – si mostravano
“divoti a questo santo e all’acquavite”, “ben
pasciuti, lucidi e grassi”. Vescovi e monaci erano ignoranti “come
prima”. Il vescovo che aveva tenuto il sermone dinnanzi all’Imperatrice
il giorno dei matrimonio “fu riguardato come un prodigio di erudizione
perché mostrò sapere la genealogia della casa di Wolfenbuttel”[114].
Ma si erano mostrati, durante le feste, compìti uomini di mondo.
Curioso era il trono collocato nel fondo della grandissima sala del Palazzo
d’Inverno, tutta dorata e dipinta, dove l’Imperatrice dava
le udienze: “parte nel gusto di un trono e parte di altare, e perciò
conveniente all’Imperatrice [...] e al sommo Pontefice”[115].
Ne fissò l’immagine. Lo stato doveva in ogni modo conservarsi
laico, e non interferire in materia di fede: “benché qui
l’Imperatore come Capo [...] della chiesa possa a piacer suo dogmatizzare
e definire, egli è però meglio che il Santo Sinodo non gli
dia questa noja”[116].
“La corte, come dicemmo, è sempre la stessa trista e meschina,
piena di baciamani, di umiliazioni, di serietà e di noja e coperta
di valdrappe d’oro e d’argento”. Le dame che la frequentavano
erano generalmente delle belle. Belle del resto erano tutte le russe,
“molto più piccanti delle altre bellezze del Nord”.
Purtroppo, “la schiavitù in cui generalmente sono in questo
paese e la mala educazione che ricevono non le lascia essere aggradevoli
come senza ciò sarebbino”[117].
L’emancipazione femminile, anche per Montesquieu, avrebbe favorito
l’evoluzione del sistema russo di governo verso forme temperate:
“Le despotisme du prince s’unit naturellement avec la servitude
des femmes; la liberté des femmes, avec l’esprit de la monarchie”[118].
Delle dame della corte, due colpirono Algarotti: Anna Leopol’dovna,
la sposa del giorno, e Elisabetta. Gran simulatrice, costei fingeva di
accettare di buona grazia l’esclusione dal trono: “La povera
Principessa Elisabetta, figlia del gran Pietro, porta la sua croce in
santa pace e ne tempera l’amarezza e il peso con molta affabilità
e cortesia”[119].
Di Anna l’Algarotti era invece [53] infatuato: “La
principessa Anna è bella e ha un non so che di piccante nella fisionomia
che piace ed alletta più che la bellezza stessa”. Era ambiziosa
certo (“Ella ha l’aria d’esser volonterosa anzi che
no”), ma aveva motivo di esserlo: “ottimamente educata e piena
di grandi idee”, faceva molto sperare di sé: “se questa
sarà Imperadrice, come è verisimile, sarà l’Elisabetta
[Tudor] del Nord colla sola differenza ch’ella avrà con cui
far razza ch’ella però dall’altezza sua disdegnava
assai”[120]. Non poteva
prevedere quanto spietato sarebbe stato tra poco l’urto di quelle
due donne.
Il despotismo impediva lo sviluppo culturale: “Quanto alle lettere
io credo ch’elleno sieno incompatibili colla natura d’un governo
come il russo”[121].
Non vi era un russo tra gli accademici delle scienze a tredici anni dalla
fondazione di quell’istituto; i corsi pubblici di astronomia tenuti
dall’unico francese tra tanti tedeschi che gremivano l’Accademia,
Jean-Nicolas Delisle, andavano deserti. L’Accademia era però
una cittadella soprattutto di matematici, e di alti matematici (Daniel
Bernoulli, Eulero...) un luogo chiuso, esclusivo. Per scuotere l’apatia
o l’indifferenza agli alti studi occorreva una forte stimolazione
dall’alto, o semplicemente scuole per tutti[122].
Ma era impensabile che quel governo così despotico, che esigeva
“un’implicita obbedienza” ne prendesse l’iniziativa:
temeva che l’“ornare e coltivar lo spirito del popolo”
provocasse una meno pronta e cieca obbedienza. Eppure l’esempio
della Francia avrebbe dovuto disperdere quei timori. Lo stato francese
era anch’esso despotico e restrittivo della libertà di pensiero[123].
Ma, nonostante “una certa universal cultura”, il popolo era
ubbidiente, anzi era un “monumento” di ubbidienza, di devozione
alla corona[124]. Non sapeva
però lui stesso quanto valesse questo confronto: “non si
può indi nulla concludere”[125].
Nel resoconto della visita all’Accademia, l’Algarotti dedica
molto spazio a quanto venne a sapere della memorabile esplorazione della
Siberia e dell’Estremo Oriente che la Russia andava compiendo. Nessuno
però gli fece notare quanto alta e qualificata fosse la partecipazione
dei Russi a quell’epica impresa, che proprio in quegli anni, nel
decennio 1733-1743, stava toccando il suo apice: la seconda spedizione
di Bering aveva messo in moto almeno seicento persone[126].
Tra l’altro, quelle gigantesche imprese – le più costose
che mai Stato avesse finanziato – erano la causa delle poco floride
condizioni dell’Accademia sul bilancio della quale gravavano. Inoltre
i dissidi interni e soprattutto i cattivi trattamenti che avevano ricevuto
avevano indotto alcuni membri alla fuga, rendendo l’istituzione
in quel momento poco brillante[127].
Gli esperimenti da essa promossi erano o futili o cervellotici[128].
Ma possedeva almeno delle ragguardevoli raccolte: quella di molti disegni
di animali e piante della Siberia e le due – quella dell’impareggiabile
imbalsamatore Ruysch[129]
e quella adunata dall’instancabile cacciatore di rarità naturali
che era stato l’olandese Albert Seba – che Pietro aveva acquistato
all’epoca del suo secondo viaggio europeo (1717)[130].
La grande opera [54] alla quale lavorava da dodici anni Joseph-Nicolas
Delisle era la confezione di una nuova carta dell’Impero, migliore
di quella delineata dal suo miglior fratello Guillaume, l’ascoltatissimo
amico di Pietro. I Delisle, questa grande famiglia normanna di geografi,
erano – annota l’Algarotti – “destinati a descrivere
ai principi la Terra”[131].
Quell’Atlante Accademico, che i più moderni biografi asseriscono
essere stato da lui lasciato inconcluso, uscirà invece nel 1745
e rimarrà insuperato nella descrizione delle coste settentrionali
della Siberia fino al 1878, allorché il Nordenskjold vi apportò
qualche lieve correzione[132].
L’Algarotti non rimase indifferente a quel grande lavoro di ricognizione
e si mostrò curioso dei risultati della seconda spedizione di Bering
e delle tre partite in quegli anni per meglio definire la zona tra l’Ob,
lo Enisej, la penisola di Tajmyr e la parte meridionale della Novaja Zemlja[133].
Ed esaminò con diletto i materiali – libri, medaglie, manufatti
– provenienti da Calmucchi e da Mongoli. Tra l’altro egli
ebbe la ventura di conoscere il giovane giapponese Gonza, un naufrago,
battezzato nel 1734 con il nome di Damian Pomorzef, l’animatore
unico della “Scuola per lo studio del giapponese” creata nel
1736 presso l’Accademia delle Scienze. Di lì a poco, in età
di appena 21 anni, il giovane mori, e con lui la scuola[134].
Della Cina e della Tartaria ammirò la “grandissima carta”
fatta dai gesuiti (il Novus Atlas Sinensis, 1655 del padre M. Martini?)
ed alcune carte celesti disegnate da cinesi “nelle quali i nomi
che danno alle costellazioni sono tutti tratti dall’Impero Cinese,
unico mondo per loro”[135].
Battuta fulminante sull’autocentrismo della cultura cinese.
Gli effetti del despotismo erano visibili nell’assetto urbano di
San Pietroburgo. Una città come questa, che godeva di un’invidiabile
situazione, avrebbe potuto diventare “una delle più belle
città del mondo”. Ma era stata edificata con tale malgarbo,
con tale fretta e con tanto scadenti materiali che era già tutta
decrepita: “la poca cura che generalmente hanno nel fabbricare;
il farlo come fanno forzatamente, è cagione della maniera meschina
con cui son fabbricate le lor case”[136].
Il governo intimava che venisse fatto questo o quello; e “bene o
male” era obbedito. Gli ordini impartiti da un potere così
assoluto erano altrettanti fiat. Purtroppo “l’ubbidienza
non produce gran bene”. Le case da poco costruite già andavano
ricostruite. Lo stesso Nuovo Palazzo d’Inverno (era il terzo), la
maggior fabbrica della città, modesta opera del giovane Bartolomeo
Rastrelli, non era ancora terminato che fra poco si sarebbe dovuto ricostruire
(previsione avverata)[137].
Quanto al suo stile, a un odiatore del barocco qual era l’Algarotti,
non poteva che riuscire sgradito[138]:
“l’architettura di questo Palazzo è mezzo italiana
e mezzo francese o piuttosto del moderno e sciocco gusto italiano, come
sono la maggior parte delle fabbriche in Petersbourg”[139].
Ricordò con lode la “grandissima sala di cento ottanta piedi
di lunghezza, tutta dorata e dipinta. Ella è tutta intorno ornata
di colonne d’ordine corinzio fra quali resta nel fondo il trono
[...]”[140]. Era qui
che si fece nelle feste del matrimonio la “gran cena, rilevata [55]
d’un gran concerto di musica istrumentale e vocale”. Anche
la galleria era “una bella stanza ornata tra il gusto italiano e
francese, dorata tutta con grandi lampade di cristallo e parquetée
alla francese come pure la sala”. In essa “si cangiarono gli
anelli degli sposi dopo la grande udienza, qui si danzò e qui un’altra
sera vi fu una tavola per li quadrilli delle mascherate, la meglio intesa
e del meglio gusto che mai immaginar si possa”[141].
Nella gran sala vi erano tappezzerie fatte dai Russi: “Non si può
dire che il lavoro né sia troppo perfetto né tampoco il
disegno, che è dei più abominevoli”. Molto migliori
le tappezzerie di seta della Cina “nelle quali è tessuta
carta d’oro e d’argento”: “il che fa un assai
aggradevole effetto alla vista”[142].
Bella era la Cattedrale dei Santissimi Pietro e Paolo dentro la fortezza
(“ella è più tosto per comandar la città che
per difenderla”): opera del ticinese Domenico Trezzini “si
può dir molto bella per questo paese e nel cui vestibolo vi hanno
delle colonne di marmo (cosa insolita e rara qui [...])”[143].
Ammira questa volta senza riserve i tre giardini della città, “elegantissimi
tutti, distinti di viali coperti di berceau, di boschetti, di canali,
di laghetti, di aviari, di piscine, di fontane e di parterre”. Nelle
stufe e nelle varie tende turchesche disseminate qua e là vi erano
“ogni sorta di frutta e piante rare”. Nella celebre “grotta”
del giardino del Palazzo d’Inverno vi era qualche pezzo antico non
spregevole. L’Algarotti aveva notato in particolare due statue velate
del virtuosistico scultore padovano vivente Antonio Corradini –
la Religione e la Fede – “molto belle per la
delicatezza e sottigliezza del lavoro”. Notevole il giudizio sui
meravigliosi giardini di Peterhof, classificati di solito dagli studiosi
(perché disegnati da tre francesi: l’architetto Le Blond,
il pittore Pillement, lo scultore Nicolas Pineau) come giardini alla francese[144].
L’Algarotti, buon conoscitore, annota: “La casa [Monplaisir,
N.d.A.] è picciola, belle le acque, i giardini di gusto tedesco
e la vista la più piacevole dei Nord”[145].
La città possedeva due teatri: uno sul fondo del giardino del Palazzo
d’Inverno “dove altre volte faceasi la commedia” (ossia
la commedia dell’arte)[146]
e quello grande, bello e capace due volte il teatro dell’Opera di
Parigi, del Palazzo d’inverno, dov’era ospitata dal 1735 la
grande orchestra e coro diretti dal maestro napoletano Francesco Araja,
compositore di buona scuola. Dall’autunno del 1738 però,
per il congedo di diversi artisti, l’Araja non poté più
mettere in scena grandi spettacoli teatrali (l’opera in musica annoiava
l’imperatrice) e aveva limitato la sua attività alla musica
di corte: cantate, pastorali, intermezzi[147].
E una pastorale, Endimione e la luna, eseguì in occasione
delle feste. La musica parve all’Algarotti “assai indifferente”[148].
Una lunga sezione del Giornale è dedicata all’esame
dell’economia russa (risorse, popolazione, commercio, industrie)
e della sua posizione internazionale[149].
Non era stato facile raccogliere notizie su queste materie. Il governo
era gelosissimo dei suoi arcani: “non v’ha paese al mondo,
in cui il segreto intorno alle cose di stato e alle bagatelle ancora sia
più invincibilmente [56] guardato”. Ma l’Algarotti
aveva i suoi bravi informatori: l’ammiraglio Aleksander Gordon;
il contrammiraglio Christopher O’Brien; Claudius Rondeau, già
console generale (1728) poi dal 1731 residente della Gran Bretagna e il
suo segretario Mister Bell; il ministro austriaco Botta; il mercante inglese
Crammer, presso il quale alloggiavano; il barone Lang...[150].
Ormai sicura dentro i confini del suo immenso impero, la Russia non aveva
più da temere aggressioni da parte dei suoi vicini, in Europa e
soprattutto in Asia[151].
Insensata sarebbe stata la ricerca di ulteriori espansioni territoriali,
“avendo più bisogno questo paese di restringersi per così
dire che di dilatarsi viappiù”[152].
Tant’è vero che nel 1735 aveva dovuto abbandonare le conquiste
fatte da Pietro nella regione dei Caspio[153].
Poteva dunque deporre la spada e dedicarsi alle arti della pace[154].
In primo luogo, occorreva ripopolare il paese, l’Ucraina soprattutto,
stremato da quarant’anni di guerra: “Non si può dire
quanto la pace sarebbe desiderabile per questo Impero”. Sempre “che
saranno in guerra, come dal principio del secolo il sono quasi di continuo
stati, non potranno giammai godere pienamente i frutti della riforma del
gran Pietro”[155].
A questo fine, il dimezzamento degli effettivi dell’esercito era
una necessità. Una truppa regolata di centoventimila uomini era
il massimo che un paese di così enorme estensione potesse permettersi.
Occorreva lasciare almeno dodici milioni di “gente utile”,
cioè produttiva, sugli appena diciassette o diciotto milioni (stima
troppo generosa) che popolavano tutto l’Impero[156].
Tra le armate, era comunque la marina ad aver bisogno di maggiore attenzione[157].
Il lusso – quella folle passione delle mode francesi che da dieci
anni in qua si era impadronita degli uomini e soprattutto delle donne
russi – andava represso adottando severe leggi suntuarie[158].
Bisognava infine promuovere l’agricoltura e le industrie del paese
– le minerarie innanzi tutte, ma anche quelle d’armi e di
panni – e liberalizzare il commercio. Era questo un punto essenziale.
I vecchi metodi di Pietro – che si diceva avesse una volta dichiarato
di “non aver mai potuto intendere che cosa egli fosse” –
e quelli poco diversi dei suoi successori (“né ora, cred’io,
lo intendon meglio”) andavano abbandonati. Finora il commercio era
stato, se non proprio perseguitato, almeno non incoraggiato a dovere.
I mercanti non godevano di nessun prestigio sociale. Quelli che avevano
acquistata qualche fortuna con i loro traffici, per evitare le avaníe
e i soprusi del potere, preferivano sotterrare i loro denari piuttosto
che innalzare belle dimore. Oltretutto, quello stato così forte
metteva in circolo una moneta vile: il rublo, la “più infame
moneta che sia al mondo, moneta di rame”[159].
I governanti dovevano convincersi che il commercio, soprattutto il grande
commercio, ha bisogno di libertà[160].
Non era sufficiente favorire solamente le città, ma bisognava incoraggiare
“il popolo, che divenente più ricco divenga anche più
comodo e felice; e soprattutto non monopolizzando il commercio come in
molte cose fa il Governo stesso[161],
benché in un governo militare ed arbitrario come si è questo,
un tal progetto sia ad eseguir più [57] difficile che il
fare imparare il latino ai loro paesi”[162].
Pietro non era risparmiato in questo plaidoyer in favore della
libera iniziativa: “Il czar Pietro volea far di Petersburg una città
d’Olanda, come si vede fra le altre cose a’ canali ch’egli
vi ha fatto a solo fine, si può dire, di fabbricarvi sovra li ponti”[163].
Ma “il vero modo era di dar la libertà al popolo, che li
avrebbe costruiti quando ne fosse stato uopo”. Benché egli
avesse voluto far dei suoi sudditi altrettanti liberi soggetti. Ma non
erano “però nulla in fatti”. Quale maestro di libertà
poteva essere stato un uomo che andava “sempre co’ stivali
e facendo delle riviste”[164].
Dell’andamento della guerra anti-turca in corso i sudditi erano
tenuti all’oscuro, era una guerra lontana, “nulla più
che s’ella fosse in America”. Soltanto quando ricevevano qualche
buona notizia “o grande o picciola [...] è annunziata a gran
colpi di cannone e celebrata con feste pubbliche, fuochi di gioia ed illuminazioni
(le più belle che si facciano al mondo [...])”[165].
Il regime despotico – il regime della disinformazione e della deresponsabilizzazione
– poteva assumere l’aspetto gradevole della festa, quelle
per il matrimonio erano state “veramente superbe”. “Giammai
tanta profusione d’oro e d’argento”. La cena nella gran
sala del Palazzo d’Inverno “era uno de’ più magnifici
spettacoli che occhio umano possa giammai vedere; e la cena nella Galleria
uno dei più gentili”[166].
Ma la partecipazione dei quaranta o cinquantamila abitanti sì e
no della città a tutta quell’esultanza ufficiale era stata
minima: “si può dire che le loro belle processioni e cavalcate,
le loro magnifiche livree etc. mancavano di spettatori”[167].
Indifferenza o rifiuto?
In conclusione: un paese, malgrado tutto quel luccichio di facciata, asfissiante.
Arrivati a Danzica “respirammo colla miglior aria la libertà
di qualunque aria migliore”. Si poteva dire di loro quello che disse
di sé Costanza Czartoryski, la palatina di Mazovia (era moglie
di Stanislaw Poniatowski) poco amica dei Russi, “ch’ella rassomiglia
nel suo ritorno da Petersbourg a Danzica ad un uccello, che dopo essere
stato alcun tempo nel vuoto della macchina [pneumatica] comincia a sentir
l’aria che gli s’introduce a poco a poco”[168].
|
Note
[*] Saggio originariamente
apparso in Settecento russo e italiano, Atti del Convegno:
Una finestra sull'Italia Tra Italia e Russia, nel Settecento (Università
di Genova, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, 25-26 novembre
1999), a cura di M. L. DODERO – M. C. BRAGONE, Bergamo, MG Print-on-Demand,
2002, pp. 33- 71 (il volume di Atti è “in memoria
di Salvatore Rotta”). In questa edizione elettronica sono state
sciolte le abbreviazioni e sfrondate le maiuscole nelle fonti citate.
Inoltre, la paginazione originale è stata riportata tra parentesi
quadre e in grassetto [Franco Arato – Davide Arecco].
[1] Luogo e data di nascita,
nonché rapporti e legami familiari sono stati ricostruiti da me
su carte d’archivio: S. ROTTA, Idee di riforma nella Genova settecentesca,
in “Il movimento operaio e socialista in Liguria”, VII, 1961,
p. 225 n.; S. ROTTA, Paolo Mattia Doria, in Dal Muratori al
Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 835-968 (d’ora in avanti: D);
S. ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria
fra rinnovamento e tradizione, Atti del convegno di studi (Lecce,
4-6 novembre 1982), Galatina, Congedo, 1985, pp. 389-431. La comunicazione
era stata pubblicata la prima volta su “Studi settecenteschi”,
III-IV, 1982-1983, pp. 45-88 (d’ora in avanti: DR).
[2] Nel 1726 lo stesso Schulenburg
così riassumeva, a uso dell’allievo de Folard, la sua carriera:
“je me suis trouvé pendant plus de quarante ans, pour ainsi
dire, aux quatre coins de l’Europe, de sorte que j’ai fait
la guerre avec et contre les nations les plus connues sur notre globe”
(J. CH. DE FOLARD, Commentaire sur Polybe, III, Paris, 1728, p.
164). Sui suoi rapporti con il Doria e su quest’ultimo teorico della
guerra cfr. DR, 84-87; cfr. anche ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato,
in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento, cit., pp. 427-430).
[3] R. SHACKLETON, Montesquieu
et Doria, in “Revue de littérature comparée”,
LVII (1955), pp. 173-183.
[4] P. M. DORIA, Il Capitano
Filosofo, a cura di M. PROTO, Macerata, Lacaita, 2003 [N.d.C.].
[5] I dodici volumi di manoscritti
del Doria, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, sotto
stati pubblicati presso l’editore Congedo (Manoscritti napoletani
di Paolo Mattia Doria, a cura di G. BELGIOIOSO, M. MARANGIO, A. SPEDICATI,
P. DE FABRIZIO, I-V, Galatina, Congedo, 1979-1982). Il politico alla
moda si legge nel volume V, a cura di M. MARANGIO, pp. 25-131; Il
commercio mercantile nel volume IV, a cura di F. DE FABRIZIO, pp.
277-410. Il politico alla moda era stato già pubblicato
da Vittorio Conti in appendice al suo saggio Paolo Mattia Doria dalla
Repubblica dei togati alla Repubblica dei notabili, Firenze, Olschki,
1978, pp. 129-259.
[6] DORIA, Il politico alla
moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 203.
[7] D, 962-968.
[8] DR, pp. 68-69 n. 19 (cfr.
anche ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia
Doria fra rinnovamento, cit., pp. 411-412); DORIA, Il politico
alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 206.
[9] P. M. DORIA, Lettere,
e ragionamenti varj, Perugia [ma Napoli], 1741, p. 60.
[10] DORIA, Il politico
alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
[11] J.-J. ROUSSEAU, Du
contrat social, in Oeuvres completès, III, Paris, 1964,
p. 386 (libro II, capitolo 8); C. WILBERGER, Peter the Great: an Eighteenth-Century
Hero of Our Times?, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth
Century”, XCVI, 1972, pp. 5-127 (in particolare le pp. 19-62); D.
S. VON MOHRENSCHILDT, Russia in the intellectual life of eighteenth
century France, New York, 1936. L’autore sostiene che attorno
al 1760 le posizioni degli intellettuali francesi erano divise in “Russian
or anti-Russian group” e in “Voltaire or pro-Russian group”
(p. 242). Il primo gruppo includeva Mably, Condillac, Raynal e Mirabeau.
Nella prima categoria militavano Diderot, Alembert, Grimm, La Harpe, Marmontel,
de Jaucourt. Divisione troppo netta (WILBERGER, Peter the Great,
cit., pp. 63 e segg.).
[12] DORIA, Lettere, e
ragionamenti varj, cit., p. 59; DORIA, Il capitano filosofo,
Napoli, Mosca, 1739, p. 16.
[13] DORIA, Il commercio
mercantile, in Manoscritti napoletani, IV, cit., p. 350.
[14] DORIA, Il politico
alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
[15] P. M. DORIA a J. M. VON
SCHULEMBURG, 29 settembre 1731: “L’imperio Ottomano poi hà
così declinato da i suoi principj, che già sarebbe giunto,
al suo fitte, se la pigrizia de Turchi nel far commercio non tenesse allettate
da i guadagni, e come stipendiate le nostre Nazioni Mercantili [...] quest’impresa
però sarebbe riserbata più, che à verun’altro
Principe al Zar di Moscovia, il quale essendo della Religgione Greca,
e come egli pretende, discendente dagl’Imperadori Greci averebbe
Subito entro le Viscere dell’Imperio un gran partito; ma il vile
Interesse e la discordia sono troppo più forti, che non è
l’Amor della gloria, e quel del ben d’Europa’’
(Manoscritti napoletani, III, cit., p. 203).
[16] Il Doria si era posto
il problema se lo zar di Russia potesse formare una monarchia universale
soprattutto nel Politico alla moda (CONTI, Paolo Mattia Doria,
cit., pp. 210-211): "Supponiamo per primo che egli penetrasse con le sue
rapide conquiste nel core della Germania. Che li avverrebbe egli? [...]
Non avendo il Czar un numeroso popolo più virtuoso, che il popolo
alemanno, egli non potrebbe [...] mutar gli ordini e le leggi dei paesi".
Che cosa dunque potrebbe fare? "Egli avrebbe a stabilire le sue conquiste,
ponendo in tutti li paesi conquistati un gran numero di truppe per presidiare
le piazze, e per tenere in freno i nuovi popoli. In questo modo però
indebolirebbe il suo esercito, e frattanto i principi vinti si unirebbero
in lega fra essi, e lo discaccerebbero dalla Germania". Anche supponendo
che lo zar andasse “a passi lenti, conquistando prima li paesi di
confine, e poi inoltrandosi a poco a poco nelle viscere della Germania",
andrebbe incontro alle stesse difficoltà, perché "nel lungo
tempo ch’egli ponesse a conquistare, i principi si unirebbero contro
di esso", e anche quando riuscisse vittorioso degli ostacoli "non potrebbe
stabilir le conquiste per altra via, che per quella delli presidj di truppe
moscovite, onde gli suoi eserciti si diminuirebbero, ed egli sarebbe obbligato
ad abbandonare le sue conquiste". La conclusione è rassicurante:
“Così dunque non possono mai fare stabili conquiste quelli
conquistatori, i quali non hanno virtuoso stato”. In breve: “con
le sole, truppe non si possono fare stabili conquiste”.
[17] F. ARATO, Il secolo
delle cose. Scienza e storia in Francesco Algarotti, Genova, Marietti,
1991. Una bibliografia completa fino al 1991 in: F. ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, a cura di W. SPAGGIARI, Parma, Guanda 1991, pp. XXXVI-XLVII.
Lo studio più recente è quello di S. KAUFMANN, Francesco
Algarotti: the Elegant Arbiter of Enlightenment Architecture, London
1988. Le citazioni dei Viaggi fanno riferimento all’edizione
Spaggiari.
[18] H. GRASSHOFF, Antioch
Dmitrievic Kantemir und Westeuropa, Berlin, Akademie-Verlag, 1966;
V. BOSS, Newton and Russia. The Early Influence (1698-1796), Cambridge,
Cambridge University Press, 1972, pp. 116-127.
[19] K. WALISZEWSKI, Littérature
russe, Paris, Colin, 1900, pp. 65-66; WALISZEWSKI, L’héritage
de Pierre le Grand. Règne des femmes, gouvernement des favoris
(1725-1741), Paris, Flammarion, 1900, passim. Il supremo consiglio
privato era stato creato l’8 febbraio 1726, un anno dopo l’incoronazione
di Caterina I per aiutarla nel governo del paese (R. M. MASSIE, Peter
the Great. His Life and World, tr. it., Milano, Rizzoli, 1985, p.
730); F. VENTURI, Feofan Prokopovic, in “Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari”,
1953, pp. 648 e sgg.
[20] O. DI GUASCO, Vie
du prince Antiochus Cantemir, in Satyres du prince Cantemir,
Londres, J. Nourse, 1750, p. XVII; F. VENTURI, Incontri cosmopoliti:
Lomellini e Cantemir, in “Rivista Storica Italiana” CIII,
1991, p. 555.
[21] [F. LOCATELLI LANZI],
Lettres moscovites, Paris, Huart l’Ainé, 1735; tr.
it. Lettere dalla Moscovia, a cura di M. Chiara Pesenti, Bergamo,
1991. Il governo russo ne ordinò la confutazione, uscita anonima
a Francoforte nel 1738, col titolo: Die so genannte Moscowitische Brieffe
etc., utilizzata nelle note all’edizione italiana. La lettera a
Ostermann in: A. KANTEMIR, Socinenija, pis’ma i izbrannye perevody
kniazja A.D. Kantemirs, a cura di P.A. Efremov, t. II, Sankt-Peterburg,
Glazunov, 1868, p. 98 (cit. da VENTURI, Incontri cosmopoliti, cit.,
p. 547, n. 13). La lettera è del 14 novembre 1735. La traduzione
inglese di William Musgrave (Lettres Moscovites; or Muscovian Letters
by an Italian Officer of distinction) uscì a Londra nel 1736.
“Russia” in luogo di “Moscovia” cominciò
ad essere utilizzato verso il 1716 da J. PERRY, The State of Russian
under the present Czar (cfr. D. GROH, La Russia e l’autocoscienza
d’Europa, Torino, Einaudi, 1980, pp. 48-49 nn. 12 e 13). Montesquieu,
malgrado che l’opera del capitano Perry, nella traduzione francese
di Hugony (Etat présent de la Russie, La Haye, 1717), sia
tra le sue fonti (non l’unica, come vorrebbe la DODDS, Les récits
de voyages sources de l’“Esprit des lois” de Montesquieu,
Paris, 1929, pp. 110-113) continua a servirsi di Moscovie.
[22] KANTEMIR, cit., pp. 99
e segg. (cit. da VENTURI, Incontri cosmopoliti, cit., p. 547, n.
14). Sul Locatelli cfr. G. GALLIZIOLI, Memorie per servire alla vita
del conte Francesco Locatelli Lanzi, Milano, 1982.
[23] Vedi più avanti,
n. 112.
[24] GRASSHOFF, cit., pp.
162 e segg.
[25] A. G. GROSS, The Lords
Baltimore in Russia, in “Journal of European Studies”
XVIII, 1988, p. 78. Un trattato di amicizia e di alleanza difensiva tra
Russia e Gran Bretagna, destinato a durare venti anni, sarà stipulato
dall’inviato inglese a San Pietroburgo, Finch, il 3 (14) aprile
1741. Impegnava le parti contraenti a soccorrersi mutualmente con dodici
navi da guerra da una parte e dodici mila uomini dall’altra. Un
articolo segretissimo obbligava la Russia a fornire questo soccorso anche
durante la guerra in corso della Gran Bretagna con la Spagna nel caso
che altre potenze (la Francia) fossero intervenute nel conflitto. Al povero
Kantemir, la reggente Anna Leopol’dovna ordinò frattanto
nel giugno di tentare di stringere un’alleanza difensiva con la
Francia! (WALISZEWSKI, L’héritage, cit., pp. 329-330).
[26] BOSS, cit., p. 121 e
segg.
[27] A.D. Kantemir alla marchesa
di Monconseil, Londra, 10 luglio 1738: “Á propos de livres,
il en a paru un nouveau d’un gentilhomme vénitien, m. Algarotti,
sur le système de Newton et particulièrement sur son optique:
il est écrit sur le même plan et presqu’en style semblable
que celui de la “pluralité des Mondes”. Je l’ai
lus ces jours passés avec beaucoup de plaisir. Il traite fort bien
sa matière, et il n’est pas moins clair que badin, de sorte
que si vous voulex devenir Newtonienne à peu de frais vous le serez
à la seconde lecture de ce livre, sans cependant faire grand cas
du language qui n’est pas toujours italien. On me dit que l’autoeur
est à Paris. Je le connais particulièrement: il est d’une
conversation fort enjouée, sans affectation, et il a beaucoup d’esprit
et même du savoir, de sorte qu’il mérite votre amitié”
(GRASSHOFF, cit., p. 121). Non era dunque adulatorio il riconoscimento
da parte dell’Algarotti che egli conoscesse la nostra lingua “come
già i Bembi e i Buonmattei” (Il newtonianismo, edizione
1739, Avvertimento). Che il Kantemir avesse cominciato a tradurre
l’opera algarottiana “étant encore à Londres”
è detto dal suo traduttore e amico Guasco (Satyres du prince
Kantemir, cit.).
[28] La noiosità di
Parigi è tema frequente della sua corrispondenza (A. Kantemir a
G. Ossorio, 14 gennaio 1739: “Mes lunettes me font croire que Paris
est aussi ennuyeux que Londres”; a G.B. Gastaldi, lo stesso giorno:
“Il n’est que trop vrai que je m’ennuie dans la belle
ville de Paris”; a Algarotti, il 6 novembre 1739: “Les jours
se passent moitié à ne rien faire et l’autre à
faire des riens”; GRASSHOFF, cit., pp. 178, 307, 176). Il Kantemir
arrivò a Parigi il 19 settembre 1738 (Ibid., p. 290).
[29] G. M. MAZZUCCHELLI, Gli
scrittori d’Italia, I, Brescia, 1753, pp. 481-428: “Da
Milano ripassò di bel nuovo in Francia, e, scorse ch’ebbe
alquanti mesi alcune di quelle provincie, si trasferì a Parigi,
ove trovò fatte due traduzioni in Lingua Francese de’ suoi
Dialoghi. Nel tempo medesimo traduceva questi in lingua russa il principe
di Kantemir [...]”. Nell’agosto sembra che l’Algarotti
fosse a Parigi (E. Manfredi a F. Algarotti, Bologna 11 agosto 1738: “È
stato per noi una grata sorpresa il sentirvi tutto inteso a cercare le
antichità nel Languedoc, quando il vostro silenzio ci aveva fatto
credere che foste occupato piuttosto nelle mode di Parigi, dove secondo
l’itinerario da voi inviatomi la presente mia lettera vi dovrebbe
finalmente trovare”, cfr. F. ALGAROTTI, Opere, XI, Venezia,
Palese, 1792, p. 136). Avviato ormai alla volta di Parigi era –
pare – ancora in itinere nell’agosto (Mme du Châtelet
a F. Algarotti, Cirey 27 agosto 1738: “Je suis ravie de vous voir
dans notre pays... Je ne puis me plaindre que vous alliez recevoir à
Paris les applaudissemens que votre livre charmant mérite”;
ALGAROTTI, Opere, XVI, cit., 1794, p. 46). Non conosciamo, a ogni
modo, la data esatta del suo arrivo nella città. Di traduzioni
francesi del Newtonanismo se ne conosce all’epoca solo una:
quella poco felice di Duperron de Castera (ARATO, cit., Appendice II,
n. 2). Era apparsa invece, nel 1739, la versione inglese di Elisabeth
Carter (Ibid., n. 7).
[30] Di questa ode si posseggono
due versioni: quella appunto che va innanzi all’edizione del Newtonianesimo,
stampata in Napoli [ma Venezia] nel 1739; e quella pubblicata nell’edizione
Palese (I, 1791, pp. 5-7). È questa seconda versione che è
stata utilizzata dalla collega Volodina. Ignoro il rapporto tra i due
testi, che pubblico entrambi in Appendice. L’edizione del Pasquali
era uscita nell’ottobre del 1739. Cfr. più avanti.
[31] MAZZUCCHELLI, cit.,
p. 482: “Il Principe, che aveva già conosciuto a Londra,
gli comunicò che questa traduzione era principalmente destinata
alla defunta imperadrice Janowna; il che diede a lui [Algarotti] motivo
di comporre que’ versi alla medesima indirizzati, i quali si leggono
in fronte all’edizione fatta in Venezia col nome di Napoli”;
D. Michelessi: “quella prima [traduzione] fatta dal principe di
Cantimir, quando era ambasciatore della corte di Pietroburgo a Parigi,
diede occasione al conte Algarotti di fare un bellissimo componimento
poetico, che si legge fra le sue opere, pieno d’entusiasmo, e d’immagini
grandi e vive in lode dell’imperatrica Anna Giovannona, quando egli
le intitolò i Dialoghi, e quando il predetto principe le mandò
la sua traduzione” (D. MICHELESSI, Memorie intorno alla vita
e agli scritti del conte francesco Algarotti, in ALGAROTTI, Opere,
I, cit., 1791, p. XXVI). L’ultima notizia è senza fondamento.
[32] ALGAROTTI, Opere,
I, cit., 1791, pp. 68-69: A Sua Maestà la Regina di Spagna,
mandandole il Newtonianesimo.
[33] B. J. FEIJOO, Cartas
eruditas, IV, Madrid, 1944, pp. 182-183: “Bacon y Boyle fueron
filósofos originales y profundos; más profundo y más
original que los dos, Newton... A Newton dió una antorcha de vivisima
luz, con que pudo registrar amplissimos espacios de aquel grande edificio,
con quienes todos los filósofos anteriores nada habian visto, sino
tinieblas”. Il celebre poligrafo aveva conosciuto Newton attraverso
il compendio di W. J. S. VAN ‘SGRAVESANDE, Philosophiae Newtonianae
Institutiones, In usus Academicos, Leiden-Amsterdam, 1728 (G. DELPY,
L’Espagne et l’ésprit éuropéen. L’oeuvre
de Feijoo (1725-1760), Paris, 1936, p. 345). Sulle scienze nell’America
spagnola: “En el siglo XVIII existe en toda la América española
un gran interés por la ciencias [...]” (M. HERNANDEZ SÁNCHEZ-BARBA,
Las Indias en el siglo XVIII, in: Historia de España
y América, a cura di J. V. VIVES, IV, Barcelona, 1974, p. 401).
Il primo a insegnare pubblicamente nell’università di Lima
la fisica di Newton fu negli ultimi due decenni del secolo XVIII il padre
Isidro Celis (Ibid., p. 402). Non esistono traduzioni in castigliano
dei dialoghi di Algarotti (ARATO, cit., pp. 137-155).
[34] BOSS, cit., p. 116.
[35] E. Zanotti a Algarotti,
Bologna, 4 gennaio 1740: “Colla vostra lettera io ricevei da vostro
fratello la nuova edizione del Newtonianismo... I versi alla czarina sono
maestosi e belli; e sono piaciuto ancora a mio padre, che voi sapete essere
adoratore del Petrarca e di quelli del Cinquecento” (ALGAROTTI,
Opere, XII, cit., pp. 346-347).
[36] Algarotti a Kantemir,
Londra, 29 ottobre 1739: “J’ai reçu avant-hier une
lettre de Venise, dans laquelle on me mande que mon livre est dejà
imprimé avec les vers à l’Impératrice”
(GRASSHOFF, cit., p. 123).
[37] Algarotti a Kantemir,
Charlottenburg, 7 luglio 1740 (GRASSHOFF, cit., p. 124).
[38] Nelle lettere a Kantemir,
Algarotti esce in lodi iperboliche della zarina: “La profonde admiration
avec laquelle j’ose lever les yeux sur cette puissante Impératrice,
l’honneur du sexe et l’exemple de l’univers [...]”
(GRASSHOFF, cit., p. 123). Scriveva – si ricordi – a un protégé
di Anna. Più che lusinghiero il giudizio su quella sorta di primo
ministro e direttore della politica estera che era Andrej Ivanovic (Heinrich)
Ostermann (Algarotti a Kantemir, Londra, 29 ottobre 1739: “Votre
Excellence me permettra de le remercier de la lettre qu’elle a daigné
d’écrire a Mr le C.te d’Ostermann, qui mérite
bien assurement qu’on fasse le grand voyage”; (GRASSHOFF,
cit., p. 122). Originario della Vestfalia, era stato fin dal 1711 uno
dei più influenti e prudenti collaboratori di Pietro. Aveva senza
dubbio grandi qualità: parlava tedesco, olandese, francese, italiano,
latino e russo alla perfezione (MASSIE, cit., p. 597). Perla rara: tra
tutti quei favoriti avidi di accumulare ricchezza, quella vecchia volpe
spiccava per “l’incorruttibile onestà” (V. GITERMANN,
Storia della Russia dalle origini alla vigilia dell’invasione
napoleonica, I, Firenze, 1963, p. 512). Cadrà in disgrazia
nel dicembre 1741, al momento del colpo di stato di Elisabetta (WALISZEWSKI,
L’héritage, cit., p. 363). Algarotti lo aveva incontrato
nel suo soggiorno a San Pietroburgo: “Ebbe agio allora di conoscere
il celebre conte di Ostermann [...]” (MAZZUCCHELLI, cit., p. 481).
[39] Algarotti al fratello
Bonomo, Londra, 12 novembre 1740: “Avrete inteso a quest’ora
la morte della Czarina [...] Io ho il dispiacere che non abbia ne men
veduto il mio libro dopo il sì lungo tempo che è stampato”
(ARATO, cit., p. 74, n. 121).
[40] Algarotti al fratello
Bonomo, Londra, 5 giugno 1740: “Sul punto di mantare in carrozza
avant’ieri ho ricevuto la più bella lettera che sia mai stata
scritta al mondo: mon cher Algarotti, ella diec, mon Sort a changé
je vous attend avec impatience. Ne me faites point languir. Vado volo”
(ARATO, cit., p. 98).
[41] Charles [non Frederick],
quinto Lord Baltimore e proprietario del Maryland era nato nel 1699 (morirà
nel 1751) da una famiglia cattolica (la madre, Charlotte Lee, era nipote
di Carlo II). Per riprendere i propri diritti sul Maryland il padre Benedict
Leonard si era convertito nel 1713 alla religione anglicana. Nel 1732-1733,
Charles aveva fatto un soggiorno di sei mesi nella colonia per riaffermarvi
l’assoluta prerogativa del proprietario e inaugurando quella che
gli storici del Maryland chiamano “the politics of irreconciliability”
tra il proprietario da una parte e la “lower house” dall’altra
(American National Biography, 4, 1999, pp. 244-245). L’amicizia
con l’Algarotti è stata addotta come prova della sua omosessualità
dal reverendo Paul K. Thomas (“Maryland Historical Magazine”,
Summer 1996, pp. 244-245). Nella prima edizione (1886) del Dictionary
of National Biography la frase di Carlyle (“one of those worn-out
beings, a hipped Englishman, who had lost all moral and physical taste”)
era correttamente attribuita al figlio Frederick, sesto Lord Baltimore,
con il quale si estinse la famiglia (TH. CARLYLE, History of Frederick
II of Prussia, called Frederick the Great, II, London, 1858, p. 667).
Nella edizione del 1920 la frase poco lusinghiera viene riferita invece
a lord Charles, padre di Frederick (CROSS, The Lords Baltimore in Russia,
cit., p. 77). Dopo la morte di Caterina I e di Giorgio I (1727), vi erano
stati segni di riavvicinamento tra Gran Bretagna e Russia. I rapporti
diplomatici, rotti nel 1720, erano stati riannodati formalmente con l’invio
a San Pietroburgo, nel 1728, come console generale prima e poi, dal 1731
come residente, di Claudius Rondeau: uno dei personaggi incontrati dall’Algarotti
nella capitale. L’invio del Rondeau a San Pietroburgo aveva coinciso
con l’invio del Kantemir a Londra. Il Northern Tour era stato
in augurato da sir Francis Dashwood (1708-1781) che aveva accompagnato
nel 1733 il barone George Forbes, inviato straordinario alla corte russa
per negoziare quel trattato di commercio che sarà concluso l’anno
seguente. Dashwood aveva soggiornato a San Pietroburgo venti giorni nel
giugno del 1733; e di quella visita ci ha lasciato un diario pubblicato
solamente nel 1959 (B. KEMP, Sir Francis Dashwood’s Diary of
his Visit to St Petersburg in 1733, in “Slavonic and East European
Review”, XXXVIII, 1959, pp. 206 e segg.). Lord Baltimore (nominato
nel 1731 gentleman of the Bedchamber di Frederick, principe di
Galles) faceva parte di quel gruppo raccolto appunto attorno al principe
ereditario (Lord Hervey, F. Dashwood...) che aveva preso a favorire l’opera
italiana in aperto dissenso col padre, Giorgio II, che era “a rabid
Hendelian” (G. H. DORRIS, Paolo Rolli and the Italian Circle
in London (1715-1744), The Hague-Paris, 1967, p. 114). Che lord Baltimore
non avesse nessun incarico speciale di natura diplomatica è confermato
da una notazione del Giornale. Il generale della piazza di Revel’
non poteva credere “che la sola curiosità” avesse condotto
i due forestieri in quel freddo e remoto paese del mondo (F. ALGAROTTI,
Giornale del viaggio da Londra a Petersbourg, f. 16r). Era stato
forse l’“eloquent informant” Kantemir a far nascere
nell’eccentrico Lord Baltimore l’idea di un Grand Tour
diverso dal solito. Di turista, senza attributi paraministeriali, parla
J. BLACK, The British and the Grand Tour, London, 1985, p. 50).
L’insolito progetto aveva suscitato tale sorpresa che si pensò
da qualcuno che fosse stato incaricato di una missione segreta (CROSS,
The Lords Baltimore, cit., pp. 77-80). Tanto maggiore la sorpresa,
e la disapprovazione, degli ambienti bolognesi che avevano conosciuto
l’Algarotti adolescente: E. Zanotti a F. Algarotti, Bologna, 10
novembre 1739: “Ben vi avvisate, se credete di non aver incontrato
con questo viaggio l’approvazione della petroniana gente [...] Pure
ve ne sono alcuni che hanno sempre più fatto concetto del vostro
spirito, e che hanno lodata la vostra curiosità (ALGAROTTI, Opere,
XII, cit., 1792, pp. 336-337).
[42] Su tutta questa tragica
vicenda cfr. GITERMANN, cit., pp. 516-517; MASSIE, cit., pp. 733-734;
K. STäHLIN, Geschichte Russlands, II, Berlin, 1930, pp. 275-278,
282 e segg., 290 e segg. e passim.
[43] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 4 (lettera I).
[44] J. TORLAIS, Un Rochelais
grand-maître de la Franc-Maçonnerie et physicien au XVIIIe
siècle: Le Reverend J.T. Desaguliers, La Rochelle, 1937; A.
R. HALL, Jean Theophilus Desaguliers, in Dictionary of Scientific
Biography, edited by CH. C. GILLESPIE, IV, New York, 1971, pp. 43-46.
[45] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., pp. 162-165 (lettere IX e X); ALGAROTTI, Giornale
del viaggio, f. 8rv.
[46] Philosophical Transactions
of the Royal Society, XXXII, 1722-1723, n. 374; XXXV, 1727-1728, n.
406. L’Algarotti replicò egli pure al Rizzetti: in una prima
lettera aggiunta all’edizione 1739 del Newtonianismo e in
una seconda, aggiunta all’edizione del 1746. Sui rapporti Algarotti-Rizzetti-Desaguliers
cfr. ARATO, cit., pp. 21-23, 35-36 e, ora, D. ARECCO, Massoneria e
scienza nella Londra di Giorgio I, in “Atrium”, III, 2003,
pp. 34-47. L’affiliazione di Algarotti alla massoneria resta dubbia
(ARATO, cit., p. 37, n. 71). Giuseppe Giarrizzo la dà invece
per certa, sulla base di una lettera di A. Leprotti a E. Manfredi da Roma,
13 marzo 1734: “ò ammirato ch’egli [Algarotti] essendo
della famosa compagnia dei Libres Maçons, non ha voluto darsi a
conoscere” (Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento,
Venezia, Marsilio, 1994, p. 437, n. 9). In questo caso, la sua affiliazione
andrebbe fatta risalire al soggiorno fiorentino e alla frequentazione
di Antonio Cocchi e Tommaso Crudeli. Nessun accenno a Algarotti in: M.
A. TIMPANARO MORELLI, Per Tommaso Crudeli nel 255° anniversario
della sua morte (1745-2000), Firenze, Olschki, 2000.
[47] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, I, 164: “un giorno di calma fece il Signor King con
gran destrezza la notomia dell’occhio di un castrone. Il qual castrone
fu poi cotto con egual dottrina dal nostro Martialò”. Si
tratta di F. MASSIALOT, Le cuisinier roial et bourgeois, Paris,
1691.
[48] British Library, Add.
Mss., 17482, f. 1r-2r: “Si comprende quanto debba tenersi in
pregio questo Codice, il quale potrebbe incontrare dal pubblico un favorevole
accoglimento col somministrare almeno materia per corredare di note una
nuova edizione delle Lettere sulla Russia e servire a correggere qualche
sbaglio incorso nelle antecedenti edizioni come ce lo fa credere l’esempio
che ci porge la lettera a Mrd Hervey del 2 giugno del sopraindicato Anno
1739”. Alludeva alla data della lettera V (in realtà 21,
non 2 giugno) che coincide, nell’edizione Coltellini, con quella
della lettera III da Cronstat. Nell’edizione Briasson era correttamente
indicata la data del 6 luglio, che i più accurati editori moderni
hanno ripristinato (ALGAROTTI, Viaggi di Russia, p. LVII).
[49] I. F. TREAT, Un cosmopolite
italien du XVIIIe siècle. Francesco Algarotti, Trevoux,
1913, pp. 82-91, 255.
[50] A. FRANCESCHETTI, Francesco
Algarotti e l’Accademia di Pietroburgo, in Letteratura e
scienza nella storia della letteratura italiana, Atti del IX
Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua
e letteratura italiana (Palermo-Messina-Catania, 21-25 aprile 1976), a
cura di V. BRANCA [et alii], Palermo, 1978, pp. 594-597 (il testo
algarottiano alle pp. 594-597, corrispondenti ai ff. 32v-38v del manoscritto).
Non pochi e non trascurabili gli errori di trascrizione di un testo così
breve. Segnalo quelli più rilevanti. Guida nella visita sarebbe
stato “il professor Cruff”. Si tratta invece di Georg Wolffgang
Kraft (Craff per Algarotti). L’accenno all’Accademia di Beziez
cioè Béziers, la cittadina natale di Maupertuis, andrebbe
esplicato. In questa città il celebre fisico aveva tentato di erigere
un’accademia, che nel 1736 pubblicò gli atti (Recueil
de Lettres, Mémoires et autres pièces, pour servir à
l’histoire de l’Académie des Sciences & Belles-Lettres
de la ville de Béziers, Béziers, chez Barbut). L’animatore
principale di essa, M. Bouillet, nel primo Mémoire aveva
lungamente dissertato contro il sistema che faceva le macchie solari “des
Planètes qui roulent autour du Soleil, et qui en cachent quelquefois
les parties” (“Journal de Trévoux”, 1736, p.
2536). L’esperienza proposta dal Krafft (Experimentorum physicorum
brevis Descriptio, St. Petersburg, 1738) parve all’Algarotti
altrettanto oziosa quanto quella dell’accademico di Béziers:
“Questa sperienza mi richiamò alla mente la dissertazione
dell’Accademia di Béziers per cui si prova che le macchie
del sole non sono altramenti [non “altrettanti”] pianeti che
girino intorno a lui”. Sulla questione aveva “detto abbastanza
Galileo” (f. 33r). L’altra esperienza – quella proposta
da Daniel Bernoulli [non Barulli!] – era cervellotica. Le “warste”
di p. 595 sono ovviamente “werste”. L’errore più
sviante è l’accenno alla “Terra di Ferro” di
cui si era appena scoperta l’insularità (ibid.). Si
tratta della “Terra di Jesso” (Yeso), l’attuale isola
di Hokkaido, una delle quattro grandi isole dell’arcipelago del
Giappone. “Mr. De la Boyere” è il fratello di Jean-Nicolas
Delisle, Louis Delisle sieur de la Croyère. E fratello di Jean-Nicolas
era pure l’autore di quella carta imperfetta della penisola Jamal,
Guillaume (il grande amico di Pietro), che Jean Nicolas gli aveva mostrato
(ibid.). Tutti questi Delisle geografi fanno esclamare in margine
all’Algarotti che i Delisle [parole non decifrate dal Franceschetti]
erano “destinati a descrivere ai principi la Terra” (f. 33v).
“Dondu-Ombo” è “Donduc-Ombo” (DonduKombo),
famoso capo dei Calmucchi (ALGAROTTI, Viaggi di Russia, p. 107
[lettera VII]); e poiché di Calmucchi si parla va detto che i “depsten”
nei quali furono rinvenuti molti arnesi calmucchi (p. 596) erano “sepolcri”.
Il “cerion” che inviluppa il feto di Ruysch è naturalmente
il “corion” (ibid.). Così come il colore della
divisa che oggi indossa il manichino in cera di Pietro sedente, modellato
dal Rastrelli, è “blò” non “blé”
e il globo di Olearius non è di “Gottap”, ma di Gottorp.
[51] A. FRANCESCHETTI, L’Algarotti
in Russia dal Giornale ai Viaggi, in “Lettere italiane”,
XXXV, 1983, pp. 312-332. Il progetto di pubblicazione integrale del manoscritto
mi è stato confermato in una comunicazione privata.
[52] FRANCESCHETTI, L’Algarotti
in russia, cit., p. 315.
[53] Federico a Voltaire,
Rheinsberg, 10 octobre 1739: “Il [Algarotti] a composé une
cantate qu’on a mis aussitôt en musique et dont on a été
très satisfait” (Voltaire’s Correspondence,
edited by TH. BESTERMANN, IX, Genève, 1954, p. 251, lettera 1983).
[54] ALGAROTTI, Giornale,
f. 52v.
[55] ALGAROTTI, Giornale,
f. 57v.
[56] Federico a Mme du Châtelet,
Rheinsberg, 27 ottobre 1739: “Je vous dirai que nous avons vu ici
l’aimable Algarotti avec un certain milord Baltimore, non moins
savant ni moins agréable que lui. J’ai senti tout le prix
de leur bonne compagnie pendant huit jours [...]” (Voltaire’s
Correspondence, IX, cit., p. 261, lettera 1992).
[57] Federico a Ulric-Fréderic
de Suhms (inviato straordinario della corte di Sassonia a San Pietroburgo),
Rheinsberg, 26 settembre 1739: “Nous avons eu ici Mylord Baltimore
et le jeune Algarotti, tous deux des hommes qui, par leur savoir, doivent
se concilier l’estime et la considération de tous ceux qui
les voient. Nous avons beaucoup parlé de vous, de philosophie,
des sciences, des arts, enfin de tout ce qui doit être compris dans
le goût des honnêtes hommes” (Oeuvres de Frédéric
le Grand, XVI, Berlin, 1846-1856, p. 378; cit. da CROSS, The Lord
Baltimore, cit., pp. 82-83). La data della seconda lettera di Federico
ad Algarotti (Opere, XV, cit., XV, 1794, pp. 8-9) è visibilmente
errata: “J’espère – gli aveva scritto il principe
de Rheinsberg, il 1° settembre 1739 – que ma première
lettre [perduta] vous sera parvenue. Je n’oublirai jamais les huit
jours que vous avez passé chez moi. Beaucoup d’étrangers
vous ont suivi; mais aucun vous a valu, et aucun ne vous vaudra si tôt”.
Scorso di penna di Federico o cattiva lettura? In ogni caso bisogna correggere:
1° ottobre.
[58] Algarotti a Voltaire,
1° ottobre 1739: “Me voilà à Londres après
avoir été bien près du Pôle, et avoir passé
un été en grelottant; si je n’ai pas porté
en grelottant le compas et la lyre. En revenant j’ai été
dans le troisième ciel; j’ai vû, oh me beato!,
ce prince adorable, disciple de Trajan, rival de Marc-Auréle. J’ai
bien parlé de vous, et j’en ai bien entendu parler”.
Questa lettera è datata in Palese e in Besterman “avril”
(ALGAROTTI, Opere, XVI, cit., 1794, pp. 73-74). Ma è facile
correggere la svista dei due editori. Il 28 dicembre 1739, Voltaire fa
allusione proprio a questa lettera, scrivendo a Federico da Bruxelles:
“J’ai reçu une lettre d’Algarotti, datée
de Londres du premier octobre: elle m’a attendu trois mois à
Bruxelles. Ce m. Algarotti est encore tout étonné de ce
qu’il a vu à Remusberg. “Ah!, quel prince est ça!”
dit-il; il ne revient pas de sa surprise [...]” (Voltaire’s
Correspondence, IX, cit., p. 288, lettera 2012). Lo stesso dice Madame
du Châtelet: “M. Algarotti m’a mandé avec quelle
surprise il avoit vu v.a.r.; la mienne est qu’il ait pu vous quitter”
(Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 290, lettera 2014).
Ovviamente, la datazione della lettera VII dei Viaggi (Hamburg,
30 agosto 1739) va corretta (28 settembre?).
[59] Federico a Voltaire,
Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX,
cit., p. 251, lettera 1983).
[60] Ibid.: “Le
jeune Algarotti que vous connaissez m’a plus on ne saurait davantage.
Il m’a promis de revenir ici, aussitôt qu’il lui sera
possible: nous avons bien parlé de vous, de géométrie,
de vers, de toutes les sciences, de badinerie, enfin de tout ce qu’on
peut parler [...]. Nous nous sommes séparés avec regret”.
Ne parlava ancora con nostalgia a Voltaire il 3 febbraio 1740: “Je
suis bien aise qu’Algarotti ne perde point le souvenir de Remusberg.
Les personnes d’esprit n’y seront pas oubliées [...]”
(Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
[61] Federico a Voltaire,
Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX,
cit., p. 251, lettera 1983).
[62] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV); p. XIX, n. 1.
[63] ALGAROTTI, Giornale,
f. 47v.
[64] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV).
[65] Nella nota a quei due
versi del Proemio (vv. 16-17) Puškin riconobbe il suo debito:
“L’Algarotti in qualche punto dice: “Pétersbourg
est la fenêtre par laquelle la Russie regarde en Europe””
(A.S. Puškin, Polnoe sobranie socinenij v desjati tomach,
t. IV, Moskva, 1963, p. 380, n. 1; Opere, a cura di E. BAZZARELLI,
G. SPENDEL, Milano, 1990, p. 313. La traduzione è di T. LANDOLFI
(gli editori hanno però inspiegabilmente soppresso il “cappello”
e le note dell’autore). Questo “racconto pietroburghese”
in tetrametri giambici è del 1833 (W. LEDNICKI, Pushkin Bronze
Horseman, Berkeley, California University Press, 1955). Puškin
conosceva l’italiano, ma preferiva leggere i classici (perfino Dante)
in traduzioni francesi (R. CHLODOWSKI, Puškin e l’aurea
Italia, in: Puškin e la sua arte, Atti dei Convegni Lincei
(Roma, 3-4 giugno 1977), Roma, 1978, p. 151. Probabilmente, si servì
delle Lettres sur la Russie nell’edizione di Berlino voluta
da Federico II (Oeuvres du comte Algarotti, a cura di D. MICHELESSI,
J.-B. MERIAN, 1772).
[66] Oeuvres de Frédéric
le Grand, XIV, cit., 1849, pp. 81-87. Federico a Voltaire, 10 ottobre
1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera
1983); Federico ad Algarotti, Rheinsberg, 29 ottobre 1739: “Je vous
prie de faire mes amitié à mylord Baltimore, dont j’estime
véritablement le caractère et la façon de penser;
j’espère qu’il aura reçu à présent
mon Epître sur la liberté de penser des Anglais”
(Oeuvres de Frédéric le Grand, XVII, cit., 1850,
p. 6). Federico aveva inviato l’Epître a Voltaire,
pregandolo di correggerla “impitoyablement” il 10 ottobre
(Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
Voltaire si rifiutò di toccarla.
[67] Voltaire’s Correspondence,
IX, cit., p. 251, lettera 1983.
[68] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 136 (lettera VIII).
[69] ALGAROTTI, Giornale,
f. 69r.
[70] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 148 (lettera VIII).
[71] ALGAROTTI, Giornale,
ff. (16v), 17v.
[72] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 32 (lettera II)
[73] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 48.
[74] Voltaire’s Correspondence,
XLIV, cit., 1959, p. 184, lettera 8658.
[75] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 46 (lettera III).
[76] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55r.
[77] ALGAROTTI, Giornale,
f. 11r.
[78] ALGAROTTI, Giornale,
f. 10v.
[79] ALGAROTTI, Giornale,
f. 11r.
[80] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55r.
[81] L’esercito russo
si era fatto con il passare degli anni sempre più temibile in Europa:
nell’estate del 1759 le truppe del generale Soltikov avevano battuto
quelle prussiane di Federico II a Kunersdorf. Nel Giornale il contrasto
tra il soldato russo, formato sia pure duramente, e quello prussiano,
fabbricato “meccanicamente”, in serie, è crudo: “Si
fa a Potsdam l’esercizio colla medesima esattezza che si vedrebbe
fatto nello specchio da quelle tante immagini del soldato posto dinnanzi
a lui” (f. 65v). L’immagine, ma svelenita, è ripresa
nei Viaggi (VIII, 299, 302). Nel Giornale dubitava però
che quei corpi resi docili con un dressage feroce avessero perduto
del tutto con la libertà l’“amore di essa”: “se
uscissero in campagna avrebbon bisogno almeno di un doppio numero che
le guardasse [quelle truppe, N.d.A.] per prevenire la deserzione”
(ff. 65-66r). Ma è pur vero che, nel nuovo testo, la figura del
despota bellicoso (ma non guerriero) fa posto a quella del saggio riformatore:
“Riformatore fu veramente dello Stato, non altrimenti che lo sarebbe
del suo Ordine un Abate [...]” (ALGAROTTI, Viaggi di Russia,
cit., p. 144, lettera VIII). Frase – mi pare – che ha conservato
un po’ dell’antico fiele.
[82] ALGAROTTI, Giornale,
f. 30r.
[83] ALGAROTTI, Giornale,
f. 29r.
[84] ALGAROTTI, Giornale,
f. 30r.
[85] ALGAROTTI, Giornale,
f. 29v.
[86] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 72 (lettera V).
[87] Sul dibattito attuale
cfr. Storia del mondo moderno, VII, Milano, 1968, pp. 465-482,
in particolare la n. 1 a p. 465.
[88] N. V. RIASANOVSKY, Storia
della Russia dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 19988,
pp. 194-197.
[89] F. ALGAROTTI, Il newtonianismo
per le dame, Napoli [ma Milano], 1737, p. 264.
[90] [P. H. MALLET], Forme
du gouvernement de Suède, Copenhagen et Genève, 1756.
Ma già trent’anni prima, nel 1726, Jacques de Campredon,
da cinque anni ministro plenipotenziario presso la corte di Russia, aveva
lasciato un paese pieno di fermenti che a lui parvero di buon augurio.
Per lui la Russia stava avviandosi, alla maniera della Svezia, verso un
governo “établi sur le pied de celui d’Angleterre”.
Pure per essa stava per aprirsi “l’era della libertà”
(S. ROTTA, “Une aussi perfide nation”: la Relation
de l’état de Gênes di Jacques de Campredon (1737),
in “Quaderni franzoniani” XI, 1998, p. 620). A suscitare tali
speranze era stata la creazione in quell’anno del Supremo Consiglio
Segreto, destinato ad affiancare l’opera di governo di Caterina
I: proprio di quel Consiglio che sarà protagonista del tentativo
del 1730 (WALISZEWSKI, L’héritage, cit., pp. 24-25).
[91] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 23 (lettera II).
[92] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 22 (lettera II).
[93] ALGAROTTI, Giornale,
f. 31r.
[94] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 37r-v.
[95] P. KOVALEVSKY, Atlas
historique et culturel de la Russie et du monde slave, Paris, 1961,
p. 104: “Le dix années de son règne [di Anna, N.d.A.]
seront les plus sombre du XVIIIe siècle”. L’imperatrice
“méfiante et railleuse, s’entoure de bouffons et passe
son temps en fêtes et en mascarades [...]”.
[96] ALGAROTTI, Giornale,
f. 49v.
[97] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 50r-v.
[98] Tarquinio il Superbo
non risponde al messaggero del figlio Sesto, ma “in hortum aedium
transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum
capita dicitur baculo decussisse” (T. LIVI, Ab urbe condita libri,
I, 54).
[99] ALGAROTTI, Giornale,
f. 50v.
[100] ALGAROTTI, Giornale,
f. 50r.
[101] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, III, Paris, 1958, p. 168 (libro XXII, capitolo 14).
[102] Così nelle
edizioni del 1748 e 1749. In quella del 1757: “voulait”.
[103] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, I, cit., 1950, p. 121 (libro V, capitolo 14).
[104] ALGAROTTI, Giornale,
f. 41r-41v.
[105] ALGAROTTI, Giornale,
f. 40v.
[106] A. BESANÇON,
Prefazione, a M. RAEFF, La Russia degli zar, tr. it. Roma-Bari,
Laterza, 1999, p. XIV.
[107] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 40v-41r.
[108] A. LORTHOLARY, Les
Philosophes du XVIIIe siècle et la Russie. Le mirage
russe en France au XVIIIe siècle, Paris, 1948, pp.
12-38.
[109] ALGAROTTI, Giornale,
f. 57v.
[110] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 48r-v.
[111] ALGAROTTI, Giornale,
f. 48v.
[112] ALGAROTTI, Giornale,
f. 45v.
[113] LOCATELLI LANZI, Lettere
dalla Moscovia, cit., p. 75: I monaci erano “per lo più
ubriaconi”, vivevano “in ozio criminale abbandonandosi a ogni
sorta di vizio. Nei loro conventi regna la superstizione molto più
che altrove [...]. Pensano solo a vivere comodamente, senza lavoro né
affanni: si chiudono nei monasteri solo per timore di morire di fame,
o di finire nell’esercito”. Tutto negativo invece il giudizio
sull’esercito (p. 163) e in genere sulla natura e le aspirazioni
profonde del popolo russo: “La maggior parte di essi afferma ad
alta voce che essere obbligati al servizio militare, per terra o per mare,
ha aumentato la loro schiavitù. Con questa idea, che svela la loro
natura vigliacca e indolente, essi considerano la marina e tutte le conquiste
compiute come le fonti principali dei loro mali. La cosa che più
desiderano è un cambiamento totale all’interno dello Stato,
che rovini per intero le nuove istituzioni e permetta loro di vivere nella
pigrizia e nell’inazione” (p. 165). Come si vede, non si può
in modo alcuno esagerare l’influenza di questo libro pieno di disprezzo
verso i Russi sull’Algarotti, che dalla Russia era tornato entusiasta
del popolo russo (“tout le bien que vous dites de ma nation”:
A. Kantemir a F. Algarotti, Parigi, 6 novembre 1739; GRASSHOFF, cit.,
p. 176).
[114] ALGAROTTI, Giornale,
f. 45v.
[115] ALGAROTTI, Giornale,
f. 23v.
[116] ALGAROTTI, Giornale,
f. 56r.
[117] ALGAROTTI, Giornale,
f. 49r-v.
[118] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, III, cit., 1958, pp. 16-17 (libro XIX, capitolo 15).
[119] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 48v-49r.
[120] ALGAROTTI, Giornale,
f. 49r.
[121] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55r.
[122] Nel 1723 in tutto
l’Impero c’erano centodieci scuole elementari laiche e quarantasei
istituti ecclesiastici (TH. G. MASARYK, La Russia e l’Europa,
tr. it. a cura di E. LO GATTO, I, Bologna, 1971, p. 64, n. 2).
[123] Questo giudizio risente
forse della letteratura politica del Refuge (l’autore soprattutto
dei Soupirs de la France esclave, qui aspire après la liberté,
Amsterdam 1689-1690: uno dei Mémoires che formano quest’opera
porta il titolo Les tristes effets de la Puissance arbitraire et Despotique
de la Cour de France). In questo caso, il canale potrebbe essere il
Desaguliers. Ma si potrebbe anche risalire ai libelli della Fronda contro
l’illimitato potere di Mazzarino, che aveva fatto della monarchia
di Francia una monarchie despotique. Per l’Algarotti, il
despotismo francese era contraddistinto dalla censura delle stampe (ne
aveva fatto esperienza lui stesso da poco) e dal divieto del dibattito
religioso. La “direction de la librairie” era ancora a quest’epoca
una delle funzioni essenziali del cancelliere, agli ordini del quale lavoravano
verso il 1750 ben ottantadue revisori, uno per specialità (PH.
SAGNAC, La formation de la société française moderne,
II, Paris, 1946, pp. 10-12). Alla metà del secolo, il marchese
d’Argenson si domanderà: “La France est-elle une monarchie
temperée et représentative ou un gouvernement à la
turque? Vivons-nous sous la loi d’un maître absolu, ou sommes-nous
régis par un poivoir limité et controlé?” (Mémoires,
edizione RATHERY, IV, anni 1753-1754). E. Le Roy Ladurie definisce invece
quest’epoca “absolutisme bien temperé” (L’Ancien
Régime de Louis XIII à Louis XV (1610-1770), II, L’absolutisme
bien temperé (1715-1770), Paris, 1991). Su tutta la questione
cfr. R. KOEBNER, Despot and despotism: vicissitudes of a political
term, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”
XIV, 1951, pp. 275-302; S. STELLING-MICHAUD, Le mythe du despotisme
oriental, in “Schweitzerische Beiträge zur allgemeimeinen
Geschichte”, XVIII-XIX, 1961, pp. 318-346; G. C. ROSCIONI, Beat
Ludwig von Muralt e la ricerca dell’umano, Roma, 1961, pp. 27-52.
[124] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55v.
[125] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55 v.
[126] WALISZEWSKI, L’héritage,
cit., pp. 214-215: “De 1733 à 1743 la sèconde expédition
de Behring prit des proportions colossales, mettant en mouvement jusqu’à
600 explorateurs. Par groupes indépendants, par terre et par mer,
Malguine, Skouratov, Ovtsyne, Protchichtchov, Kharitonov, Laptiév
relevèrent les côtes de la Sibérie depuis la mer Blanche
jusqu’à l’embouchure du Kolyma, pendant que Behring
avec la division principale visitait les îles Kourilles, touchait
au Japon, passait en Amerique, découvrait plusiers îles près
de la presq’île d’Alaska et mourait dans une d’elle.
Delisle faisait partie de l’expedition” (morirà nel
1741 nella Kamciatka). L’Algarotti, sugli scopi della spedizione,
è precisamente informato: “Il Capitano Perrin Danese ora
per la seconda volta insieme con Mr de Croyère è andato
per discoprire se questa parte della Russia ha comunicazione alcuna colla
America” (Giornale, f. 34r). In primo piano figurano, come
del resto è giusto, i direttori stranieri di quelle imprese (V.
V. BARTHOL’D, La découverte de l’Asie. Histoire
de l’orientalisme en Europe et en Russie, Paris, Payot 1947;
M. DEVÈZE, L’Europe et le monde à la fin du XVIIIe
siècle, Paris, 1971, p. I, cap. III-IV: “Les Russes dans
le Caucase; Les Russe en Sibérie et en Alaska”). Ma non bisogna
dimenticare la solida e disciplinata collaborazione russa.
[127] BOSS, cit., p. 115.
[128] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 32v-33r.
[129] E. GUYÉNOT,
L’évolution de la pensée scientifique. Les sciences
de la vie aux XVIIe et XVIIIe siècles. L’idée
d’évolution, Paris, 1957, pp. 136-137: “Il conservait
depuis plus de vingt ans “de petits cadavres momifiés, qui,
dit-il, avaient plus l’apparence de vivants andormis que de cadavres
inanimés””. Aveva trasmesso il segreto della sua tecnica
al figlio “mais dans la suite il fut perdu”. Algarotti non
nascose la sua meraviglia: “Ma la più bella cosa in genere
di storia naturale che veder si possa è il gabinetto di Ruisch,
che qui si conserva, dove sonovi le più belle iniezioni che sieno
giammai da mano anatomica, e dove la storia della generazione è
intera dalla concezione dir puossi fino al parto. Havvi tra gli altri
un feto inviluppato del corion pieno di liquore che è una meraviglia.
La freschezza delle carni etc. è mirabile come si conservi ancora.
Elleno paiono di cera” (ALGAROTTI, Giornale, ff. 35v-36r;
FRANCESCHETTI, Francesco Algarotti e l’Accademia di Pietroburgo,
cit., p. 596).
[130] A. SEBA, Locupletissimi
Rerum Naturalium Thesauri Accurata Descriptio, 4 voll., Amstelodami,
1734. Il Seba (1665-1736), funzionario delle Compagnie delle Indie Orientali,
venduto che ebbe a Pietro il suo primo gabinetto di curiosità,
ne adunò un altro, descritto con belle planches, nei volumi
citati. Essi attrassero l’interesse di un gruppo sceltissimo di
naturalisti francesi (Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire, Valenciennes, etc.)
che, a partire dal 1827, si misero a ristamparli. Il marsupiale esaminato
dall’Algarotti proveniva da questa raccolta (ALGAROTTI, Giornale,
f. 35r; MASSIE, cit., p. 690).
[131] ALGAROTTI, Giornale,
f. 33v.
[132] BARTOL’D, cit.,
pp. 245-246; Russischer Atlas, British Library, Maps C.21.e.1(1);
K. SVENSKE, Matériaux pour l’histoire de l’établissement
de l’Atlas de l’Empire russe, édité par l’Académie
des Sciences en 1745, Saint-Petersbourg, 1866 (supplemento al tomo
IX dei “Mémoires de l’Académie Impériale
des Sciences”, II). Terzo figlio dello storico-geografo Calude e
di Nicole-Charlotte Millet de la Croyère, trascorse in Russia ventidue
anni, dal 1725 al 1747: anni laboriosi ma non proprio felici. Tra l’altro
aveva escogitato in concorrenza con il Fahrenheit (1721) un nuovo termometro
(che l’Algarotti maneggiò) nel quale lo zero corrispondeva
alla temperatura dell’acqua bollente. Algarotti vide l’opera
dell’atlante in fieri (“egli ce ne mostrò di
gran pezzi già fatti”: ALGAROTTI, Giornale, f. 34
r). S. L. Chapin afferma che la “large-scale and accurate map of
Russia” era stata da lui “projected, but unrealized”
(GILLESPIE, Dictionary, IV, cit., 1971, sub voce, pp. 22-25).
E St. Le Tourneur gli dà addirittura del ladro: “en 1754,
il vendit au Roi [...] sa bibliothèque et les inestimables collections
qu’ils rapportait indûment de la Russie” (Dictionnaire
de biographie française, X, Paris, 1965, p. 842).
[133] BARTHOL’D, cit.,
p. 243.
[134] Ibid., p. 230.
[135] ALGAROTTI, Giornale,
f. 34v.
[136] ALGAROTTI, Giornale,
f. 46v.
[137] E. LO GATTO, Gli
artisti italiani in Russia, II, Gli architetti del secolo XVIII
a Pietroburgo e nelle tenute imperiali, Milano-Roma, 1993, p. 47.
Il quarto grandioso Palazzo d’Inverno sarà costruito sempre
dal Rastrelli tra il 1754 e il 1762 (Ibid.).
[138] Cfr. l’opera
citata nella nota 1 di S. Kaufman. Sempre fresche le considerazioni di
A. GABRIELLI, L’Algarotti e la critica d’arte in Italia
nel Settecento, in “La critica d’arte”, XIII, 1938,
pp. 155-169; XIV, 1939, pp. 24-31. Va notato l’entusiasmo per l’Arsenale
di Berlino, “il più bel pezzo d’architettura che senza
dubbio sia nel Nord” (ALGAROTTI, Giornale, f. 69v). Era opera
di Johann Arnold Nering (1659-1695), “il Palladio del Nord”,
il creatore del “Preussisch Stil” (Allgemeine Lexikon der
bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di
U. THIEME, F. BECKER, XXV, pp. 390-391).
[139] ALGAROTTI, Giornale,
f. 23v.
[140] Ibid.
[141] ALGAROTTI, Giornale,
f. 24v.
[142] Ibid.
[143] ALGAROTTI, Giornale,
f. 44r-44v.
[144] L. RÉAU, L’Europe
française au siècle des lumières, Paris, 1971,
pp. 131-132: “en bon élève de le Nôtre, il [Le
Blond] a transplanté sur les bords de la Néva et du golfe
de Finlande, au Jardin d’été (Lêtny Sad) et
à Peterhof l’idéal du jardin à la française”.
Cfr., contra, D.S. LICHACEV, La poesia dei giardini, tr.
it. Torino, 1996, p. 132: “nell’insieme Peterhof non ricorda
la Francia, né tanto meno Versailles [...]. Si possono riconoscere
influssi tedeschi, italiani, scandinavi, ma anche questi rielaborati secondo
il gusto personale di Pietro”. Ai giardini dell’età
petrina sono dedicate le pp. 123-144.
[145] ALGAROTTI, Giornale,
f. 51r.
[146] E. LO GATTO, Storia
del teatro russo, tr. it. Firenze, 1951, p. 48: “Data dell’inizio
di tale penetrazione [italiana] è considerato di solito l’anno
1735, quando a Pietroburgo arrivò il compositore maestro Araia,
ma già da prima, nel 1730, gli italiani avevano conosciuto la Russia,
mandativi dal re polacco Augusto II in occasione dell’incoronazione
di Anna. Il gruppo di commedianti e cantanti italiani aveva alla sua testa,
oltre al maestro compositore Reinhard Kaiser, anche l’attore comico
Tommaso Ristori. Le rappresentazioni ebbero luogo a Pietroburgo negli
anni fino al 1738 – fossero esse tenute dal Ristori al principio
o da altri in seguito – ebbero luogo dapprima in appartamenti privati
e solo dal 1734 in una sala appositamente preparata nel Palazzo d’Inverno
dall’architetto italiano Bartolomeo Rastrelli [...]. Il repertorio
era quello caratteristico della “Commedia dell’arte”
e degl’intermezzi”.
[147] Francesco Araia o
Araja (1709-1779?) venne scritturato nel 1735 dall’avventuroso violinista
napoletano P. Mira (“Pedrillo”), incaricato dalla zarina Anna
di reclutare in Italia una compagnia lirica e coreografica per il servizio
di corte. L’Araja giunse a San Pietroburgo alla fine del 1735 e
vi rimase con interruzioni fino al 1762, quando, “ricco e celebre”,
si ritirò a Bologna (Dizionario Biografico degli Italiani,
III, 1961, pp. 708-711; The New Grove Dictionary of Music and Musicians,
edited by S. SADIE, I, London, 1980, pp. 539-540; Storia dell’opera,
diretta da A. BASSO, vol. I, t. 2, Torino, 1977, pp. 87-90).
[148] ALGAROTTI, Giornale,
f. 26r.
[149] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 37v, 47v, 51v-57v.
[150] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 19r, 22v, 23v, 30r, 43r; ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit.,
pp. 44, 58, 66 (lettere III e IV). La frettolosità della partenza
non gli consentì – pare – di utilizzare qualcuna delle
opere, allora in circolazione, sulla Russia petrina: oltre al Perry (vedi
supra, n. 20) il Diarium di J. G. Korb (Viennae, 1700?),
i Voyages di C. de Bruin (Amsterdam, 1718), i Mémoires
di I. Nestesuranoi (Jean Rousset de Missy, La Haye, 1725-1728); i Voyages
di A. de la Mottraye (La Haye, 1728), tranne forse le Lettres del
Locatelli (vedi supra, n. 20). La Gran Bretagna, dopo la morte
di Giorgio I, stava diventando in Europa a ogni modo l’osservatorio
più attento (M. S. ANDERSON, Britain’s Discovery of Russia
1553-1815, London, 1958). L’Algarotti lesse, prima o dopo il
viaggio, qualcuna delle opere uscite in quegli anni: TH. CONSETT, The
Present State and Regulations of the Church of Russia, 1729; J. MOTTLEY,
The History of the Life of Peter the First Emperor of Russia, 1739;
J. BANKS, The History of the Life and Reign of the Czar Peter the Great,
1740). Entrato nel Sund – per fare un esempio – ricorda in
una nota marginale che nel 1716 un esercito russo-danese, appoggiato da
squadre navali inglesi e olandesi al comando dello stesso Pietro, si preparava
a sbarcare nella Svezia meridionale: “Tutte queste coste, queste
baie e questi mari furono misurati e scandagliati dal Czar Pietro il grande
nel tempo del suo soggiorno a Coppenhagen quando si tramava il famoso
sbarco in Schonen, che non ebbe poi luogo. L’istesso anno il Czar
comandò le flotte inglesi, ollandesi, danesi e russe unite insieme
senza peraltro nulla intraprendere. Ebbe questo vano piacere” (ALGAROTTI,
Giornale, f. 12r; ANDERSON, cit., cap. 4).
[151] Nulla la Russia aveva
da temere dalla Cina, dopo la definizione dei confini col trattato di
Kjachta (1727): avrebbe però dovuto cercare di migliorar il suo
commercio, ma senza troppo sperare di vincere la concorrenza di quello
degli altri paesi europei “per la facilità che hanno le altre
nazioni di andarci per mare e di darne a buon prezzo le curiosità
e le mercanzie” (ALGAROTTI, Giornale, f. 51v). La carovana
della Cina impiegava in effetti tempi lunghissimi: tra andata e ritorno
tre anni. Le ultime due partiranno nel 1746 e nel 1755. Nel 1762 Caterina
II le soppresse (DEVÈZE, cit., pp. 100-110). Molto più vantaggioso
e comodo quello con la Persia; e questo avrebbero dovuto coltivare di
preferenza (ALGAROTTI, Giornale, f. 51v). L’Impero ottomano
non avrebbe potuto mai offendere la Russia: per penetrare in Ucraina avrebbero
dovuto attraversare troppi deserti. Potevano però eccitare i Tartari
del Kuban’ e della Crimea a farvi delle incursioni per infastidire
o rubarne gli abitanti (ALGAROTTI, Giornale, f. 52r-v). Era di
vitale interesse che la Russia signoreggiasse (come si credeva che stesse
per fare) il mar d’Azov e il Mar Nero. Gli attriti con il Sultano
erano però in questo caso inevitabili (ALGAROTTI, Giornale,
f. 52v).Sul fronte europeo non si vedevano pericoli. I Polacchi “riceveran
sempre mai la legge de’ Russi” (ALGAROTTI, Giornale,
f. 53r). Quanto agli Svedesi, si sapeva che coltivavano idee di rivincita.
Ma la Russia, ormai ben insediata in tutta la Carelia (Vyborg) e forte
sul mare, non aveva di che preoccuparsi. La Finlandia (rimasta alla Svezia)
oltre tutto era terra troppo ingrata per mantenervi una grossa armata.
Né preoccupava il re di Prussia: “non potrà mai da
solo intraprender nulla contro questo Imperio” (Ibid.).
[152] ALGAROTTI, Giornale,
f. 52r.
[153] Tipica impresa espansiva,
malgrado le dichiarazioni pubbliche (Pietro andava dicendo di non cercar
terra, avendone “anche troppa”) era stata la campagna del
1722-1723 che aveva portato i Russi a Derbent, a Resht e a Baku. Al paese
aveva fatto credere di aver trovato laggiù “immense ricchezze”.
Ma era una “favola vana” (ALGAROTTI, Giornale, f. 30v).
In realtà – teste mister Bell, che aveva seguito la spedizione
come chirurgo – “tutto ciò che vi ritrovarono fu disagio
e penuria di ogni cosa”. Ma la Russia ne aveva tratto sostanziosi
vantaggi: col trattato del 1723, la Persia aveva ceduto tutto il litorale
a sud del Caspio ed era divenuta in pratica un protettorato russo (DEVÈZE,
cit., p. 77). Ma la zarina, per l’impossibilità di tenerle,
aveva dovuto restituire alla Persia nel 1735 quelle sterili e lontanissime
province (ALGAROTTI, Giornale, f. 52r). A rimetterci “il
loro antico splendore, se pur ne hanno avuto mai che il vano nome”
erano stati quei prìncipi georgiani, che, profittando dei successi
delle armi cristiane, si erano ritagliati, a spese dei musulmani, dei
piccoli stati. Ora vivevano modestamente a San Pietroburgo: “Uno
di loro in vece di stato ha un cordon rosso” (ALGAROTTI, Giornale,
f. 30v).
[154] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 51v-57v.
[155] ALGAROTTI, Giornale,
f. 54r-54v.
[156] ALGAROTTI, Viaggi
di Russia, cit., p. 68 (lettera IV).
[157] ALGAROTTI, Giornale,
ff. 55v-56r.
[158] ALGAROTTI, Giornale,
f. 42r.
[159] ALGAROTTI, Giornale,
f. 37v.
[160] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55v.
[161] “Quelli che
pretendono essere i più informati ci dissero che le rendite dell’Impero
in denaro contante montano a due milioni di lire sterline: somma considerabile
in un paese, dove ogni cosa è a così buon mercato. Un esempio
di ciò ci dava il marchese di Botta [...]. Oltre una quantità
grandissima di terre che appartengono all’Impero e che sono tuttavia
aumentate colle confiscazioni, il governo ha il rubarbre, il potash, una
grandissima quantità di canape meno il ferro in proprio, tutte
le osterie, l’acquavite, la birra, i bagni pubblici, le spezierie
appartengono all’Impero [...]. Oltre a ciò le provincie sono
obbligate di fornire alle spese loro al sovrano quanti uomini sì
per le armate che per il travaglio o altro che egli domandi, cavalli,
biade, orzo, frumento etc. cosicché può dirsi omnia caesar
erat” (ALGAROTTI, Giornale, f. 43r).
[162] ALGAROTTI, Giornale,
f. 54v.
[163] Importante il piano
di Leblond “architetto generale di Sua Maestà lo Czar”
dal 1716 al 1719: “C’est lui [Leblond, N.d.A.] qui l’a
pour ainsi dire “deshollandisée” [San Pietroburgo,
N.d.A.] en substituant ou plutôt en superposant au système
de canaux concentriques un éventail de trois grandes “perspectives”,
qui convergent vers la flèche de l’Amirauté: de la
Nouvelle Amsterdam il a fait un Nouveau Versailles” (RÉAU,
cit., p. 131). Il piano di Leblond, accantonato dal Menšikov, non
fu tuttavia mai realizzato quale era stato concepito. Per l’Algarotti
era rimasta una città olandese.
[164] ALGAROTTI, Giornale,
f. 55r.
[165] ALGAROTTI, Giornale,
f. 42v.
[166] ALGAROTTI, Giornale,
f. 50v.
[167] ALGAROTTI, Giornale,
f. 46v.
[168] ALGAROTTI, Giornale,
f. 57v.
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