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Salvatore Rotta

Russia 1739: il filosofo sedentario e il filosofo viaggiatore [*]

S. Rotta, "Russia 1739: il filosofo sedentario e il filosofo viaggiatore", in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
<testi/900/rotta/rotta_russia_1739.html>

Il filosofo sedentario è Paolo Mattia Doria. Nato a Genova il 24 febbraio 1667, era figlio di Giacomo e di Maria Cecilia Spinola, donna di gran casato e piena dei pregiudizi del suo stato[1]. Costretto nel 1690 a portarsi a Napoli per recuperare certi suoi crediti, tanto gli piacque l’atmosfera intellettuale del Regno che non se ne mosse più per tutto il tempo che visse (morì nel 1746). Non accettò neppure il pressante invito, fattogli nel 1730, dal generale sassone Johann Mathias von Schulenburg (1661-1747) a visitare Corfù che costui, passato al servizio di Venezia dopo aver militato in tutti gli eserciti d’Europa, aveva abilmente difeso contro i Turchi nel 1716: per il Doria l’azione più brillante di questo sperimentatissimo uomo di guerra[2].
Amicissimo del Vico, nel 1709 aveva pubblicato quel suo trattato della Vita civile, che, a parere del più accurato radiografo dell’opera del Montesquieu, Robert Shackleton, sarebbe una delle fonti dell’Esprit des lois[3]. In ogni caso, anticipa senza dubbio alcune delle tesi fondamentali dell’opera francese, apparsa – si sa – nel 1748. Il Doria fu scrittore copioso di filosofia politica e, ahimè, di matematica. I testi che ci interessano sono quattro, due editi, due inediti: Il capitano filosofo,[4] ponderoso trattato di teoria militare uscito nel 1739; le Lettere, e ragionamenti varj, apparso nel 1741, dove si legge un esame critico dell’Histoire de Charles XII del Voltaire pubblicata dieci anni avanti; due opere lasciate inedite dall’autore tra i tanti suoi manoscritti, tratte in luce di recente, tra il 1981 e il 1982, e in modo non proprio impeccabile, da un gruppo di studiosi dell’Università di Lecce: il Politico alla moda del 1739 (che già aveva ricevuto miglior cura nelle mani di Vittorio Conti) e Il commercio mercantile del 1742: una delle sue ultime opere[5]. Che il Doria fosse osservatore politico acuto si può dimostrare, per esempio, con un passo del Politico alla moda sulla Prussia. Re ne era ancora Federico Guglielmo I, il creatore maniacale del potentissimo esercito prussiano: [34] “Pare che egli aspiri – commenta il Doria – ad ingrandire il suo stato [...] con l’acquisto della Slesia, quando si divideranno li stati ereditarj dell’Imperatore”[6]. Federico Guglielmo, alieno d’altra parte a sciupare con una guerra quella sua perfettissima macchina, premorì a Carlo l’anno successivo. E l’invasione della Slesia, fosse questa o no nei piani dei defunto re, fu a ogni modo il primo atto del nuovo: Federico II.
I due saggi nutriti che ho pubblicato su questo autore mi consentono di essere breve. Bestia nera dell’ultimo Doria, dell’autore cioè del Commercio mercantile (non a caso proprio in quest’opera egli si fece propugnatore della disobbedienza civile[7]) era la politica “mercantile” del suo tempo, espressione che in lui non connota un sistema di scambi, ma un modo perverso di concepire i rapporti politici: quelli tra governanti e governati, quelli tra stato e stato, quello degli ordini all’interno degli stati, quelli infine tra uomo e uomo. Proprio quel gran mercanteggiare, quel disporre della vita dei popoli senza minimamente consultarli, quel passarseli di mano in mano era ciò che più faceva ardere di sdegno il Doria. Quei prìncipi bassamente calcolatori, che non coltivavano altro disegno politico che quello di arricchire il loro erario privato, non erano forse più simili a mercanti – e a mercanti indegni, perché mancatori di fede – che a guide e mantenitori di quegli organismi delicati, sempre pronti a esplodere a causa delle tensioni interne e della naturale turbolenza degli uomini che sono le società politiche? Caso esemplare di questa “mercantilizzazione” della politica: la Russia. La sua situazione internazionale era, prima dell’avvento di Pietro, del tutto marginale. Paese vastissimo sembrava che fosse “utilissimo più che niun altro regno del mondo dei commercio” e capace “d’inondare l’Europa”. Ma era purtroppo spopolato (“a cagione che è stato governato da i loro czari con tirannia, era poco men che tutto spopolato” tranne “quelli paesi che sono vicini al fiume Volga”). Non era stato perciò temibile da parte dell’Europa: “un’inondazione de’ soli moscoviti” era allora impensabile. Il clima rigidissimo non favoriva d’altra parte il commercio con i forestieri; e meno ancora lo favoriva il bassissimo livello culturale delle popolazioni: “Li popoli [...] sono stati incolti sino alla venuta di Pietro Alexiovitz nelle virtù militari e nelle civili, e sono stati trattati dai loro czari ad uso di bestie, onde poi essi stessi hanno vissuto più come bestie che come uomini, hanno avuto pessimi costumi ed inurbani, nelle conversazioni altro non facevano che ubbriacarsi e poi si cadevano a terra”. Le donne non facevano eccezione. Sul piano militare erano stati vulnerabilissimi. Nelle molte guerre combattute con i Polacchi “sono sempre stati battuti sin’a tanto che li Polacchi hanno dato il sacco a Mosca”; e pochissima perizia e scarsa disciplina avevano dimostrato nei frequenti conflitti col Turco. Di questa incapacità militare è prova il fatto che Carlo XII, nel 1700, poté battere a Narva con soli ottomila svedesi un esercito russo dieci volte superiore. Né migliore era la situazione religiosa. Greci scismatici, erano “osservantissimi” dei riti e delle “penitenze [35] esteriori” e obbedientissimi dello zar e del loro patriarca; ma i loro costumi erano pessimi. Le tre quaresime all’anno che facevano e tutte le messe che sentivano non li facevano migliori: “in mezzo alla loro ignoranza ed alla loro barbarie sono maliziosissimi, infedeli nel commercio e cattivi uomini”. La loro non era religione, ma “superstizione”; e c’era da augurarsi che tanta ipocrisia non finisse per attecchire tra i cattolici romani.
Pietro, uomo “dotato dalla natura capace di altissime virtù”, aveva concepito il disegno lodevolissimo di “civilizzare” la sua nazione e di “coltivarla nella virtù per lo mezzo del commercio colle altre nazioni”. In breve: “mutare la forma del governo barbaro in forma di governo politico”[8]. Commise però l’errore, comune a tutti i prìncipi europei, di credere che la politica “consista nel commercio [...] e nel mantenere esercito numeroso, e che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora per massima la massima che hanno li nostri principi, cioè che la gloria del principe consista nel dominare il popolo a sé soggetto e nel conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando la cura di promuoverne i popoli la vera morale e quelle vere virtù le quali sono [...] li veri e li soli fonti della vera politica”. Per raggiungere il suo fine di “coltivare li moscoviti nelle arti, nel commercio e nella guerra” non aveva risparmiato fatiche. I suoi successi erano sotto gli occhi di tutti. Aveva creato dal nulla un’eccellente scuola di architettura navale e li aveva resi abili in molte altre attività tecniche (“oggi li moscoviti fabricano vascelli, e fabricano tutte le altre cose alle quali nei passati tempi non hanno mai veramente pensato”); aveva aperto il commercio con la Cina, con la Persia, con l’Olanda, con la Svezia, con la Francia e altri paesi ancora (“i1 czar ha introdotto perfettamente nella Moscovia il commercio”); aveva, con l’aiuto di ufficiali francesi, olandesi, inglesi e tedeschi, disciplinato e ben istruito nell’arte di combattere l’esercito (“l’infanteria moscovita è la migliore che sia in Europa”). L’ultimo perfezionamento dell’esercito era sì dovuto all’opera di due stranieri – il tedesco Burchard Christoph Münnich (1685-1767) e l’irlandese Peter Lacy (1666-1751) – ai quali la zarina Anna, buona continuatrice della politica petrina, aveva concesso i maggiori poteri. Ma era stato pur sempre Pietro che aveva dato il primo e decisivo impulso e li aveva ingaggiati al suo servizio. E sua era stata la cura d’introdurre in Russia lettere e scienze, chiamandovi “con grandissimi soldi” molti scienziati delle università d’Europa per formarvi quell’Accademia delle scienze che Caterina I aveva poi realizzato.
Se i russi avevano assimilato dunque perfettamente le tecniche e l’organizzazione delle risorse dell’Occidente non per questo erano però divenuti più “virtuosi”: che pure era il secondo punto dei programma di Pietro. Bisognava cercare la radice di questo fallimento nella ristrettezza della sua visione politica: “non era filosofo, non era capace d’intendere l’origine e l’essenza della vera politica”. I rapporti dei cittadini con il potere non erano mutati: i Russi schiavi erano e schiavi erano rimasti[9]. La loro ferocia si era [36] tutt’al più convertita in malizia[10]. Il commercio, la disciplina militare, il progresso nell’uso delle tecniche non bastano per far avanzare in civiltà. Il Doria non pensava tuttavia che quell’europeizzazione precoce e violenta avesse compromesso per sempre la possibilità d’incivilimento dei russi. Sarà questa un’idea di Rousseau: “Les Russes ne seront jamais vraiment policés, parce qu’ils l’ont été trop tôt”[11].
Pietro era stato un eroe? Doria non lo credeva. Autentici eroi – così aveva detto sin dal 1709 – “quegli uomini forti e coraggiosi ma dotti e savj tutto ad un tempo, i quali alla felicità del popolo e dello stato le loro eroiche azioni indirizzarono ed in conseguenza di ciò prima penseranno agli interni ordini politici dello stato, dai quali nasce l’interno utile e naturale commercio, e poscia al commercio con le straniere nazioni ed in questa guisa faranno fiorire nei lor paesi la ricchezza alla virtù congiunta”. Il Doria è molto avaro nel rilasciare patenti di eroismo: la nega anche a Carlo XII. Era stato sì “un mostro di coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle fatiche”: un temerario, non un eroe. Aveva rovinato la Svezia, il suo paese, e non si era proposto nessun fine virtuoso, come sarebbe stato quello di liberare dalla servitù i popoli che conquistava[12]. E la nega, in polemica con Voltaire, al suo grande antagonista: Pietro. Il successo delle riforme compiute da quest’uomo brutale era incontestabile: la Russia era divenuta, vasta e ricca com’era, “la più potente Nazione d’Europa”[13]. Ma egli non aveva saputo dare alla sua autorità la forza di un fondamento morale. Il potere degli zar era enorme, ma fragile. I supplizi più atroci non bastavano a spegnere nei russi il desiderio di “divenire liberi” alla maniera dei vicini svedesi alla morte di Carlo XII; come avevano inutilmente tentato nel 1730. “Le congiure contro la Czara – pronosticava – come prodotto da una piaga assai profonda, si multiplicheranno sempre e alla perfine scoppieranno in una universale rivoluzione, e ciò malgrado li numerosi supplicj che la czara [indubbiamente Anna] prattica contro li congiurati”[14]. Per l’intrinseca debolezza del potere zarista, non nutriva grandi timori per il futuro d’Europa. Anche nell’ipotesi che la Russia, questo “gigante di smisurata grandezza”, fosse riuscita a soggiogare l’impero turco – era questo, del resto, il suo compito storico[15] – e a formare uno stato che si stendesse dal Baltico al Mar Nero e al mar di Grecia, fino ai confini con Venezia, non era da temersi. Un’iniziativa russa ai danni di qualche paese europeo avrebbe per prima cosa suscitato una grande coalizione contro l’aggressore[16]. Ma esistevano soprattutto limiti oggettivi all’espansione territoriale degli stati, e tanto più gravi quanto più il potere centrale, per la sua natura autocratica, mancava di profonde radici. La forza degli eserciti non bastava ad assicurare il successo durevole di un tirannico conquistatore.

Il filosofo viaggiatore – è appena il caso di dirlo – è Francesco Algarotti. Durante i diciotto mesi trascorsi a Parigi, dov’era giunto ventiduenne [37] nella tarda estate del 1734, Algarotti aveva stretto importanti amicizie (Maupertuis, Clairaut, Fontenelle, Voltaire...) e portato a buon punto la stesura di quei dialoghi sull’ottica newtoniana e più in generale sull’attrazione che aveva messo in cantiere sin dal 1730. Il 24 gennaio 1736 li dedicò con bella sfrontatezza (dice bene il Boss) a Fontenelle, il più tenace e noto esponente del cartesianismo. Passato in Inghilterra nella primavera di quell’anno aveva continuato, fra tutti quei newtoniani, a lavorarvi attorno[17]. Tra gli altri, entrò in rapporto strettissimo con il principe moldavo Antioch Kantemir (1709-1744), il figlio del celebre ospodaro Demetrio, divenuto residente russo alla corte di San Giacomo[18]. Vi era stato promosso poco più che ventenne nel 1732 dalla zarina Anna, non immemore dell’aiuto ricevuto nel 1730 da quel “progressista”, allievo di Feofan Prokopovič, a riprendere il potere autocratico e a “se remettre à couper les têtes selon son bon plaisir”, lacerando la convenzione da lei accettata a Mittau che rimetteva il potere sovrano nelle mani del supremo consiglio privato[19]. Non che fosse, per carità, un partigiano del dispotismo. Aveva sempre pensato che la monarchia temperata dall’aristocrazia fosse il migliore dei governi. Ma, benché ammiratore del regime d’Inghilterra, aveva creduto che “dans les circonstances prèsentes il convenoit mieux de respecter l’ordre établi”[20]. Di quanto dubbia lega fosse il suo liberalismo, lo dimostrò proprio durante il soggiorno inglese. Erano uscite anonime a Parigi nel 1735 le Lettres moscovites del bergamasco Francesco Locatelli Lanzi. Era ai suoi occhi un vile pamphlet dove “con la più estrema sfrontatezza ed ardire – così ne scrisse al conte Ostermann – se la prende con la corte, i ministri e tutto il popolo russo”[21]. Ostermann gli ordinò di conseguenza sia d’impedire la pubblicazione della traduzione inglese dell’opera sia d’identificare e punire a dovere l’autore. Il Kantemir non si diede per vinto. Ancora nel 1738, non aveva rinunziato all’idea di “battere fortemente” l’autore, se non proprio di sopprimerlo[22]. Quel libro, che era divenuto l’ossessione del principe, venne certamente nelle mani dell’Algarotti (che dimostrò di essersene servito)[23] entrato a far parte, durante i sei mesi del suo soggiorno inglese, di quel club di bons vivants – diplomatici italiani per lo più – che si era venuto formando attorno allo splendido (ma splenetico) Kantemir[24]. Come negoziatore, per la verità, concluse poco. Non riuscì a far riconoscere dal governo inglese il titolo imperiale della zarina (l’Inghilterra lo riconobbe a Elisabetta soltanto nel 1742) né a concludere con l’Inghilterra quel trattato di alleanza militare che da San Pietroburgo si sperava: i due obiettivi specifici della sua missione[25]. Ma se poco negoziò, molto tradusse. Era una sua passione. Sin dalla sua prima satira (1729) aveva invitato ad introdurre in Russia i grandi libri che apparivano in Europa. Ne aveva lui stesso di lì a poco, nel 1730, dato l’esempio traducendo quel gioiello cartesiano che era la Pluralité des mondes di Fontenelle: un’opera apparsa mezzo secolo avanti. In Inghilterra però da zelante cartesiano era divenuto zelantissimo newtoniano[26]. Lesse il Newtonianismo [38] dell’Algarotti sùbito che uscì, e tanto se ne entusiasmò da raccomandare agli amici di leggerlo e rileggerlo e cominciò a voltarlo in lingua russa[27]. Passato dalla sede di Londra a quella di Parigi nel settembre del 1738 continuò in quella città per lui tanto noiosa la sua fatica[28]. L’Algarotti, ritornato a Parigi da un lungo tour de France, aiutò l’amico in quell’incombenza lusinghiera e ricevette da lui consigli preziosi per la revisione della sua opera[29]. La nuova edizione uscirà in Napoli (ma Venezia) presso il Pasquali nell’ottobre del 1739. Era dedicata a Anna Ivanovna. L’ode che le va innanzi fu dunque composta prima del viaggio dell’Algarotti in Russia[30]. Su questo punto concordano i due migliori biografi settecenteschi dell’Algarotti: il Mazzuchelli e il Michelessi[31]. Tutti gli accenni dell’ode che potrebbero far pensare a una conoscenza diretta di San Pietroburgo erano in realtà ormai luoghi comuni negli ambienti colti, anche senza ipotizzare notizie provenienti appunto dal Kantemir: l’introduzione nel 1735 dell’opera lirica italiana, la creazione dei giardini e del padiglione Marly a Peterhof da parte del Leblond, allievo di Le Nôtre; le vittorie dell’esercito russo nella guerra russo-turca in corso da quattro anni. Da notare che quei giardini, quando li vedrà, li giudicherà di “gusto tedesco”.
Sin dalla prima edizione dei suoi dialoghi, nei quali aveva spezzato la “dura lingua” di Newton in “più pulite muse”, l’Algarotti considerava se stesso efficace agente e promotore del newtonianismo nel mondo. Cercava illustri protettori che lo secondassero in quest’opera di proselitismo. Sùbito che furono stampati, nel 1738, li aveva inviati a Elisabetta Farnese, regina di Spagna, affinché li diffondesse nelle terre dei suo vastissimo impero, “Acciò non più Newton del nostro mondo/ Sia a la metà più bella ignoto dio”[32]. Ma la cultura spagnola – sia detto di passata – si mostrò refrattaria alle novità scientifiche d’oltremanica: con l’eccezione del solito benedettino Feijoo, che molti anni dopo mise Newton in testa a tutti i novatori, non vi sono tracce a quest’epoca di ricezione dell’opera di Newton né in Spagna né nelle sue colonie americane, malgrado il vigoroso interesse per le scienze che in esse si andava manifestando[33]. Il Kantemir gli fece nascere la speranza di penetrare nell’altro emisfero. Nell’ode a Anna espresse l’augurio che egli riuscisse a portare a termine la sua versione: “Ed anco fia, ch’egli tua lingua apprenda [Newton, N.d.A.]/ Se tal, ministro alle sublimi cose,/ Non ispirano invan Minerva e Apollo”. Lo stesso augurio espresse nell’Avvertimento al lettore: “Egli [Kantemir, N.d.A.] sia in breve il Propagatore del Newtonianismo nel vasto Impero delle Russie, e la vera Dottrina sia ben tosto, mercè lui, sparsa in nuovi Mondi, Et Terras alio sub Sole jacentes”. Ironia della sorte: nel 1740 l’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo riuscirà a pubblicare finalmente la versione della Pluralité des mondes, fino allora bloccata dal Santo Sinodo, sicché il Kantemir figura, contro la sua volontà, nella storia letteraria russa come propagatore del cartesianismo[34]. La versione dell’Algarotti, ammesso che sia stata portata a termine, è andata invece perduta.
[39] Per parte sua, l’Algarotti era impaziente che la nuova edizione del Newtonianismo, ornata di quell’ode che gli amici bolognesi dicevano “maestosa” fosse recapitata nelle mani della dedicataria[35]. Il 29 ottobre 1739, appena saputo che il libro “avec les vers à l’Impèratrice” era ormai stampato, ne aveva fatto inviare (era allora in Inghilterra) alla prima occasione all’amico russo un esemplare per lui e uno per la zarina: “Je me flatte que V. E. – gli scriveva – sera agréer questa povera opera d’inchiostro; et que la philosophie et les muses auront un favorable accès auprès du Trône présentées par les mains de V. E.”[36]. Era vero che nessuno a San Pietroburgo – né il conte Ostermann né altri – lo aveva ringraziato per quei versi; ma si lusingava che “une fois qu’on saura que V. E. les a approuvés, il seront trouvés egaux au grand sujet”. Nel luglio del 1740 il volume sembrava ormai avviato alla volta della capitale russa. L’Algarotti, già fatto prussiano, se ne rallegrava: “Io sarei glorioso, che sua maestà imperiale non indegnerà quello che la venerazione e l’ammirazione m’hanno dettato, e son sicuro, che la bontà di vostra excellenza per me farà valere cotesta bagatella [...]”[37]. E si offriva di farsi cantore perpetuo di quella donna straordinaria: “Felice me, se vostra excellenza mi fa trovar grazia apresso di sua maestà imperiale, a cui rededicherò i miei versi dai confini della Prussia e delle rive del Baltico”[38]. Ma quella copia non giunse mai nelle mani della zarina, venuta intanto a morte il 16 ottobre 1740. L’Algarotti non nascose il suo disappunto[39]. Si consolò con le grazie delle quali lo andava ora colmando il nuovo re di Prussia, alla cui corte era “volato” nel giugno[40].
Le aperture del Kantemir verso il mondo russo resero l’Algarotti sempre più curioso di quel paese entrato ormai nel numero delle grandi potenze europee. Oltre tutto, l’amico gli aveva forse fatto sperare onorevoli impieghi per la sua persona, così irresistibilmente attratta verso la vita di corte. Ripassato nel marzo del 1739 a Londra, poche settimane dopo il suo arrivo fu invitato dall’eccentrico Charles Calvert, quinto Lord Baltimore, a unirsi a lui in un grand Tour nel nord sul suo yacht “The Augusta”[41]. Il 21 maggio Vecchio Stile – tre giorni dopo l’invito – l’imbarcazione fece vela da Gravesend verso il golfo di Finlandia. Lord Baltimore era impaziente di assistere ai grandi festeggiamenti organizzati a corte ai primi di luglio in occasione del matrimonio di Anna Leopol’dovna, principessa del Mecklemburgo, con Antonio-Ulrico di Braunschweig-Bevern. Questa coppia male assortita di principi tedeschi avrebbe dovuto, secondo i piani di Anna, generare il futuro zar. I suoi desideri saranno – bisogna dire – esauditi. Nel settembre del 1740, poco innanzi la sua morte, riceverà tra le braccia l’infante Ivan Antonović. Ivan erediterà il trono all’età di due mesi l’11 novembre 1740 col nome di Ivan VI e sarà detronizzato a quindici da Elisabetta, questa “donna incapace e crudele”, che lo condannerà a marcire in una prigione i restanti anni della sua vita[42]. Sarà ucciso dai suoi custodi nel 1764, regnante Caterina.
[40] L’Algarotti non era l’unico ospite. Sulla Augusta erano saliti altri due giovani: l’ultimo figlio di Jean-Théophile Désaguliers, Thomas (1725?-1790), che il padre “mandava in mare perché apprendesse la pratica della navigazione” (si distinguerà invece come abile artigliere)[43] e un suo “rivale”, un certo King, che sperava di fare “un corso di Fisica Sperimentale a quella Imperadrice” e che si era portato dietro tutte le macchine necessarie alle sue dimostrazioni[44]. Durante la navigazione darà in effetti due prove della sua abilità, che l’Algarotti mostra di aver apprezzato[45]. La presenza di un rampollo del Désaguliers e forse di un allievo del celeberrimo sperimentatore al servizio Newton, “plus newtonien que Newton” stesso, che a due riprese, nel 1722 e nel 1728, era sceso in campo in difesa dell’ottica newtoniana contro Giovanni Rizzetti (la bête noire pure dell’Algarotti) ci fanno certi che a Londra egli avesse frequentato quel personaggio assai in vista del Refuge: incontri facilitati forse dalla comune appartenenza alla massoneria[46]. Uomo dai gusti raffinati, Lord Baltimore si era procurato un abile cuoco francese, al quale l’Algarotti farà allusione chiamandolo scherzosamente col nome dell’autore di un celebre ricettario[47].
Di quell’insolito viaggio l’Algarotti volle tenere un esatto giornale in un quadernetto di cm. 19x11 (un ottavo piccolo) di carte 74, oggi legato in carta pecora bianca. Una mano ottocentesca gli ha dato per titolo Viaggio da Londra a Petersburg nel vascello The Augusta di Mylord Baltimore nel mese di maggio V. S. l’anno MDCCXXXIX: titolo riduttivo del contenuto, poiché un terzo del quaderno è riempito delle impressioni di viaggio in Polonia, Sassonia e Prussia. Precede una lunga nota dell’Archivista, stesa probabilmente allorché quella reliquia, rimasta in possesso non si sa di chi, venne messa in vendita nel novembre del 1848. Acquirente fu Thomas Rodd. La nota ne garantisce l’autenticità e fa anche qualche considerazione pertinente sul suo valore documentario[48]. È ora in possesso della British Library sotto la segnatura: Add. Mss. 17482. La scrittura, in colonna fino al foglio 57v, ossia fino alla partenza da Kronštadt, occupa poi l’intera pagina. L’Algarotti ha segnato in margine con una matita rossa i passi che vent’anni dopo circa decise di utilizzare per rompere quel testo in otto lettere fittizie a Lord Hervey, vice-ciambellano d’Inghilterra e perfetto uomo di mondo, al quale l’Algarotti al tempo del suo soggiorno inglese era stato particolarmente legato. Ci ha reso in tal modo due segnalati favori: quello di ammetterci nel laboratorio dello scrittore e quello di dare evidenza ai passi rifiutati.
Questo manoscritto, segnalato ma poco utilizzato dalla Treat nel 1913[49], è stato preso a studiare, un quarto di secolo fa, da Antonio Franceschetti, che nel 1976 ne trasse le pagine dedicate all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo[50]. Poiché questo studioso ha confermato anche di recente il suo proposito di darne un’edizione completa, io – pur avendone eseguito, per stendere la presente relazione, la trascrizione – mi asterrò dal rubargli la preda[51].
[41] Primo problema. È il diario originario o una riscrittura in vista di una pubblicazione? Il Franceschetti conclude per la prima ipotesi[52]; e tale è pure la mia conclusione. Le prove per me decisive sono tre. Il fatto che, dopo aver descritto nei termini più duri il despotismo di Federico Guglielmo I, arrivato a Rheinsberg, nella residenza cioè del Kronprinz Federico, il diario ammutolisca di colpo e nelle pagine residue appaia l’abbozzo dell’ode a Federico, che l’Algarotti compose non solo, ma mise anche in musica[53]. Seconda prova e forse la più concludente: gli schizzi dal vero frammisti al testo (ff. 17r, 20r, 22r, 24r, 25r). Una terza spia circa la data di composizione dei Giornale è l’accenno ad Azov, certamente anteriore alla pace di Belgrado del 18 settembre 1739: “Se [i Russi, N.d.A.] potranno ritenere Azov dopo questa guerra come è verisimile, potran dire di averlo ben comperato, ma in fine avranno una piazza di somma importanza”[54]. I Russi conserveranno – è vero – quella conquista, ma a patto di demolire le fortificazioni e con l’impegno a non costruire una flotta nel Mar Nero: conclusione davvero non prevedibile di una costosissima guerra.
Il secondo problema è quello di definire esattamente la cronologia degli spostamenti della coppia Algarotti-Baltimore. Quella notazione – V. S. – che tutti gli interpreti leggono “ultimo scorso” è invece una preziosa notazione. Come è noto, la Gran Bretagna continuò a servirsi del calendario giuliano fino al 22/31 dicembre 1752. La Russia, per parte sua, lo conservò fino alla Rivoluzione dell’ottobre-novembre 1917. Gli altri paesi attraversati dai due viaggiatori avevano adottato, quale prima quale poi, il gregoriano; la Polonia nel 1586, la Germania protestante nel 1700. Tanto basti per il nostro scopo. L’Algarotti usò il calendario giuliano – il Vecchio Stile – finché si mosse per mare e durante l’intero soggiorno in Russia; partito da Kronštadt il 20 luglio – dice – “in 12 giorni fecemmo il tragitto di là a Danzica ripetendo i passati pericoli nel Golfo di Finlandia”[55]. Da Danzica si mossero il 15 agosto. Avrebbero trascorso perciò apparentemente nella città anseatica tredici giorni: tempo troppo lungo per due viaggiatori premuti dal desiderio di visitare la Sassonia (Dresda e Lipsia) e di lì la Prussia, per imbarcarsi infine ad Amburgo, dove intanto li avrebbe attesi l’Augusta per ricondurli in Inghilterra. Occorre perciò convertire la data della partenza da Kronštadt nella data corrispondente del gregoriano (il décalage è nel Settecento di undici giorni). I due lasciarono dunque San Pietroburgo il 31 luglio, toccarono Danzica il 12 agosto, partendone il 15 alla volta di Dresda.
Questi calcoli sono necessari per fissare bene la data del soggiorno dell’Algarotti in Russia e quella dell’incontro col giovane Federico. Il Giornale registra infatti, giorno dopo giorno, i movimenti della galeotta, ma arrivato a San Pietroburgo si fa generico e generico resta fino alla fine. Ma c’è, come dire, un traguardo: gli otto meravigliosi giorni trascorsi alla corte di Federico a Rheinsberg[56]. Su questi il Giornale – come ho detto – è muto. Ma noi possiamo determinare con grande approssimazione la data della partenza: il [42] 26 settembre i due non sono più a Rheinsberg[57]. Il l° ottobre l’Algarotti annunzia a Voltaire il suo ritorno a Londra[58].
Quale impressione avevano fatto i due visitatori su Federico? Ottima, senza ombra di dubbio: “Je crains fort de ne revoir de longtemps dans ces contrées d’aussi aimables personnes”[59]. Lord Baltimore “est un homme très sensé, qui possède beaucoup de connaissances, et qui croit, comme vous – scriveva Voltaire –, que les sciences ne dérogent point à la noblesse et ne dégradent point un rang illustre”[60]. Quanto all’Algarotti, lo trovava delizioso: “Il a beaucoup de feu, de vivacité et de douceur; ce qui m’accomode on ne saurait mieux”; e se ne era staccato con rimpianto. Lord Baltimore era, a modo suo, un uomo charmant: “J’ai admiré le génie de cet anglais comme un beau visage à travers un voile”. E spiegava: “Il parle très mal français, mais on aime pourtant à l’entendre parler; et l’anglais, il le prononce si vite qu’il n’y a pas moyen de le suivre”. Dalla sua visita, mylord non aveva tratto una grande impressione della nuova Russia: “Il appelle un russien un animal mécanique; il dit que Pétersbourg est l’oeil de la Russie, avec lequel elle regarde les pays policés; que si on lui éborgnait cet oeil, elle ne manquerait pas de retomber dans la barbarie dont elle n’est guère sortie”[61]. Troppo presto si è concluso che questa celebre metafora non appartiene all’Algarotti ed è stata invece coniata dall’amico inglese[62]. Il Giornale costringe alla cautela. L’Algarotti aveva notato la totale mancanza di structure d’accueil della città: “Pe’ forestieri non vi ha accomodamento alcuno, né osterie, né valletti, né carrozze”. Ne aveva perciò concluso: “Il che manifesto segno è quanto pochi abbiano vaghezza di vedere questo Imperio, che da così poco tempo comunica con noi e che ci riguarda, per così dir, dalla finestra di Petersbourg”[63]. Nei Viaggi l’immagine ricompare, e sempre usata con qualche esitazione: “Ma qualcosa le [lord Harvey, N.d.A.] dirò prima, qual poi, di questa Città, di questo gran finestrone, dirò così, novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in Europa”[64]. Comunque sia, è dall’Algarotti che tolse quell’immagine Puškin nel suo Mednyj vsadnik [Il cavaliere di bronzo]: “Qui da natura fu per noi disposto – è Pietro che parla – di aprire una finestra sull’Europa”[65]. Tanto lord Baltimore piacque a Federico che a lui dedicò, dopo la sua partenza, una Épître sur la liberté de penser des Anglais: centosettantotto alessandrini che esordivano inneggiando a “L’esprit libre, mylord, qui règne en Angleterre, / qu’on abhorre à Berlin. Mais qu’à Londres on revère”[66]. Era un indiretto elogio di se stesso: “Il [Baltimore, N.d.A.] a trouvé ici des gens avec, lesquels il pouvait parler sans contrainte, ce qui m’a fait composer l’épître ci-jointe [...]”[67].
Ricapitoliamo, per comodità, i movimenti dei due turisti. Partiti da Gravesend il 21 maggio/1 giugno, toccarono l’Olanda e di qui raggiunsero Helsingor, all’ingresso del Sund, il 10/21 giugno. Rinunziarono a visitare Copenhagen per non mancare allo spettacolo pietroburghese. Entrarono in territorio russo il 17/28 giugno a Revel’ (Tallin) in Estonia; da Revel’ si portarono a [43] Kronštadt il 21 giugno/1 luglio e di qui, due giorni dopo, a San Pietroburgo. Ne partirono un mese dopo, il 20 luglio/1 agosto e dopo dodici giorni di navigazione furono a Danzica il 13 agosto. Di qui ripartirono il 15, ormai per via di terra (“non si corre in questi paesi la posta, come in Francia e in Italia”[68]) verso Dresda, dove giunsero sette giorni dopo, cioè il 22. Trascorsero tra Dresda e dintorni molti giorni. Ne ripartirono il 6 settembre verso Lipsia, già tutta infervorata nei preparativi della sua terza fiera, quella di San Michele. Da Lipsia si portarono a una data non precisata a Potsdam, alla corte di Federico Guglielmo I. Vi si fermarono qualche giorno, furono invitati alla tavola di quel tiranno: “È giocoso ne’ suoi discorsi, come ebbi campo di osservare alla sua tavola, a cui parlò moltissimo con Mylord Baltimore in modo che gl’Inglesi potrebbon dire ch’egli ha great deal of humour[69]. Da Potsdam raggiunsero l’ancora poco popolata Berlino e a cinquanta chilometri a nord di Berlino, Rheinsberg, dove trascorsero otto giorni (17-25 settembre?). Di qui attraversarono un paese “tutto sabbia” fino ad Amburgo per ritrovarvi, come ho detto, l’Augusta e far ritorno in Inghilterra[70]. Come si vede, trascorsero in terra russa poco più di un mese su tre spesi nel viaggio. Non a caso, quando l’Algarotti si mise a rievocare quelle sue lontane esperienze, nel 1760 e poi di nuovo nel 1763, alle otto lettere ricavate dal Giornale aggiunse quattro nuove lettere, pure fittizie, indirizzate al defunto Scipione Maffei, diede come titolo: Viaggi di Russia. E a questo titolo fuorviante gli editori moderni – tutti bravissimi (Trompeo, Bonora, Vincenti, Déleyan, Spaggiari) – si sono non so perché affezionati, pur sapendo che l’Algarotti se aveva dato per quell’edizione una buona sistemazione al testo, non aveva potuto, a causa della morte, rivedere l’opera stampata.
Inutile qui ripercorrere tutte le tappe dei viaggio: sono tutte ben rievocate nei Viaggi. Entriamo piuttosto nel vivo dell’argomento. Il primo impatto con la realtà dell’Impero avvenne a Revel’, capitale dell’Estonia, già provincia svedese, ma da trent’anni entrata nell’orbita russa. La pace di Nystad (1721) ne aveva assicurato a Pietro il definitivo possesso. La Svezia mal sopportava la perdita di quel suo granaio. E già si andava preparando a ricorrere alle armi. Tenterà in effetti l’avventura militare nel luglio del 1741. Ma sarà una spedizione sfortunata. Non soltanto non riavrà le provincie contese, ma con la pace di Åbo (Turku) perderà una striscia di Finlandia.
L’Algarotti dava in ogni caso perduta la sua causa. Il paese stava troppo bene sotto il nuovo sovrano. Pietro era stato assai abile nel legare strettamente a sé quelle provincie riluttanti, concedendo loro la più ampia autonomia municipale (“Si governano con le proprie leggi, che son quelle di Lubeck [...]”). Gli oppositori erano stati sconfitti: “Gli scrittori di Livonia – annoterà – che non hanno altre volte troppo ben trattato i Russi, devono ora ritrattarsi e farne il panegirico a cagione della dolcezza del Governo”[71]. Tutti quei baroni non pensavano ormai che ad arricchire; e si arricchivano [44] appunto grazie alla politica poco gravosa del governo: “Non hanno per così dire gravezza alcuna”. Tutti i loro privilegi erano stati conservati. Cosa inaudita! “Questo è il primo popolo che io abbia udito lodarsi e benedire il Governo”. A mantenere l’ordine pubblico provvedeva la municipalità con una propria compagnia di soldati ed alcuni cannonieri, i quali “frammescolati co’ Russi fanno la notte la guardia alla città”. Ai tre reggimenti russi di guarnigione la città corrispondeva “il quartiere e le carriole”, “il che monta a una piccolissima somma”. Totale l’apatia politica: “Non sanno per così dire che la Russia faccia la guerra ai Turchi e perché non contribuiscono nulla per questa guerra e perché si conserva sugli affari e sulle novelle un profondo secreto”.
Se i baroni ingrassavano grazie ai loro commerci granari; se gli artigiani vi godevano una buona posizione sociale (“Dicono che è cosa ordinaria di vedere un legnaiuolo e un fabbro i dì di festa con un abito gallonato e colla spada al fianco”), il popolo e soprattutto i contadini erano “orribili a vedersi: dira illuvies, immissaque barba”. Le donne “sopra tutto quando han passato il fior di gioventù perdono affatto i lineamenti femminili e rassomigliano nelle fattezze come nell’abito agli uomini”. L’allusione alla servitù della gleba era ellittica: “Si dice: un tale ha cento rustici [...] etc. poiché i paesani sono affatto schiavi”. Nei Viaggi la denuncia di quell’orribile sistema si farà invece aperta e vibrante: “Quando però io le parlo, Mylord, della felicità di questo popolo, non vorrei già io ch’Ella. vi: comprendesse quella parte, tanto più numerosa delle altre, che lavora la terra...”. I contadini “sono schiavi qui, come in Polonia ed in Russia”. Il padrone “gli vende come il bestiame”[72]. Ogni “anima” (cioè famiglia) aveva un valore convenzionale: non si dice “un tale ha tanto di entrata in contante; ma come in Russia: un tale ha tanti mila contadini; e si fa ragione che al Signore della terra renda un rublo l’anno ogni testa di contadino”.
Arrivato a Kronštadt, l’Algarotti si fa osservatore attento di quella importante base navale. Le fortificazioni del castello di Kronšlot, creato a difesa dell’isola di Kotlin, dove giaceva Kronštadt, erano importanti: “è una delle più forti piazze che siano al mondo”. Le opere erano tutte di legno. Ma si cominciava a far di pietra il molo che s’andava costruendo. E di pietra. tutta cavata dalle vicinanze di Narva, era un canale che pure s’andava costruendo della lunghezza d’un miglio e mezzo, largo, tanto da lasciar comodamente passare due delle più grosse navi da guerra e di profondità proporzionata in capo al quale si trovano i docks per trarre le navi a secco e toglierle dalla Neva, le cui acque dolci le facevano marcire. Era un’opera veramente “da Romani” (ne levava la pianta). Ma era necessaria? L’Algarotti ne dubitava: “Cui bono questo canale?”. L’errore di partenza di Pietro era stato quello di porre l’ammiragliato e l’arsenale a San Pietroburgo: “Ma cui bono l’ammiralità a Petersbourg?”. Una città tra l’altro così soggetta al fuoco e così spesso ripiena d’illuminazioni e ben più grave, che essendo la Neva [45] poco profonda il trasporto delle navi da San Pietroburgo a Kronštadt doveva farsi alla maniera d’Olanda, con l’aiuto cioè di un paio di “cammelli”, ossia di pontoni posti sotto la chiglia prima riempiti d’acqua poi svuotati: una bella spesa. Ogni paio di cammelli costava quarantamila rubli. Un altro grande e profondo canale per condurre i vascelli da guerra da Pietroburgo a Peterhof senza l’aiuto di cammelli – pur esso progetto di Pietro – si sarebbe cominciato a scavare alla fine della guerra turca. L’Algarotti faceva proprio il giudizio degli esperti (probabilmente l’ammiraglio Aleksander Gordon e il contrammiraglio Christopher O’Brien) e obiettava: “Ma non sarebbe egli meglio porre a bella prima l’ammiralità a Kronštadt o piuttosto a Revel?”. A Revel’, dove l’acqua era salata “secondo il Baltico”, c’era una bella e grande baia, il mare si disgelava più presto e non c’erano “tanti cattivi siti da passare nel golfo per menar fuori la sua flotta”. Tanto più che “il vento di sud-ovest” e di ovest “soffiando per lo più tutta la state” rendeva difficile alla flotta il tirarsi fuori dal golfo di Finlandia: si sarebbe anche potuto tenere “le galere in Kronstadt” o dove sono presentemente, e fabbricare le pranie, i vascelli a bombe e altri piccoli bastimenti a Kronštadt, riservando i grandi a Revel’. Soluzione quest’ultima che aveva un altro vantaggio: “Così avrebbon bisogno di navigare alcun poco e di tenersi in esercizio: del che hanno gran bisogno”. Nei Viaggi dirà epigrammaticamente: “Cotesta pur era la passion dominante dei Czar; aver navi, averle grossissime, averle e fabbricarle vicino a sé, dove meno conveniva”[73]. Tutte queste obiezioni si ritrovano pari pari nei Viaggi e di qui saranno tolte e fatte proprie dal cavalier De Jaucourt nella sua voce Petersbourg dell’Encyclopédie. Non ne tenne conto invece, come pur aveva promesso, Voltaire nel secondo tomo della sua Histoire de I’Empire de la Russie sous Pierre le Grand (1763)[74].
Gli architetti navali erano inglesi (e scozzesi), francesi quelli militari, italiani i civili. Una nave però l’Algarotti vide fabbricata da un russo. Inglese era Richard Brown che aveva appena costruito l’Anna, di centoquattordici pezzi di cannone, “la più gran machina che sia forse in mare, che meriterebbe per teatro l’Oceano non questo fosse pieno di scogli e di secche” che era il golfo di Finlandia. Ma “una delle più belle navi che veder si possano” era la Pietro I e II, di cento pezzi di cannone, fabbricata sul disegno del gran Pietro. La poppa specialmente era “superba”. Da buon allievo di Mauro Tesi, ne fissò sveltamente l’immagine. Al comando di quella nave l’ammiraglio Gordon era entrato in Danzica nel 1734. Per la verità, benché vittoriosa della flotta franco-svedese, quella “piteuse exhibition” non meritava certo di figurare tra i fasti della marina russa.
Fabbricavano le navi con i pezzi già tagliati delle querce che venivano per acqua da Astrachan’, e fabbricavano allo scoperto, “il che in un paese soggetto alle grandissime vicende di sommo freddo e di sommo caldo come questo non può avere che pessime conseguenze per la durata della nave”. In genere duravano dai dodici ai quattordici anni. Kronštadt era un mezzo [46] cimitero: delle cinquantacinque navi alla fonda in quel porto soltanto diciotto o venti erano in stato di servire. Tutte le altre, compresa la Caterina, la nave prediletta di Pietro, erano ridotte a pittoresche carcasse. E quelle poche in grado di prendere il mare – quel mare insidiosissimo – mal servivano per la crudele scarsità degli equipaggi. Dei dieci o quindici mila che erano, i marinai si erano ridotti a soli cinquecento. E con cinquecento marinai “non so quali grandi spedizioni potranno fare”. Gli altri erano tutti periti nei mari e nelle paludi intorno ad Azov.
Questo deperimento della marina era dovuto alla disastrosa scelta dei tedeschi al governo, poco ben disposti verso quella che era stata la più antica e preferita delle creazioni di Pietro: “Hanno perduto [...] quasi tutta la loro marina, voglio dire i marinaj”; avevano disarmato l’importante arsenale di Kazan’; e quanto all’ammiragliato di San Pietroburgo, al quale Pietro aveva assegnato trecentomila lire sterline di rendita, che non doveva per nessuna ragione essere “convertita in altro uso”, era stata invece intaccata per alimentare la guerra russo-turca. Insomma – dirà nei Viaggi – “l’opera degl’Inglesi; che presiedono qui alle cose di mare, è stata come distrutta dalle imprese dei Tedeschi, che sono alla testa delle cose di terra”[75]. E buoni marinai non si formano con tutta la buona volontà da un giorno all’altro. Per allevare, in quel paese di contadini, quelle “piante esotiche” occorrevano infinite cure[76]. Pietro era riuscito a compiere il miracolo. L’Algarotti, al principio dubbioso, aveva dovuto ammetterlo: “Il problema a buon conto che sieno diventati essi buoni marinai” era sciolto[77]. A Helsingor un ufficiale danese che era stato a bordo dì una delle loro fregate a Danzica nel 1734, gli aveva detto “meraviglie della disciplina navale russa”. “Ogni cosa – così si era espresso – andava come per via di suste”. Aveva ammesso perfino che erano diventati “molto migliori marinaj che i Danesi”[78]. La loro marina mercantile meritava di stare alla pari di quelle più famose: “il non avere un gran commercio fin ora in parti e in mari estremamente remoti, come gl’Inglesi e gli Ollandesi hanno, non gli ha ancora fatti pervenire alla fama loro”[79].
La loro forza principale sul mare erano rimaste le galee, che avevano permesso a Pietro nel 1719-1721 di invadere e devastare la Svezia. La costruzione in gran numero di quegli agili legni era stata una delle più intelligenti iniziative dello zar, che al principio (1713) si era servito di maestranze veneziane. Un superstite di quei fabbricatori di galee l’Algarotti aveva avuto la sorpresa di incontrare nell’Arsenale. Il vantaggio delle galee sulle navi grosse era che i soldati stessi ne erano i “remiganti”. Ne avevano allora tra grandi e piccole cento trenta. Armate tutte di due pezzi di artiglieria, del cannone di corsia e di falconetti dalle sponde, potevano trasportare un esercito di trentamila uomini. La destrezza dei Russi non temeva confronti. Semplici soldati, con l’uso della sola accetta, sapevano costruirne di bellissime. Tutti quei natanti ausiliari non potevano però compensare l’indebolimento dell’armata di guerra. Benché il paese non avesse bisogno di una gran flotta, [47] molto giovava nelle relazioni internazionali l’essere creduti potenti sul mare[80].
Se non si poteva trasformare da un giorno all’altro i contadini in marinai, molto più facile era trasformarli in soldati. L’uomo russo si prestava meravigliosamente a quella metamorfosi: “la sobrietà, si contentavano di nutrirsi con pane e sale, la pazienza della fatica e l’assuefazione alle maggiori durezze e alle maggiori vicissitudini dal freddo al caldo, la bravura o più tosto una certa durezza che li rende insensibili alla morte” ne facevano le migliori truppe d’Europa[81]. Se la fanteria e l’artiglieria non temevano confronti, meno brillante era la cavalleria per mancanza di buone cavalcature. Ma potevano contare sul potente ausilio dei cavalieri Cosacchi e Calmucchi. Nel paese si fabbricavano fucili a bassissimo costo e migliori di quelli di Sassonia; la polvere da sparo non costava “si può dire nulla”. Alla Russia dunque fare la guerra costava meno che agli altri stati europei:

Buon’arme e munizioni, militari a buon mercato, picciolo stipendio pe’ suoi soldati, non gran cura de’ magazzini e perciò poco pensiero di far sussistere le armate, scoglio altrove delle militari imprese, gente robusta e dura e mascula militaris progenies.

Questo spiegava in parte il fatto che la Russia fosse ininterrottamente in guerra da quarant’anni, e senza imporre gravezza alcuna: tanto erano grandi le rendite dal suo impero[82]. I soldati apprendevano il loro duro mestiere sulla linea del fuoco, senza esservi stati prima addestrati. Né tutti i generali, come l’irlandese Peter Lacy, cercavano di risparmiarne la vita; il tedesco Burchard Münnich in particolare si mostrava affatto “prodigo del sangue”. Nelle ultime campagne contro i Turchi aveva sacrificato centomila vite umane:

Le perdite che han fatto per le eccessive fatiche, per le marcie forzate ne’ deserti, per la mancanza d’acqua di cui hanno fatto senza talvolta tre giorni interi, soprattutto di giovani soldati son grandissime[83].

Per riempire i vuoti il numero delle reclute levate durante quella guerra era “spaventoso”: trecentomila. Mancavano stabilimenti per gli invalidi come in Francia. Soltanto per i marinai era stato adattato a ospizio l’Orangerie già del Menšikov[84]. Gli ufficiali erano a migliaia tedeschi (cinquemila) e di altre nazioni. Ma il Münnich nel 1731 aveva creato, sul modello dei mousquetaires di Francia, un Collegio di Cadetti per giovani nobili, che avrebbe dovuto essere “un semenzaio di ufficiali”. Istituzione tuttavia esattamente contraria allo spirito della riforma petrina dell’esercito, che aveva disposto che tutti servissero in partenza nei gradi inferiori.
Il “fiore” di tanto esercito – “dieci mila uomini delle più belle truppe che veder si possono” – erano i tre reggimenti della guardia: i due creati da Pietro (il Preobraženskij e il Semenovskij) e il terzo creato da Anna, l’Izmailovskij più l’Ingermanlandskij, quasi un quarto. L’Algarotti vide quei soldati scelti compiere in maniera impeccabile gli esercizi militari nelle loro eleganti uniformi di parata (gialle, nere e argentee); e se ne entusiasmò[85]. Il loro còmpito principale era proteggere la sacra persona dell’Imperatrice. Ma il [48] loro potere andava ben al di là della sua protezione. Come i loro predecessori strel’cy, spenti orrendamente da Pietro, avevano un enorme potere politico, come si era visto nel caso di Caterina I, di Pietro Il, di Anna Ivanovna: “danno e tolgono l’imperio a posta loro”. Erano, in breve, i “pilastri del despotismo”, questa novità. La situazione non era diversa nel 1760.
In principio era dunque la libertà – la partecipazione del paese all’esercizio del potere – soffocata in seguito dalla creazione di “milizie perpetue”. Schema tipicamente liberale. In Russia il potere dello zar era stato limitato, fino all’avvento del primo dei Romanov – Michele III –, dallo Zemskij Sobor. La creazione degli strel’cy aveva tolto a questo “senato” ogni peso nella conduzione degli affari:

Furono instituiti [gli strel’cy, N.d.A.] verso il principio del secolo passato a’ tempi di Michele Federowitz per contenere il Sobor, o Senato, che livellato avea la potenza dei Czar a quel segno di autorità che hanno presentemente i Re di Svezia[86].

Alludeva alla costituzione del 1720, dettata a Ulrica Eleonora dal Riksdag, che aveva inaugurato quello che nella storia svedese è chiamato il Frihetstid[87]. Durerà fino al 1772, alla prise du pouvoir cioè di Gustavo III. In realtà lo Zemskij Sobor era stato formalmente istituito da Ivan IV il Terribile nel 1549, lo stesso sovrano che aveva dotato l’esercito moscovita dei primi reggimenti permanenti: gli strel’cy ossia moschettieri. Questo istituto, tipico dell’età moscovita, inizialmente scelto dallo zar ma divenuto nel secolo XVII elettivo, non poteva propriamente dirsi un senato, ma piuttosto un’assemblea simile agli Etats généraux in Francia e alle Cortes iberiche. Gli zemskie sobory furono convocati spesso dal Terribile: nel 1549, nel 1566, nel 1575 e forse nel 1580[88] .
Si trattava di un’assemblea consultiva o di un organo deliberante? Ancora se ne discute. È un fatto che nel 1598 uno Zemskij Sobor aveva incoronato Boris Godunov e un altro nel 1613 aveva insediato sul trono un Romanov. Su preghiera del giovane principe, lo aveva anzi assistito per dieci anni nel disbrigo degli affari. L’Uloženie (la raccolta fondamentale delle leggi russe) era stato proclamato, regnante Aleksej, nel 1649 per iniziativa e decisione di uno Zemskij Sobor. Una cosa è certa: questa assemblea numerosa, quali che fossero i suoi poteri e l’estensione della sua autorità, cominciò a essere esautorata quando il potere centrale, divenuto assoluto, non tollerò più una qualunque forma di controllo da parte del paese. La stessa sorte, e per le stesse ragioni, era toccata assai prima ai suoi omologhi occidentali. E chiaro a ogni modo l’ideale politico dell’Algarotti, conservato intatto fino ai suoi ultimi giorni, nell’età cioè del despotismo “illuminato”. Lo aveva formulato già nel 1737 nella prima edizione del Newtonianismo[89]: la libertà del popolo (assemblee elettive) conciliata con la superiorità dei grandi e con l’autorità del sovrano sull’esempio – è ovvio – dell’Inghilterra e quello – meno ovvio all’epoca – della Svezia. Quest’ultima diverrà di moda dopo il 1756, dopo cioè il fallimento del colpo di stato di Adolfo I e di Luisa [49] Ulrica (la sorella di Federico II)[90]. L’Algarotti, per parte sua, nei Viaggi raddoppierà le sue manifestazioni di simpatia: “Incredibile [...] è il numero de’ vascelli Svezzesi che navigano presentemente; dove a’ tempi del despotismo se ne vedeano ben di rado”[91]. Questo nuovo fervore di attività era effetto diretto della libertà: “Ella [lord Hervey, N.d.A.] sa per altro, Mylord, quanto da alcuni anni in qua si sieno rivolti gli Svezzesi al mare, alle manifatture, ai traffici. Sono queste le arti che veramente allignano ne’ paesi liberi, come ora è la Svezia”[92]. La sua tesi di fondo.
La Russia nel 1730 aveva tentato di battere la stessa strada; ma quel tentativo di regime costituzionale era purtroppo abortito:

Si può dire in generale che la cosa che in Russia è portata a maggior perfezione è l’arte militare e tutto ciò che appartiene all’armata; e se i Russi non hanno ora gran generali eglino stessi, come ne ebbero al tempo del Czar nella prima infanzia, dirò così della nazione, ciò dee attribuirsi all’oppressione de’ Tedeschi sotto a cui gemono e alla politica forse del governo stesso, che vuole innalzare a così importanti dignità de’ forastieri, la cui fortuna è totalmente innestata col presente stato di cose e non que’ Russi che vollero già, animati dal dolce e naturale disio di liberarsi, ridurne il governo a quella forma di Repubblica appresso a poco che è in Isvezia, all’avvenimento alla corona della presente Imperatrice[93].

Il tema della depressione o addirittura della persecuzione dell’elemento nazionale – il tema dell’opposizione al regime di Anna e del favorito Biron – è un motivo costante nel Giornale: “Se un Russo ha qualche abilità è forzato d’impegnarsi in qualche Collegio malgrado suo o ad essere scrivano o un miserabile subalterno, perdendo in tal modo la libertà né concependo nessuna speranza di avanzamento”. A nulla serve un buon tirocinio europeo, al contrario: “se ritorna alcuno da’ paesi forastieri, dove abbia fatto a poter suo per attirarsi la stima, e la buona opinione del ministro che lo ha impiegato, in luogo di crescere di posto, ritorna più tosto indietro, quando è di ritorno a casa”. C’erano “degli esempi tragici di tali Russi che han finito la miseria loro con un laccio al collo”[94].
La Russia viveva insomma in un regime di occupazione militare da parte di un gruppo di stranieri (tedeschi e protestanti) che cercava in modi violenti di “mantenersi quella maggioranza e quell’autorità di cui è in possessione, senza che ci sia il consentimento libero del Senato e dei Grandi”. Perciò quel governo, nato per acclamazione di “pretoriani” , senza nessun legame col paese profondo, “ha da essere più militare che altro, e imperium armis acquisitum armis retinendum [...]”.
In effetti l’Algarotti conobbe, e descrisse accuratamente, la Russia alla fine del decennio più tragico di quel secolo[95]: nell’epoca cioè del “bironismo” (bironovščina), del pesantissimo regime di terrore instaurato dal favorito Biron: “Il governo è il più arbitrario e lo più spaventevole che sia forse al mondo”. Sistematica l’umiliazione della nobiltà:

Tutti quelli che [50] sono gentiluomini debbono andare malgrado loro alla Corte e fare ciò che a lei piace di loro; talché si ponno chiamare veri schiavi, e quelli che sono usciti dal loro paese sentono l’infelicità loro più che gli altri, né lasciano di deplorarla, massime quando hanno un po’ bevuto”[96].

Si poteva dire che la nobiltà russa “è tutta rovinata e posta fuori del caso di esser temuta”[97]. Tutti coloro che avevano “fatto figura nel regno di Pietro” avevano avuta la sorte dei “papaveri di Tarquinio”[98]. Non si mostrava a San Pietroburgo “casa di gran signore che non vi si aggiunga che il padron suo o morì in Siberia o è rilegato in una fortezza, o che non se ne sa più novella alcuna. Heu fuges crudeles terras!”[99]. In breve: “I signori sono gli schiavi della corte come i paesani lo sono dei signori”[100]. Sono – è cosa degna di segnalazione – le stesse parole che userà Montesquieu nelle Lois, quando già era cominciato il regno “nazionale” di Elisabetta e i tedeschi erano stati estromessi dai vertici del potere; “Le peuple n’est composé que d’esclaves attachés aux terres, et d’esclaves qu’on appelle ecclésiastiques ou gentilshommes, parce qu’ils sont les seigneurs de ces esclaves”. Non restava nessuno “pour le tiers état, qui doit former les ouvriers et les marchands”[101]. Guardava con simpatia agli sforzi compiuti dal nuovo governo per “sortir du despotisme, qui lui est plus pesant qu’aux peuples même”. E citava alcune delle riforme più importanti: “On a cassé les grands corps de troupes; on a diminué les peines des crimes; on a établi des tribunaux; on a commencé à connoître les loix; on a instruit les peuples”. Ma non si faceva troppe illusioni sui risultati di quegli sforzi: “Mais il y a des causes particulières, qui le ramèneront peut-être au malheur qu’il [vouloit] fuir”[102].
Punto nero nella costituzione voluta da Pietro: la mancanza di una legge fondamentale per la successione al trono. Era stato ben lui, una volta soppresso Alessio, ed escluso il figlio di lui dalla successione, ad abolire nel 1722 il diritto di primogenitura e a proclamare che stava in petto dell’imperatore di nominarsi il successore, “quando anco muojano senza eredi”. Eppure – dirà ancora Montesquieu, – “l’ordre de succession” era “une des choses qu’il importe le plus au peuple de savoir”. E faceva indubbie allusioni (sfuggite ai commentatori) a quanto era accaduto in Russia a causa di quella sciagurata decisione di Pietro: “Une telle disposition arrete les brigues, étouffe l’ambition; on ne captive plus l’esprit d’un prince faible, et l’on ne fait pas parler les morts”[103]. Tra l’altro la Corte imponeva un lusso rovinoso:

Altre volte i boiari erano obbligati dal Czar a far costruire un vascello; ora sono obbligati a fare un certo numero di vestiti per anno pe’ giorni di gala alla Corte; ed ultimamente per le feste del matrimonio i ciambellani, genere di cui non è il più soggetto né il più schiavo al mondo, otto in tutto condannati a una perpetua catena, ebbero ordine di fare 4 abiti ciascuno ricchi il più che si potesse mai, di avere quattro staffieri e due lacchè ciascuno con nuove livree.

Per fortuna, quell’ostentazione forzata di ricchezza si limitava agli abiti: “Guai alla [51] Russia se il lusso fosse negli equipaggi, nelle carrozze e ne’ mobili delle case come lo è nei vestiti”. La bilancia dei pagamenti ne sarebbe stata ancor più squilibrata: “Ma bisogna dire – commentava agro – che come sono magnifici negli abiti, altrettanto sono meschini nelle carrozze e succidi nelle loro case”[104]. Si poteva dire che, a parte qualche raro gentiluomo, “il resto abita nel succidume e nella bruttura”.
Se il regime, per così dire, di occupazione militare spiegava le atrocità del governo, lo stesso creatore della nuova Russia non andava esente da censura:

Per l’umanità ancora può dirsi non già che molte delle severe esecuzioni ch’egli fece non fossero necessarie per castigare i ribelli che di tempo in tempo contro di lui sorgeano e per avanzare la grand’opera della riforma ch’egli far volea (se pure la pulitezza e la scienza s’introduce in un paese a forza di bastone e di forca); ma non era già necessario ch’egli stesso assistesse in persona alle esecuzioni e ne facesse molte di sua propria mano[105].

Obiezione sensata, che troviamo in un fine studioso contemporaneo dei mondo russo, Alain Besançon: “In Europa, ed anzi persino in Asia, è mai accaduto che un re abbia trasformato il suo palazzo in camera di tortura, come fece Pietro il Grande? O che abbia accettato di adempiere personalmente l’ufficio di boia?”[106]. Malgrado la sua brutalità e diciamo pure la sua ferocia, poteva dirsi tuttavia

ch’egli avea fatto molto e che niuna nazione così prontamente emerse dalla barbarie conte fe’ questa, il che io attribuisco in grandissima parte al despotismo del gran Czar e alla grandezza e forza naturale della nazione benché barbara; le quali due cose poste insieme doveano dar gran segni di mutazione se mai veniano a mutarsi e farlo sentire al mondo, dirò così, a gran colpi[107].

Tutti gli autori francesi che avevano potuto consultare – tutti, compreso il mite abbé de Saint Pierre (Réflexions [...] sur CharIes XII, 1734) – giudicavano la despoticité (è il termine usato dal Saint Pierre) uno strumento di progresso. Così Fontenelle, che tessé nel 1725 l’elogio di quell’illustre confrère all’Académie des Sciences; così l’amico Voltaire nella sua Histoire de CharIes XII (1731)[108]. Tutto nuovo era però il riconoscimento della “grandezza e forza naturale” della nazione che lo aveva assecondato. Alle manifestazioni di crudeltà andavano del resto unite in quell’uomo dall’energia incontenibile, forme patologiche di sentimentalismo: scendeva, per esempio, dalla sua sedia “per seguire un morto che vedesse passare per la strada a piangere col resto della processione”[109].
Una delle sorprese del Giornale è il ritratto benevolo dell’anima nera del regime: Biron, che da poco Augusto III aveva fatto duca di Curlandia: “Egli è un uomo di assai buon senno e di buona condotta, e per la gratitudine che mostra alla sua benefattrice e per la maniera onde si comporta fra’ Russi, fra’ quali si contenta senza volere altro impiego di essere il favorito della lor sovrana, pronto a giovare e tardo a nuocere, imbarazzato per altro a fare il personaggio di sovrano, senza educazione né disinvoltura [52] alcuna ed amante oltre modo i “buffoni maghi”, de’ quali questa corte abonda”[110].
Sull’Imperatrice, per la quale abbiamo visto l’Algarotti smaniare sfacciatamente con il Kantemir, era invece prudente rilevandone con acume i difetti: “Ella è oltremodo divota, amante del lusso e del fasto e della gloria, protettrice di buffoni, sprezzante di bassezza e nimica, cred’io, degli affari, sui quali si confida col duca”. Non gli sfuggì neanche il carattere violento dei suoi svaghi: in particolare, il tiro a segno “nel che è peritissima”[111]. Assidua frequentatrice di vescovi (“si baciano vicendevolmente la mano”) essa aveva tuttavia fatto di recente una legge intesa a diminuire il numero dei monaci in linea con le intenzioni di Pietro[112]. Sui monaci, il giudizio dell’Algarotti non è meno ostile di quello dei Locatelli, e forse ne è un ricordo[113]. Quelli del convento di San Aleksandr Nevskij – “gran fabbrica senza gusto e senza simmetria” disegnata da Pietro – si mostravano “divoti a questo santo e all’acquavite”, “ben pasciuti, lucidi e grassi”. Vescovi e monaci erano ignoranti “come prima”. Il vescovo che aveva tenuto il sermone dinnanzi all’Imperatrice il giorno dei matrimonio “fu riguardato come un prodigio di erudizione perché mostrò sapere la genealogia della casa di Wolfenbuttel”[114]. Ma si erano mostrati, durante le feste, compìti uomini di mondo. Curioso era il trono collocato nel fondo della grandissima sala del Palazzo d’Inverno, tutta dorata e dipinta, dove l’Imperatrice dava le udienze: “parte nel gusto di un trono e parte di altare, e perciò conveniente all’Imperatrice [...] e al sommo Pontefice”[115]. Ne fissò l’immagine. Lo stato doveva in ogni modo conservarsi laico, e non interferire in materia di fede: “benché qui l’Imperatore come Capo [...] della chiesa possa a piacer suo dogmatizzare e definire, egli è però meglio che il Santo Sinodo non gli dia questa noja”[116].
“La corte, come dicemmo, è sempre la stessa trista e meschina, piena di baciamani, di umiliazioni, di serietà e di noja e coperta di valdrappe d’oro e d’argento”. Le dame che la frequentavano erano generalmente delle belle. Belle del resto erano tutte le russe, “molto più piccanti delle altre bellezze del Nord”. Purtroppo, “la schiavitù in cui generalmente sono in questo paese e la mala educazione che ricevono non le lascia essere aggradevoli come senza ciò sarebbino”[117]. L’emancipazione femminile, anche per Montesquieu, avrebbe favorito l’evoluzione del sistema russo di governo verso forme temperate: “Le despotisme du prince s’unit naturellement avec la servitude des femmes; la liberté des femmes, avec l’esprit de la monarchie”[118].
Delle dame della corte, due colpirono Algarotti: Anna Leopol’dovna, la sposa del giorno, e Elisabetta. Gran simulatrice, costei fingeva di accettare di buona grazia l’esclusione dal trono: “La povera Principessa Elisabetta, figlia del gran Pietro, porta la sua croce in santa pace e ne tempera l’amarezza e il peso con molta affabilità e cortesia”[119]. Di Anna l’Algarotti era invece [53] infatuato: “La principessa Anna è bella e ha un non so che di piccante nella fisionomia che piace ed alletta più che la bellezza stessa”. Era ambiziosa certo (“Ella ha l’aria d’esser volonterosa anzi che no”), ma aveva motivo di esserlo: “ottimamente educata e piena di grandi idee”, faceva molto sperare di sé: “se questa sarà Imperadrice, come è verisimile, sarà l’Elisabetta [Tudor] del Nord colla sola differenza ch’ella avrà con cui far razza ch’ella però dall’altezza sua disdegnava assai”[120]. Non poteva prevedere quanto spietato sarebbe stato tra poco l’urto di quelle due donne.
Il despotismo impediva lo sviluppo culturale: “Quanto alle lettere io credo ch’elleno sieno incompatibili colla natura d’un governo come il russo”[121]. Non vi era un russo tra gli accademici delle scienze a tredici anni dalla fondazione di quell’istituto; i corsi pubblici di astronomia tenuti dall’unico francese tra tanti tedeschi che gremivano l’Accademia, Jean-Nicolas Delisle, andavano deserti. L’Accademia era però una cittadella soprattutto di matematici, e di alti matematici (Daniel Bernoulli, Eulero...) un luogo chiuso, esclusivo. Per scuotere l’apatia o l’indifferenza agli alti studi occorreva una forte stimolazione dall’alto, o semplicemente scuole per tutti[122]. Ma era impensabile che quel governo così despotico, che esigeva “un’implicita obbedienza” ne prendesse l’iniziativa: temeva che l’“ornare e coltivar lo spirito del popolo” provocasse una meno pronta e cieca obbedienza. Eppure l’esempio della Francia avrebbe dovuto disperdere quei timori. Lo stato francese era anch’esso despotico e restrittivo della libertà di pensiero[123]. Ma, nonostante “una certa universal cultura”, il popolo era ubbidiente, anzi era un “monumento” di ubbidienza, di devozione alla corona[124]. Non sapeva però lui stesso quanto valesse questo confronto: “non si può indi nulla concludere”[125].
Nel resoconto della visita all’Accademia, l’Algarotti dedica molto spazio a quanto venne a sapere della memorabile esplorazione della Siberia e dell’Estremo Oriente che la Russia andava compiendo. Nessuno però gli fece notare quanto alta e qualificata fosse la partecipazione dei Russi a quell’epica impresa, che proprio in quegli anni, nel decennio 1733-1743, stava toccando il suo apice: la seconda spedizione di Bering aveva messo in moto almeno seicento persone[126]. Tra l’altro, quelle gigantesche imprese – le più costose che mai Stato avesse finanziato – erano la causa delle poco floride condizioni dell’Accademia sul bilancio della quale gravavano. Inoltre i dissidi interni e soprattutto i cattivi trattamenti che avevano ricevuto avevano indotto alcuni membri alla fuga, rendendo l’istituzione in quel momento poco brillante[127]. Gli esperimenti da essa promossi erano o futili o cervellotici[128]. Ma possedeva almeno delle ragguardevoli raccolte: quella di molti disegni di animali e piante della Siberia e le due – quella dell’impareggiabile imbalsamatore Ruysch[129] e quella adunata dall’instancabile cacciatore di rarità naturali che era stato l’olandese Albert Seba – che Pietro aveva acquistato all’epoca del suo secondo viaggio europeo (1717)[130]. La grande opera [54] alla quale lavorava da dodici anni Joseph-Nicolas Delisle era la confezione di una nuova carta dell’Impero, migliore di quella delineata dal suo miglior fratello Guillaume, l’ascoltatissimo amico di Pietro. I Delisle, questa grande famiglia normanna di geografi, erano – annota l’Algarotti – “destinati a descrivere ai principi la Terra”[131]. Quell’Atlante Accademico, che i più moderni biografi asseriscono essere stato da lui lasciato inconcluso, uscirà invece nel 1745 e rimarrà insuperato nella descrizione delle coste settentrionali della Siberia fino al 1878, allorché il Nordenskjold vi apportò qualche lieve correzione[132]. L’Algarotti non rimase indifferente a quel grande lavoro di ricognizione e si mostrò curioso dei risultati della seconda spedizione di Bering e delle tre partite in quegli anni per meglio definire la zona tra l’Ob, lo Enisej, la penisola di Tajmyr e la parte meridionale della Novaja Zemlja[133]. Ed esaminò con diletto i materiali – libri, medaglie, manufatti – provenienti da Calmucchi e da Mongoli. Tra l’altro egli ebbe la ventura di conoscere il giovane giapponese Gonza, un naufrago, battezzato nel 1734 con il nome di Damian Pomorzef, l’animatore unico della “Scuola per lo studio del giapponese” creata nel 1736 presso l’Accademia delle Scienze. Di lì a poco, in età di appena 21 anni, il giovane mori, e con lui la scuola[134]. Della Cina e della Tartaria ammirò la “grandissima carta” fatta dai gesuiti (il Novus Atlas Sinensis, 1655 del padre M. Martini?) ed alcune carte celesti disegnate da cinesi “nelle quali i nomi che danno alle costellazioni sono tutti tratti dall’Impero Cinese, unico mondo per loro”[135]. Battuta fulminante sull’autocentrismo della cultura cinese.
Gli effetti del despotismo erano visibili nell’assetto urbano di San Pietroburgo. Una città come questa, che godeva di un’invidiabile situazione, avrebbe potuto diventare “una delle più belle città del mondo”. Ma era stata edificata con tale malgarbo, con tale fretta e con tanto scadenti materiali che era già tutta decrepita: “la poca cura che generalmente hanno nel fabbricare; il farlo come fanno forzatamente, è cagione della maniera meschina con cui son fabbricate le lor case”[136]. Il governo intimava che venisse fatto questo o quello; e “bene o male” era obbedito. Gli ordini impartiti da un potere così assoluto erano altrettanti fiat. Purtroppo “l’ubbidienza non produce gran bene”. Le case da poco costruite già andavano ricostruite. Lo stesso Nuovo Palazzo d’Inverno (era il terzo), la maggior fabbrica della città, modesta opera del giovane Bartolomeo Rastrelli, non era ancora terminato che fra poco si sarebbe dovuto ricostruire (previsione avverata)[137]. Quanto al suo stile, a un odiatore del barocco qual era l’Algarotti, non poteva che riuscire sgradito[138]: “l’architettura di questo Palazzo è mezzo italiana e mezzo francese o piuttosto del moderno e sciocco gusto italiano, come sono la maggior parte delle fabbriche in Petersbourg”[139]. Ricordò con lode la “grandissima sala di cento ottanta piedi di lunghezza, tutta dorata e dipinta. Ella è tutta intorno ornata di colonne d’ordine corinzio fra quali resta nel fondo il trono [...]”[140]. Era qui che si fece nelle feste del matrimonio la “gran cena, rilevata [55] d’un gran concerto di musica istrumentale e vocale”. Anche la galleria era “una bella stanza ornata tra il gusto italiano e francese, dorata tutta con grandi lampade di cristallo e parquetée alla francese come pure la sala”. In essa “si cangiarono gli anelli degli sposi dopo la grande udienza, qui si danzò e qui un’altra sera vi fu una tavola per li quadrilli delle mascherate, la meglio intesa e del meglio gusto che mai immaginar si possa”[141]. Nella gran sala vi erano tappezzerie fatte dai Russi: “Non si può dire che il lavoro né sia troppo perfetto né tampoco il disegno, che è dei più abominevoli”. Molto migliori le tappezzerie di seta della Cina “nelle quali è tessuta carta d’oro e d’argento”: “il che fa un assai aggradevole effetto alla vista”[142].
Bella era la Cattedrale dei Santissimi Pietro e Paolo dentro la fortezza (“ella è più tosto per comandar la città che per difenderla”): opera del ticinese Domenico Trezzini “si può dir molto bella per questo paese e nel cui vestibolo vi hanno delle colonne di marmo (cosa insolita e rara qui [...])”[143].
Ammira questa volta senza riserve i tre giardini della città, “elegantissimi tutti, distinti di viali coperti di berceau, di boschetti, di canali, di laghetti, di aviari, di piscine, di fontane e di parterre”. Nelle stufe e nelle varie tende turchesche disseminate qua e là vi erano “ogni sorta di frutta e piante rare”. Nella celebre “grotta” del giardino del Palazzo d’Inverno vi era qualche pezzo antico non spregevole. L’Algarotti aveva notato in particolare due statue velate del virtuosistico scultore padovano vivente Antonio Corradini – la Religione e la Fede – “molto belle per la delicatezza e sottigliezza del lavoro”. Notevole il giudizio sui meravigliosi giardini di Peterhof, classificati di solito dagli studiosi (perché disegnati da tre francesi: l’architetto Le Blond, il pittore Pillement, lo scultore Nicolas Pineau) come giardini alla francese[144]. L’Algarotti, buon conoscitore, annota: “La casa [Monplaisir, N.d.A.] è picciola, belle le acque, i giardini di gusto tedesco e la vista la più piacevole dei Nord”[145]. La città possedeva due teatri: uno sul fondo del giardino del Palazzo d’Inverno “dove altre volte faceasi la commedia” (ossia la commedia dell’arte)[146] e quello grande, bello e capace due volte il teatro dell’Opera di Parigi, del Palazzo d’inverno, dov’era ospitata dal 1735 la grande orchestra e coro diretti dal maestro napoletano Francesco Araja, compositore di buona scuola. Dall’autunno del 1738 però, per il congedo di diversi artisti, l’Araja non poté più mettere in scena grandi spettacoli teatrali (l’opera in musica annoiava l’imperatrice) e aveva limitato la sua attività alla musica di corte: cantate, pastorali, intermezzi[147]. E una pastorale, Endimione e la luna, eseguì in occasione delle feste. La musica parve all’Algarotti “assai indifferente”[148].
Una lunga sezione del Giornale è dedicata all’esame dell’economia russa (risorse, popolazione, commercio, industrie) e della sua posizione internazionale[149]. Non era stato facile raccogliere notizie su queste materie. Il governo era gelosissimo dei suoi arcani: “non v’ha paese al mondo, in cui il segreto intorno alle cose di stato e alle bagatelle ancora sia più invincibilmente [56] guardato”. Ma l’Algarotti aveva i suoi bravi informatori: l’ammiraglio Aleksander Gordon; il contrammiraglio Christopher O’Brien; Claudius Rondeau, già console generale (1728) poi dal 1731 residente della Gran Bretagna e il suo segretario Mister Bell; il ministro austriaco Botta; il mercante inglese Crammer, presso il quale alloggiavano; il barone Lang...[150]. Ormai sicura dentro i confini del suo immenso impero, la Russia non aveva più da temere aggressioni da parte dei suoi vicini, in Europa e soprattutto in Asia[151]. Insensata sarebbe stata la ricerca di ulteriori espansioni territoriali, “avendo più bisogno questo paese di restringersi per così dire che di dilatarsi viappiù”[152]. Tant’è vero che nel 1735 aveva dovuto abbandonare le conquiste fatte da Pietro nella regione dei Caspio[153]. Poteva dunque deporre la spada e dedicarsi alle arti della pace[154]. In primo luogo, occorreva ripopolare il paese, l’Ucraina soprattutto, stremato da quarant’anni di guerra: “Non si può dire quanto la pace sarebbe desiderabile per questo Impero”. Sempre “che saranno in guerra, come dal principio del secolo il sono quasi di continuo stati, non potranno giammai godere pienamente i frutti della riforma del gran Pietro”[155]. A questo fine, il dimezzamento degli effettivi dell’esercito era una necessità. Una truppa regolata di centoventimila uomini era il massimo che un paese di così enorme estensione potesse permettersi. Occorreva lasciare almeno dodici milioni di “gente utile”, cioè produttiva, sugli appena diciassette o diciotto milioni (stima troppo generosa) che popolavano tutto l’Impero[156]. Tra le armate, era comunque la marina ad aver bisogno di maggiore attenzione[157]. Il lusso – quella folle passione delle mode francesi che da dieci anni in qua si era impadronita degli uomini e soprattutto delle donne russi – andava represso adottando severe leggi suntuarie[158]. Bisognava infine promuovere l’agricoltura e le industrie del paese – le minerarie innanzi tutte, ma anche quelle d’armi e di panni – e liberalizzare il commercio. Era questo un punto essenziale. I vecchi metodi di Pietro – che si diceva avesse una volta dichiarato di “non aver mai potuto intendere che cosa egli fosse” – e quelli poco diversi dei suoi successori (“né ora, cred’io, lo intendon meglio”) andavano abbandonati. Finora il commercio era stato, se non proprio perseguitato, almeno non incoraggiato a dovere. I mercanti non godevano di nessun prestigio sociale. Quelli che avevano acquistata qualche fortuna con i loro traffici, per evitare le avaníe e i soprusi del potere, preferivano sotterrare i loro denari piuttosto che innalzare belle dimore. Oltretutto, quello stato così forte metteva in circolo una moneta vile: il rublo, la “più infame moneta che sia al mondo, moneta di rame”[159].
I governanti dovevano convincersi che il commercio, soprattutto il grande commercio, ha bisogno di libertà[160]. Non era sufficiente favorire solamente le città, ma bisognava incoraggiare “il popolo, che divenente più ricco divenga anche più comodo e felice; e soprattutto non monopolizzando il commercio come in molte cose fa il Governo stesso[161], benché in un governo militare ed arbitrario come si è questo, un tal progetto sia ad eseguir più [57] difficile che il fare imparare il latino ai loro paesi”[162].
Pietro non era risparmiato in questo plaidoyer in favore della libera iniziativa: “Il czar Pietro volea far di Petersburg una città d’Olanda, come si vede fra le altre cose a’ canali ch’egli vi ha fatto a solo fine, si può dire, di fabbricarvi sovra li ponti”[163]. Ma “il vero modo era di dar la libertà al popolo, che li avrebbe costruiti quando ne fosse stato uopo”. Benché egli avesse voluto far dei suoi sudditi altrettanti liberi soggetti. Ma non erano “però nulla in fatti”. Quale maestro di libertà poteva essere stato un uomo che andava “sempre co’ stivali e facendo delle riviste”[164].
Dell’andamento della guerra anti-turca in corso i sudditi erano tenuti all’oscuro, era una guerra lontana, “nulla più che s’ella fosse in America”. Soltanto quando ricevevano qualche buona notizia “o grande o picciola [...] è annunziata a gran colpi di cannone e celebrata con feste pubbliche, fuochi di gioia ed illuminazioni (le più belle che si facciano al mondo [...])”[165]. Il regime despotico – il regime della disinformazione e della deresponsabilizzazione – poteva assumere l’aspetto gradevole della festa, quelle per il matrimonio erano state “veramente superbe”. “Giammai tanta profusione d’oro e d’argento”. La cena nella gran sala del Palazzo d’Inverno “era uno de’ più magnifici spettacoli che occhio umano possa giammai vedere; e la cena nella Galleria uno dei più gentili”[166]. Ma la partecipazione dei quaranta o cinquantamila abitanti sì e no della città a tutta quell’esultanza ufficiale era stata minima: “si può dire che le loro belle processioni e cavalcate, le loro magnifiche livree etc. mancavano di spettatori”[167]. Indifferenza o rifiuto?
In conclusione: un paese, malgrado tutto quel luccichio di facciata, asfissiante. Arrivati a Danzica “respirammo colla miglior aria la libertà di qualunque aria migliore”. Si poteva dire di loro quello che disse di sé Costanza Czartoryski, la palatina di Mazovia (era moglie di Stanislaw Poniatowski) poco amica dei Russi, “ch’ella rassomiglia nel suo ritorno da Petersbourg a Danzica ad un uccello, che dopo essere stato alcun tempo nel vuoto della macchina [pneumatica] comincia a sentir l’aria che gli s’introduce a poco a poco”[168].

Note

[*] Saggio originariamente apparso in Settecento russo e italiano, Atti del Convegno: Una finestra sull'Italia Tra Italia e Russia, nel Settecento (Università di Genova, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, 25-26 novembre 1999), a cura di M. L. DODERO – M. C. BRAGONE, Bergamo, MG Print-on-Demand, 2002, pp. 33- 71 (il volume di Atti è “in memoria di Salvatore Rotta”). In questa edizione elettronica sono state sciolte le abbreviazioni e sfrondate le maiuscole nelle fonti citate. Inoltre, la paginazione originale è stata riportata tra parentesi quadre e in grassetto [Franco Arato – Davide Arecco].
[1] Luogo e data di nascita, nonché rapporti e legami familiari sono stati ricostruiti da me su carte d’archivio: S. ROTTA, Idee di riforma nella Genova settecentesca, in “Il movimento operaio e socialista in Liguria”, VII, 1961, p. 225 n.; S. ROTTA, Paolo Mattia Doria, in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 835-968 (d’ora in avanti: D); S. ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Atti del convegno di studi (Lecce, 4-6 novembre 1982), Galatina, Congedo, 1985, pp. 389-431. La comunicazione era stata pubblicata la prima volta su “Studi settecenteschi”, III-IV, 1982-1983, pp. 45-88 (d’ora in avanti: DR).
[2] Nel 1726 lo stesso Schulenburg così riassumeva, a uso dell’allievo de Folard, la sua carriera: “je me suis trouvé pendant plus de quarante ans, pour ainsi dire, aux quatre coins de l’Europe, de sorte que j’ai fait la guerre avec et contre les nations les plus connues sur notre globe” (J. CH. DE FOLARD, Commentaire sur Polybe, III, Paris, 1728, p. 164). Sui suoi rapporti con il Doria e su quest’ultimo teorico della guerra cfr. DR, 84-87; cfr. anche ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento, cit., pp. 427-430).
[3] R. SHACKLETON, Montesquieu et Doria, in “Revue de littérature comparée”, LVII (1955), pp. 173-183.
[4] P. M. DORIA, Il Capitano Filosofo, a cura di M. PROTO, Macerata, Lacaita, 2003 [N.d.C.].
[5] I dodici volumi di manoscritti del Doria, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, sotto stati pubblicati presso l’editore Congedo (Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, a cura di G. BELGIOIOSO, M. MARANGIO, A. SPEDICATI, P. DE FABRIZIO, I-V, Galatina, Congedo, 1979-1982). Il politico alla moda si legge nel volume V, a cura di M. MARANGIO, pp. 25-131; Il commercio mercantile nel volume IV, a cura di F. DE FABRIZIO, pp. 277-410. Il politico alla moda era stato già pubblicato da Vittorio Conti in appendice al suo saggio Paolo Mattia Doria dalla Repubblica dei togati alla Repubblica dei notabili, Firenze, Olschki, 1978, pp. 129-259.
[6] DORIA, Il politico alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 203.
[7] D, 962-968.
[8] DR, pp. 68-69 n. 19 (cfr. anche ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento, cit., pp. 411-412); DORIA, Il politico alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 206.
[9] P. M. DORIA, Lettere, e ragionamenti varj, Perugia [ma Napoli], 1741, p. 60.
[10] DORIA, Il politico alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
[11] J.-J. ROUSSEAU, Du contrat social, in Oeuvres completès, III, Paris, 1964, p. 386 (libro II, capitolo 8); C. WILBERGER, Peter the Great: an Eighteenth-Century Hero of Our Times?, in “Studies on Voltaire and the Eighteenth Century”, XCVI, 1972, pp. 5-127 (in particolare le pp. 19-62); D. S. VON MOHRENSCHILDT, Russia in the intellectual life of eighteenth century France, New York, 1936. L’autore sostiene che attorno al 1760 le posizioni degli intellettuali francesi erano divise in “Russian or anti-Russian group” e in “Voltaire or pro-Russian group” (p. 242). Il primo gruppo includeva Mably, Condillac, Raynal e Mirabeau. Nella prima categoria militavano Diderot, Alembert, Grimm, La Harpe, Marmontel, de Jaucourt. Divisione troppo netta (WILBERGER, Peter the Great, cit., pp. 63 e segg.).
[12] DORIA, Lettere, e ragionamenti varj, cit., p. 59; DORIA, Il capitano filosofo, Napoli, Mosca, 1739, p. 16.
[13] DORIA, Il commercio mercantile, in Manoscritti napoletani, IV, cit., p. 350.
[14] DORIA, Il politico alla moda, in CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., p. 212.
[15] P. M. DORIA a J. M. VON SCHULEMBURG, 29 settembre 1731: “L’imperio Ottomano poi hà così declinato da i suoi principj, che già sarebbe giunto, al suo fitte, se la pigrizia de Turchi nel far commercio non tenesse allettate da i guadagni, e come stipendiate le nostre Nazioni Mercantili [...] quest’impresa però sarebbe riserbata più, che à verun’altro Principe al Zar di Moscovia, il quale essendo della Religgione Greca, e come egli pretende, discendente dagl’Imperadori Greci averebbe Subito entro le Viscere dell’Imperio un gran partito; ma il vile Interesse e la discordia sono troppo più forti, che non è l’Amor della gloria, e quel del ben d’Europa’’ (Manoscritti napoletani, III, cit., p. 203).
[16] Il Doria si era posto il problema se lo zar di Russia potesse formare una monarchia universale soprattutto nel Politico alla moda (CONTI, Paolo Mattia Doria, cit., pp. 210-211): "Supponiamo per primo che egli penetrasse con le sue rapide conquiste nel core della Germania. Che li avverrebbe egli? [...] Non avendo il Czar un numeroso popolo più virtuoso, che il popolo alemanno, egli non potrebbe [...] mutar gli ordini e le leggi dei paesi". Che cosa dunque potrebbe fare? "Egli avrebbe a stabilire le sue conquiste, ponendo in tutti li paesi conquistati un gran numero di truppe per presidiare le piazze, e per tenere in freno i nuovi popoli. In questo modo però indebolirebbe il suo esercito, e frattanto i principi vinti si unirebbero in lega fra essi, e lo discaccerebbero dalla Germania". Anche supponendo che lo zar andasse “a passi lenti, conquistando prima li paesi di confine, e poi inoltrandosi a poco a poco nelle viscere della Germania", andrebbe incontro alle stesse difficoltà, perché "nel lungo tempo ch’egli ponesse a conquistare, i principi si unirebbero contro di esso", e anche quando riuscisse vittorioso degli ostacoli "non potrebbe stabilir le conquiste per altra via, che per quella delli presidj di truppe moscovite, onde gli suoi eserciti si diminuirebbero, ed egli sarebbe obbligato ad abbandonare le sue conquiste". La conclusione è rassicurante: “Così dunque non possono mai fare stabili conquiste quelli conquistatori, i quali non hanno virtuoso stato”. In breve: “con le sole, truppe non si possono fare stabili conquiste”.
[17] F. ARATO, Il secolo delle cose. Scienza e storia in Francesco Algarotti, Genova, Marietti, 1991. Una bibliografia completa fino al 1991 in: F. ALGAROTTI, Viaggi di Russia, a cura di W. SPAGGIARI, Parma, Guanda 1991, pp. XXXVI-XLVII. Lo studio più recente è quello di S. KAUFMANN, Francesco Algarotti: the Elegant Arbiter of Enlightenment Architecture, London 1988. Le citazioni dei Viaggi fanno riferimento all’edizione Spaggiari.
[18] H. GRASSHOFF, Antioch Dmitrievic Kantemir und Westeuropa, Berlin, Akademie-Verlag, 1966; V. BOSS, Newton and Russia. The Early Influence (1698-1796), Cambridge, Cambridge University Press, 1972, pp. 116-127.
[19] K. WALISZEWSKI, Littérature russe, Paris, Colin, 1900, pp. 65-66; WALISZEWSKI, L’héritage de Pierre le Grand. Règne des femmes, gouvernement des favoris (1725-1741), Paris, Flammarion, 1900, passim. Il supremo consiglio privato era stato creato l’8 febbraio 1726, un anno dopo l’incoronazione di Caterina I per aiutarla nel governo del paese (R. M. MASSIE, Peter the Great. His Life and World, tr. it., Milano, Rizzoli, 1985, p. 730); F. VENTURI, Feofan Prokopovic, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari”, 1953, pp. 648 e sgg.
[20] O. DI GUASCO, Vie du prince Antiochus Cantemir, in Satyres du prince Cantemir, Londres, J. Nourse, 1750, p. XVII; F. VENTURI, Incontri cosmopoliti: Lomellini e Cantemir, in “Rivista Storica Italiana” CIII, 1991, p. 555.
[21] [F. LOCATELLI LANZI], Lettres moscovites, Paris, Huart l’Ainé, 1735; tr. it. Lettere dalla Moscovia, a cura di M. Chiara Pesenti, Bergamo, 1991. Il governo russo ne ordinò la confutazione, uscita anonima a Francoforte nel 1738, col titolo: Die so genannte Moscowitische Brieffe etc., utilizzata nelle note all’edizione italiana. La lettera a Ostermann in: A. KANTEMIR, Socinenija, pis’ma i izbrannye perevody kniazja A.D. Kantemirs, a cura di P.A. Efremov, t. II, Sankt-Peterburg, Glazunov, 1868, p. 98 (cit. da VENTURI, Incontri cosmopoliti, cit., p. 547, n. 13). La lettera è del 14 novembre 1735. La traduzione inglese di William Musgrave (Lettres Moscovites; or Muscovian Letters by an Italian Officer of distinction) uscì a Londra nel 1736. “Russia” in luogo di “Moscovia” cominciò ad essere utilizzato verso il 1716 da J. PERRY, The State of Russian under the present Czar (cfr. D. GROH, La Russia e l’autocoscienza d’Europa, Torino, Einaudi, 1980, pp. 48-49 nn. 12 e 13). Montesquieu, malgrado che l’opera del capitano Perry, nella traduzione francese di Hugony (Etat présent de la Russie, La Haye, 1717), sia tra le sue fonti (non l’unica, come vorrebbe la DODDS, Les récits de voyages sources de l’“Esprit des lois” de Montesquieu, Paris, 1929, pp. 110-113) continua a servirsi di Moscovie.
[22] KANTEMIR, cit., pp. 99 e segg. (cit. da VENTURI, Incontri cosmopoliti, cit., p. 547, n. 14). Sul Locatelli cfr. G. GALLIZIOLI, Memorie per servire alla vita del conte Francesco Locatelli Lanzi, Milano, 1982.
[23] Vedi più avanti, n. 112.
[24] GRASSHOFF, cit., pp. 162 e segg.
[25] A. G. GROSS, The Lords Baltimore in Russia, in “Journal of European Studies” XVIII, 1988, p. 78. Un trattato di amicizia e di alleanza difensiva tra Russia e Gran Bretagna, destinato a durare venti anni, sarà stipulato dall’inviato inglese a San Pietroburgo, Finch, il 3 (14) aprile 1741. Impegnava le parti contraenti a soccorrersi mutualmente con dodici navi da guerra da una parte e dodici mila uomini dall’altra. Un articolo segretissimo obbligava la Russia a fornire questo soccorso anche durante la guerra in corso della Gran Bretagna con la Spagna nel caso che altre potenze (la Francia) fossero intervenute nel conflitto. Al povero Kantemir, la reggente Anna Leopol’dovna ordinò frattanto nel giugno di tentare di stringere un’alleanza difensiva con la Francia! (WALISZEWSKI, L’héritage, cit., pp. 329-330).
[26] BOSS, cit., p. 121 e segg.
[27] A.D. Kantemir alla marchesa di Monconseil, Londra, 10 luglio 1738: “Á propos de livres, il en a paru un nouveau d’un gentilhomme vénitien, m. Algarotti, sur le système de Newton et particulièrement sur son optique: il est écrit sur le même plan et presqu’en style semblable que celui de la “pluralité des Mondes”. Je l’ai lus ces jours passés avec beaucoup de plaisir. Il traite fort bien sa matière, et il n’est pas moins clair que badin, de sorte que si vous voulex devenir Newtonienne à peu de frais vous le serez à la seconde lecture de ce livre, sans cependant faire grand cas du language qui n’est pas toujours italien. On me dit que l’autoeur est à Paris. Je le connais particulièrement: il est d’une conversation fort enjouée, sans affectation, et il a beaucoup d’esprit et même du savoir, de sorte qu’il mérite votre amitié” (GRASSHOFF, cit., p. 121). Non era dunque adulatorio il riconoscimento da parte dell’Algarotti che egli conoscesse la nostra lingua “come già i Bembi e i Buonmattei” (Il newtonianismo, edizione 1739, Avvertimento). Che il Kantemir avesse cominciato a tradurre l’opera algarottiana “étant encore à Londres” è detto dal suo traduttore e amico Guasco (Satyres du prince Kantemir, cit.).
[28] La noiosità di Parigi è tema frequente della sua corrispondenza (A. Kantemir a G. Ossorio, 14 gennaio 1739: “Mes lunettes me font croire que Paris est aussi ennuyeux que Londres”; a G.B. Gastaldi, lo stesso giorno: “Il n’est que trop vrai que je m’ennuie dans la belle ville de Paris”; a Algarotti, il 6 novembre 1739: “Les jours se passent moitié à ne rien faire et l’autre à faire des riens”; GRASSHOFF, cit., pp. 178, 307, 176). Il Kantemir arrivò a Parigi il 19 settembre 1738 (Ibid., p. 290).
[29] G. M. MAZZUCCHELLI, Gli scrittori d’Italia, I, Brescia, 1753, pp. 481-428: “Da Milano ripassò di bel nuovo in Francia, e, scorse ch’ebbe alquanti mesi alcune di quelle provincie, si trasferì a Parigi, ove trovò fatte due traduzioni in Lingua Francese de’ suoi Dialoghi. Nel tempo medesimo traduceva questi in lingua russa il principe di Kantemir [...]”. Nell’agosto sembra che l’Algarotti fosse a Parigi (E. Manfredi a F. Algarotti, Bologna 11 agosto 1738: “È stato per noi una grata sorpresa il sentirvi tutto inteso a cercare le antichità nel Languedoc, quando il vostro silenzio ci aveva fatto credere che foste occupato piuttosto nelle mode di Parigi, dove secondo l’itinerario da voi inviatomi la presente mia lettera vi dovrebbe finalmente trovare”, cfr. F. ALGAROTTI, Opere, XI, Venezia, Palese, 1792, p. 136). Avviato ormai alla volta di Parigi era – pare – ancora in itinere nell’agosto (Mme du Châtelet a F. Algarotti, Cirey 27 agosto 1738: “Je suis ravie de vous voir dans notre pays... Je ne puis me plaindre que vous alliez recevoir à Paris les applaudissemens que votre livre charmant mérite”; ALGAROTTI, Opere, XVI, cit., 1794, p. 46). Non conosciamo, a ogni modo, la data esatta del suo arrivo nella città. Di traduzioni francesi del Newtonanismo se ne conosce all’epoca solo una: quella poco felice di Duperron de Castera (ARATO, cit., Appendice II, n. 2). Era apparsa invece, nel 1739, la versione inglese di Elisabeth Carter (Ibid., n. 7).
[30] Di questa ode si posseggono due versioni: quella appunto che va innanzi all’edizione del Newtonianesimo, stampata in Napoli [ma Venezia] nel 1739; e quella pubblicata nell’edizione Palese (I, 1791, pp. 5-7). È questa seconda versione che è stata utilizzata dalla collega Volodina. Ignoro il rapporto tra i due testi, che pubblico entrambi in Appendice. L’edizione del Pasquali era uscita nell’ottobre del 1739. Cfr. più avanti.
[31] MAZZUCCHELLI, cit., p. 482: “Il Principe, che aveva già conosciuto a Londra, gli comunicò che questa traduzione era principalmente destinata alla defunta imperadrice Janowna; il che diede a lui [Algarotti] motivo di comporre que’ versi alla medesima indirizzati, i quali si leggono in fronte all’edizione fatta in Venezia col nome di Napoli”; D. Michelessi: “quella prima [traduzione] fatta dal principe di Cantimir, quando era ambasciatore della corte di Pietroburgo a Parigi, diede occasione al conte Algarotti di fare un bellissimo componimento poetico, che si legge fra le sue opere, pieno d’entusiasmo, e d’immagini grandi e vive in lode dell’imperatrica Anna Giovannona, quando egli le intitolò i Dialoghi, e quando il predetto principe le mandò la sua traduzione” (D. MICHELESSI, Memorie intorno alla vita e agli scritti del conte francesco Algarotti, in ALGAROTTI, Opere, I, cit., 1791, p. XXVI). L’ultima notizia è senza fondamento.
[32] ALGAROTTI, Opere, I, cit., 1791, pp. 68-69: A Sua Maestà la Regina di Spagna, mandandole il Newtonianesimo.
[33] B. J. FEIJOO, Cartas eruditas, IV, Madrid, 1944, pp. 182-183: “Bacon y Boyle fueron filósofos originales y profundos; más profundo y más original que los dos, Newton... A Newton dió una antorcha de vivisima luz, con que pudo registrar amplissimos espacios de aquel grande edificio, con quienes todos los filósofos anteriores nada habian visto, sino tinieblas”. Il celebre poligrafo aveva conosciuto Newton attraverso il compendio di W. J. S. VAN ‘SGRAVESANDE, Philosophiae Newtonianae Institutiones, In usus Academicos, Leiden-Amsterdam, 1728 (G. DELPY, L’Espagne et l’ésprit éuropéen. L’oeuvre de Feijoo (1725-1760), Paris, 1936, p. 345). Sulle scienze nell’America spagnola: “En el siglo XVIII existe en toda la América española un gran interés por la ciencias [...]” (M. HERNANDEZ SÁNCHEZ-BARBA, Las Indias en el siglo XVIII, in: Historia de España y América, a cura di J. V. VIVES, IV, Barcelona, 1974, p. 401). Il primo a insegnare pubblicamente nell’università di Lima la fisica di Newton fu negli ultimi due decenni del secolo XVIII il padre Isidro Celis (Ibid., p. 402). Non esistono traduzioni in castigliano dei dialoghi di Algarotti (ARATO, cit., pp. 137-155).
[34] BOSS, cit., p. 116.
[35] E. Zanotti a Algarotti, Bologna, 4 gennaio 1740: “Colla vostra lettera io ricevei da vostro fratello la nuova edizione del Newtonianismo... I versi alla czarina sono maestosi e belli; e sono piaciuto ancora a mio padre, che voi sapete essere adoratore del Petrarca e di quelli del Cinquecento” (ALGAROTTI, Opere, XII, cit., pp. 346-347).
[36] Algarotti a Kantemir, Londra, 29 ottobre 1739: “J’ai reçu avant-hier une lettre de Venise, dans laquelle on me mande que mon livre est dejà imprimé avec les vers à l’Impératrice” (GRASSHOFF, cit., p. 123).
[37] Algarotti a Kantemir, Charlottenburg, 7 luglio 1740 (GRASSHOFF, cit., p. 124).
[38] Nelle lettere a Kantemir, Algarotti esce in lodi iperboliche della zarina: “La profonde admiration avec laquelle j’ose lever les yeux sur cette puissante Impératrice, l’honneur du sexe et l’exemple de l’univers [...]” (GRASSHOFF, cit., p. 123). Scriveva – si ricordi – a un protégé di Anna. Più che lusinghiero il giudizio su quella sorta di primo ministro e direttore della politica estera che era Andrej Ivanovic (Heinrich) Ostermann (Algarotti a Kantemir, Londra, 29 ottobre 1739: “Votre Excellence me permettra de le remercier de la lettre qu’elle a daigné d’écrire a Mr le C.te d’Ostermann, qui mérite bien assurement qu’on fasse le grand voyage”; (GRASSHOFF, cit., p. 122). Originario della Vestfalia, era stato fin dal 1711 uno dei più influenti e prudenti collaboratori di Pietro. Aveva senza dubbio grandi qualità: parlava tedesco, olandese, francese, italiano, latino e russo alla perfezione (MASSIE, cit., p. 597). Perla rara: tra tutti quei favoriti avidi di accumulare ricchezza, quella vecchia volpe spiccava per “l’incorruttibile onestà” (V. GITERMANN, Storia della Russia dalle origini alla vigilia dell’invasione napoleonica, I, Firenze, 1963, p. 512). Cadrà in disgrazia nel dicembre 1741, al momento del colpo di stato di Elisabetta (WALISZEWSKI, L’héritage, cit., p. 363). Algarotti lo aveva incontrato nel suo soggiorno a San Pietroburgo: “Ebbe agio allora di conoscere il celebre conte di Ostermann [...]” (MAZZUCCHELLI, cit., p. 481).
[39] Algarotti al fratello Bonomo, Londra, 12 novembre 1740: “Avrete inteso a quest’ora la morte della Czarina [...] Io ho il dispiacere che non abbia ne men veduto il mio libro dopo il sì lungo tempo che è stampato” (ARATO, cit., p. 74, n. 121).
[40] Algarotti al fratello Bonomo, Londra, 5 giugno 1740: “Sul punto di mantare in carrozza avant’ieri ho ricevuto la più bella lettera che sia mai stata scritta al mondo: mon cher Algarotti, ella diec, mon Sort a changé je vous attend avec impatience. Ne me faites point languir. Vado volo” (ARATO, cit., p. 98).
[41] Charles [non Frederick], quinto Lord Baltimore e proprietario del Maryland era nato nel 1699 (morirà nel 1751) da una famiglia cattolica (la madre, Charlotte Lee, era nipote di Carlo II). Per riprendere i propri diritti sul Maryland il padre Benedict Leonard si era convertito nel 1713 alla religione anglicana. Nel 1732-1733, Charles aveva fatto un soggiorno di sei mesi nella colonia per riaffermarvi l’assoluta prerogativa del proprietario e inaugurando quella che gli storici del Maryland chiamano “the politics of irreconciliability” tra il proprietario da una parte e la “lower house” dall’altra (American National Biography, 4, 1999, pp. 244-245). L’amicizia con l’Algarotti è stata addotta come prova della sua omosessualità dal reverendo Paul K. Thomas (“Maryland Historical Magazine”, Summer 1996, pp. 244-245). Nella prima edizione (1886) del Dictionary of National Biography la frase di Carlyle (“one of those worn-out beings, a hipped Englishman, who had lost all moral and physical taste”) era correttamente attribuita al figlio Frederick, sesto Lord Baltimore, con il quale si estinse la famiglia (TH. CARLYLE, History of Frederick II of Prussia, called Frederick the Great, II, London, 1858, p. 667). Nella edizione del 1920 la frase poco lusinghiera viene riferita invece a lord Charles, padre di Frederick (CROSS, The Lords Baltimore in Russia, cit., p. 77). Dopo la morte di Caterina I e di Giorgio I (1727), vi erano stati segni di riavvicinamento tra Gran Bretagna e Russia. I rapporti diplomatici, rotti nel 1720, erano stati riannodati formalmente con l’invio a San Pietroburgo, nel 1728, come console generale prima e poi, dal 1731 come residente, di Claudius Rondeau: uno dei personaggi incontrati dall’Algarotti nella capitale. L’invio del Rondeau a San Pietroburgo aveva coinciso con l’invio del Kantemir a Londra. Il Northern Tour era stato in augurato da sir Francis Dashwood (1708-1781) che aveva accompagnato nel 1733 il barone George Forbes, inviato straordinario alla corte russa per negoziare quel trattato di commercio che sarà concluso l’anno seguente. Dashwood aveva soggiornato a San Pietroburgo venti giorni nel giugno del 1733; e di quella visita ci ha lasciato un diario pubblicato solamente nel 1959 (B. KEMP, Sir Francis Dashwood’s Diary of his Visit to St Petersburg in 1733, in “Slavonic and East European Review”, XXXVIII, 1959, pp. 206 e segg.). Lord Baltimore (nominato nel 1731 gentleman of the Bedchamber di Frederick, principe di Galles) faceva parte di quel gruppo raccolto appunto attorno al principe ereditario (Lord Hervey, F. Dashwood...) che aveva preso a favorire l’opera italiana in aperto dissenso col padre, Giorgio II, che era “a rabid Hendelian” (G. H. DORRIS, Paolo Rolli and the Italian Circle in London (1715-1744), The Hague-Paris, 1967, p. 114). Che lord Baltimore non avesse nessun incarico speciale di natura diplomatica è confermato da una notazione del Giornale. Il generale della piazza di Revel’ non poteva credere “che la sola curiosità” avesse condotto i due forestieri in quel freddo e remoto paese del mondo (F. ALGAROTTI, Giornale del viaggio da Londra a Petersbourg, f. 16r). Era stato forse l’“eloquent informant” Kantemir a far nascere nell’eccentrico Lord Baltimore l’idea di un Grand Tour diverso dal solito. Di turista, senza attributi paraministeriali, parla J. BLACK, The British and the Grand Tour, London, 1985, p. 50). L’insolito progetto aveva suscitato tale sorpresa che si pensò da qualcuno che fosse stato incaricato di una missione segreta (CROSS, The Lords Baltimore, cit., pp. 77-80). Tanto maggiore la sorpresa, e la disapprovazione, degli ambienti bolognesi che avevano conosciuto l’Algarotti adolescente: E. Zanotti a F. Algarotti, Bologna, 10 novembre 1739: “Ben vi avvisate, se credete di non aver incontrato con questo viaggio l’approvazione della petroniana gente [...] Pure ve ne sono alcuni che hanno sempre più fatto concetto del vostro spirito, e che hanno lodata la vostra curiosità (ALGAROTTI, Opere, XII, cit., 1792, pp. 336-337).
[42] Su tutta questa tragica vicenda cfr. GITERMANN, cit., pp. 516-517; MASSIE, cit., pp. 733-734; K. STäHLIN, Geschichte Russlands, II, Berlin, 1930, pp. 275-278, 282 e segg., 290 e segg. e passim.
[43] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 4 (lettera I).
[44] J. TORLAIS, Un Rochelais grand-maître de la Franc-Maçonnerie et physicien au XVIIIe siècle: Le Reverend J.T. Desaguliers, La Rochelle, 1937; A. R. HALL, Jean Theophilus Desaguliers, in Dictionary of Scientific Biography, edited by CH. C. GILLESPIE, IV, New York, 1971, pp. 43-46.
[45] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., pp. 162-165 (lettere IX e X); ALGAROTTI, Giornale del viaggio, f. 8rv.
[46] Philosophical Transactions of the Royal Society, XXXII, 1722-1723, n. 374; XXXV, 1727-1728, n. 406. L’Algarotti replicò egli pure al Rizzetti: in una prima lettera aggiunta all’edizione 1739 del Newtonianismo e in una seconda, aggiunta all’edizione del 1746. Sui rapporti Algarotti-Rizzetti-Desaguliers cfr. ARATO, cit., pp. 21-23, 35-36 e, ora, D. ARECCO, Massoneria e scienza nella Londra di Giorgio I, in “Atrium”, III, 2003, pp. 34-47. L’affiliazione di Algarotti alla massoneria resta dubbia (ARATO, cit., p. 37, n. 71). Giuseppe Giarrizzo la dà invece per certa, sulla base di una lettera di A. Leprotti a E. Manfredi da Roma, 13 marzo 1734: “ò ammirato ch’egli [Algarotti] essendo della famosa compagnia dei Libres Maçons, non ha voluto darsi a conoscere” (Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994, p. 437, n. 9). In questo caso, la sua affiliazione andrebbe fatta risalire al soggiorno fiorentino e alla frequentazione di Antonio Cocchi e Tommaso Crudeli. Nessun accenno a Algarotti in: M. A. TIMPANARO MORELLI, Per Tommaso Crudeli nel 255° anniversario della sua morte (1745-2000), Firenze, Olschki, 2000.
[47] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, I, 164: “un giorno di calma fece il Signor King con gran destrezza la notomia dell’occhio di un castrone. Il qual castrone fu poi cotto con egual dottrina dal nostro Martialò”. Si tratta di F. MASSIALOT, Le cuisinier roial et bourgeois, Paris, 1691.
[48] British Library, Add. Mss., 17482, f. 1r-2r: “Si comprende quanto debba tenersi in pregio questo Codice, il quale potrebbe incontrare dal pubblico un favorevole accoglimento col somministrare almeno materia per corredare di note una nuova edizione delle Lettere sulla Russia e servire a correggere qualche sbaglio incorso nelle antecedenti edizioni come ce lo fa credere l’esempio che ci porge la lettera a Mrd Hervey del 2 giugno del sopraindicato Anno 1739”. Alludeva alla data della lettera V (in realtà 21, non 2 giugno) che coincide, nell’edizione Coltellini, con quella della lettera III da Cronstat. Nell’edizione Briasson era correttamente indicata la data del 6 luglio, che i più accurati editori moderni hanno ripristinato (ALGAROTTI, Viaggi di Russia, p. LVII).
[49] I. F. TREAT, Un cosmopolite italien du XVIIIe siècle. Francesco Algarotti, Trevoux, 1913, pp. 82-91, 255.
[50] A. FRANCESCHETTI, Francesco Algarotti e l’Accademia di Pietroburgo, in Letteratura e scienza nella storia della letteratura italiana, Atti del IX Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Palermo-Messina-Catania, 21-25 aprile 1976), a cura di V. BRANCA [et alii], Palermo, 1978, pp. 594-597 (il testo algarottiano alle pp. 594-597, corrispondenti ai ff. 32v-38v del manoscritto). Non pochi e non trascurabili gli errori di trascrizione di un testo così breve. Segnalo quelli più rilevanti. Guida nella visita sarebbe stato “il professor Cruff”. Si tratta invece di Georg Wolffgang Kraft (Craff per Algarotti). L’accenno all’Accademia di Beziez cioè Béziers, la cittadina natale di Maupertuis, andrebbe esplicato. In questa città il celebre fisico aveva tentato di erigere un’accademia, che nel 1736 pubblicò gli atti (Recueil de Lettres, Mémoires et autres pièces, pour servir à l’histoire de l’Académie des Sciences & Belles-Lettres de la ville de Béziers, Béziers, chez Barbut). L’animatore principale di essa, M. Bouillet, nel primo Mémoire aveva lungamente dissertato contro il sistema che faceva le macchie solari “des Planètes qui roulent autour du Soleil, et qui en cachent quelquefois les parties” (“Journal de Trévoux”, 1736, p. 2536). L’esperienza proposta dal Krafft (Experimentorum physicorum brevis Descriptio, St. Petersburg, 1738) parve all’Algarotti altrettanto oziosa quanto quella dell’accademico di Béziers: “Questa sperienza mi richiamò alla mente la dissertazione dell’Accademia di Béziers per cui si prova che le macchie del sole non sono altramenti [non “altrettanti”] pianeti che girino intorno a lui”. Sulla questione aveva “detto abbastanza Galileo” (f. 33r). L’altra esperienza – quella proposta da Daniel Bernoulli [non Barulli!] – era cervellotica. Le “warste” di p. 595 sono ovviamente “werste”. L’errore più sviante è l’accenno alla “Terra di Ferro” di cui si era appena scoperta l’insularità (ibid.). Si tratta della “Terra di Jesso” (Yeso), l’attuale isola di Hokkaido, una delle quattro grandi isole dell’arcipelago del Giappone. “Mr. De la Boyere” è il fratello di Jean-Nicolas Delisle, Louis Delisle sieur de la Croyère. E fratello di Jean-Nicolas era pure l’autore di quella carta imperfetta della penisola Jamal, Guillaume (il grande amico di Pietro), che Jean Nicolas gli aveva mostrato (ibid.). Tutti questi Delisle geografi fanno esclamare in margine all’Algarotti che i Delisle [parole non decifrate dal Franceschetti] erano “destinati a descrivere ai principi la Terra” (f. 33v). “Dondu-Ombo” è “Donduc-Ombo” (DonduKombo), famoso capo dei Calmucchi (ALGAROTTI, Viaggi di Russia, p. 107 [lettera VII]); e poiché di Calmucchi si parla va detto che i “depsten” nei quali furono rinvenuti molti arnesi calmucchi (p. 596) erano “sepolcri”. Il “cerion” che inviluppa il feto di Ruysch è naturalmente il “corion” (ibid.). Così come il colore della divisa che oggi indossa il manichino in cera di Pietro sedente, modellato dal Rastrelli, è “blò” non “blé” e il globo di Olearius non è di “Gottap”, ma di Gottorp.
[51] A. FRANCESCHETTI, L’Algarotti in Russia dal Giornale ai Viaggi, in “Lettere italiane”, XXXV, 1983, pp. 312-332. Il progetto di pubblicazione integrale del manoscritto mi è stato confermato in una comunicazione privata.
[52] FRANCESCHETTI, L’Algarotti in russia, cit., p. 315.
[53] Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 octobre 1739: “Il [Algarotti] a composé une cantate qu’on a mis aussitôt en musique et dont on a été très satisfait” (Voltaire’s Correspondence, edited by TH. BESTERMANN, IX, Genève, 1954, p. 251, lettera 1983).
[54] ALGAROTTI, Giornale, f. 52v.
[55] ALGAROTTI, Giornale, f. 57v.
[56] Federico a Mme du Châtelet, Rheinsberg, 27 ottobre 1739: “Je vous dirai que nous avons vu ici l’aimable Algarotti avec un certain milord Baltimore, non moins savant ni moins agréable que lui. J’ai senti tout le prix de leur bonne compagnie pendant huit jours [...]” (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 261, lettera 1992).
[57] Federico a Ulric-Fréderic de Suhms (inviato straordinario della corte di Sassonia a San Pietroburgo), Rheinsberg, 26 settembre 1739: “Nous avons eu ici Mylord Baltimore et le jeune Algarotti, tous deux des hommes qui, par leur savoir, doivent se concilier l’estime et la considération de tous ceux qui les voient. Nous avons beaucoup parlé de vous, de philosophie, des sciences, des arts, enfin de tout ce qui doit être compris dans le goût des honnêtes hommes” (Oeuvres de Frédéric le Grand, XVI, Berlin, 1846-1856, p. 378; cit. da CROSS, The Lord Baltimore, cit., pp. 82-83). La data della seconda lettera di Federico ad Algarotti (Opere, XV, cit., XV, 1794, pp. 8-9) è visibilmente errata: “J’espère – gli aveva scritto il principe de Rheinsberg, il 1° settembre 1739 – que ma première lettre [perduta] vous sera parvenue. Je n’oublirai jamais les huit jours que vous avez passé chez moi. Beaucoup d’étrangers vous ont suivi; mais aucun vous a valu, et aucun ne vous vaudra si tôt”. Scorso di penna di Federico o cattiva lettura? In ogni caso bisogna correggere: 1° ottobre.
[58] Algarotti a Voltaire, 1° ottobre 1739: “Me voilà à Londres après avoir été bien près du Pôle, et avoir passé un été en grelottant; si je n’ai pas porté en grelottant le compas et la lyre. En revenant j’ai été dans le troisième ciel; j’ai vû, oh me beato!, ce prince adorable, disciple de Trajan, rival de Marc-Auréle. J’ai bien parlé de vous, et j’en ai bien entendu parler”. Questa lettera è datata in Palese e in Besterman “avril” (ALGAROTTI, Opere, XVI, cit., 1794, pp. 73-74). Ma è facile correggere la svista dei due editori. Il 28 dicembre 1739, Voltaire fa allusione proprio a questa lettera, scrivendo a Federico da Bruxelles: “J’ai reçu une lettre d’Algarotti, datée de Londres du premier octobre: elle m’a attendu trois mois à Bruxelles. Ce m. Algarotti est encore tout étonné de ce qu’il a vu à Remusberg. “Ah!, quel prince est ça!” dit-il; il ne revient pas de sa surprise [...]” (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 288, lettera 2012). Lo stesso dice Madame du Châtelet: “M. Algarotti m’a mandé avec quelle surprise il avoit vu v.a.r.; la mienne est qu’il ait pu vous quitter” (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 290, lettera 2014). Ovviamente, la datazione della lettera VII dei Viaggi (Hamburg, 30 agosto 1739) va corretta (28 settembre?).
[59] Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
[60] Ibid.: “Le jeune Algarotti que vous connaissez m’a plus on ne saurait davantage. Il m’a promis de revenir ici, aussitôt qu’il lui sera possible: nous avons bien parlé de vous, de géométrie, de vers, de toutes les sciences, de badinerie, enfin de tout ce qu’on peut parler [...]. Nous nous sommes séparés avec regret”. Ne parlava ancora con nostalgia a Voltaire il 3 febbraio 1740: “Je suis bien aise qu’Algarotti ne perde point le souvenir de Remusberg. Les personnes d’esprit n’y seront pas oubliées [...]” (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
[61] Federico a Voltaire, Rheinsberg, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983).
[62] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV); p. XIX, n. 1.
[63] ALGAROTTI, Giornale, f. 47v.
[64] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., pp. 6-9 (lettera IV).
[65] Nella nota a quei due versi del Proemio (vv. 16-17) Puškin riconobbe il suo debito: “L’Algarotti in qualche punto dice: “Pétersbourg est la fenêtre par laquelle la Russie regarde en Europe”” (A.S. Puškin, Polnoe sobranie socinenij v desjati tomach, t. IV, Moskva, 1963, p. 380, n. 1; Opere, a cura di E. BAZZARELLI, G. SPENDEL, Milano, 1990, p. 313. La traduzione è di T. LANDOLFI (gli editori hanno però inspiegabilmente soppresso il “cappello” e le note dell’autore). Questo “racconto pietroburghese” in tetrametri giambici è del 1833 (W. LEDNICKI, Pushkin Bronze Horseman, Berkeley, California University Press, 1955). Puškin conosceva l’italiano, ma preferiva leggere i classici (perfino Dante) in traduzioni francesi (R. CHLODOWSKI, Puškin e l’aurea Italia, in: Puškin e la sua arte, Atti dei Convegni Lincei (Roma, 3-4 giugno 1977), Roma, 1978, p. 151. Probabilmente, si servì delle Lettres sur la Russie nell’edizione di Berlino voluta da Federico II (Oeuvres du comte Algarotti, a cura di D. MICHELESSI, J.-B. MERIAN, 1772).
[66] Oeuvres de Frédéric le Grand, XIV, cit., 1849, pp. 81-87. Federico a Voltaire, 10 ottobre 1739 (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983); Federico ad Algarotti, Rheinsberg, 29 ottobre 1739: “Je vous prie de faire mes amitié à mylord Baltimore, dont j’estime véritablement le caractère et la façon de penser; j’espère qu’il aura reçu à présent mon Epître sur la liberté de penser des Anglais” (Oeuvres de Frédéric le Grand, XVII, cit., 1850, p. 6). Federico aveva inviato l’Epître a Voltaire, pregandolo di correggerla “impitoyablement” il 10 ottobre (Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983). Voltaire si rifiutò di toccarla.
[67] Voltaire’s Correspondence, IX, cit., p. 251, lettera 1983.
[68] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 136 (lettera VIII).
[69] ALGAROTTI, Giornale, f. 69r.
[70] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 148 (lettera VIII).
[71] ALGAROTTI, Giornale, ff. (16v), 17v.
[72] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 32 (lettera II)
[73] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 48.
[74] Voltaire’s Correspondence, XLIV, cit., 1959, p. 184, lettera 8658.
[75] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 46 (lettera III).
[76] ALGAROTTI, Giornale, f. 55r.
[77] ALGAROTTI, Giornale, f. 11r.
[78] ALGAROTTI, Giornale, f. 10v.
[79] ALGAROTTI, Giornale, f. 11r.
[80] ALGAROTTI, Giornale, f. 55r.
[81] L’esercito russo si era fatto con il passare degli anni sempre più temibile in Europa: nell’estate del 1759 le truppe del generale Soltikov avevano battuto quelle prussiane di Federico II a Kunersdorf. Nel Giornale il contrasto tra il soldato russo, formato sia pure duramente, e quello prussiano, fabbricato “meccanicamente”, in serie, è crudo: “Si fa a Potsdam l’esercizio colla medesima esattezza che si vedrebbe fatto nello specchio da quelle tante immagini del soldato posto dinnanzi a lui” (f. 65v). L’immagine, ma svelenita, è ripresa nei Viaggi (VIII, 299, 302). Nel Giornale dubitava però che quei corpi resi docili con un dressage feroce avessero perduto del tutto con la libertà l’“amore di essa”: “se uscissero in campagna avrebbon bisogno almeno di un doppio numero che le guardasse [quelle truppe, N.d.A.] per prevenire la deserzione” (ff. 65-66r). Ma è pur vero che, nel nuovo testo, la figura del despota bellicoso (ma non guerriero) fa posto a quella del saggio riformatore: “Riformatore fu veramente dello Stato, non altrimenti che lo sarebbe del suo Ordine un Abate [...]” (ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 144, lettera VIII). Frase – mi pare – che ha conservato un po’ dell’antico fiele.
[82] ALGAROTTI, Giornale, f. 30r.
[83] ALGAROTTI, Giornale, f. 29r.
[84] ALGAROTTI, Giornale, f. 30r.
[85] ALGAROTTI, Giornale, f. 29v.
[86] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 72 (lettera V).
[87] Sul dibattito attuale cfr. Storia del mondo moderno, VII, Milano, 1968, pp. 465-482, in particolare la n. 1 a p. 465.
[88] N. V. RIASANOVSKY, Storia della Russia dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 19988, pp. 194-197.
[89] F. ALGAROTTI, Il newtonianismo per le dame, Napoli [ma Milano], 1737, p. 264.
[90] [P. H. MALLET], Forme du gouvernement de Suède, Copenhagen et Genève, 1756. Ma già trent’anni prima, nel 1726, Jacques de Campredon, da cinque anni ministro plenipotenziario presso la corte di Russia, aveva lasciato un paese pieno di fermenti che a lui parvero di buon augurio. Per lui la Russia stava avviandosi, alla maniera della Svezia, verso un governo “établi sur le pied de celui d’Angleterre”. Pure per essa stava per aprirsi “l’era della libertà” (S. ROTTA, “Une aussi perfide nation”: la Relation de l’état de Gênes di Jacques de Campredon (1737), in “Quaderni franzoniani” XI, 1998, p. 620). A suscitare tali speranze era stata la creazione in quell’anno del Supremo Consiglio Segreto, destinato ad affiancare l’opera di governo di Caterina I: proprio di quel Consiglio che sarà protagonista del tentativo del 1730 (WALISZEWSKI, L’héritage, cit., pp. 24-25).
[91] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 23 (lettera II).
[92] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 22 (lettera II).
[93] ALGAROTTI, Giornale, f. 31r.
[94] ALGAROTTI, Giornale, ff. 37r-v.
[95] P. KOVALEVSKY, Atlas historique et culturel de la Russie et du monde slave, Paris, 1961, p. 104: “Le dix années de son règne [di Anna, N.d.A.] seront les plus sombre du XVIIIe siècle”. L’imperatrice “méfiante et railleuse, s’entoure de bouffons et passe son temps en fêtes et en mascarades [...]”.
[96] ALGAROTTI, Giornale, f. 49v.
[97] ALGAROTTI, Giornale, ff. 50r-v.
[98] Tarquinio il Superbo non risponde al messaggero del figlio Sesto, ma “in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse” (T. LIVI, Ab urbe condita libri, I, 54).
[99] ALGAROTTI, Giornale, f. 50v.
[100] ALGAROTTI, Giornale, f. 50r.
[101] MONTESQUIEU, Esprit des lois, III, Paris, 1958, p. 168 (libro XXII, capitolo 14).
[102] Così nelle edizioni del 1748 e 1749. In quella del 1757: “voulait”.
[103] MONTESQUIEU, Esprit des lois, I, cit., 1950, p. 121 (libro V, capitolo 14).
[104] ALGAROTTI, Giornale, f. 41r-41v.
[105] ALGAROTTI, Giornale, f. 40v.
[106] A. BESANÇON, Prefazione, a M. RAEFF, La Russia degli zar, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1999, p. XIV.
[107] ALGAROTTI, Giornale, ff. 40v-41r.
[108] A. LORTHOLARY, Les Philosophes du XVIIIe siècle et la Russie. Le mirage russe en France au XVIIIe siècle, Paris, 1948, pp. 12-38.
[109] ALGAROTTI, Giornale, f. 57v.
[110] ALGAROTTI, Giornale, ff. 48r-v.
[111] ALGAROTTI, Giornale, f. 48v.
[112] ALGAROTTI, Giornale, f. 45v.
[113] LOCATELLI LANZI, Lettere dalla Moscovia, cit., p. 75: I monaci erano “per lo più ubriaconi”, vivevano “in ozio criminale abbandonandosi a ogni sorta di vizio. Nei loro conventi regna la superstizione molto più che altrove [...]. Pensano solo a vivere comodamente, senza lavoro né affanni: si chiudono nei monasteri solo per timore di morire di fame, o di finire nell’esercito”. Tutto negativo invece il giudizio sull’esercito (p. 163) e in genere sulla natura e le aspirazioni profonde del popolo russo: “La maggior parte di essi afferma ad alta voce che essere obbligati al servizio militare, per terra o per mare, ha aumentato la loro schiavitù. Con questa idea, che svela la loro natura vigliacca e indolente, essi considerano la marina e tutte le conquiste compiute come le fonti principali dei loro mali. La cosa che più desiderano è un cambiamento totale all’interno dello Stato, che rovini per intero le nuove istituzioni e permetta loro di vivere nella pigrizia e nell’inazione” (p. 165). Come si vede, non si può in modo alcuno esagerare l’influenza di questo libro pieno di disprezzo verso i Russi sull’Algarotti, che dalla Russia era tornato entusiasta del popolo russo (“tout le bien que vous dites de ma nation”: A. Kantemir a F. Algarotti, Parigi, 6 novembre 1739; GRASSHOFF, cit., p. 176).
[114] ALGAROTTI, Giornale, f. 45v.
[115] ALGAROTTI, Giornale, f. 23v.
[116] ALGAROTTI, Giornale, f. 56r.
[117] ALGAROTTI, Giornale, f. 49r-v.
[118] MONTESQUIEU, Esprit des lois, III, cit., 1958, pp. 16-17 (libro XIX, capitolo 15).
[119] ALGAROTTI, Giornale, ff. 48v-49r.
[120] ALGAROTTI, Giornale, f. 49r.
[121] ALGAROTTI, Giornale, f. 55r.
[122] Nel 1723 in tutto l’Impero c’erano centodieci scuole elementari laiche e quarantasei istituti ecclesiastici (TH. G. MASARYK, La Russia e l’Europa, tr. it. a cura di E. LO GATTO, I, Bologna, 1971, p. 64, n. 2).
[123] Questo giudizio risente forse della letteratura politica del Refuge (l’autore soprattutto dei Soupirs de la France esclave, qui aspire après la liberté, Amsterdam 1689-1690: uno dei Mémoires che formano quest’opera porta il titolo Les tristes effets de la Puissance arbitraire et Despotique de la Cour de France). In questo caso, il canale potrebbe essere il Desaguliers. Ma si potrebbe anche risalire ai libelli della Fronda contro l’illimitato potere di Mazzarino, che aveva fatto della monarchia di Francia una monarchie despotique. Per l’Algarotti, il despotismo francese era contraddistinto dalla censura delle stampe (ne aveva fatto esperienza lui stesso da poco) e dal divieto del dibattito religioso. La “direction de la librairie” era ancora a quest’epoca una delle funzioni essenziali del cancelliere, agli ordini del quale lavoravano verso il 1750 ben ottantadue revisori, uno per specialità (PH. SAGNAC, La formation de la société française moderne, II, Paris, 1946, pp. 10-12). Alla metà del secolo, il marchese d’Argenson si domanderà: “La France est-elle une monarchie temperée et représentative ou un gouvernement à la turque? Vivons-nous sous la loi d’un maître absolu, ou sommes-nous régis par un poivoir limité et controlé?” (Mémoires, edizione RATHERY, IV, anni 1753-1754). E. Le Roy Ladurie definisce invece quest’epoca “absolutisme bien temperé” (L’Ancien Régime de Louis XIII à Louis XV (1610-1770), II, L’absolutisme bien temperé (1715-1770), Paris, 1991). Su tutta la questione cfr. R. KOEBNER, Despot and despotism: vicissitudes of a political term, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” XIV, 1951, pp. 275-302; S. STELLING-MICHAUD, Le mythe du despotisme oriental, in “Schweitzerische Beiträge zur allgemeimeinen Geschichte”, XVIII-XIX, 1961, pp. 318-346; G. C. ROSCIONI, Beat Ludwig von Muralt e la ricerca dell’umano, Roma, 1961, pp. 27-52.
[124] ALGAROTTI, Giornale, f. 55v.
[125] ALGAROTTI, Giornale, f. 55 v.
[126] WALISZEWSKI, L’héritage, cit., pp. 214-215: “De 1733 à 1743 la sèconde expédition de Behring prit des proportions colossales, mettant en mouvement jusqu’à 600 explorateurs. Par groupes indépendants, par terre et par mer, Malguine, Skouratov, Ovtsyne, Protchichtchov, Kharitonov, Laptiév relevèrent les côtes de la Sibérie depuis la mer Blanche jusqu’à l’embouchure du Kolyma, pendant que Behring avec la division principale visitait les îles Kourilles, touchait au Japon, passait en Amerique, découvrait plusiers îles près de la presq’île d’Alaska et mourait dans une d’elle. Delisle faisait partie de l’expedition” (morirà nel 1741 nella Kamciatka). L’Algarotti, sugli scopi della spedizione, è precisamente informato: “Il Capitano Perrin Danese ora per la seconda volta insieme con Mr de Croyère è andato per discoprire se questa parte della Russia ha comunicazione alcuna colla America” (Giornale, f. 34r). In primo piano figurano, come del resto è giusto, i direttori stranieri di quelle imprese (V. V. BARTHOL’D, La découverte de l’Asie. Histoire de l’orientalisme en Europe et en Russie, Paris, Payot 1947; M. DEVÈZE, L’Europe et le monde à la fin du XVIIIe siècle, Paris, 1971, p. I, cap. III-IV: “Les Russes dans le Caucase; Les Russe en Sibérie et en Alaska”). Ma non bisogna dimenticare la solida e disciplinata collaborazione russa.
[127] BOSS, cit., p. 115.
[128] ALGAROTTI, Giornale, ff. 32v-33r.
[129] E. GUYÉNOT, L’évolution de la pensée scientifique. Les sciences de la vie aux XVIIe et XVIIIe siècles. L’idée d’évolution, Paris, 1957, pp. 136-137: “Il conservait depuis plus de vingt ans “de petits cadavres momifiés, qui, dit-il, avaient plus l’apparence de vivants andormis que de cadavres inanimés””. Aveva trasmesso il segreto della sua tecnica al figlio “mais dans la suite il fut perdu”. Algarotti non nascose la sua meraviglia: “Ma la più bella cosa in genere di storia naturale che veder si possa è il gabinetto di Ruisch, che qui si conserva, dove sonovi le più belle iniezioni che sieno giammai da mano anatomica, e dove la storia della generazione è intera dalla concezione dir puossi fino al parto. Havvi tra gli altri un feto inviluppato del corion pieno di liquore che è una meraviglia. La freschezza delle carni etc. è mirabile come si conservi ancora. Elleno paiono di cera” (ALGAROTTI, Giornale, ff. 35v-36r; FRANCESCHETTI, Francesco Algarotti e l’Accademia di Pietroburgo, cit., p. 596).
[130] A. SEBA, Locupletissimi Rerum Naturalium Thesauri Accurata Descriptio, 4 voll., Amstelodami, 1734. Il Seba (1665-1736), funzionario delle Compagnie delle Indie Orientali, venduto che ebbe a Pietro il suo primo gabinetto di curiosità, ne adunò un altro, descritto con belle planches, nei volumi citati. Essi attrassero l’interesse di un gruppo sceltissimo di naturalisti francesi (Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire, Valenciennes, etc.) che, a partire dal 1827, si misero a ristamparli. Il marsupiale esaminato dall’Algarotti proveniva da questa raccolta (ALGAROTTI, Giornale, f. 35r; MASSIE, cit., p. 690).
[131] ALGAROTTI, Giornale, f. 33v.
[132] BARTOL’D, cit., pp. 245-246; Russischer Atlas, British Library, Maps C.21.e.1(1); K. SVENSKE, Matériaux pour l’histoire de l’établissement de l’Atlas de l’Empire russe, édité par l’Académie des Sciences en 1745, Saint-Petersbourg, 1866 (supplemento al tomo IX dei “Mémoires de l’Académie Impériale des Sciences”, II). Terzo figlio dello storico-geografo Calude e di Nicole-Charlotte Millet de la Croyère, trascorse in Russia ventidue anni, dal 1725 al 1747: anni laboriosi ma non proprio felici. Tra l’altro aveva escogitato in concorrenza con il Fahrenheit (1721) un nuovo termometro (che l’Algarotti maneggiò) nel quale lo zero corrispondeva alla temperatura dell’acqua bollente. Algarotti vide l’opera dell’atlante in fieri (“egli ce ne mostrò di gran pezzi già fatti”: ALGAROTTI, Giornale, f. 34 r). S. L. Chapin afferma che la “large-scale and accurate map of Russia” era stata da lui “projected, but unrealized” (GILLESPIE, Dictionary, IV, cit., 1971, sub voce, pp. 22-25). E St. Le Tourneur gli dà addirittura del ladro: “en 1754, il vendit au Roi [...] sa bibliothèque et les inestimables collections qu’ils rapportait indûment de la Russie” (Dictionnaire de biographie française, X, Paris, 1965, p. 842).
[133] BARTHOL’D, cit., p. 243.
[134] Ibid., p. 230.
[135] ALGAROTTI, Giornale, f. 34v.
[136] ALGAROTTI, Giornale, f. 46v.
[137] E. LO GATTO, Gli artisti italiani in Russia, II, Gli architetti del secolo XVIII a Pietroburgo e nelle tenute imperiali, Milano-Roma, 1993, p. 47. Il quarto grandioso Palazzo d’Inverno sarà costruito sempre dal Rastrelli tra il 1754 e il 1762 (Ibid.).
[138] Cfr. l’opera citata nella nota 1 di S. Kaufman. Sempre fresche le considerazioni di A. GABRIELLI, L’Algarotti e la critica d’arte in Italia nel Settecento, in “La critica d’arte”, XIII, 1938, pp. 155-169; XIV, 1939, pp. 24-31. Va notato l’entusiasmo per l’Arsenale di Berlino, “il più bel pezzo d’architettura che senza dubbio sia nel Nord” (ALGAROTTI, Giornale, f. 69v). Era opera di Johann Arnold Nering (1659-1695), “il Palladio del Nord”, il creatore del “Preussisch Stil” (Allgemeine Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di U. THIEME, F. BECKER, XXV, pp. 390-391).
[139] ALGAROTTI, Giornale, f. 23v.
[140] Ibid.
[141] ALGAROTTI, Giornale, f. 24v.
[142] Ibid.
[143] ALGAROTTI, Giornale, f. 44r-44v.
[144] L. RÉAU, L’Europe française au siècle des lumières, Paris, 1971, pp. 131-132: “en bon élève de le Nôtre, il [Le Blond] a transplanté sur les bords de la Néva et du golfe de Finlande, au Jardin d’été (Lêtny Sad) et à Peterhof l’idéal du jardin à la française”. Cfr., contra, D.S. LICHACEV, La poesia dei giardini, tr. it. Torino, 1996, p. 132: “nell’insieme Peterhof non ricorda la Francia, né tanto meno Versailles [...]. Si possono riconoscere influssi tedeschi, italiani, scandinavi, ma anche questi rielaborati secondo il gusto personale di Pietro”. Ai giardini dell’età petrina sono dedicate le pp. 123-144.
[145] ALGAROTTI, Giornale, f. 51r.
[146] E. LO GATTO, Storia del teatro russo, tr. it. Firenze, 1951, p. 48: “Data dell’inizio di tale penetrazione [italiana] è considerato di solito l’anno 1735, quando a Pietroburgo arrivò il compositore maestro Araia, ma già da prima, nel 1730, gli italiani avevano conosciuto la Russia, mandativi dal re polacco Augusto II in occasione dell’incoronazione di Anna. Il gruppo di commedianti e cantanti italiani aveva alla sua testa, oltre al maestro compositore Reinhard Kaiser, anche l’attore comico Tommaso Ristori. Le rappresentazioni ebbero luogo a Pietroburgo negli anni fino al 1738 – fossero esse tenute dal Ristori al principio o da altri in seguito – ebbero luogo dapprima in appartamenti privati e solo dal 1734 in una sala appositamente preparata nel Palazzo d’Inverno dall’architetto italiano Bartolomeo Rastrelli [...]. Il repertorio era quello caratteristico della “Commedia dell’arte” e degl’intermezzi”.
[147] Francesco Araia o Araja (1709-1779?) venne scritturato nel 1735 dall’avventuroso violinista napoletano P. Mira (“Pedrillo”), incaricato dalla zarina Anna di reclutare in Italia una compagnia lirica e coreografica per il servizio di corte. L’Araja giunse a San Pietroburgo alla fine del 1735 e vi rimase con interruzioni fino al 1762, quando, “ricco e celebre”, si ritirò a Bologna (Dizionario Biografico degli Italiani, III, 1961, pp. 708-711; The New Grove Dictionary of Music and Musicians, edited by S. SADIE, I, London, 1980, pp. 539-540; Storia dell’opera, diretta da A. BASSO, vol. I, t. 2, Torino, 1977, pp. 87-90).
[148] ALGAROTTI, Giornale, f. 26r.
[149] ALGAROTTI, Giornale, ff. 37v, 47v, 51v-57v.
[150] ALGAROTTI, Giornale, ff. 19r, 22v, 23v, 30r, 43r; ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., pp. 44, 58, 66 (lettere III e IV). La frettolosità della partenza non gli consentì – pare – di utilizzare qualcuna delle opere, allora in circolazione, sulla Russia petrina: oltre al Perry (vedi supra, n. 20) il Diarium di J. G. Korb (Viennae, 1700?), i Voyages di C. de Bruin (Amsterdam, 1718), i Mémoires di I. Nestesuranoi (Jean Rousset de Missy, La Haye, 1725-1728); i Voyages di A. de la Mottraye (La Haye, 1728), tranne forse le Lettres del Locatelli (vedi supra, n. 20). La Gran Bretagna, dopo la morte di Giorgio I, stava diventando in Europa a ogni modo l’osservatorio più attento (M. S. ANDERSON, Britain’s Discovery of Russia 1553-1815, London, 1958). L’Algarotti lesse, prima o dopo il viaggio, qualcuna delle opere uscite in quegli anni: TH. CONSETT, The Present State and Regulations of the Church of Russia, 1729; J. MOTTLEY, The History of the Life of Peter the First Emperor of Russia, 1739; J. BANKS, The History of the Life and Reign of the Czar Peter the Great, 1740). Entrato nel Sund – per fare un esempio – ricorda in una nota marginale che nel 1716 un esercito russo-danese, appoggiato da squadre navali inglesi e olandesi al comando dello stesso Pietro, si preparava a sbarcare nella Svezia meridionale: “Tutte queste coste, queste baie e questi mari furono misurati e scandagliati dal Czar Pietro il grande nel tempo del suo soggiorno a Coppenhagen quando si tramava il famoso sbarco in Schonen, che non ebbe poi luogo. L’istesso anno il Czar comandò le flotte inglesi, ollandesi, danesi e russe unite insieme senza peraltro nulla intraprendere. Ebbe questo vano piacere” (ALGAROTTI, Giornale, f. 12r; ANDERSON, cit., cap. 4).
[151] Nulla la Russia aveva da temere dalla Cina, dopo la definizione dei confini col trattato di Kjachta (1727): avrebbe però dovuto cercare di migliorar il suo commercio, ma senza troppo sperare di vincere la concorrenza di quello degli altri paesi europei “per la facilità che hanno le altre nazioni di andarci per mare e di darne a buon prezzo le curiosità e le mercanzie” (ALGAROTTI, Giornale, f. 51v). La carovana della Cina impiegava in effetti tempi lunghissimi: tra andata e ritorno tre anni. Le ultime due partiranno nel 1746 e nel 1755. Nel 1762 Caterina II le soppresse (DEVÈZE, cit., pp. 100-110). Molto più vantaggioso e comodo quello con la Persia; e questo avrebbero dovuto coltivare di preferenza (ALGAROTTI, Giornale, f. 51v). L’Impero ottomano non avrebbe potuto mai offendere la Russia: per penetrare in Ucraina avrebbero dovuto attraversare troppi deserti. Potevano però eccitare i Tartari del Kuban’ e della Crimea a farvi delle incursioni per infastidire o rubarne gli abitanti (ALGAROTTI, Giornale, f. 52r-v). Era di vitale interesse che la Russia signoreggiasse (come si credeva che stesse per fare) il mar d’Azov e il Mar Nero. Gli attriti con il Sultano erano però in questo caso inevitabili (ALGAROTTI, Giornale, f. 52v).Sul fronte europeo non si vedevano pericoli. I Polacchi “riceveran sempre mai la legge de’ Russi” (ALGAROTTI, Giornale, f. 53r). Quanto agli Svedesi, si sapeva che coltivavano idee di rivincita. Ma la Russia, ormai ben insediata in tutta la Carelia (Vyborg) e forte sul mare, non aveva di che preoccuparsi. La Finlandia (rimasta alla Svezia) oltre tutto era terra troppo ingrata per mantenervi una grossa armata. Né preoccupava il re di Prussia: “non potrà mai da solo intraprender nulla contro questo Imperio” (Ibid.).
[152] ALGAROTTI, Giornale, f. 52r.
[153] Tipica impresa espansiva, malgrado le dichiarazioni pubbliche (Pietro andava dicendo di non cercar terra, avendone “anche troppa”) era stata la campagna del 1722-1723 che aveva portato i Russi a Derbent, a Resht e a Baku. Al paese aveva fatto credere di aver trovato laggiù “immense ricchezze”. Ma era una “favola vana” (ALGAROTTI, Giornale, f. 30v). In realtà – teste mister Bell, che aveva seguito la spedizione come chirurgo – “tutto ciò che vi ritrovarono fu disagio e penuria di ogni cosa”. Ma la Russia ne aveva tratto sostanziosi vantaggi: col trattato del 1723, la Persia aveva ceduto tutto il litorale a sud del Caspio ed era divenuta in pratica un protettorato russo (DEVÈZE, cit., p. 77). Ma la zarina, per l’impossibilità di tenerle, aveva dovuto restituire alla Persia nel 1735 quelle sterili e lontanissime province (ALGAROTTI, Giornale, f. 52r). A rimetterci “il loro antico splendore, se pur ne hanno avuto mai che il vano nome” erano stati quei prìncipi georgiani, che, profittando dei successi delle armi cristiane, si erano ritagliati, a spese dei musulmani, dei piccoli stati. Ora vivevano modestamente a San Pietroburgo: “Uno di loro in vece di stato ha un cordon rosso” (ALGAROTTI, Giornale, f. 30v).
[154] ALGAROTTI, Giornale, ff. 51v-57v.
[155] ALGAROTTI, Giornale, f. 54r-54v.
[156] ALGAROTTI, Viaggi di Russia, cit., p. 68 (lettera IV).
[157] ALGAROTTI, Giornale, ff. 55v-56r.
[158] ALGAROTTI, Giornale, f. 42r.
[159] ALGAROTTI, Giornale, f. 37v.
[160] ALGAROTTI, Giornale, f. 55v.
[161] “Quelli che pretendono essere i più informati ci dissero che le rendite dell’Impero in denaro contante montano a due milioni di lire sterline: somma considerabile in un paese, dove ogni cosa è a così buon mercato. Un esempio di ciò ci dava il marchese di Botta [...]. Oltre una quantità grandissima di terre che appartengono all’Impero e che sono tuttavia aumentate colle confiscazioni, il governo ha il rubarbre, il potash, una grandissima quantità di canape meno il ferro in proprio, tutte le osterie, l’acquavite, la birra, i bagni pubblici, le spezierie appartengono all’Impero [...]. Oltre a ciò le provincie sono obbligate di fornire alle spese loro al sovrano quanti uomini sì per le armate che per il travaglio o altro che egli domandi, cavalli, biade, orzo, frumento etc. cosicché può dirsi omnia caesar erat” (ALGAROTTI, Giornale, f. 43r).

[162] ALGAROTTI, Giornale, f. 54v.
[163] Importante il piano di Leblond “architetto generale di Sua Maestà lo Czar” dal 1716 al 1719: “C’est lui [Leblond, N.d.A.] qui l’a pour ainsi dire “deshollandisée” [San Pietroburgo, N.d.A.] en substituant ou plutôt en superposant au système de canaux concentriques un éventail de trois grandes “perspectives”, qui convergent vers la flèche de l’Amirauté: de la Nouvelle Amsterdam il a fait un Nouveau Versailles” (RÉAU, cit., p. 131). Il piano di Leblond, accantonato dal Menšikov, non fu tuttavia mai realizzato quale era stato concepito. Per l’Algarotti era rimasta una città olandese.
[164] ALGAROTTI, Giornale, f. 55r.
[165] ALGAROTTI, Giornale, f. 42v.
[166] ALGAROTTI, Giornale, f. 50v.
[167] ALGAROTTI, Giornale, f. 46v.
[168] ALGAROTTI, Giornale, f. 57v.