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Salvatore Rotta

Stefano Rivarola (1755-1827)[*]

S. Rotta, "Stefano Rivarola (1755-1827)", in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
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Stefano Bonaventura Rivarola era nato a Genova nel 1755. Aveva compiuto prima i suoi studi presso il Collegio San Carlo di Modena, poi, assieme al più giovane fratello Agostino (il futuro cardinale), presso il Collegio Clementino di Roma. Uscitone a ventidue anni, aveva frequentato per un anno, sempre a Roma, l’Accademia ecclesiastica. Aveva fatto ritorno in patria nel 1778, per addottorarvisi in legge. A Genova rimase tre anni. Pensava di avviarsi alla diplomazia: aspirava all’ambasciata di Madrid, allora vacante e che sarà occupata qualche anno dopo, nel 1784, dal Celesia appunto.[1] Nel 1781, si era recato a Roma in cerca di appoggi per il suo progetto.[2] Intanto, Caterina II aveva deciso di inviare a Genova, il 18 marzo 1782, in qualità di semplice incaricato d’affari, il brigadiere di nave di primo rango Alessandro Mordvinov: Genova era il porto ideale per far svernare la flotta russa durante la sua “annuale stazione” nel Mediterraneo.[3] Il Mordvinov giunse a Genova l’11 luglio 1782 ed andò ad alloggiare nel piano nobile di casa Celesia, che Giuseppe, in assenza di Pier Paolo, allora a Parigi, gli aveva locato.[4] Rimase a Genova fino al 9 luglio 1786.[5] Il Minor Consiglio esitò a inviare un suo ministro in Russia: si pensava che, per il commercio, non occorresse un trattato, bastando la legge del Portofranco; e che, se proprio si doveva trattare, si poteva farlo a Genova, sotto gli occhi del governo, direttamente con il rappresentante russo. Si [294] temeva poi che la presenza di navi russe a Genova avrebbe compromesso la neutralità della Repubblica. La preoccupazione maggiore era però di non scontentare la Francia, data la sua rivalità commerciale con la Russia nel Levante. Dopo lunghe esitazioni, si giunse ad un compromesso: l’invio di un plenipotenziario, ma con funzioni di “semplice complimento” e privo della facoltà di discorrere e decidere circa ampliamenti di comerci e altri affari. Ogni trattativa doveva essere demandata al ministro russo a Genova, che nel frattempo aveva assunto il carattere di ministro plenipotenziario. Circa il soggetto da inviare a Pietroburgo, la scelta del governo cadde prima su Ippolito Durazzo; soltanto dopo il rifiuto di quest’ultimo, ai primi di febbraio del 1783, si orientò verso il Rivarola. Le credenziali furono emesse il 15 luglio. Il ventisettenne diplomatico lasciò Genova il 3 agosto alla volta di Vienna. Di qui ripartì il 4 settembre e giunse a Pietroburgo, per la via di Polonia, il 25 novembre. Di quest’ultimo tratto del suo viaggio, lasciò un interessante resoconto: Diario di viaggio da Vienna a Pietroburgo.[6] A Pietroburgo si trovò benissimo e cercò in tutti i modi di prolungare il suo soggiorno. La sua brusca partenza – scriveva il 25 aprile/6 maggio 1784, probabilmente allo zio materno, Michelangelo Cambiaso – poteva essere stata male interpretata dalla corte russa. In ogni caso, il conservare un rappresentante permanente a Pietroburgo sarebbe stato per Genova della massima utilità. I tempi erano mutati: “Venti anni fa avrebbe previsto un nunzio pontificio e un cardinale in Russia?”. Far raffreddare l’amicizia con la corte di Russia era un danno per il futuro, ora che la Convenzione di Costantinopoli aveva distrutto l’insuperabilità dei Dardanelli e aperto un nuovo campo alle “speculazioni” delle nazioni mediterranee. Mentre la pace di Parigi spalancava ai paesi bagnati dall’Atlantico il grande mercato degli Stati Uniti, l’Italia avrebbe potuto trarre grande vantaggio dall’estensione del commercio con il Levante; tanto più che, a proteggere dalle guerre barbaresche, la via migliore era la mediazione della corte russa, i cui firmani erano più rispettati dalle reggenze di quanto non lo fossero le raccomandazioni dell’imperatore del Marocco:

quanto al conseguimento dell' interposizione di questa corte mi pare tanto meno difficile quanto più facile sarebbe il far conoscere quanto servirebbe ai più rapidi progressi del commercio della nazione russa nel Mar Nero, che formano adesso uno dei principali oggetti di questo governo, di allearsi con l’industria genovese, che non più coartata si svilupperebbe con attività certo non inferiore a qualunque altra nazione, siccome grandissima è stata nei secoli più remoti, credo ne risulterebbe la maggior convenienza reciproca delle due nazioni.

In caso contrario, “sempre tranquilli spettatori vedremo fra alcuni anni passare e ripassare alla portata dei nostri cannocchiali i convogli di quelle nazioni, mentre noi resteremo nei limiti di Gibilterra e del faro di Messina”.[7] Sperava almeno che la Repubblica prolungasse di un biennio la sua missione, raddoppiandogli però l’onorario a sessantamila lire. Ma il governo fu irremovibile. Il Rivarola attese dunque il disgelo e, alla metà di aprile del 1785, riprese la via di Genova, passando per Danzica e Berlino. Malgrado la brevità del soggiorno, la sua relazione (stesa a Genova circa un anno dopo il ritorno, il 28 aprile 1786) è stata giudicata dal Berti, che la riproduce per intero, “indubbiamente la relazione politica più completa e intelligente sulla Russia, la sua situazione commerciale ed economica, la sua politica estera, il suo peso negli affari europei”, “il quadro più esatto è più approfondito [...] tracciato da un ministro italiano in quegli anni”.[8] Il giudizio del Rivarola è altamente positivo: “La situazione dell’impero russo può dirsi al presente con verità la più felice forse di tutti gli altri fra’ quali è divisa l’Europa tutta”.[9] Questa nuova posizione internazionale era il risultato di un’abile politica: “ Non ha guari che tale non era; ma una serie continuata di bene immaginate [295] intraprese e più felicemente eseguite tale lo ha reso”.[10] Tra le imprese più recenti: l’annessione della Crimea, “tanto più gloriosa, perché non contaminata dal ferro, dal fuoco e dal sangue”.[11] La “perfetta alienazione” dei principati situati alla periferia dell’Impero ottomano – recentissima la spontanea dedizione del regno cristiano di Georgia – affrettava la realizzazione del “grandioso progetto” di cacciare il Turco dall’Europa e di far risorgere un giorno l’Impero d’Oriente, ponendovi sul trono il principe Costantino Pavlovic, che era stato allevato a tal fine alla greca (“si è fatto succhiare al medesimo persino il greco latte e con questo la lingua e i costumi”).[12] Certo, l’immenso territorio dell’Impero non era tutto ugualmente popolato e fertile: “un solo terzo [...] potrà dirsi coltivato, fertile e popolato”.[13] Ma le risorse dello Stato e la sua situazione rispetto ai più vicini erano pur sempre tali da assicurargli una forza enorme e, praticamente, l’invulnerabilità. Per effetto, dunque, della politica degli ultimi sovrani, la Russia aveva acquistato “nella somma degli affari d’Europa” non soltanto una larga influenza, ma “quasi dirò preponderanza”;[14] e già si era affermata, sia a Teschen sia a Parigi, come la prima potenza mediatrice.[15] Il sistema della “neutralità armata” posto in atto con fermezza dal suo gabinetto era un progetto “nuovo e grandioso”.[16] La sua marina da guerra aveva raggiunto un tale peso che, in caso di guerra tra le maggiori potenze marittime, poteva “far pendere la bilancia in favore di quella parte che si determinasse a sostenere”.[17] Purtroppo, alla potente marina da guerra non si affiancava un’altrettanto potente marina mercantile; che era la condizione di un vero dominio del mare: “ognun vede che la vera forza di una marina guerriera dipende dalla floridezza di una marina mercantile”. Il debole sviluppo commerciale del paese era la causa di tutti i ritardi. Le cautele, la mancanza di iniziativa, l’incapacità di grandi disegni dei mercanti russi facevano “il più gran torto al corpo della nazione, rittardandone la civilizzazione, coartandone l’industria, inceppandone l’agricoltura, e particolarmente arrestando i progressi della marina mercantile”.[18] Il Rivarola non mancava di notare il molto che c’era ancora da fare per dare al paese un volto moderno. Bisognava, innanzitutto, limitare l’autocrazia e abolire il servaggio. La grande impresa di codificazione annunziata vent’anni prima da Caterina era ancora un progetto.[19] Eppure, l’unificare e il render certi i principi della legislazione civile era della massima importanza :

in una monarchia così assoluta come la Russia, la legge sta nella mente di ogni sovrano che regna, almeno fino a che uno di essi, sbandita pria ogni specie di servitù, non presenti alla nazione un codice che le divenga caro al segno, che si accordi a sostenerlo e a diffenderlo in modo da contrattarne col sovrano la garanzia.[20]

Per dimostrare quanto ancora regnasse l’arbitrio, bastava dire che i testamenti restavano senza alcun valore, se non ricevevano l’approvazione della sovrana. Tra le virtuose qualità del trentenne granduca Poolo, il Rivarola metteva al primo posto la sua devozione alla memoria del suo precettore, Nikita Ivanovic Panin, l’uomo che aveva cercato di strappare a Caterina, appena salita sul trono usurpato, l’abbandono del principio autocratico. E lodava la sua “invincibile massima”, malgrado il fatto che la sua successione fosse tutt’altro che pacifica e sicura, di “interrompere la consuetudine di pervenire al trono per violente [296] vie”. Il timore che tali “rivoluzioni” danneggiassero “la floridezza del corpo politico arretrando i progressi della civilizzazione” pareva tuttavia a lui, Rivarola, infondato: “stante il sistema di servitù” che reggeva il paese, “i pregiudici che risultano da somiglianti scosse politiche” erano “minimi”, “non paragonabili a quelli de’ stati a diverso sistema sottoposti”.[21] Quanto al diritto criminale, esso era rimasto barbaro come in passato. L’abolizione della pena di morte, decretata da Caterina in omaggio ai principi umanitari del secolo, era stato un gesto puramente formale: da “quell’umanissimo principio ne deriva un barbaro effetto”, poiché i rei di delitti che meriterebbero la pena capitale “vengono condannati a ricevere un tal numero di colpi, a’ quali non possa resistere forza di natura, onde ne segue certa la morte, seppur non spirano sotto l’atroce lacerazione di una sferza crudele”.[22] L’opera politica di Caterina – “clemente, giusta, liberale” – “piega a venerazione lo spirito e la ragione anche de’ più ritrosi e scontenti”. Attenta e dinamica, “tutto vede, tutto esamina, e conosce ciò che di freno ed esempio serve a’ ministri, prevenendo le funeste conseguenze della letargica e sempre pericolosa deferenza”.[23] I favoriti non avevano più la “mostruosa preponderanza” di un tempo; l’istituto si conservava per “la sola forza dell’abitudine”. Erano i meriti personali a far avanzare a corte. Prova ne era la carriera del principe Potemkin. Il Rivarola aveva lasciato la Russia e i tanti amici e amiche che vi si era fatto con rimpianto. Ritornato a Genova, aveva tentato di avere un nuovo incarico diplomatico: a Londra, a Vienna. Sapeva di essere versato e di riuscire nelle commissioni in paesi stranieri, di non temere competitori. Ma i Serenissimi avevano lasciato cadere le sue richieste. Incapace di vedersi ozioso, irritato verso il proprio paese, accarezzò il progetto di ritornare in Russia e di riuscire a ottenere dall’Imperatrice, che aveva formato un buon concetto di lui, il dono di una casa e di un po’ di terra, e soprattutto di una piccola carica in un luogo anche remoto dell’Impero. Avrebbe intavolato “relazioni di commercio tra due paesi che già hanno sommamente comunicato ne’ secoli passati”.[24] Malgrado i suoi tentativi, non gli riuscì però di ridivenire “cosmopolita”. Eletto governatore di Chiavari, il 15 aprile 1791 ebbe parte non secondaria (già era membro della Società patria delle arti e delle manifatture di Genova) nella fondazione della Società economica del territorio di Chiavari.[25] Gli avvenimenti rivoluzionari di Francia trovano in lui un giudice tutt’altro che benevolo. Teme per la sua patria: la cospirazione anti-oligarchica del 1794 lo preoccupa, perché potrebbe fornire il pretesto a un’invasione. Per il resto, non nutre dubbi: “una totale rovina e sovversione dell’antico ordine [...] non ho molto temuta, non vedendo che il popolo avesse alcun interesse, anzi piuttosto il contrario, nei progetti dei faziosi novatori”. Loda i provvedimenti presi dal governo per l’occasione, cioè “separare dalla società” o esiliare “alcuni individui più clamorosi”.[26] Nel 1795, fu inviato presso l’esercito austriaco.[27] All’indomani delle tumultuose giornate del 22 e del 23 maggio 1797 (tentativo d’insurrezione di qualche centinaio di “patrioti” e reazione violenta dei carbonai e facchini), fu inviato in qualità di deputato straordinario a Parigi, con il compito “di giustificare presso il Direttorio la lealtà del Serenissimo governo e la niuna di lui partecipazione ai disgraziati avvenimenti di recente accaduti”. Eletto il 27 maggio, partì il 31 e giunse nella capitale francese l'8 giugno. Ma fu scavalcato dagli avvenimenti: la convenzione segreta stipulata il 5 e il 6 giugno a Mombello tra la Repubblica di Genova e la Francia prevedeva [297], per il 14 giugno, la fine della Repubblica oligarchica. Il 17 giugno apprese dal ministro degli esteri Delacroix la decadenza della sua missione. Il 19 chiese il richiamo.[28] Rimase tuttavia a Parigi da “turista” fino al 15 luglio. Ma, nell’atto di partire, fatti pochi passi in città, gli si ruppe la carrozza; e fu perciò costretto a fermarsi un altro giorno. Raggiunse Lione il 22. Ne ripartì il 24 e giunse a Torino il 27.
Era sul punto di rimpatriare allorché, il 29, gli furono recapitate, con la posta, diverse scritture calunniose. Il titolo di una di esse avrebbe fermato – diceva – “non solo me, ma l’Aristide di qualunque patria”.[29] Fece dunque una diversione e riparò a Losanna. Il titolo del libello era il seguente: Congiura scoperta in Parigi contro la libertà di Genova e dell’Italia (Parigi, 27 giugno 1797). Era firmato: Valerio Publicola, nome sotto il quale par certo che si celasse il residente ordinario, l’incaricato d’affari Bartolomeo Boccardi.[30] Conteneva una “miserabile ripetizione” delle accuse mossegli dal Journal des hommes libres del 16 messidorio (4 luglio).[31] Il maggior capo d’accusa era di aver intrigato per far sconfessare dal Direttorio la politica di “democratizzazione” perseguita in Italia dal Bonaparte. Suoi “complici” sarebbero stati i partecipanti al banchetto, tenutosi in casa del banchiere fiorentino Giovanni Busoni, il 21 giugno: il segretario Giuseppe Assereto, l’inviato genovese a Parigi Vincenzo Spinola, Cristoforo Spinola appena ritornato da Londra, l’inviato toscano Neri Corsini. Servendosi delle loro amicizie o delle loro parentele, costoro avrebbero concertato l’attacco che, tre giorni dopo, i membri moderati del Consiglio dei Cinquecento – Dumolard, Doulcet-Pontécoulant, Boissy d’Anglas – sferrarono dalla tribuna dell’Assemblea contro l’operato del Bonaparte e degli agenti francesi in Italia, e lo stesso Direttorio. Il Rivarola avrebbe cercato anche di tirare dalla propria parte uno dei direttori, Barthélemy. Il risultato, com’è noto, non fu quello sperato: il Direttorio, minacciato da moderati e da realisti, si vide costretto ad approvare contro voglia e in blocco la politica italiana del Bonaparte. L’azione politica era stata preceduta e affiancata da una vigorosa campagna di stampa. Aveva aperto l’offensiva, dal suo rifugio di Berna, Jacques Mallet-Du Pan, con due lettere che sarebbe stato lo stesso Rivarola a far inserire su Le Quotidienne del 23, 26 e 27 pratile (10, 13 e 14 giugno). La seconda, datata 6 giugno e indirizzata al Dumolard, riferiva sulla “rivoluzione” di Genova del 22 e 23 maggio: un’altra prova, dopo quanto era accaduto a Venezia, del disegno perseguito dal gruppo al potere di “sovvertire ovunque le costituzioni esistenti”.

Il caso di Genova era tanto più istruttivo in quanto la Repubblica era da tempo, malgrado le sue proteste di neutralità, del tutto devota alla Francia:

Divenuti i provvigionieri del mezzodì e delle vostre armate; compratori o depositari delle spoglie ammassate nella guardaroba nazionale; interessati nella sorte de’ vostri assegnati, avvolti nel destino delle speculazioni rivoluzionarie; i genovesi dal 1792 non erano più che i vostri sensali, né era la loro Repubblica fuorché un banco della fazione dominante in Parigi.[32]

Per tutta riconoscenza, si cercava ora di liquidare con una rivoluzione preparata e sostenuta dagli agenti francesi i miseti avanzi della sua “indipendenza domestica”. L’attività “divoratrice che minacciava di trascinare nell’abisso rivoluzionario tutti i [298] popoli civilizzati” era ancora dunque il principio ispiratore del governo.[33] Ma gli avvenimenti di Genova erano istruttivi anche per un altro aspetto. Contro le poche centinaia di “patrioti” – un “branco di stranieri e di banditi audaci” – la maggioranza della popolazione di Genova si era spontaneamente mobilitata in difesa del proprio governo. Il Mallet concludeva in atto di sfida: “Vengano al presente i vostri predicanti popolari, i vostri ciurmatori di democrazia, i vostri ipocriti filosofi; vengano a parlarci d’insurrezioni spontanee, del loro rispetto per il diritto e il voto del popolo!”.[34] Una accurata narrazione dei fatti accaduti a Genova dal 22 al 31 maggio il Rivarola aveva provveduto a far inserire nel supplemento allo stesso foglio, il 29 pratile (17 giugno): il Précis appunto al quale fa allusione il Celesia. Considerazioni non diverse da quelle del Mallet-Du Pan aveva fatto sulla “rivoluzione” di Genova il moderato Charles Lacretelle (non Richer-Sérisy, come pretendeva Publicola) sulle Nouvelles Politiques del 25-26-27 giugno.[35] Alla Sentinelle di Leuliette, che, il 28 giugno, aveva parlato di “contentezza del popolo di Genova nell’occasione dell’installazione del nuovo governo”, il Rivarola aveva replicato: “niente di più falso e di più assurdo”. I sudditi della Repubblica amavano il loro principe, non desideravano cambiamenti: “Niente di più opposto al carattere della nazione genovese quanto la leggerezza che gli si vuola attribuire, dipingendo con colori esagerati il passaggio forzoso ai nuovi sistemi di governo, intimamente sovversivo dell’antico, che gli è stato imposto dal Dittatore d’Italia”. La prova? “La prontezza e l’impegno con il quale si è levato ed ha difeso il suo governo nei giorni 22 e 23 maggio contro un pugno d’insorti che hanno osato rivoltarsi contro di esso”.[36] Per timore di rappresaglie, il governo provvisorio di Genova dissociò le proprie responsabilità dall’iniziativa presa dai troppo zelanti diplomatici della defunta repubblica. Intimò a Cristoforo Spinola e al Rivarola di rientrare a giustificarsi, pena la confisca dei beni; e il 15 e 17 luglio rivolse formale istanza al Direttorio di arrestarli e consegnarglieli “come indiziati rei di attentato contro la libertà e l’indipendenza della Repubblica Ligure con abuso delle cariche ad essi rispettivamente affidate”.[37] Il 7 agosto i beni dello Spinola e del Rivarola furono confiscati e un Comitato di polizia venne incaricato di procedere a una severa inchiesta. Il 21 agosto, gli accusati furono deferiti alla Commissione criminale. Ma, in dicembre, la causa non era stata ancora definita.[38] Il 26 marzo 1798, finalmente, la Commissione decretava “non esservi luogo a procedere” contro gl’imputati e ordinava il dissequestro dei loro beni. Il 2 aprile, il Rivarola fece ritorno a Chiavari. Nel corso di tutta la vicenda, se si tenne lontano da Genova, non rinunziò alla propria difesa. Presso i Franchelli, fece uscire, con la data: Losanna, 16 agosto 1797, una risposta circostanziata alle accuse mossegli, nella quale chiedeva ai concittadini giustizia, non indulgenza o perdono: S.R. a’ suoi concittadini.[39] Altrettanto fece a Torino il 9 agosto Giuseppe Maria Assereto.[40] L’accusa di aver cospirato a Parigi e quella successiva di aver armato i suoi contadini in vista di un’insurrezione[41] gli apparivano una montatura – diceva alla madre – ad opera dei più “esagerati” esponenti delle “medie classi rivoluzionarie”. Maggior fiducia nutriva nei confronti del “Dittatore d’Italia”: “Il generale non è men arbitro della Ligure che della Cisalpina Repubblica; un suo [299] cenno, finirà tutto”. Era pur sempre un grand’uomo: “nei grandi uomini, quando il desio della gloria è soddisfatto e temono le astrazioni disordinatrici della grande politica, le virtù senza le quali non esiste néordine né società ritornano nella loro estimazione”. Persuaso che egli “preferisce gli onesti uomini ai briganti, agli assassini, ai terroristi del giorno”, desidera addirittura il suo intervento negli affari di Genova: “Credo ancora non disgraziata cosa che venisse costì il generale Bonaparte e che anzi fissi lui le basi della Costituzione, in quanto essendo al di sopra delle passioni personali, può essere più equanime”. Guardava alle recenti vicende sue e della patria con ostentato distacco: “Tutto passerà [...]. Son passati i greci e i romani, e passeranno anche i francesi” (Stefano Rivarola ad Annetta Cambiaso Rivarola, Losanna, 13 settembre 1797). Si sente un “superato”: “Niente di più facile ch’io m’inganni: son uomo e questo basta, ed anche uomo del mondo vecchio e siamo nel nuovo”.[42] Ritornato a Genova, il Rivarola non stette a lungo quieto. Il Belleville, nell’agosto, giudicò la sua presenza pericolosa e lo fece chiamare a Milano assieme a Giacomo Brignole, a Gaspare Sauli, a Pietro e Giovan Battista Serra.[43] Soltanto i Serra obbedirono: Brignole e Sauli preferirono andarsene in Toscana, Rivarola a San Severino delle Marche.[44] A Milano – confidava alla madre – la sua persona correva troppo grave pericolo.[45] Riapparve, per un momento, sulla scena pubblica, con l’arrivo degli austriaci. Il 6 giugno 1800, fu nominato tra i deputati di annona e sanità; e di lì a poco, il 10 (cinque giorni prima di Marengo), entrò a far parte accanto al Celesia della Reggenza Imperiale.[46] Il 25 i francesi ritornarono. Il Rivarola pensò di espatriare. Chiese ed ottenne da Paolo I ospitalità in Russia. Alla fine, preferì Parma. Non volle beneficiare, a quanto sembra, della legge promulgata dalla Consulta legislativa il 30 dicembre 1800, che richiamava a Genova gli ex-nobili sbanditi con legge del 4-5 giugno 1799 e restituiva loro i beni confiscati.[47] La notizia dell’annessione della Liguria all’Impero gli strappa parole di sconforto: “Notizia più fatale di questa ad un buon genovese, ad un cittadino affezionato alla sua patria, non si può dare”.[48] Due mesi dopo, il fratello Agostino, allora preside della provincia di Macerata, gli consiglia di non far troppo il delicato. Certo, “sarà bene di stare un poco a vedere”. Lo esorta tuttavia ad accettare la nuova realtà politica: “io sarei ora inclinato a non ricusare sublimi uffici forastieri quando fossero calzanti e conducenti a qualche cosa di straordinario, secondo le viste di economia politica che ci siamo tante volte comunicate”.[49] Tre anni dopo, nel maggio del 1808, viene eletto a far parte, quale rappresentante del Dipartimento degli Appennini, del Corps Législatif. A Parigi, nel 1814, fu tra coloro che sottoscrissero la petizione, stesa da Luigi Corvetto, ai ministri delle quattro potenze coalizzate, che chiedeva di restituire alla Repubblica di Genova la sua indipendenza, “facendo ritorno alle antiche leggi del 1576”.[50] Si rassegnò, in seguito, all’annessione al Piemonte. Accettò di far parte, su designazione di Vittorio Emanuele I, della Deputazione agli studi e del Corpo decurionale di Genova; nel 1824 la nomina, da parte di Carlo Felice, a sindaco di Genova. Morì nel 1827.[51]

Note

[*]Articolo originariamente apparso nel volume collettivo Le società economiche alla prova della storia (secoli XVIII-XIX), Atti del Convegno Internazionale di Studi (Chiavari, 16-18 maggio 1991), Chiavari, Società Economica, 1996, pp. 293-299. In questa edizione elettronica sono state sfrondate le maiuscole e sciolte le abbreviazioni nelle fonti citate. La paginazione originale, così come ogni ulteriore intervento del curatore, è riportata in grassetto tra parentesi quadre (Davide Arecco).

[1]Cfr. S. ROTTA, “Pietro Paolo Celesia”, Dizionario biografico degli italiani, XXIII, 1979, pp. 380-386 [N.d.C.].

[2]R. DASSO, “L’ambasceria del marchese Stefano Rivarola in Russia”, Atti della Società Economica di Chiavari, 1940, pp. 26-27; R. SINIGAGLIA, Genova e Russia. La missione Rivarola a Pietroburgo (1783-1785), Genova, Graphos, 1994 [N.d.C.].

[3]A. PESCE, L’apertura delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica di Genova e l’Impero di Russia”, Rivista ligure, LXII, 1915, pp. 297-334.

[4]Ibid., p. 319.

[5]Avvisi di Genova, 1786, p. 217.

[6]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 189.

[7]Ibid., plico 188.

[8]G. BERTI, Russia e stati italiani, pp. 56-57, 94, 107-111, 795-809.

[9]Ibid., p. 796.

[10]Ibid.

[11]Ibid., p. 799.

[12]Ibid., p. 801.

[13]Ibid., p. 796.

[14]Ibid.

[15]Ibid., p. 800.

[16]Ibid.

[17]Ibid.

[18]Ibid., p. 805.

[19]Cfr. ora D. ARECCO, “Il filosofo e la regina: Diderot alla corte di Caterina II di Russia”, Cromohs, IX, 2004, pp. 1-8 [N.d.C.].

[20]BERTI, Russia e stati italiani, p. 804.

[21]Ibid., p. 807.

[22]Ibid., p. 804.

[23]Ibid., pp. 806-807.

[24]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 189 (Stefano Rivarola al duca di Serracapriola, Genova, 11 e 18 marzo 1786).

[25]M. CALEGARI, La Società patria delle arti e manifatture, Firenze, Giunti Barbera, 1969, pp. 101.103.

[26]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 189.

[27]G. SERRA, Memorie, pp. 40-41.

[28]G. COLUCCI, La Repubblica di Genova e la Rivoluzione francese, III, Roma 1902, pp. 374-398.

[29]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 195.

[30]V. VITALE, “I dispacci dei diplomatici genovesi a Parigi (1787-1793)”, Miscellanea di storia italiana, LV, 1935, p. 62; il testo del libello, pp. 63-69, è riprodotto anche da U. OXILIA, “Una presunta cospirazione contro la libertà di Genova e dell’Italia”, Atti della Società Economica di Chiavari, 1937, pp. 117-130; e, di nuovo, in U. OXILIA, Il periodo napoleonico a Genova e a Chiavari, Genova 1938, pp. 107-112.

[31]R. GOYOT, “Le Directoire et la République de Gênes”, La Révolution Française, XLV, 1903, p. 60.

[32]Le famose lettere di Mallet Du Pan scritte a un membro del corpo legislativo su la dichiarazione di guerra contro le due Repubbliche di Venezia e di Genova, Venezia, Gatti, 1797, p. 29.

[33]Ibid., pp. 36-37.

[34]Ibid., p. 34.

[35]J. GODECHOT, “I Francesi e l’unità italiana”, Rivista storica italiana, LXIV, 1952, pp. 556-566.

[36]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 195.

[37]COLUCCI, La Repubblica di Genova e la Rivoluzione francese, cit., III, pp. 42, 44.

[38]Il Censore, XIV, 12 dicembre; XV, 14 dicembre.

[39]OXILIA, Il periodo napoleonico, cit., pp. 113-115.

[40]Ibid., pp. 120-124.

[41]Giornale degli Amici del Popolo, XVII, 19 luglio 1797.

[42]Archiovio Rivarola di Chiavari, plico 195.

[43]Il Censore, CXXVI, 1 settembre 1798.

[44]G. ASSERETO, La Repubblica Ligure, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1975, p. 140.

[45]Archivio Rivarola di Chiavari, plico 195 (Stefano Rivarola ad Annetta Cambiaso Rivarola, San Severino, 29 settembre 1798).

[46]A. CLAVARINO, Annali della Repubblica di Genova, IV, Genova 1853, pp. 20, 32.

[47]Ibid., IV, p. 75.

[48]OXILIA, Il periodo napelonico, cit., p. 80.

[49]Annetta Rivarola a Stefano Rivarola, 16 agosto 1805; Ibid., p. 80.

[50]SERRA, Memorie, p. 113.

[51]L. LEVATI, I dogi di Genova e la vita genovese dal 1771 al 1797, IV, Genova 1917, pp. 706-709.