Cornelius de Pauw,[1]
ricco canonico di Xanten nel ducato prussiano di Clèves, aveva
fatto irruzione ventinovenne nel 1768 sulla scena letteraria con delle
poderose Recherches philosophiques sur les Américains, frutto
di nove anni di accanito lavoro. Quest'opera lo aveva subito collocato
al centro di un dibattito interminabile di dimensioni non soltanto europee
sulla natura delle Indie nuove e dei suoi primitivi abitatori. Nel marzo
del [242] 1770 aveva egli stesso replicato al primo dei suoi contraddittori,
Dom Pernetty, con una asciutta Défense. Aveva soltanto voluto
- vi diceva - non denigrare il nuovo continente, ma colorire un ritratto
veridico dell'America al momento della sua deprecabile scoperta. Deprecabile,
s'intende, per il fatto che gli Europei avevano fatto di quei selvaggi
orrenda strage. E poiché sembrava che essi fossero portati sempre
a abusare della propria superiorità, c'era da augurarsi che non
andassero a segno i tanti piani d'invasione delle terre australi che in
quegli anni i “politiques à projets” andavano caldeggiando:
“ne massacrons pas - esclamava - les Papous pour connoître,
au thermomètre de Réaumur, le climat de la Nouvelle Guinée”.
Lasciamo vegetare in pace quei selvaggi, visto che non sappiamo far altro
che aumentare le loro miserie.[2]
La vita selvaggia non era certo preferibile, come voleva Pernetty, alla
vita sociale. Qualità eminente dell'uomo era infatti la sua perfettibilità.
Il ritardo americano era dovuto in parte alla natura troppo rigogliosa
del continente, che non richiedeva da parte dell'uomo molti sforzi per
sopravvivere; in parte alla “race pusillanime” dei suoi abitanti.[3]
Fortuna per l'Europa l'aver ricevuto una terra avara: “c'est bonheur
pour un pays d'avoir des terres qui, sans la culture la plus pénible,
ne renderoient absolument rien et qui, par une culture pénible,
donnent un excédent considérable”.[4]
Ma le stesse terre americane, alle medesime latitudini, hanno ancor più
bisogno di quelle europee d'“une culture continuelle”. Che
cosa sarebbero il Canadà, l'Acadia, la Nuova Inghilterra, la Nuova
York se gli inglesi non vi lavorassero la terra, “et s'ils ne la
travailloient pas sans cesse”? Bisognava inoculare negli animi degli
aborigeni quell'“esprit de travail” che l'Europa, alle prese
con una natura difficile, possedeva in altissimo grado. E bisognava risanare
innanzi tutto l'ambiente naturale. Cosa che andavano facendo “avec
une ferveur incroyable” i coloni inglesi, là dove Spagnoli
e Portoghesi, che occupavano le migliori province meridionali, erano stati
contagiati dalla pigrizia degli indigeni.[5]
Tuttora bisognosa dell'Europa, l'America potrà però con
il [243] tempo, grazie allo studio e al più duro, più
penoso lavoro, emanciparsene.[6]
Un tempo per la verità lunghissimo: “Au bout de trois cent
années, l'Amérique rassemblera aussi peu à ce qu'elle
est aujourd'hui, qu'elle ressemble aujourd'hui peu à ce qu'elle
étoit au temps de la découverte”.
Lavoratore infaticabile, il de Pauw a questa data già aveva in
pronto pezzi delle sue opere future. Conservava nel suo portafogli il
lungo saggio sull'arte orientale che formerà uno dei suoi più
lunghi e digressivi capitoli delle Recherches philosophiques sur les
Egyptiens et les Chinois: “Je publierai un jour quelques recherches
que j'ai faites sur les causes qui ont toujours êmpechés
les Orientaux de réussir dans la peinture, et cela avant l'établissement
du mahométisme, et dans le pays où le mahométisme
n'a jamais été dominant, comme à la Chine et au Japon,
où l'on ne sait pas ancore aujourd'hui dessiner correctement”.[7]
Nella redazione definitiva tuttavia il giudizio sulla pittura giapponese
sarà più indulgente: “Quoique les ouvrages du Japon
rassemblent un peu à ceux de la Chine par la costume, on y reconnoît
néanmoins au premier coup d'oeil un meilleur dessein, plus de regularité
dans les contours, plus de vérité dans les détails,
et plus d'entente dans le coloris. Quelques artistes de ce pays ont même
peint assez bien au naturel des fleurs, des plantes, des oiseaux, des
quadrupèdes et des poissons; mais ces objects isolés ne
forment point des tableaux, où l'on trouve quelque notion de la
perspective et de la manière de grouper les figures”.[8]
Naturalmente, non poteva conoscere l'opera di Shiba Kokan (1747-1818)
e di altri artisti nipponici che proprio in quegli anni avevano a modo
loro adottato le leggi della prospettiva occidentale.[9]
Molti temi delle future Recherches sono già in nuce nella
Défense. In primo luogo, la denigrazione della scienza e
della filosofia cinese: “L'Europe est le seul pays de l'univers
où on trouve des physiciens et des astronomes: car le Chinois,
qui se vantent de tant de choses, n'ont un seul [244] astronome
ni un seul physicien”.[10]
Eppure essi erano in vantaggio su molti popoli occidentali che erano ancora
fermi all'età dell'oro, mentre la Cina era già entrata nell'età
del ferro.[11] Non manca neppure
l'accenno al trattamento crudele delle donne.[12]
In armonia con i suoi principi, sottolineava quanto fosse indispensabile
in Egitto, per assicurare l'azione benefica del Nilo, la cura attenta
degli uomini.[13] Infine,
vi troviamo la chiave dell'ultima opera distrutta.[14]
L'occasione per l'intervento di de Pauw gli era fornita dalla ripresa
in grande stile da parte di un noto e acclamato sinologo (il Gibbon considerava
la sua Histoire des Huns un modello), Jean-Joseph de Guignes, di
una vecchia ipotesi, germogliata primamente nella mente fervidissima del
padre Athanasius Kircher (Oedipus aegyptiacus, Roma 1654; China
illustrata, Amsterdam 1667). Nel quarto capitolo della sesta parte
di quest'ultima opera - sulla scorta delle informazioni ricevute dal padre
Michel Boym e d'un altro gesuita, il padre Johann Grueber, che in Cina
e in Tibet aveva dimorato a lungo - aveva dissertato sulla differenza
dei caratteri cinesi dai geroglifici egiziani. I Cinesi - vi diceva -
erano senz'altro dei discendenti degli Egiziani. E spiegava: “Les
enfants de Cham, ayant conduit des colonies dans les extremités
de la Chine, il y avoient introduit aussi les lettres et, les caractères
non pas à la vérité avec toutes les significafions
et les mystères dont estoient ornés les hierogliphes des
Egyptiens mais tout autant qu'il étoit necessaire pour expliquer
sa pensée, et donner à connoistre ses conceptions et ses
sentiments; quoyque grossierement”.[15]
In una memoria letta all'Académie des Inscriptions i1 6
dicembre 1718 il Fréret aveva smantellato quella tesi.[16]
Ma essa aveva continuato a eccitare l'immaginazione degli studiosi. Già
l'avevano fatta propria, sia dal 1666, Georg Horn (Arca Noae),[17]
[245] Thomas Burnet - pare - nella Archeologia philosophica
(1692)[18] e, sia pure
con qualche riserva, il vecchio Pierre-Daniel Huet. Nella sua Histoire
du commerce et de la navigation des Anciens (1716) non aveva esitato
a scrivere che “si toute la nation des Indiens et des Chinois n'est
pas descendue des Egyptiens, elle l'est du moins en la plus grande partie”.
Troppo grande era la “conformité” dei costumi tipici
dell'Egitto con quelli della Cina.[19]
Questa idea aveva incuriosito Jean-Jacques Dortous de Mairan, che nella
sua qualità di secrétaire perpétuel dell'Académie
des Sciences voleva tenersi al corrente sul mondo cinese e da anni,
sin dal 1728, si era scelto un interlocutore degnissimo, il padre Dominique
Parennin (nome cinese: Pa To-Ming), che a Canton operava dal 1698. A lui
sottopose dunque la questione. A condurre in Cina lo stuolo egiziano non
era stato però Cam, ma il mitico faraone Sesostri, alla testa di
un esercito di centomila uomini. Ne ricevette in data 20 settembre 1740
una cortese ma ferma smentita. I Cinesi - gli diceva il dotto gesuita
- non dovevano nulla agli Egiziani, “et ne peuvent être par
conséquent un essaim de leur ruche”. Oltretutto, era inimmaginabile
che “les Égyptiens, dans leurs commencements, aient été
en état de lever de grandes armées, de traverser des pays
immenses et de peupler un grand royaume”. Troppi elementi militavano
a favore dei Cinesi: l'antichità dei loro Annali, risalenti certo
al 1292 (cioè a cent'anni avanti il Diluvio) e soprattutto la loro
assoluta priorità nell'uso del ferro. C'era da augurarsi perciò
che gli studiosi europei, lasciando quieto il suolo d'Egitto della Caldea
e della Grecia, avviassero una seria campagna di scavi in Cina. Quale
magnifico campo di ricerche si sarebbe loro aperto “s'il leur était
permis de la labourer nord et sud, est et ouest, d'y creuser, d'y fouiller,
comme on fait en Egypte”[20]
(desiderio, sia detto di passata, che comincerà a realizzarsi soltanto
nel 1928).[21]
Il Mairan si attenne, per il momento, a questi saggi consigli. Tra gli
argomenti addotti dal padre Parennin, c'era quello di non aver osservato
in Cina una sola piramide. Ma nel 1757 W. Chambers (il futuro costruttore
nel 1762 della pagoda nei giardini di Kew), che qualche anno prima aveva
visitato la Cina, nei suoi Designs of [246] Chinese Buildings,
Furniture, Dresses etc., aveva sostenuto che “dans l'Architecture
Chinoise, de même que dans l'antique, la forme générale
de presque toutes les compositions tend à la pyramide”.[22]
Il Mairan colse al volo l'occasione e a gara con il de Guignes pubblicò
nel 1759 le sue Lettres au R.P. Parennin, e vi inserì in
appendice testi e immagini del Chambers.[23]
Il de Guignes lo aveva però preceduto di un anno.
Amicissimo dell'abate Barthélemy, che nel 1754 aveva decifrato
in due giorni le iscrizioni palmirene (ossia l'aramaico di Palmira) riportate
l'anno prima dal Dawkins e dal Woods (era stato il primo tentativo riuscito
di decifrazione di un'antica scrittura) e che andava allora cimentandosi
nella decifrazione della scrittura fenicia e di quella geroglifica,[24]
il de Guignes (che fino allora aveva condiviso lo scetticismo del padre
Parennin) aveva di colpo, come per illuminazione, cambiato idea. Proprio
le ultime scoperte dell'amico intorno all'alfabeto fenicio avevano modificato
il suo atteggiamento.[25]
Le lettere fenicie derivavano dai geroglifici egiziani e ridiventavano
geroglifiche in Cina; le due prime dinastie cinesi erano principi che
avevano regnato non in Cina ma in Egitto.[26]
Ai Doutes espressi dal Deshautesrayes, suo antico condiscepolo
alla scuola di Etienne Fourmont, rispose con alterigia. E rimase fermissimo
nelle proprie idee anche negli anni successivi: nel 1764, nel 1770, nel
1775.[27] A sua difesa era
intervenuto lo [247] stesso Barthélemy, che nel 1765 aveva
asserito che la dottrina di de Guignes fosse al riparo da ogni critica.[28]
Il primato dell'Egitto era troppo manifesto. La data della massiccia emigrazione
egiziana era però dal de Guignes fissata al 1122, un anno nel quale
aveva imperversato in Egitto una spaventosa carestia e che era stato in
Cina l'anno di fondazione della dinastia Chou, la più lunga di
tutta la storia cinese (1122-1221).
A tener vivo il dibattito era sopraggiunta nel 1761 l'interpretazione
che Joseph Needham, un fellow della Royal Society, aveva dato del
busto d'Iside con iscrizioni sino-egiziane del Museo di Torino, che pure
Giuseppe Bartoli nel 1764 aveva dimostrato essere un falso bello e buono.
Gibbon, allora (1764) a Torino, e curioso di antichità egiziane
(aveva esordito quindicenne con un saggio sul Secolo di Sesostri,
distrutto nel 1772) prese senz'altro posizione, in quella “dispute
fameuse”, per il Bartoli: “pour le fonds aussi bien que (pour)
la forme je ne puis que donner gain de cause à Monsieur Bartoli”,
annotò nel diario.[29]
Soltanto l'abate Guasco, l'amicissimo del Montesquieu, cercò di
dimostrare nel 1768 la perfetta convenienza dell'interpretazione del Needham
con il sistema di de Guignes, il quale, per parte sua, si dichiarò
in perfetto disaccordo.[30]
Intanto l'ipotesi del de Guignes aveva guadagnato [248] estimatori
di peso. Perfino Winckelmann ne fu sedotto.[31]
All'epoca dunque nella quale il de Pauw brandì la penna, la disputa
era ancora accesa, ardeva anzi del suo più bel fuoco. Non erano
mancati - è vero - i contraddittori: primo fra tutti il Vico, che
nella Scienza nuova seconda (Napoli 1744) aveva contrapposto con
asprezza all'immagine dell'Egitto culla di tutte le scienze e di tutte
le arti l'immagine di un antico Egitto barbaro e superstizioso, chiuso
nei suoi confini, incapace di contatti reali con gli altri popoli.[32]
Ma al Vico in quel tempo nessuno dava udienza. Proprio per dimostrare
l'infondatezza della supposta parentela tra la civiltà egiziana
e quella cinese, il de Pauw mosse in guerra. Si trattava di due civiltà
diversissime, una delle quali - la cinese - non possedeva ai suoi occhi
nessun fascino. In subordine, si applicava a ridimensionare l'immagine
dell'Egitto, a far giustizia del mito di nazione conquistatrice e civilizzatrice
dell'universo, che a quell'epoca nell'ambiente dei philosophes
era quasi un dogma. Basti pensare al ruolo centrale assegnato agli Egiziani
nel processo d'incivilimento dagli Enciclopedisti. Credenze religiose,
dottrine filosofiche, scienze, arti, scrittura sono venute da loro e sono
state successivamente trasmesse ai Fenici, agli Israeliti, ai Greci, ai
Romani fino agli Indiani e ai popoli dell'estremo Oriente. Il preteso
miracolo ebraico era in tal modo distrutto e insieme era salvata agli
occhi di questi monogenisti l'unità di sviluppo della civiltà
umana.[33] Per il de Pauw
il mito dell'Egitto imperialista e culla della civiltà va invece
riposto, per dirla con Vico, nel museo della credulità.
Nello studio parallelo che il de Pauw fa delle due civiltà è
evidente la parzialità per il mondo egiziano confrontato con il
cinese, questo sì detestato di tutto cuore dal dottissimo abate.
Non aveva avuto torto Napoleone che, nel 1811, aveva fatto erigere alla
[249] sua memoria un obelisco a Xanten. In ogni caso, di contro
al parti pris con il quale egli si era avvicinato alla civiltà
cinese, il de Pauw aveva affrontato lo studio dell'Egitto da storico,
facendo giustizia - è vero - e con modi assai brutali di molte
leggende antiche e interpretazioni recenti, ma cercando sempre di conseguire
un'immagine attendibile di quel mondo lontano e allora senza voce; e che
poteva essere conosciuto soltanto attraverso testimonianze altrui, e per
giunta di viaggiatori tutt'altro che immuni da pregiudizi e che, ignorandone
la lingua, dovevano per forza servirsi d'interpreti, sacerdoti di basso
rango oppure ciceroni confusionari. Esempio insigne: Erodoto. Nel caso
della Cina questo lodevole scrupolo d'informazione, malgrado le sue proteste
di volersi fondare sui ‘fatti’, viene a cessare: al punto
di dichiarare fatica sprecata la traduzione delle opere classiche del
pensiero cinese. Con pochi, spavaldi tratti di penna riduceva a niente
l'opera di quell'équipe straordinaria di gesuiti che, fattisi
consumati sinologi, avevano speso e andavano spendendo anche dopo lo scioglimento
della Compagnia tutta la loro vita a mettere a disposizione dei dotti
d'Europa i classici cinesi. Il de Pauw non era loro grato di tanta cura
e di tanta devozione, né considerava affatto esemplari le loro
fatiche. Avevano sì tradotto i cinque classici confuciani - quell'“amas
de pièces supposées ou falsifiées” - ma malamente:
li avevano “noyés dans de phrases latines qui ne finissent
pas, et dans un jargon qui rassemble à celui des mauvais prédicateurs”.
Del resto nessuno leggeva Confucio, quel banale filosofo, perché
si sapeva bene che non diceva niente d'interessante e che era per di più
mortalmente noioso. Non era proprio il caso che si dessero la pena (come
minacciavano) di volgarizzare un pensatore dello stesso calibro: Mencio.
Volesse il cielo che il de Guignes non riuscisse a stampare la versione
dell'I-ching (il libro dei mutamenti). Dalla stessa officina erano
usciti di recente due opere: nel 1770 lo Shu-ching (il libro dei
documenti), fatica estrema del padre Gaubil; nel 1772 l'Art militaire
des Chinoise (una raccolta di trattati sulla guerra anteriori all'era
cristiana) a cura del padre Amiot. Il de Pauw aveva scorso quelle due
opere; ma non riusciva a nascondere la delusione o piuttosto l'irritazione.
Non c'era, in tutto lo Shu-ching, “un seul endroit qui puisse
répandre la moindre lumière sur l'origine des Chinois, et
ce qui concerne le développement des arts et métiers y est
aussi mal traité, et d'une manière si peut vraisemblable
[....]”. Altrettanto severo giudizio dava del Ch’un Ch’iu
(Primavera e Autunno), uno dei più famosi classici confuciani:
“c'est une misérable petite chronique des rois de Lou, où
on ne doit chercher ny l'esprit philosophique ny le style ny la manière
[250] des grands historiens modernes: il n'y a rien de tout cela”.[34]
Gli ex-gesuiti per bocca di padre Amiot protestarono;[35]
ma gli autori del Supplément dell'Encyclopédie
lo vollero tra i collaboratori.[36]
Voltaire, che aveva giustamente notato l'assenza di cosmogonie nella tradizione
cinese, aveva elogiato i loro annali: “les autres nations inventèrent
des fables allégoriques; et le Chinois écrivirent leur histoire,
la plume et l'astrolabe à la main”. E più avanti aveva
scritto: “Si quelques annales portent un caractère de certitude,
ce sont celles des Chinois, qui ont joint [...] l'histoire du ciel à
celle de la terre”.[37]
Niente di più assurdo, obietta de Pauw: “C'est réellement
se moquer du monde de vouloir qu'un tel peuple ait été en
état d'écrire ses annales l'astrolabe à la main,
et de vérifier, comme disent des enthousiastes, l'histoire de la
terre par l'histoire du ciel”. Il fatto è che “ce qui
les rends inférieurs à tous les peuples policés”
è proprio l'ignoranza dell'astronomia. I grandi sforzi compiuti
dal padre Gaubil nella sua Histoire abrégée de l'astronomie
chinoise (1732), per convincere gli scienziati europei che gli antichi
Cinesi erano assai illuminati, ma che i loro discendenti, insensibilmente
abbrutiti, “sont tombés dans la nuit de l'ignorance”,
non riuscivano nel loro intento. Se davvero gli astronomi dell'età
degli Han avessero scoperto la vera figura della terra, quelli che vennero
dopo di loro, “qui devoient avoir ces écrits-là [251]
sous les yeux”, non avrebbero sostenuto ostinatamente che la
terra è quadrata, sicché non avevano nel 1505 nessuna idea
né della longitudine né della latitudine della loro città.
La situazione era migliorata all'epoca dell'invasione mongola, quando
giunsero in Cina astronomi della Battriana; e sono stati questi scienziati
persiani a costruire gli strumenti e i globi degli osservatori di Pechino
e di Nanchino, dei quali però i Cinesi non furono mai in grado
di servirsi. A ogni modo, le loro osservazioni delle eclissi sono risultate
false: nella loro vantata osservazione di un solstizio d'inverno, il Cassini
rinvenne un errore di 497 anni. Si crede che, non avendo potuto eccellere
nelle scienze della natura, “qui dépendent immédiatement
du génie”, i Cinesi si siano invece distinti nelle scienze
umane, che dipendono “uniquement de la raison”. Ci si assicura
“qu'ils ont porté la morale à un degré de perfection
où il n'a jamais été possible d'atteindre en Europe”.
Era, tra gli altri, l'opinione di Leibniz. Persino il de Guignes trovava
ammirevole la “morale écrite” dei Cinesi: “La
Chine - dirà nel 1787 - est un superbe pays dans les livres [...]”.
De Pauw non era d'accordo: “je suis fâché de n'avoir
pu découvrir, après tant de recherches, la moindre trace
de cette philosophie si sublime”. È’ un progresso forse
permettere che ogni giorno in tutta la Cina, da Canton a Pechino, si espongano
i fanciulli oppure se ne castrino un buon numero? È un progresso
l'esistenza di schiavitù domestica, negata dagli esageratori come
Raynal, ma ben reale in tutto il paese, “où l'on réduit
tant d'hommes nés libres à la condition des bêtes:
car les Chinois peuvent, tout comme les Nègres, vendre leurs enfants;
et jamais leurs législateurs n'ont eu la moindre idée des
bornes du pouvoir paternel”. È vero: la limitazione della
patria potestà è stata lo scoglio che nessun legislatore
dell'antichità seppe evitare. Ma è vanto dei popoli dell'Europa
moderna l'aver “détruit chez eux l'esclavage, et découvert
les véritables bornes du pouvoir paternel, ce qui est le chef-d'oeuvre
de la législation”. Quanto ai letterati della Cina, è
strano che si facciano crescere le unghie per paura di essere scambiati
per agricoltori: “Seroit-ce bien dans les vrais principes de la
morale qu'ils auroient trouvé que la terre déshonore ceux
qui la cultivent?”. Gli annali cinesi, oltre a cattive osservazioni
celesti, hanno un altro inescusabile difetto: “Dans ces histoires,
toutes les découvertes se font comme par enchantement, et succèdent
avec une rapidité inconcevable: ce qu'il y a de pis, c'est que
toutes ces découvertes sont encore attribuées à des
Princes: tandis que nous savons que les Princes ne font jamais de découvertes
ou que très rarement”. Servilismo tipico degli schiavi, “car
c'est le propre des [252] esclaves prêter à leurs
maîtres mille fois plus de lumières qu'ils n'en ont”.[38]
Come supporre che vi fosse comunicazione di civiltà tra due popoli
- l'Egiziano e il Cinese - che sono l'uno l'esatta antitesi dell'altro?
Si guardi alla situazione delle donne. In Egitto esse godono di una grande
libertà, anche se non di una libertà illimitata,[39]
condizione comunque inconfrontabile con quella delle donne cinesi, alle
quali, claustrate e seviziate sin da bambine, “on a ôté
par le droit positif tout ce qui leur étoit accordé par
le droit de la nature”. Basti dire che un cinese che uccide in un
trasporto d'ira la moglie “n'est pas même responsable de sa
conduite devant le juge, non plus que quand il tue ses filles”.
Nei supplizi - questo sì - tristemente primeggiavano: riuscivano
a sminuzzare un uomo da vivo in diecimila pezzi. I missionari più
di una volta avevano subito quel trattamento, finché nel 1748 si
preferì strangolarli. La tolleranza cinese era una pia fandonia.
Gli Imperatori [253] avevano “cinq ou six fois permis de
prêcher le christianisme, et cinq ou six fois l'ont défendu”.
“Révolutions”, che avevano sempre “fait couler
le sang”. Si osservi il regime dietetico. Il popolo egiziano era
avvolto da una quantità di tabù alimentari di origine religiosa;
il cinese al contrario mangiava di tutto: “la chair d'aucun animal
ne leur a été défendue; la distinction entre les
poissons à écailles, et ceux qui n'en ont pas leur est inconnue”.
Essi “ne paroissent avoir de la répugnance pour rien, ni
de l'horreur pour rien: ils mangent des rats, des chauve-souris, des hiboux,
des cicognes, des chats, des blaireaux, des chiens, des vaches: repas
vraiment abominable aux yeux d'un Égyptien”. E mai i Cinesi
hanno reso un culto agli animali.[40]
Un altro buon test è lo stile dell'architettura. Un cinese
che intraprendesse oggi il viaggio d'Egitto resterebbe sorpreso dagli
obelischi di Alessandria e di Matarea e ancor più sorpreso alla
vista di quella suite di piramidi collocate all'occidente del Nilo,
da Hawwara a Gizah: monumenti del genere sono sconosciuti in Cina. In
effetti, “le caractère de l'architecture chinoise est diametralement
opposé au génie de l'architecture égyptienne, qui
tendait à rendre indestructible et pour ainsi dire immortel, tout
ce que les Chinois rendent extrémement fragile, et encore extrêmement
inflammable à cause du vernis dont ils recouvrent leurs colonnes
[di legno] et de cette pâte de chaux, de filasse et de papier mâché
dont ils remplissent les cavités du bois”.[41]
Lo stile dell'architettura religiosa è diversissimo: “de
quelque côté qu'on considère une pagode de la Chine,
n'y trouve-t-on la moindre rassemblance avec un temple de l'Egypte”.
In Cina il modello di ogni costruzione è la tenda: cosa perfettamente
conforme con lo stato primitivo dei Cinesi che sono stati, come tutti
i tartari, dei nomadi. La città cinese? Rassomiglia a “un
camp à demeure”. Tra le meraviglie della architettura cinese
il padre Parennin aveva citato il famoso ponte di ferro fucinato, detto
dai Cinesi “ponte senza rimpianti (della vita)”. Per il de
Pauw il ponte “volante” era stato inventato da uno che non
possedeva il “senso comune”. L'architetto austriaco Fischer
Von Erlach ne era rimasto invece tanto colpito da raccomandarne, nel 1721,
la costruzione in Europa.[42]
Per il de Pauw, i Cinesi non avevano nessuna capacità [254]
ingegneresca: il canale imperiale, “ouvrage vraiment digne d'admiration,
et où l'on a employé des architectes très versés,
tant de pratiques du nivellement que dans la construction des écluses”
non è stato fatto dai Cinesi: “Leurs architectes n'ont pas
été en état de l'entreprendre, et bien moins de l'exécuter”.
Il più alto edificio della Cina è la torre a nove piani
nei dintorni di Nanchino, chiamata torre di porcellana, in realtà
una torre di mattoni. È comunque un'opera solida: è infatti
un monumento fatto erigere da Kublai-khan come trofeo per perpetuare la
conquista. L'invenzione della polvere da sparo? È stata fatta da
un altro popolo asiatico, forse il tibetano. L’invenzione della
carta? L'epoca di tale invenzione è incerta e la qualità
della carta pessima. Perfino sull'invenzione della porcellana e sull'arte
di tingerla de Pauw resta freddo. La sua tesi, del resto chiaramente enunciata,
è questa: sono stati uomini venuti da Occidente a cambiare la faccia
della Cina. Persino le sue credenze religiose più importanti -
il buddismo soprattutto - sono penetrate in Cina dall'India. Una monarchia
despotica, un paese umiliato nella servitù, per molti lati ancora
barbaro nelle strutture sociali, arretrato nelle tecniche rispetto all'Occidente,
già tormentato da un eccesso di popolazione, che - come avviene
in tutti paesi despotici - si addensava nelle città: no davvero,
la Cina non era un paese modello. In particolare, trovava rivoltante l'amministrazione
della giustizia. I Cinesi non soltanto permettevano ai colpevoli di riscattarsi
con il pagamento di una certa somma; ma addirittura che i poveri si facessero
bastonare, dietro compenso, in luogo del colpevole: “Le juge veut
faire une exécution, il lui faut un patient: or il prend celui
qui se présente”. Uso aberrante: “Les Chinois sont
peut-être les seuls hommes du monde qui vendent et qui achètent
des supplices”. Per non parlare dell'atrocità delle mutilazioni.
Dietro alle outrances e al sistematico atteggiamento denigratorio
o almeno riduttivo appaiono le tendenze riformatrici umanitarie che del
resto non erano assenti neppure nelle Recherches sur les Américaines.
L'osservazione più acuta: l'esclusiva dipendenza dell'economia
cinese dal lavoro umano.[43]
[255] Diverso, come ho detto, l'atteggiamento nei confronti dell'Egitto.
Innanzi tutto: il de Pauw scarta ogni studio del rayonnement della
civiltà egiziana nel mondo: le spedizioni militari di Sesostri
in Oriente e in Occidente che avrebbero reso l'Egitto padrone del mondo
(“ce qui n'est qu'une bagatelle”) sono soltanto una “fable
sacerdotale” senza il minimo contenuto storico. Oltre tutto Sesostri,
che aveva appena liberato l'Egitto dagli Hyksos, non era troppo sicuro
da minacce esterne: tanto è vero che fece costruire una grande
muraglia per proteggere il paese, una folie comune a molti popoli
che “se sont imaginé qu'on pouvait fortifier un pays comme
on fortifie les villes”. Erodoto ha confuso gli insediamenti fenici
nella Colchide con colonie egiziane fondate da Sesostri “et cette
méprise est d'autant plus grossière qu'il avoue lui-même
qu'en Egypte on n'avait pas la moindre connoissance touchant ces colonies-là”.
Sarebbe come dire che in Spagna non si sapesse che vi erano insediamenti
spagnoli nel Perù. E neppure si può sostenere che il nome
di Sesostri si trova nel canone dei re d'Assiria né soprattutto
concludere che l'Assiria era nel numero dei paesi che egli aveva conquistato.
Altrettanto leggendaria la notizia della flotta di seicento navi che Sesostri
avrebbe fatto costruire nel Mar Rosso: “on place de tels prodiges
dans un temps où l'ignorance des Egyptiens par rapport à
la marine était extrême, parce que leur aversion pour la
mer était encore alors invincible”.
L'Egitto dunque non era stata una nation conquérante. Esso
aveva in ogni tempo praticato una politica difensiva: aveva insomma cercato
di prevenire o d'impedire ogni impresa d'invasione del paese, sia che
provenisse dall'Asia o dalla Libia o dall'Etiopia. Su quanto Greci e Romani
tolsero dalla cultura egiziana bisognava pure fare la tara. Per esempio:
Ammiano Marcellino insinua che il diritto romano in origine abbia attinto
dalla legislazione egiziana. Ma è facile vedere che i Decemviri
respinsero la sola legge egiziana che avrebbe potuto convenire a una repubblica:
la costituzione relativa ai debitori, sulla persona dei quali un creditore
non poteva in Egitto esercitare la minima violenza. Quella dei Decemviri
in proposito era invece “barbare et atroce”. In breve: non
si trova nelle XII tavole, “qui sont le fondement du droit romain,
aucune trace de la jurisprudence d'Egypte”. Per non parlare delle
leggi relative alla schiavitù: “Aucun peuple n'eut sur la
servitude des maximes plus désesperantes que les Romains”.
Agli Egiziani era stato tolto almeno il potere di uccidere i loro schiavi.
La libertà e la vita sono però inseparabili: chi è
padrone della libertà lo è anche della vita. I padroni potevano
sempre uccidere [256] i propri schiavi a forza di lavoro. Il fatto
è che la schiavitù è una tale ingiustizia che non
può essere sostenuta che da molte altre. Almeno in Egitto non vigeva
come a Roma l'“axiome abominable” della condizione del ventre,
che i figli dovessero cioè seguire la condizione della madre. E
prima della dominazione dei Greci e dei Romani gli Egiziani avevano deciso
molte cause con il giuramento, e non avevano conosciuto la tortura giudiziaria:
“institution abominable”. Né in Egitto il potere paterno
- “l'affreuse idée qu'on ne doit pas regarder les enfants
comme des hommes” - aveva avuto l'estensione che ebbe in Grecia
e soprattutto in Roma.[44]
Le tracce che qualche interprete pretende rinvenire nella legislazione
riformatrice di Solone sono vaghissime e oltre tutto problematiche. Prendeva
dunque le distanze da quel “mirage égyptien” che aveva
sedotto gli intellettuali greci (cfr. Froidefond, Le mirage égyptien
dans la littératture grecque d'Homère à Aristote,
1971) e ancora seduce Martin Bernal (Black Athena, 1987 e sgg.).
L'Egitto va dunque studiato per se stesso: nelle sue istituzioni, nelle
sue credenze, nei suoi monumenti, nella sua realtà geografica.
Lo studio della geografia è indispensabile: “quand on n'a
pas faite une étude particulière de la géographie,
on ne sauroit voir fort clair dans l'histoire ancienne”. Ma ricostruire
la storia egiziana non è cosa facile. A renderla anche più
imbrogliata hanno contribuito i cronologisti moderni “qui ont eu
la prévention presque inconcevable de vouloir ajuster les annales
égyptiennes avec l'histoire des Juifs”. Di sistemi cronologici
se ne contavano all'epoca centodiciassette “d'où il résulte
prècisement, comme l'on voit, que nous n'avons plus aucune chronologie”.
Marsham, Pezron, Fourmont e Jackson avevano preteso, per esempio, che
in Egitto avessero regnato contemporaneamente quattro o cinque re. Sfortunatamente,
“on a découvert de nos jours que l'Egypte est un pays beaucoup
plus petit qu'on ne l'avait jamais cru, et à-peu-prés une
fois plus petit que Caylus même ne se l'imaginait, de sorte que
quatre ou cinq rois à la fois ont dû y être très-mal
à leur aise”. Uno di questi regni era stato collocato dal
d'Origny[45] nell'isola di
Elefantina, “parce que l'on est assez ignorant dans la géographie
[257] pour se persuader qu'elle est d'une étendue prodigieuse”.
Ma basta osservare la carta che Danville aveva premesso ai suoi Mémoires
sur l'Egypte ancienne (1762) per accorgersi che si tratta di un isolotto
di poche centinaia di tese: “Ainsi le royaume qu'on y met ressemble
beaucoup au royaume d'Yvetot”. Tra tutti i cronologisti non c'era
che Jackson che si fosse accorto che i Faraoni non hanno riseduto che
a Tebe o a Menfi “et non dans des bourgades et dans des villages”.
Vediamo dunque il philosophe all'opera.
Messe da parte con un colpo solo tutte le discussioni sulla cronologia
egiziana e tutti i tentativi di accordare le liste regali di Manetone,
quelle di Diodoro e i trecentotrenta sovrani di Erodoto, il de Pauw si
rivolge allo studio delle tecniche di lavorazione della pietra. La sua
guida sarà non uno storico, ma un tecnico, uno dei maggiori intagliatori
di gemme del suo tempo: Johann Lorenz Natter.[46]
La raffinatezza di quei manufatti (le tecniche progrediscono assai lentamente
per effetto di lunghi, pazienti, innumerevoli tentativi di molti) e l'ampiezza
stessa dei successi dell'industria egiziana (fusione del vetro, tessitura
del lino, etc.) costringevano a fissare a una data molto alta l'inizio
del processo d'incivilimento dell'uomo egiziano: “on n'a pas besoin
des dynasties de Manéthon pour prouver l'antiquité des Égyptiens,
puisqu'elle est bien démontrée par les progrès qu'avoient
faits chez eux les arts dès les temps les plus reculés;
et à la conquête des Macédoniens, on les trouva dans
un état où il ne leur manquoit plus que le dernier degré
de perfection [...]. Les fabriques qui rendirent l'Egypte si célèbre
sous le Ptolémées, comme [258] la verrerie et la
tapisserie, y avoient été établies une infinité
de siècles avant les Ptolémées [...]”. Ormai
la parola passava allo storico della vita materiale e, si capisce, all'archeologo.
Al de Pauw il merito di aver aperto la via e di aver tentato, lui sedentario
ma avido ed esperto dei più minuti dettagli tecnici, qualche non
spregevole saggio del nuovo tipo di approccio al passato. Tanto felici
riuscite tecniche esigevano, tra l'altro, il concorso di numerosi soggetti:
in altre parole, un qualche principio di organizzazione sociale e politica.
Quando è dunque cominciata la storia politica d'Egitto, quando
gli Egiziani si sono riuniti “en corps de nation?”. Il de
Pauw non azzarda date. Ma poiché nel 2000 a.C. essi ci appaiono
in possesso di tecniche avanzatissime nella lavorazione dei metalli e
della pietra (e - si badi - nelle arti di lusso, che non hanno alcun rapporto
con i bisogni della vita), e poiché egli nulla cura la cronologia
biblica (deride anzi Marsham, che ha fatto iniziare la monarchia in Egitto
il giorno dopo il Diluvio e ne ha fatto primo re Cam), la data di nascita
dell'Egitto faraonico, l'unione dei due paesi, del giunco e dell'ape,
della corona rossa e della mitria bianca, insomma del Basso e dell'Alto
Egitto deve essere avvenuta in epoca di molto anteriore al 2000. Se non
azzarda date sull'unione dei due regni, si fa invece dogmatico sulla direzione
del processo: dal sud al nord, dall'Alto al Basso Egitto: “les Egyptiens
sont descendus des hauteurs de l'Ethiopie; de sorte qu'ils ont commencé
à se fixer au dessous des cataractes; aussi leurs premiers rois
ont-ils résidé à Thèbes, et non pas à
Memphis, comme cela est demontrè par le canon d'Eratosthène
et par tous les catalogues des dynasties”. Sleale contraddirlo:
Tebe non divenne splendida capitale che molto tardi, regnante la XVIII
dinastia, nel periodo di maggior potenza mondiale dell'Egitto; né
erano etiopi i primi popolatori della valle del Nilo. Ma è doveroso
aggiungere che anche per Champollion la colonizzazione dell'Egitto era
stata opera di popolazioni provenienti dall'Abissinia e da Meroe. E primo
governo d'Egitto fu sacerdotale, di preti provenienti da Meroe tanti quanti
erano i nomói. I principi della civiltà erano stati
importati da Meroe in Egitto con il culto di Amon. Hegel dirà la
stessa cosa. La casta sacerdotale era stata rovesciata da quella militare
i cui capi si proclamarono re circa il 2200 a.C., epoca alla quale data
la nascita di un regolare potere regale in Egitto. Ma si trattava di un
sovrano unico o di molti sovrani che regnavano contemporaneamente nelle
diverse parti del paese? Per de Pauw - abbiamo visto - non vi sono dubbi:
si trattava di un unico sovrano. Per i primi egittologi la questione non
è altrettanto [259] sicura. Fino alla XVIII dinastia, vale
a dire secondo la cronologia dell'epoca, fino al 1822 (Rosellini) o al
1700 a.C. (Heeren, Seyffart, etc.) è probabile che si trattasse
di tante monarchie coeve. Heeren, il maestro di Gottinga, è esplicito:
“Non è che - scrive nel 1834 - con l'espulsione degli Hyksos
e la XVIII dinastia cominci la riunione di tutti gli stati egiziani in
un solo impero”.[47]
È contrario a ogni verosimiglianza che trecento re di diverse famiglie
si siano succedute regolarmente per così lunga serie di secoli.
È difficile concepire che l'Egitto abbia costituito tutt'a un tratto
un grande impero. Il periodo dunque compreso tra la prima e la XVII dinastia
(l'Antico e il Medio Regno) è oscuro perché non vi sono
monumenti (la Grande Piramide fu costruita sotto la IV dinastia menfitica).
Come si vede, la ricostruzione della storia dell'Egitto predinastico e
dinastico brancolava ancora, più di mezzo secolo dopo il de Pauw,
nel buio.
Quel che importa sottolineare qui è che il de Pauw, se ricostruì
abbastanza correttamente la direzione del processo di unificazione (sempre
imperfetta) dell'Egitto, salvo l'errore di fare di Tebe invece che di
Menfi la capitale del nuovo stato, peccò invece di parzialità
escludendo, nell'evoluzione dell'Egitto dinastico, la parte avuta dalle
città del Delta. Ma là dove l'ideologo prende la mano allo
storico è nella ricostruzione della forma politica. Nulla sapeva,
beninteso, della natura divina del faraone. L'egittologia continuò
a ignorarlo per oltre un secolo fino a Erman, fino a Moret. Sapeva però
delle piramidi; ma si ostinò a negare che fossero tombe. Erano
piuttosto ricettacoli tenebrosi dove i sacerdoti, così umbratili
e amanti del raccoglimento meditativo, amavano rifugiarsi.[48]
Dupuis per parte sua ne aveva fatto degli osservatori astronomici. A entrambi
pensava il Volney: “quelques écrivains se sont lassés
de l'opinion que les pyramides étaient des tombeaux, et il en ont
voulu faire des temples et des observatoires: ils ont regardé comme
absurde qu'une nation sage et policée fît une affaire d'état
du sepulchre de son chef [...]”. Bisognava però arrendersi
all'evidenza: “ll faut donc revenir à l'opinion, toute vieille
qu'elle peut être, que les pyramides sont des tombeaux”.[49]
[260] Comunque sia, il de Pauw s'ingannò nel fare della
monarchia egiziana una monarchia limitata. Non era stato il primo. Aveva
avuto anzi un illustre predecessore: Montesquieu. Favorevolmente colpito
dal rigore con il quale veniva scandita la giornata del faraone, in un
capitolo rifiutato delle Lois aveva concluso che quell'“étiquette”
metteva un salutare limite al suo potere: “Quand les loix [roix?]
n'en auroient tiré que cet avantage de sentir que leur volonté,
qui devoit régler tant de choses, mais devoit elle-même être
réglée, ils auroient beaucoup gagné, et leurs peuples
aussi”.[50] E aveva
incluso senz'altro l'Egitto faraonico (che per Voltaire era stato un “vrai
pays d'esclaves”),[51]
e perfino quello retto dai pascià ottomani, tra i paesi governati
da un potere ‘moderato’. Lo esigeva la natura del paese, uno
dei tre “que l'industrie des hommes a rendus habitables”.[52]
Per il de Pauw, la monarchia egiziana era stata per secoli un modello
di monarchia limitata: il potere era stato “véritablement
monarchique par la forme de sa constitution, puisqu'on y avoit fixé
des bornes su [261] pouvoir du souverain, reglé l'ordre
de la succession dans la famille royale, et confié l'administration
de la justice à un corps particulier, dont le crédit pouvoit
contrebalancer l'autorité des Pharaons, qui n'eurent jamais le
droit de juger ou de prononcer dans una cause civile”.[53]
Non basta: “c'étoit une loi fondamentale dans ce pays que
la royauté et le pontificat sont incompatibles”. Gli Egiziani
delle prime diciannove dinastie erano stati abbastanza saggi da opporre
questa barriera al despotismo, che ha soprattutto schiacciato molti paesi
asiatici, dove i principi avevano usurpato il sacerdozio oppure lo avevano
reso, come in Turchia e in Russia, amovibile. È chiaro che i sacerdoti
fatti dipendenti dal sovrano non contavano più come forza di controllo
e di opposizione: “de tels esclaves ne sauraient protéger
le peuple puisqu'ils ne sauraient se protéger eux-mêmes”.
Soltanto quando Sethon (Hrihor?), che occupava il sacerdozio per diritto
ereditario, usurpò il trono, la costituzione egiziana ne fu per
sempre sconvolta e ne risultò un “véritable despotisme”
che durò da Psammetico all'invasione di Cambise. E da allora si
produsse una incolmabile frattura tra il popolo e il suo re: gli Egiziani
“commencèrent alors à haïr leurs rois”.
E Amasis dovette mantenere una forte guarnigione a Menfi per timore di
una rivolta dei sudditi. Quando una monarchia si estingueva si ricorreva
all'elezione. Ma i soli che godessero dell'elettorato attivo e passivo
erano i soldati e i preti. Siccome il numero dei soldati era senza confronto
maggiore di quello dei preti del primo e del secondo ordine, il voto dei
prophetae valeva quello di cento militari e così di seguito
sino agli zacori in diminuzione proporzionale così che tre preti
potevano controbilanciare il voto di centotrenta soldati. Il nuovo re
al momento dell'insediamento doveva far giuramento solenne sul calendario.
Quanto alle ricchezze dei faraoni esse sono state molto esagerate. Questi
principi non ebbero mai una corte sfarzosa, “ce faste insultant
des despotes de l'Orient”. Sono stati i primi tre Tolomei a fare
dell'Egitto il centro del commercio mondiale, anzi “le centre du
plus grand commerce qu'on ait fait alors dans l'ancien continent”.
Ma quel gran commercio, che aveva posto l'Egitto e la sua nuova splendidissima
capitale, Alessandria, al “centre de l'univers” (Montesquieu)
era soprattutto fondato su un “luxe destructif”.[54]
L'Egitto antico aveva vissuto soprattutto di agricoltura [262] e
se aveva praticato il commercio si era trattato soprattutto di commercio
interno.
Un lungo capitolo è dedicato - e si capisce - alla religione.[55]
In questo caso, de Pauw non nasconde il proprio smarrimento: “la
religion de l'ancien Egypte est véritablement un abîme [...]”.
Ma ha trovato una guida, una buona guida: il Pantheon Aegyptiorum
(1750-1752), del berlinese Paul Ernst Jablonski (1693-1767). Sfortunatamente,
questo studioso si era lasciato influenzare da Mathurin Veyssière
de Lacroze, un uomo ossessionato dall'ateismo, e aveva, nell'articolo
Phtha, dipinto gli Egiziani come una nazione atea e spinozistica.
Ma nell'articolo Cneph li aveva detti deisti, che ammettevano un
essere intelligente, distinto dalla materia, e sovrano della natura. Il
de Pauw s'indigna: “C'est une fureur ou pour se servir d'un terme
moins dur, c'est une imbécillité d'accuser d'athéisme
des nations entières”. Altro difetto: non essere andato a
cercare presso gli Etiopi - tra i gimnosofisti di Meroe, di Axum, di Nàpata
- le origini della religione egiziana. Naturalmente, la zoolatria egiziana
fa la parte del leone. Su questo argomento il de Pauw fa un'osservazione
acuta. Non bisogna confondere - ammoniva - il culto simbolico con l'idolatria.
Lo stesso principio vale per l'India. Comunque sia, nella ricostruzione
della religione egiziana - e questo è l'importante - il de Pauw
scarta con fastidio ogni interpretazione ermetizzante. Il Corpus hermeticum
era stato definitivamente dimostrato un falso dal Casaubon (“une
production ténébreuse et méprisable, forgée
par quelques chrétiens”); il De mysteriis del neoplatonico
Giamblico non aveva nessuna autorità: Giamblico era “un fou
et un rêveur” e non aveva nessuna conoscenza della dottrina
degli Egiziani.
Le pagine più interessanti sono quelle dedicate alla classe sacerdotale.
Si è lamentata l'eccessiva ricchezza degli ierofanti egiziani:
“idées fausses et ridicules”. Tenuto conto dell'imponente
mole di lavoro che a essi incombeva, ricevevano soltanto la paga dovuta.
I quattro grandi collegi - quello di Eliopoli, quello di Menfi, quello
di Tebe, quello di Sais - erano anche importanti centri teologici, di
libera ricerca religiosa. Gli Egiziani non consideravano mai la religione
come passibile delle limitazioni e delle costrizioni ferree del dogma
o di conclusioni entro limiti invalicabili: “on avait à Thèbes
la liberté de penser ce qu’on voulait, on [263] usait
de ce droit à Héliopolis, à Sais, à Memphis”.
La diversità delle idee religiose e dei culti non provocò
mai conflitti finché l'Egitto fu governato dalle sue proprie leggi
e dai propri ordinamenti. I contrasti nacquero con la conquista. E gli
Egiziani non ebbero libri ispirati. Né mai ebbero zelo missionario
e convertitore: “jamais les véritables égyptiens ne
se soucièrent de faire des proselytes; et ce sont des Grecs asiatiques
qui ont porté le culte d'Isis dans les îles de l'Archipélague,
à Corinthe, à Tithorée, et dans presque toutes les
villes d'Italie, où l'on recevoit les Néophytes sans les
soumettre à la circoncision, qu'on regardoit en Egypte comme une
opération indispensable”.
In conclusione: il popolo egiziano, “sombre et sérieux”,
o piuttosto “mélancolique”,[56]
dominato com'era dal pensiero della morte, ma aperto alla più larga
esperienza del sacro, appariva alla fine della ricerca ben diverso dal
popolo superstizioso e diffonditore tutt'attorno della superstizione dipinto
dallo Shaftesbury, da Madame du Châtelet, da Voltaire.[57]
[264] Quest'ultimo, che stimava il de Pauw (“vrai savant,
puisqu'il pense”), stima del resto cordialmente ricambiata, lette
prontamente, l'anno stesso che apparvero, le Recherches, non mutò
verosimilmente le sue idee sull'Egitto.[58]
Nel suo Fragment sur l'histoire générale (1773) gli
si dichiarò grato a ogni modo per aver liberato, sia pure in maniera
sgarbata, i Cinesi dall'ipoteca egiziana: “Monsieur de Pauw [...]
a traité d'absurde ce système qui fait des Chinoise une
colonie égyptienne, et il se fonde sur les raisons les plus fortes”.[59]
Con finta modestia confessava: “Nous ne sommes pas assez savants
pour nous servir du mot absurde; nous persistons seulement dans notre
opinion que la Chine ne doit rien à l'Egypte”. Due anni dopo
accarezzò addirittura l'idea di farsene un alleato e indirizzò
a lui, sotto la maschera di un “petit bénédectin”,
quelle sue lettere “assez scientifiques, assez ridicules”
che intitolò: Lettres chinoises, indiennes et tartares.[60]
Lo invitava a mutar parere sulla Cina: “Ne voyez-vous pas comme
moi, avec consolation, qu'il y a au bout de l'Asie une société
immense de lettrés, auxquels on n’a jamais reproché
de superstition ridicule ou sanguinaire? Et s'il se forme ailleurs une
compagnie pareille, ne la benirez-vous pas?”.[61]
Pur di farne un giudice più indulgente della civiltà cinese,
si dichiarava disposto al compromesso: “Peut-être, monsieur,
avez-vous trop méprisé cette antique nation, peut-étre
l'ai-je trop exaltée: ne pourrirons-nous pas nous rapprocher?”.[62]
Conciliazione [265] impossibile, temeva Federico, che ben conosceva
l'umore di quel terribile homme à principes avendolo allora
presso di sé a Berlino e a Potsdam come suo lettore privato: “Il
a été pénétré - scriveva al patriarca
il 10 gennaio 1776 - des choses obligeantes que vous écrivez à
son sujet; il vous estime et vous admire, mais je crois qu'il ne changera
pas d'opinion au sujet des Chinois; il dit qu'il en croit plus l'ex-jésuite
Parenin, qui a été dans ce pays-là, que le Patriarche
de Ferney, qui n'y a jamais mis le pied”.[63]
Fattosi tuttavia mediatore tra i due - lui totalmente incurioso delle
civiltà extra-europee - trovò inaspettatamente un de Pauw
arrendevolissimo:
L'abbé Paw est tant vain de ce que ces lettres lui sont adressées;
il croit n'avoir aucune dispute avec vous pour le fond des choses; il
croit qu'il ne diffère de vos opinions sur le Chinois que de
quelques nuances; il croit que l'empire de la Chine remonte à
la plus haute antiquité, qu'on y connaît les principes
de la morale, que les lois y sont équitables, mais il est aussi
persuadé qu'avec ces lois et cette morale, les hommes sont les
mêmes à Pekin qu'à Paris, Londres et Naples.
Un buon ordinamento giudiziario non bastava a fare dei Cinesi il popolo
“più umano” della terra. Su questo punto non cedeva:
“Ce qui révolte le plus contre cette nation, c'est l'usage
barbare d'exposer les enfants, c'est la friponnerie invéterée
dans ce peuple, ce sont supplices le plus atroces que ceux dont on se
sert encore que trop en Europe”.[64]
Undici anni dopo queste schermaglie (Voltaire era morto nel 1778) nel
1787 il de Pauw mise fuori un'altra opera appartenente al ciclo di “histoire
naturelle de l'homme”: Recherches philosophiques sur les Grecs.
Questa volta il suo bersaglio polemico erano gli ammiratori indiscreti
di Sparta. Le sue simpatie, e fu quasi solo nel suo secolo, andavano
verso la democratica [266] Atene.[65]
Il Vidal-Naquet vi vide audacemente prefigurate le linee della sua “Atene
borghese”.[66] All'ammirazione
incondizionata di Atene frammischiava le più nere previsioni
sul futuro dei tristi e miserabili stati militari europei: “est-il
très probable que cette crise violente finira enfin par une catastrophe
qui étonnera et les vaincus et les vainqueurs”. L'opera
fu letta e meditata da uomini come Lévesque, Constant, Joseph
de Maistre e da molti altri. Il Denina si chiese acido se “le
roman d'Anacharsis [di Barthélemy] ne ferait-il tort à
l'ouvrage de Monsieur Pauw, puisqu'il roule sur le même sujet
que celui-ci a traité”.[67]
Torto glielo fece in ambito familiare, visto che il suo caro nipote
ex-matre, Jean-Baptiste, barone di Cloots, divenuto a Parigi
“orateur du genre humain”, volle mutare il suo nome in quello
del virtuoso scita e divenne Anacharsis Cloots.[68]
Dello zio disse e scrisse un gran bene nel suo foglio.[69]
La fama del congiunto era allora alta nella Francia rivoluzionaria.
Il 26 agosto 1792, la Convenzione giacobina aveva onorato il suo nome
concedendo a lui, assieme allo Schiller, al Klopstok, al Bentham e ai
padri fondatori degli Stati Uniti, la cittadinanza onoraria francese.[70]
Due anni dopo, nel marzo del 1794, il processo-farsa e il ghigliottinamento
del generoso [267] nipote incupirono l'animo del già misantropico
filosofo. Rifiutò la carica di Commissaire du Directoire de
Paris a Xanten, invasa nel 1795 dalle armate della Grande Nation.
Disgustato, gettò nel fuoco la sua ultima fatica: Recherches
philosophiques sur les anciens Germains. Vi faceva i Franchi,
usciti dalle foreste di Germania, simili ai selvaggi d'America o agli
Sciti.[71] Consumò
gli ultimi anni (mori il 7 luglio 1799) nell'amarezza di chi vedeva
attorno a sé, e ammantato quel che è peggio di propositi
nobili, dilatarsi il regime politico che più aborriva: il despotismo.
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Note
[*] Originariamente contenuto
in La geografia dei saperi. Scritti in memoria di Dino Pastine,
a cura di D. FERRARO, G. GIGLIOTTI, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 241-267.
In questa edizione elettronica, rispetto alla versione a stampa, sono
state sciolte le abbreviazioni e sfrondate alcune maiuscole nelle fonti
primarie citate. La paginazione originale è riportata in grassetto
tra parentesi quadre [Davide Arecco].
[1] G. BEYERHAUS, Abbé
de Pauw und Friedrich der grosse, eine Abrechnung mit Voltaire, “Historische
Zeitscrift”, CXXXIV, 1926, pp. 465-493; H. WARD CHURCH, Corneille
de Pauw, and the controversy over his “Recherches philosophiques
sur les Américains”, “PMLA”, LI, 1936, pp.
178-206; A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica
(1750-1900), Milano-Napoli 1955, pp. 59-89, 163-168 e passim;
H. BAUDET, Paradise on Earth: Some Thoughts on European Images of Non-European
Man, traduzione a cura di E. WENTHOLT, New Haven-London-Yale 1965,
pp. 37-55; N. BROC, La géographie des philosophes, Strasbourg
1975, pp. 457 sgg,; M. DUCHET, Cornelius de Pauw ou “l'histoire
en défaut”, in Le partage des savoirs, Paris 1984,
pp. 82-104; E. MANNUCCI, Selvaggi e civili: aspetti della disputa tra
de Pauw e Pernety sul nuovo mondo (1769-1771), “Comunità”,
XLIII, 1989, nn. 191-192, pp. 223-268; G. ABBATTISTA, Introduzione
a A.-H. ANQUETIL DUPERRON, Considérations philosophiques,
historiques et géographiques sur les deux mondes (1780-1804),
Pisa 1993, pp. XIX-CIV; R. MORTIER, Anacharsis Cloots ou l'utopie foudroiée,
Paris 1995, pp. 31-36, 43-45, 53, 71-72, 102, 104, 117, 123, 170, 212,
231, 235, 254-255, 260, 299, 442. Nato a Amsterdarn da un'antica e illustre
famiglia olandese il 19 agosto 1739, presto orfano, non è certo
dove avesse compiuto i suoi studi: a Gottinga oppure nei collegi gesuitici
di Lüttich e Colonia. Il 23 marzo 1765 fu ordinato suddiacono a Lüttich
e poco dopo divenne canonico prebendato della cattedrale di Xanten.
[2] C. DE PAUW, Recherches
philosophiques sur les Américains, Londres 1774, I, Discours
préliminaire, pp. III-V.
[3] C. DE PAUW, Défense
des “Recherches philosophiques sur les Américains”,
Londres 1774, III, p. 141.
[4] Ibid., p. 351.
[5] Ibid., p. 138.
Le pagine di Raynal dedicare alle colonie inglesi d'America dipendono
dal de Pauw (Histoire philosophique et politique, 1775, Libro
XVIII).
[6] Ibid., p. 246.
[7] Ibid., p. 349,
n. 1. Il capitolo in questione occupa nell'edizione parigina dell'anno
III (1795) le pp. 250-388 del tomo I.
[8] C. DE PAUW, Recherches
philosophiques sur les Égyptiens et les Chinois, Amsterdam
et Leyde 1773, vol. I, p. 236. Altre edizioni: Berlin, J.D. Decker,
1773 e 1774; Genève, J.S. Cailler, 1774; Londres, Johnson, 1774.
Un'edizione delle sole Recherches sur les Egyptiens (2 voll.
in-12°, Berlino 1770) è segnalata nella New York Public
Library. Purtroppo due miei tentativi per accertare la reale esistenza
di questa rarissima edizione sono rimasti senza riscontro.
[9] G.L. FRENCH, Shiba
Kokan, New York 1974.
[10] DE PAUW, Défense,
cit., p. 349.
[11] Ibid., p. 275.
[12] Ibid., p. 366.
[13] Ibid., p. 230.
[14] Cfr. più avanti
la nota 71.
[15] H. CORDIER, Histoire
générale de la Chine, Paris 1920, pp. 11-12. La citazione
è tolta dalla traduzione francese (La Chine d'Athanase K.ircher
illustrée, Amsterdam 1670, p. 311). Su questa gran figura
della cultura barocca cfr. D. PASTINE, La nascita dell'idolatria.
L'Oriente religioso di Athanasius Kircher, Firenze 1978; V. RIVOSECCHI,
Esotismo in Roma barocca, Roma 1982 (capitolo I: Kircher e
l'Egitto, pp. 47-75) e, ora, D. ARECCO, Il sogno di Minerva.
La scienza fantastica di Athanasius Kircher, Padova 2002, passim.
[16] Citato dal CORDIER,
cit., pp. 12-13.
[17] G. HORN, Arca Noae,
Leida-Rotterdam 1666, pp. 53-54. Citato dal GERBI, cit., p. 163 n. 2.
[18] E.L. TUVESON, Millennium
and Utopia, Los Angeles 1949, p. 163.
[19] P.-D. HUET, Histoire
du commerce et de la navigation des Anciens, Paris 1716, pp. 37-38.
[20] Riprodotta nell'antologia
delle Lettres édifiantes et curieuses de Chine, par des missionaires
jésuits, a cura d'I. e J.-L. VISSIèRE, Paris 1979,
pp. 385-398 (Troisième lettre). Il Parennin morì
nel 1741.
[21] J. GERNET, La Chine
ancienne, Paris 1964, pp. 12-14.
[22] Citato in J. BALTRUŠAITIS,
Essai sur la légende d'un mythe. La quête d'Isis. Introduction
à l'Égiptomanie, Paris 1967, p. 225.
[23] Lettres de M. Mairan
au R.P Parennin, Paris 1759, Préface. Il Mairan teneva
a mettere ben in evidenza la priorità dell'idea: “J'avois,
en touchant cette dernière nation (la chinoise) une idée
tout à fait semblable à celle de M. de Guignes”.
[24] M. POPE, La decifrazione
delle scritture scomparse, Roma 1978, pp. 75-76, 133-135.
[25] J.-J. BARTHÉLEMY,
Réflexions sur quelques monuments phéniciens et sur les
alphabets qui en résultent. La memoria era stata letta all'Académie
des Inscriptions il 12 aprile 1758 (“Mémoires de l’Académie
des Inscriptions”, XXX, 1764, pp. 405-427).
[26] Il 18 aprile 1758, il
de Guignes lesse il suo Mémoire dans lequel, après avoir
examiné l’origine des lettres phéniciennes, hébraïques,
etc. on essaie d'établir que le caractère epistolique, hiéroglyphique
et symbolique des Égiptiens se retrouve dans les caractères
des Chinois, et que la nation chinoise est une colonie égyptienne,
“Mémoires de l’Académie des Inscriptions”,
XXIX, 1764, pp. 1-26. Al Mémoire fece seguito la pubblicazione
separata di un Mémoire dans lequel on prouve que les Chinois
sont une colonie égyptienne, Paris 1759.
[27] LEROUX-DESHAUTESRAYES,
Doutes sur la dissertation de Monsieur de Guignes, Paris 1759;
Réponse de Monsieur de Guignes aux doutes proposés
par Monsieur Deshautesrayes, Paris 1759. Concludeva le Observations
sur quelques points concernant la Religion et la Philosophie des Egyptiens
et des Chinois lette il 24 gennaio 1775, con queste parole: “[...]
les Chinois, qu'on nous a présentés jusqu'à présent
comme des peuples isolés, qui ne tenoient rien des autres nations,
et chez lesquels on a voulu même placer la berceau des Sciences
et des Artes, ont tout emprunté de l'Egypte” (“Mémoires
de l’Académie des Inscriptions”, XL, 1780, p. 186).
Si tratta, come si vede, della massima, e più sofisticata, manifestazione
di egittofilia. Su questa disputa, oltre al capitolo VIII del Baltrušaitis,
vedi S.A.M. ADSHEAD, China, a Colony of Egypt. An Eighteenth-Century
Controversy, “Asian Profiles”, XII, 1984, pp. 113-127.
[28] J.-J. BARTHÉLEMY,
Oeuvres diverses, Paris, l'an VII (1799), vol. II, p. 409.
[29] E. GIBBON, Journey
from Geneva to Rome. His Journal from 20 April to 2 October, edited
by G.A. BONNARD, Th. Nelson and Sons, 1961, p. 38. Tutta la disputa
è ben riassunta nelle note dal Bonnard, pp. 35-38. Sul giovanile
Secolo di Sesostri cfr. E. GIBBON, Mémoires, a
cura di G. VILLENEUVE, Paris 1992, pp. 93-94.
[30] O. DE GUASCO, De
l'usage des statues chez les Anciens, Bruxelles 1768, p. 296. Il
de Guignes era stato molto severo nei confronti di Needham. In una nota
alla fine del suo Essai sur le moyen de parvenir à la lecture
et à l'intelligence des Hiéroglyphes égyptiens
(“Mémoires de l’Académie des Inscriptions”,
XXXIV, 1770) scrisse: “En général, pour travailler
sur ce sujet, il faut des secours qui manquent à M. Needham,
c'est-à-dire la connoissance de la langue chinoise et celle des
langues orientales”.
[31] J.J. WINCKELMANN, Geschichte
der Kunst des Altertums (1764), a cura di M.L. PAMPALONI, Milano
1990, cap. II, p. 1: “La natura [...] si mostrò con loro
[gli Egiziani] meno generosa che con gli Etruschi e i Greci, e questo
è provato da quella sorta di aspetto cinese loro tipico [...]”.
E in nota aggiunse: “Di questa osservazione avrebbero potuto approfittare
coloro che di recente hanno scritto molto attorno alla somiglianza dei
Cinesi con gli antichi Egiziani” (p. 269).
[32] G.B. VICO, Principi
di scienza nuova. Terza impressione, Napoli 1744, libro I, sezione
1, Annotazione A alla tavola cronologica (Opere filosofiche,
a cura di P. CRISTOFOLINI, Firenze 1971, pp. 407-411); P. ROSSI, Vico
e il mito dell'Egitto, in Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp.
27-36.
[33] R. HUBERT, Les sciences
sociales dans l'Encyclopédie, Lille 1925, pp. 45-63.
[34] DE PAUW, Recherches
(1795), vol. I, Préface. Sulla interpretazione gesuitica
dei classici confuciani cfr. J. GELNET, Chine et christianisme,
Paris 1982.
[35] Fu il padre Joseph-Marie
Amiot (1718-1793), divenuto M. Amiot (il principale redattore dei sedici
volumi in-quarto apparsi tra il 1776 e il 1791 dal titolo: Mémoires
concernant l’histoire, les sciences, les arts, les moeurs, les
usages [...] des Chinois) a condurre la controffensiva: Remarques
sur un écrit de M. P*** intitulé: Recherches etc. (Mémoire
concernant [...], cap. II, pp. 365 sgg.); Extrait d'une lettre
de M. Amiot à M.*** du 28 septembre 1777: Observations sur un
livre de M. P*** intitulé: Recherches etc. (Ibid.,
cap. VI, pp. 275 sgg.); Réfutation de M. de P. auteur des
Recherches etc. (Second Supplément aux Mémoire
concernant les Chinois, Paris 1786, cap. X, pp. 218-265; V.C. LARCHER,
Réponse [...] (“Journ. des Savants”, 1774,
vol. I, pp. 63-127; vol. II, pp. 361-389). Va notato che in tutte le
sue opere il de Pauw mai rivelò il suo nome.
[36] I primi due volumi
del Supplément, un'iniziativa del Panckoucke alla quale
Diderot si rifiutò di collaborare, uscirono nel luglio del 1776.
Il gruppo dei collaboratori era prestigioso: Condorcet, Adanson, Haller,
Guyton de Morveau, Bernouilli, Lalande, il barone de Tschoudi (J. PROUST,
L'Encyclopédie, Paris 1965, pp. 187-188). Il de Pauw vi
figura come autore di una sola voce: Amérique.
[37] VOLTAIRE, Essai
sur les moeurs, edizione a cura di R. POMEAU, Paris 1963, vol. I,
pp. 66-67, 206.
[38] DE PAUW, Recherches
(1795), vol. I, Discours préliminaire, pp. 1-38.
[39] DE PAUW, Recherches
(1795), vol. I, section II, De la condition des femmes chez les
Egyptiens et les Chinois, pp. 39-131. Notevole la correzione dell'affermazione
di Diodoro Siculo (I, xxvii, 2: “la regina riceve maggior potere
e onore del re” e tra i privati “la moglie gode di maggior
autorità del marito, quest'ultimo accettando per contratto matrimoniale
di ubbidire in tutto alla sposa”): “dans tous les monuments,
qui nous sont restés de ce peuple singulier, on ne découvre
pas la moindre trace de cette préference accordée aux
Reines; il n'y a tout au plus que trois ou quatre, dont le nom se soit
conservé dans les Annales [...] ” (DE PAUW, Recherches,
1785, vol. I, pp. 31-32). In effetti, soltanto tre o quattro avevano
occupato il trono del faraone (A. BURTON, Diodorus Siculus Book I.
A Commentary, Leyden 1972, pp. 111-117). Ma potevano essere - il
de Pauw ben lo notava - reggenti del re minore e trasmettere, in mancanza
di un erede maschile, i diritti sovrani che deteneva suo padre. Eguale
nei diritti all'uomo nell'età dell'individualismo nel campo del
diritto privato (dinastie III e IV), la donna non aveva però
ruolo attivo nell'organizzazione giuridica della società. Non
figurava mai come testimone d'un atto; non svolgeva - tranne alcune
funzioni sacerdotali inferiori - nessuna funzione pubblica (DE PAUW,
Recherches, 1795, vol. I, pp. 46-47). Con il consolidamento dell'assolutismo
(dinastie V e VI) e particolarmente nelle età dette ‘feudali’
(dinastie VII-XI, XXI-XXV), la donna perdette la sua indipendenza e
fu sottomessa all'autorità del marito o del figlio maggiore.
Riacquistò la piena capacità giuridica e l'intera indipendenza
soprattutto durante il periodo saitico (J. PIRENNE, Le statut de
la femme dans l'ancienne Égypte, “Recueil J. Bodin”,
XI, 1983, pp. 63-77). Invano i Tolomei si sforzarono di ricondurre la
donna egiziana alla situazione della donna greca, la quale non poteva
agire che sotto l'autorità di un uomo - padre, sposo, fratello,
parente o amico - designato come kyrios (C. PRÉAUX, Le
monde hellénistique, Paris 1978, p. 598).
[40] DE PAUW, Recherches
(1795), P. I, section III, Du régime diététique
des Egyptiens, et de la manière de se nourrir des Chinois
(vol. I, pp. 132-249).
[41] DE PAUW, Recherches
(1795), P. II, section VI, Considérations sur l'état
de l'architecture chez les Chinois (vol. II, pp. 1- 127).
[42] J.B. FISCHER VON ERLACH,
Entwurff einer historischen Architektur, 1721; J. NEEDHAM, The
Grand Titration. Science and Society in East and West, 1969, traduzione
italiana con il titolo Scienza e società in Cina, Bologna
1969, pp. 13 (figura 3), 127.
[43] DE PAUW, Recherches
(1783), P.I, section III, Du régime diététique,
p. 172; cfr. E.O. REISCHAUER-J.K.FAIR-BANK, East Asia. The Great Tradition,
traduzione a cura di C. ROVIDA, Torino 1974, p. 27: “L'economia
cinese è sempre stata caratterizzata dalla sua esclusiva dipendenza
dal lavoro umano”.
[44] Y. THOMAS, Vitae
necisque potestas. Le père la cité et la mort, in
Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine
de mort dans le monde antique, Roma 1984, pp. 499-548.
[45] P.-A. D'ORIGNY, Chronologie
du grand Empire des Égyptiens, Paris 1765.
[46] J.L. NATTER, Traité
de la méthode antique de graver en pierres fines comparée
avec la méthode moderne, Paris 1754. Ma il Natter lo mise
fuori strada, facendogli supporre negli intagli degli obelischi l'uso
del trapano, “dont la pointe doit être faite d'un acier
extrêmement fine, sans quoi il s'émousseroit au premier
effort sur le granit”. Concludeva perciò: “Ainsi
toutes les pratiques les plus difficiles de la rnétallurgie ont
dû nécéssairement précéder dans l'ordre
des temps l'érection des obelisques”. Gli obelischi erano
noti sin dal ventesimo secolo a.C., se non prima (L. HABACHI, The
Obelisks of Egypt, New York 1977, capitolo I). Gli Egizi si servirono
del ferro assai tardi (V secolo a.C.). Va notato tuttavia che in questo
errore sono caduti anche studiosi a noi più vicini, indotti essi
pure a supporre che gli Egiziani dell'Antico Regno conoscessero non
soltanto il ferro, ma anche l'acciaio. È stato invece recentemente
dimostrato che gli scultori dell'Antico Regno “non si valevano
di alcun utensile di metallo per scheggiare le pietre dure, e si servivano
invece solo di scalpelli di pietra” (J. VERCOUTTER, Gli Imperi
dell'Antico Oriente, I, Milano 1968, pp. 288-289).
[47] A.H.L. HEEREN, Manuel
d'histoire ancienne, cit., p. 71; ID., De la politique et du commerce
des peuples de l'Antiquité, traduzione a cura di W. SUCKAU,
Paris 1834, vol. VI, p. 36.
[48] Recherches (1783),
P. II, section VI, Considérations sur l'état de l'Architecture
chez les Chinois, pp. 36-41.
[49] C.F. VOLNEY, Voyage
en Syrie et en Egypte pendant les années 83, 84, 85, Paris,
an VII (1799), pp. 234-236.
[50] MONTESQUIEU, Pensée
1701 (Oeuvres complètes, a cura di A. MASSON, Paris 1950,
vol. II, p. 508).
[51] VOLTAIRE, Essai sur
le moeurs, a cura di R. POMEAU, p. 74 (l'espressione si legge nella
Philosophie de l’histoire, 1765, divenuta nell'edizione di
Kehl (1782) 1'Introduction all'Essai).
[52] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, XVIII, 6: “Il fallait que le pouvoir y fût modéré,
comme il l'était autrefois en Egypte”. Nelle edizioni anteriori
a quella del 1757 il testo continuava: “et il l'est encore aujourd'hui
dans cette partie de l'Empire des Turcs” (edizione DERATHé,
vol. I, p. 401). Un giudizio così indulgente sulla monarchia faraonica
trae ispirazione dalla lettura di Diodoro, il quale aveva insistito sul
fatto che, a differenza di altri monarchi, il faraone doveva render conto
del suo operato; non giudicava a suo arbitrio, ma secondo un preciso codice
di leggi; aveva attorno a sé come collaboratori non degli schiavi,
ma figli adulti dei più illustri preti; era laborioso e sottoposto
alla morte a un severo giudizio pubblico (I, lxx-lxxiv). Montesquieu trovava
anche ammirevoli nella costituzione egiziana la separazione delle funzioni
civili (affidate ai preti) da quelle militari (I, lxxviii, 4-6; Pensée
1906), le “umanissime” leggi sui contratti (I, lxxix, 6; Pensée
1750) e sugli schiavi (I, lxxvii, 6; Pensée 1916). Tutto
questo non giustifica però la qualifica di governo moderato riferita
al governo faraonico, tenuto conto di quante ingegnose combinazioni dei
poteri fossero necessarie secondo lui a formare quel “capolavoro
di legislazione” (MONTESQUIEU, Esprit des lois, V, 14; Pensées
831, 892, 918, 935). In realtà, il faraone - quest'essere sovrumano
venuto a prendersi cura delle cose degli uomini - era un sovrano onnipotente:
ogni autorità, soprattutto quella religiosa, era attributo del
potere regale ed era esercitata per sua delega (revocabile). Cfr. H. FRANKFORT,
La religione dell'Antico Egitto, Torino 1957, capitolo II). Non
a torto l'Encyclopédie parlava di “teocrazia”.
[53] DE PAUW, Recherches
(1795); P.III, section IX, Du gouvernement des Égyptiens,
pp. 332-420.
[54] DE PAUW, Recherches
(1795), II, p. 393.
[55] DE PAUW, Recherches
(1795), P. III, section VI, De la religion des Égyptiens,
pp. 128-235.
[56] Il primo, a mia conoscenza,
che abbia distrutto il cliché del popolo malinconico è
Hegel: “Potremmo immaginarci gli Egiziani tristi, cupi, oppressi;
ma ciò è smentito dalla realtà [...] Il pensiero
della morte, invece, non ha affatto diffuso la tristezza fra di loro;
è anzi stato per essi [...] un incitamento a godere la vita [...];
noi avvertiamo in essi [...] uno smisurato fermento, un impulso, un empito
che si espande in opere” (VorIesungen über die Philosophie
der Geschichte, traduzione a cura di CALOGERO-FATTA, Firenze 1947,
vol. II, pp. 279-289).
[57] L'opera ebbe un'accoglienza
calorosa da parte dell'amico Jacobi; tre lettere sul “Teutsche Merkur”,
1773 (raccolte nei Werke, edizione F. ROTH, Leipzig 1825, vol.
VI, pp. 265-344). Kant stesso la leggeva e ne raccomandava la lettura
(12 agosto 1777, Briefwechsel, Ak. Ausgabe, X, p. 210). Goethe
ammirava in essa la distruzione di antichi pregiudizi (Kampagne in
Frankreich, 1792, in Werke, Berlin 1873, p. 99). Herder, Dupuis
la citavano con onore. La Correspondence littéraire
aveva lodato quell'opera che - diceva - “brille surtout par des
connaissance rares, et suppose la critique la plus ingénieuse et
la plus profonde”. Purtroppo lo stile lasciava a desiderare: “C'est
un édifice vaste et riche, mais lourdement composé, et qu'il
faudrait refaire comme Fontenelle a refaite l'histoire des oracles”.
Senza entrare in tutti i “détours de ce labyrinthe immense”,
il giornalista apprezzava soprattutto la sezione cinese: “Ce qui
me paraît parfaitement démontré à l'égard
des Chinois, c'est que ce peuple est un des plus anciens de la terre,
et qu'il est encore aux premiers éléments de toutes les
sciences et de tous les arts, parce qu'il vit sous le joug du despotisme
le plus terrible [...] ” (F. GRIMM, D. DIDEROT et alii, Correspondence
littéraire, edizione TOURNEAUX, Paris 1879, vol. X, pp. 297-300,
octobre 1773). Il mito del buon governo della Cina era ormai avviato al
tramonto (L. DERMIGNY, La Chine et l'Occident. Le commerce à
Canton au XVIIIe siècle, Paris 1964, vol. I, p. 42). Restava
intatto invece quello della sua grande antichità, ben superiore
a quella dell'Egitto (“l’Égypte - dirà Voltaire
proprio al de Pauw - n'est pas d'une race fort ancienne”).
[58] Voltaire a Federico,
21 dicembre 1775: “je ne connais point monsieur Pauw [...]. Je trouve
ce monsieur Paw un très habile homme, plein d'esprit et d'imagination;
un peu systèmatique à la vérité, mais avec
lequel on peut s’amuser et s’instruire” (edizione BESTERMANN,
D.19806).
[59] VOLTAIRE, Fragment
sur 1’histoire générale (1773), art. IV (Oeuvres
complètes, Paris 1908, vol. XXX, p. 8). È qui che si
legge la frase “vrai savant, puisqu'il pense” (p. 4).
[60] [VOLTAIRE], Lettres
chinoises, indiennes et tartares à monsieur Pauw par un bénédictin,
Paris (ma Genève) 1776 (Bengesco, n° 317). Ironizzava però
sull'antropologo sedentario: “Monsieur, j'ai lu vos livres; je ne
doute pas que vous n’ayez été long-tems à la
Chine, en Egypte, et au Mexique; de plus, vous avez beaucoup d'esprit:
avec cet avantage, on voit et on dit tout ce qu'on veut. Je vous fais
le compliment que les lettrés chinois se font les uns aux autres:
‘Ayez la bonté de me communiquer un peut de votre doctrine’”
(Lettre III).
[61] Ibid., lettera
IV (Oeuvres, cit., p. 141). Su Voltaire e la Cina vedi B. GUY,
Image of China before and after Voltaire, “Studies on Voltaire”,
XXI, 1963, pp. 214-284.
[62] Ibid., lettera
V (Oeuvres, cit., p. 143).
[63] Federico a Voltaire,
10 gennaio 1776 (edizione BESTERMANN, D.19854). È in questa lettera
che Federico confessa la sua “extrême ignorance” delle
moeurs dei popoli orientali: “vaine curiosité”.
Tutto il suo interesse era per l'Europa: “J'ai borné mon
attention à l'Europe”.
[64] Federico a Voltaire,
8 aprile 1776 (edizione BESTERMANN, D.20055). Il Voltaire garantista (e
prima di lui il RAYNAL, Histoire Philosophique, 1770, vol. I, pp.
147-149) aveva giudicato ammirevole che la giustizia nella Cina manciù
ammettesse tre gradi di giudizio e aveva esclamato: “Quand je ne
connaîtrais de la Chine que cette seule loi, je dirais: “Voilà
le peuple le plus juste et le plus humain de l'univers” (Lettres
chinoises, V). Il regime manciù “à ses débuts
du moins” aveva cercato “effectivement à protéger
les petites gens” (DERMIGNY, La Chine, cit., vol. II, p.
455).
[65] L. GUERCI, Libertà
degli antichi e libertà dei moderni, Napoli 1979, pp. 263-272.
[66] P. VIDAL-NAQUET, La
démocratie grecque vue d'ailleurs, Paris 1990, pp. 165, 172-174:
“C'est avec surprise [...] que nous avons constaté le rôle
central d'un personnage comme Cornelius de Pauw”, questo “amateur
étrangement audacieux”.
[67] C. DENINA, La Prusse
littéraire sous Frédéric II, tomo III, Berlin
1791, p. 145. Il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce
del filospartano (ma infine filoscita) Barthélemy era uscito anonimo
lo stesso anno delle Recherches del de Pauw (1788).
[68] MORTIER, Anacharsis
Cloots, cit.
[69] L'Orateur du genre
humain, III, 1791, p. 26: “ses Recherches ont contribué
à planter l'arbre de la Révolution. Démocrate à
la cour d'un despote, il dictoit les leçons de la vérité
à un roi devant qui tout se prosternoit. Pauw et Fréderic
étoient les seuls mortels qui marchassent la tête levée
dans le Palais de Potzdam. Hertzberg rampoit comme une couleuvre, en redoutant
le stoîcisme du frère de ma mère. Voici le premier
homme qui ne flatte jamais, s'écrioit le monarque”. Durante
la Rivoluzione gli indirizzerà una Lettre à mon oncle,
nella quale giustificava la residenza forzata di Luigi XVI alle Tuileries,
della quale cita un estratto nella sua Motion d'un membre du Club des
Jacobins (MORTIER, Anacharcbis Cloots, cit., pp. 32, 35). Mortier
esclude tuttavia una forte influenza intellettuale di de Pauw su Anacharsis.
[70] A. MATHIEZ, La Révolution
et les étrangers, Paris 1918, pp. 75-76.
[71] DE PAUW, Défense
des Recherches sur les Américains, cit., p. 29: “Il n'y
pas de doute que les armoiries Européennes n'aient pris leur origine
en Allemagne, où les moeurs et les usages avoient tant d'analogie
avec ceux des peuples d'Amérique et de la Scythie: les premiers
Francs, qui penetrèrent dans les Gaules, avoient dans leurs armoiries
des abeilles; mais comme ils ne dessinoient mieux que les Hurons, les
Gaulois prirent ces abeilles mal faites pour des crapauds, on en fit des
fleures de lis, sans cependant beaucoup changer la forme d'abeille, qu'on
y reconnoît encore bien sensiblement. Il est naturel que des barbares,
qui sortoient de leur forêts comme un essaim et qui avoient un chef
ou un roi prissent pour leur emblème des abeilles: cette allusion
devoit tomber dans les esprits”. Esce pertanto confermata l'ipotesi
del Vidal-Naquet: “Il n'est guère douteux qu'il ne s'y employât
à démolir les représentations idéalisées
que la noblesse française se donnait de ses ancêtres ‘francs’”
(La démocratie, cit., p. 112).
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