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Salvatore Rotta

Egiziani e cinesi a confronto.
Intorno alle Recherches philosophiques sur les Egyptiens et les Chinois di Cornelius de Pauw (1773)[*]

S. Rotta, "Egiziani e cinesi a confronto. Intorno alle Recherches philosophiques sur les Egyptiens et les Chinois di Cornelius de Pauw (1773)", in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
<testi/900/rotta/rotta_pauw.html>

Cornelius de Pauw,[1] ricco canonico di Xanten nel ducato prussiano di Clèves, aveva fatto irruzione ventinovenne nel 1768 sulla scena letteraria con delle poderose Recherches philosophiques sur les Américains, frutto di nove anni di accanito lavoro. Quest'opera lo aveva subito collocato al centro di un dibattito interminabile di dimensioni non soltanto europee sulla natura delle Indie nuove e dei suoi primitivi abitatori. Nel marzo del [242] 1770 aveva egli stesso replicato al primo dei suoi contraddittori, Dom Pernetty, con una asciutta Défense. Aveva soltanto voluto - vi diceva - non denigrare il nuovo continente, ma colorire un ritratto veridico dell'America al momento della sua deprecabile scoperta. Deprecabile, s'intende, per il fatto che gli Europei avevano fatto di quei selvaggi orrenda strage. E poiché sembrava che essi fossero portati sempre a abusare della propria superiorità, c'era da augurarsi che non andassero a segno i tanti piani d'invasione delle terre australi che in quegli anni i “politiques à projets” andavano caldeggiando: “ne massacrons pas - esclamava - les Papous pour connoître, au thermomètre de Réaumur, le climat de la Nouvelle Guinée”. Lasciamo vegetare in pace quei selvaggi, visto che non sappiamo far altro che aumentare le loro miserie.[2]
La vita selvaggia non era certo preferibile, come voleva Pernetty, alla vita sociale. Qualità eminente dell'uomo era infatti la sua perfettibilità. Il ritardo americano era dovuto in parte alla natura troppo rigogliosa del continente, che non richiedeva da parte dell'uomo molti sforzi per sopravvivere; in parte alla “race pusillanime” dei suoi abitanti.[3] Fortuna per l'Europa l'aver ricevuto una terra avara: “c'est bonheur pour un pays d'avoir des terres qui, sans la culture la plus pénible, ne renderoient absolument rien et qui, par une culture pénible, donnent un excédent considérable”.[4] Ma le stesse terre americane, alle medesime latitudini, hanno ancor più bisogno di quelle europee d'“une culture continuelle”. Che cosa sarebbero il Canadà, l'Acadia, la Nuova Inghilterra, la Nuova York se gli inglesi non vi lavorassero la terra, “et s'ils ne la travailloient pas sans cesse”? Bisognava inoculare negli animi degli aborigeni quell'“esprit de travail” che l'Europa, alle prese con una natura difficile, possedeva in altissimo grado. E bisognava risanare innanzi tutto l'ambiente naturale. Cosa che andavano facendo “avec une ferveur incroyable” i coloni inglesi, là dove Spagnoli e Portoghesi, che occupavano le migliori province meridionali, erano stati contagiati dalla pigrizia degli indigeni.[5] Tuttora bisognosa dell'Europa, l'America potrà però con il [243] tempo, grazie allo studio e al più duro, più penoso lavoro, emanciparsene.[6] Un tempo per la verità lunghissimo: “Au bout de trois cent années, l'Amérique rassemblera aussi peu à ce qu'elle est aujourd'hui, qu'elle ressemble aujourd'hui peu à ce qu'elle étoit au temps de la découverte”.
Lavoratore infaticabile, il de Pauw a questa data già aveva in pronto pezzi delle sue opere future. Conservava nel suo portafogli il lungo saggio sull'arte orientale che formerà uno dei suoi più lunghi e digressivi capitoli delle Recherches philosophiques sur les Egyptiens et les Chinois: “Je publierai un jour quelques recherches que j'ai faites sur les causes qui ont toujours êmpechés les Orientaux de réussir dans la peinture, et cela avant l'établissement du mahométisme, et dans le pays où le mahométisme n'a jamais été dominant, comme à la Chine et au Japon, où l'on ne sait pas ancore aujourd'hui dessiner correctement”.[7] Nella redazione definitiva tuttavia il giudizio sulla pittura giapponese sarà più indulgente: “Quoique les ouvrages du Japon rassemblent un peu à ceux de la Chine par la costume, on y reconnoît néanmoins au premier coup d'oeil un meilleur dessein, plus de regularité dans les contours, plus de vérité dans les détails, et plus d'entente dans le coloris. Quelques artistes de ce pays ont même peint assez bien au naturel des fleurs, des plantes, des oiseaux, des quadrupèdes et des poissons; mais ces objects isolés ne forment point des tableaux, où l'on trouve quelque notion de la perspective et de la manière de grouper les figures”.[8] Naturalmente, non poteva conoscere l'opera di Shiba Kokan (1747-1818) e di altri artisti nipponici che proprio in quegli anni avevano a modo loro adottato le leggi della prospettiva occidentale.[9] Molti temi delle future Recherches sono già in nuce nella Défense. In primo luogo, la denigrazione della scienza e della filosofia cinese: “L'Europe est le seul pays de l'univers où on trouve des physiciens et des astronomes: car le Chinois, qui se vantent de tant de choses, n'ont un seul [244] astronome ni un seul physicien”.[10] Eppure essi erano in vantaggio su molti popoli occidentali che erano ancora fermi all'età dell'oro, mentre la Cina era già entrata nell'età del ferro.[11] Non manca neppure l'accenno al trattamento crudele delle donne.[12] In armonia con i suoi principi, sottolineava quanto fosse indispensabile in Egitto, per assicurare l'azione benefica del Nilo, la cura attenta degli uomini.[13] Infine, vi troviamo la chiave dell'ultima opera distrutta.[14]
L'occasione per l'intervento di de Pauw gli era fornita dalla ripresa in grande stile da parte di un noto e acclamato sinologo (il Gibbon considerava la sua Histoire des Huns un modello), Jean-Joseph de Guignes, di una vecchia ipotesi, germogliata primamente nella mente fervidissima del padre Athanasius Kircher (Oedipus aegyptiacus, Roma 1654; China illustrata, Amsterdam 1667). Nel quarto capitolo della sesta parte di quest'ultima opera - sulla scorta delle informazioni ricevute dal padre Michel Boym e d'un altro gesuita, il padre Johann Grueber, che in Cina e in Tibet aveva dimorato a lungo - aveva dissertato sulla differenza dei caratteri cinesi dai geroglifici egiziani. I Cinesi - vi diceva - erano senz'altro dei discendenti degli Egiziani. E spiegava: “Les enfants de Cham, ayant conduit des colonies dans les extremités de la Chine, il y avoient introduit aussi les lettres et, les caractères non pas à la vérité avec toutes les significafions et les mystères dont estoient ornés les hierogliphes des Egyptiens mais tout autant qu'il étoit necessaire pour expliquer sa pensée, et donner à connoistre ses conceptions et ses sentiments; quoyque grossierement”.[15] In una memoria letta all'Académie des Inscriptions i1 6 dicembre 1718 il Fréret aveva smantellato quella tesi.[16] Ma essa aveva continuato a eccitare l'immaginazione degli studiosi. Già l'avevano fatta propria, sia dal 1666, Georg Horn (Arca Noae),[17] [245] Thomas Burnet - pare - nella Archeologia philosophica (1692)[18] e, sia pure con qualche riserva, il vecchio Pierre-Daniel Huet. Nella sua Histoire du commerce et de la navigation des Anciens (1716) non aveva esitato a scrivere che “si toute la nation des Indiens et des Chinois n'est pas descendue des Egyptiens, elle l'est du moins en la plus grande partie”. Troppo grande era la “conformité” dei costumi tipici dell'Egitto con quelli della Cina.[19] Questa idea aveva incuriosito Jean-Jacques Dortous de Mairan, che nella sua qualità di secrétaire perpétuel dell'Académie des Sciences voleva tenersi al corrente sul mondo cinese e da anni, sin dal 1728, si era scelto un interlocutore degnissimo, il padre Dominique Parennin (nome cinese: Pa To-Ming), che a Canton operava dal 1698. A lui sottopose dunque la questione. A condurre in Cina lo stuolo egiziano non era stato però Cam, ma il mitico faraone Sesostri, alla testa di un esercito di centomila uomini. Ne ricevette in data 20 settembre 1740 una cortese ma ferma smentita. I Cinesi - gli diceva il dotto gesuita - non dovevano nulla agli Egiziani, “et ne peuvent être par conséquent un essaim de leur ruche”. Oltretutto, era inimmaginabile che “les Égyptiens, dans leurs commencements, aient été en état de lever de grandes armées, de traverser des pays immenses et de peupler un grand royaume”. Troppi elementi militavano a favore dei Cinesi: l'antichità dei loro Annali, risalenti certo al 1292 (cioè a cent'anni avanti il Diluvio) e soprattutto la loro assoluta priorità nell'uso del ferro. C'era da augurarsi perciò che gli studiosi europei, lasciando quieto il suolo d'Egitto della Caldea e della Grecia, avviassero una seria campagna di scavi in Cina. Quale magnifico campo di ricerche si sarebbe loro aperto “s'il leur était permis de la labourer nord et sud, est et ouest, d'y creuser, d'y fouiller, comme on fait en Egypte”[20] (desiderio, sia detto di passata, che comincerà a realizzarsi soltanto nel 1928).[21]
Il Mairan si attenne, per il momento, a questi saggi consigli. Tra gli argomenti addotti dal padre Parennin, c'era quello di non aver osservato in Cina una sola piramide. Ma nel 1757 W. Chambers (il futuro costruttore nel 1762 della pagoda nei giardini di Kew), che qualche anno prima aveva visitato la Cina, nei suoi Designs of [246] Chinese Buildings, Furniture, Dresses etc., aveva sostenuto che “dans l'Architecture Chinoise, de même que dans l'antique, la forme générale de presque toutes les compositions tend à la pyramide”.[22] Il Mairan colse al volo l'occasione e a gara con il de Guignes pubblicò nel 1759 le sue Lettres au R.P. Parennin, e vi inserì in appendice testi e immagini del Chambers.[23] Il de Guignes lo aveva però preceduto di un anno.
Amicissimo dell'abate Barthélemy, che nel 1754 aveva decifrato in due giorni le iscrizioni palmirene (ossia l'aramaico di Palmira) riportate l'anno prima dal Dawkins e dal Woods (era stato il primo tentativo riuscito di decifrazione di un'antica scrittura) e che andava allora cimentandosi nella decifrazione della scrittura fenicia e di quella geroglifica,[24] il de Guignes (che fino allora aveva condiviso lo scetticismo del padre Parennin) aveva di colpo, come per illuminazione, cambiato idea. Proprio le ultime scoperte dell'amico intorno all'alfabeto fenicio avevano modificato il suo atteggiamento.[25] Le lettere fenicie derivavano dai geroglifici egiziani e ridiventavano geroglifiche in Cina; le due prime dinastie cinesi erano principi che avevano regnato non in Cina ma in Egitto.[26] Ai Doutes espressi dal Deshautesrayes, suo antico condiscepolo alla scuola di Etienne Fourmont, rispose con alterigia. E rimase fermissimo nelle proprie idee anche negli anni successivi: nel 1764, nel 1770, nel 1775.[27] A sua difesa era intervenuto lo [247] stesso Barthélemy, che nel 1765 aveva asserito che la dottrina di de Guignes fosse al riparo da ogni critica.[28] Il primato dell'Egitto era troppo manifesto. La data della massiccia emigrazione egiziana era però dal de Guignes fissata al 1122, un anno nel quale aveva imperversato in Egitto una spaventosa carestia e che era stato in Cina l'anno di fondazione della dinastia Chou, la più lunga di tutta la storia cinese (1122-1221).
A tener vivo il dibattito era sopraggiunta nel 1761 l'interpretazione che Joseph Needham, un fellow della Royal Society, aveva dato del busto d'Iside con iscrizioni sino-egiziane del Museo di Torino, che pure Giuseppe Bartoli nel 1764 aveva dimostrato essere un falso bello e buono. Gibbon, allora (1764) a Torino, e curioso di antichità egiziane (aveva esordito quindicenne con un saggio sul Secolo di Sesostri, distrutto nel 1772) prese senz'altro posizione, in quella “dispute fameuse”, per il Bartoli: “pour le fonds aussi bien que (pour) la forme je ne puis que donner gain de cause à Monsieur Bartoli”, annotò nel diario.[29] Soltanto l'abate Guasco, l'amicissimo del Montesquieu, cercò di dimostrare nel 1768 la perfetta convenienza dell'interpretazione del Needham con il sistema di de Guignes, il quale, per parte sua, si dichiarò in perfetto disaccordo.[30] Intanto l'ipotesi del de Guignes aveva guadagnato [248] estimatori di peso. Perfino Winckelmann ne fu sedotto.[31]
All'epoca dunque nella quale il de Pauw brandì la penna, la disputa era ancora accesa, ardeva anzi del suo più bel fuoco. Non erano mancati - è vero - i contraddittori: primo fra tutti il Vico, che nella Scienza nuova seconda (Napoli 1744) aveva contrapposto con asprezza all'immagine dell'Egitto culla di tutte le scienze e di tutte le arti l'immagine di un antico Egitto barbaro e superstizioso, chiuso nei suoi confini, incapace di contatti reali con gli altri popoli.[32] Ma al Vico in quel tempo nessuno dava udienza. Proprio per dimostrare l'infondatezza della supposta parentela tra la civiltà egiziana e quella cinese, il de Pauw mosse in guerra. Si trattava di due civiltà diversissime, una delle quali - la cinese - non possedeva ai suoi occhi nessun fascino. In subordine, si applicava a ridimensionare l'immagine dell'Egitto, a far giustizia del mito di nazione conquistatrice e civilizzatrice dell'universo, che a quell'epoca nell'ambiente dei philosophes era quasi un dogma. Basti pensare al ruolo centrale assegnato agli Egiziani nel processo d'incivilimento dagli Enciclopedisti. Credenze religiose, dottrine filosofiche, scienze, arti, scrittura sono venute da loro e sono state successivamente trasmesse ai Fenici, agli Israeliti, ai Greci, ai Romani fino agli Indiani e ai popoli dell'estremo Oriente. Il preteso miracolo ebraico era in tal modo distrutto e insieme era salvata agli occhi di questi monogenisti l'unità di sviluppo della civiltà umana.[33] Per il de Pauw il mito dell'Egitto imperialista e culla della civiltà va invece riposto, per dirla con Vico, nel museo della credulità.
Nello studio parallelo che il de Pauw fa delle due civiltà è evidente la parzialità per il mondo egiziano confrontato con il cinese, questo sì detestato di tutto cuore dal dottissimo abate. Non aveva avuto torto Napoleone che, nel 1811, aveva fatto erigere alla [249] sua memoria un obelisco a Xanten. In ogni caso, di contro al parti pris con il quale egli si era avvicinato alla civiltà cinese, il de Pauw aveva affrontato lo studio dell'Egitto da storico, facendo giustizia - è vero - e con modi assai brutali di molte leggende antiche e interpretazioni recenti, ma cercando sempre di conseguire un'immagine attendibile di quel mondo lontano e allora senza voce; e che poteva essere conosciuto soltanto attraverso testimonianze altrui, e per giunta di viaggiatori tutt'altro che immuni da pregiudizi e che, ignorandone la lingua, dovevano per forza servirsi d'interpreti, sacerdoti di basso rango oppure ciceroni confusionari. Esempio insigne: Erodoto. Nel caso della Cina questo lodevole scrupolo d'informazione, malgrado le sue proteste di volersi fondare sui ‘fatti’, viene a cessare: al punto di dichiarare fatica sprecata la traduzione delle opere classiche del pensiero cinese. Con pochi, spavaldi tratti di penna riduceva a niente l'opera di quell'équipe straordinaria di gesuiti che, fattisi consumati sinologi, avevano speso e andavano spendendo anche dopo lo scioglimento della Compagnia tutta la loro vita a mettere a disposizione dei dotti d'Europa i classici cinesi. Il de Pauw non era loro grato di tanta cura e di tanta devozione, né considerava affatto esemplari le loro fatiche. Avevano sì tradotto i cinque classici confuciani - quell'“amas de pièces supposées ou falsifiées” - ma malamente: li avevano “noyés dans de phrases latines qui ne finissent pas, et dans un jargon qui rassemble à celui des mauvais prédicateurs”. Del resto nessuno leggeva Confucio, quel banale filosofo, perché si sapeva bene che non diceva niente d'interessante e che era per di più mortalmente noioso. Non era proprio il caso che si dessero la pena (come minacciavano) di volgarizzare un pensatore dello stesso calibro: Mencio. Volesse il cielo che il de Guignes non riuscisse a stampare la versione dell'I-ching (il libro dei mutamenti). Dalla stessa officina erano usciti di recente due opere: nel 1770 lo Shu-ching (il libro dei documenti), fatica estrema del padre Gaubil; nel 1772 l'Art militaire des Chinoise (una raccolta di trattati sulla guerra anteriori all'era cristiana) a cura del padre Amiot. Il de Pauw aveva scorso quelle due opere; ma non riusciva a nascondere la delusione o piuttosto l'irritazione. Non c'era, in tutto lo Shu-ching, “un seul endroit qui puisse répandre la moindre lumière sur l'origine des Chinois, et ce qui concerne le développement des arts et métiers y est aussi mal traité, et d'une manière si peut vraisemblable [....]”. Altrettanto severo giudizio dava del Ch’un Ch’iu (Primavera e Autunno), uno dei più famosi classici confuciani: “c'est une misérable petite chronique des rois de Lou, où on ne doit chercher ny l'esprit philosophique ny le style ny la manière [250] des grands historiens modernes: il n'y a rien de tout cela”.[34] Gli ex-gesuiti per bocca di padre Amiot protestarono;[35] ma gli autori del Supplément dell'Encyclopédie lo vollero tra i collaboratori.[36]
Voltaire, che aveva giustamente notato l'assenza di cosmogonie nella tradizione cinese, aveva elogiato i loro annali: “les autres nations inventèrent des fables allégoriques; et le Chinois écrivirent leur histoire, la plume et l'astrolabe à la main”. E più avanti aveva scritto: “Si quelques annales portent un caractère de certitude, ce sont celles des Chinois, qui ont joint [...] l'histoire du ciel à celle de la terre”.[37] Niente di più assurdo, obietta de Pauw: “C'est réellement se moquer du monde de vouloir qu'un tel peuple ait été en état d'écrire ses annales l'astrolabe à la main, et de vérifier, comme disent des enthousiastes, l'histoire de la terre par l'histoire du ciel”. Il fatto è che “ce qui les rends inférieurs à tous les peuples policés” è proprio l'ignoranza dell'astronomia. I grandi sforzi compiuti dal padre Gaubil nella sua Histoire abrégée de l'astronomie chinoise (1732), per convincere gli scienziati europei che gli antichi Cinesi erano assai illuminati, ma che i loro discendenti, insensibilmente abbrutiti, “sont tombés dans la nuit de l'ignorance”, non riuscivano nel loro intento. Se davvero gli astronomi dell'età degli Han avessero scoperto la vera figura della terra, quelli che vennero dopo di loro, “qui devoient avoir ces écrits-là [251] sous les yeux”, non avrebbero sostenuto ostinatamente che la terra è quadrata, sicché non avevano nel 1505 nessuna idea né della longitudine né della latitudine della loro città. La situazione era migliorata all'epoca dell'invasione mongola, quando giunsero in Cina astronomi della Battriana; e sono stati questi scienziati persiani a costruire gli strumenti e i globi degli osservatori di Pechino e di Nanchino, dei quali però i Cinesi non furono mai in grado di servirsi. A ogni modo, le loro osservazioni delle eclissi sono risultate false: nella loro vantata osservazione di un solstizio d'inverno, il Cassini rinvenne un errore di 497 anni. Si crede che, non avendo potuto eccellere nelle scienze della natura, “qui dépendent immédiatement du génie”, i Cinesi si siano invece distinti nelle scienze umane, che dipendono “uniquement de la raison”. Ci si assicura “qu'ils ont porté la morale à un degré de perfection où il n'a jamais été possible d'atteindre en Europe”. Era, tra gli altri, l'opinione di Leibniz. Persino il de Guignes trovava ammirevole la “morale écrite” dei Cinesi: “La Chine - dirà nel 1787 - est un superbe pays dans les livres [...]”. De Pauw non era d'accordo: “je suis fâché de n'avoir pu découvrir, après tant de recherches, la moindre trace de cette philosophie si sublime”. È’ un progresso forse permettere che ogni giorno in tutta la Cina, da Canton a Pechino, si espongano i fanciulli oppure se ne castrino un buon numero? È un progresso l'esistenza di schiavitù domestica, negata dagli esageratori come Raynal, ma ben reale in tutto il paese, “où l'on réduit tant d'hommes nés libres à la condition des bêtes: car les Chinois peuvent, tout comme les Nègres, vendre leurs enfants; et jamais leurs législateurs n'ont eu la moindre idée des bornes du pouvoir paternel”. È vero: la limitazione della patria potestà è stata lo scoglio che nessun legislatore dell'antichità seppe evitare. Ma è vanto dei popoli dell'Europa moderna l'aver “détruit chez eux l'esclavage, et découvert les véritables bornes du pouvoir paternel, ce qui est le chef-d'oeuvre de la législation”. Quanto ai letterati della Cina, è strano che si facciano crescere le unghie per paura di essere scambiati per agricoltori: “Seroit-ce bien dans les vrais principes de la morale qu'ils auroient trouvé que la terre déshonore ceux qui la cultivent?”. Gli annali cinesi, oltre a cattive osservazioni celesti, hanno un altro inescusabile difetto: “Dans ces histoires, toutes les découvertes se font comme par enchantement, et succèdent avec une rapidité inconcevable: ce qu'il y a de pis, c'est que toutes ces découvertes sont encore attribuées à des Princes: tandis que nous savons que les Princes ne font jamais de découvertes ou que très rarement”. Servilismo tipico degli schiavi, “car c'est le propre des [252] esclaves prêter à leurs maîtres mille fois plus de lumières qu'ils n'en ont”.[38]
Come supporre che vi fosse comunicazione di civiltà tra due popoli - l'Egiziano e il Cinese - che sono l'uno l'esatta antitesi dell'altro? Si guardi alla situazione delle donne. In Egitto esse godono di una grande libertà, anche se non di una libertà illimitata,[39] condizione comunque inconfrontabile con quella delle donne cinesi, alle quali, claustrate e seviziate sin da bambine, “on a ôté par le droit positif tout ce qui leur étoit accordé par le droit de la nature”. Basti dire che un cinese che uccide in un trasporto d'ira la moglie “n'est pas même responsable de sa conduite devant le juge, non plus que quand il tue ses filles”. Nei supplizi - questo sì - tristemente primeggiavano: riuscivano a sminuzzare un uomo da vivo in diecimila pezzi. I missionari più di una volta avevano subito quel trattamento, finché nel 1748 si preferì strangolarli. La tolleranza cinese era una pia fandonia. Gli Imperatori [253] avevano “cinq ou six fois permis de prêcher le christianisme, et cinq ou six fois l'ont défendu”. “Révolutions”, che avevano sempre “fait couler le sang”. Si osservi il regime dietetico. Il popolo egiziano era avvolto da una quantità di tabù alimentari di origine religiosa; il cinese al contrario mangiava di tutto: “la chair d'aucun animal ne leur a été défendue; la distinction entre les poissons à écailles, et ceux qui n'en ont pas leur est inconnue”. Essi “ne paroissent avoir de la répugnance pour rien, ni de l'horreur pour rien: ils mangent des rats, des chauve-souris, des hiboux, des cicognes, des chats, des blaireaux, des chiens, des vaches: repas vraiment abominable aux yeux d'un Égyptien”. E mai i Cinesi hanno reso un culto agli animali.[40]
Un altro buon test è lo stile dell'architettura. Un cinese che intraprendesse oggi il viaggio d'Egitto resterebbe sorpreso dagli obelischi di Alessandria e di Matarea e ancor più sorpreso alla vista di quella suite di piramidi collocate all'occidente del Nilo, da Hawwara a Gizah: monumenti del genere sono sconosciuti in Cina. In effetti, “le caractère de l'architecture chinoise est diametralement opposé au génie de l'architecture égyptienne, qui tendait à rendre indestructible et pour ainsi dire immortel, tout ce que les Chinois rendent extrémement fragile, et encore extrêmement inflammable à cause du vernis dont ils recouvrent leurs colonnes [di legno] et de cette pâte de chaux, de filasse et de papier mâché dont ils remplissent les cavités du bois”.[41]
Lo stile dell'architettura religiosa è diversissimo: “de quelque côté qu'on considère une pagode de la Chine, n'y trouve-t-on la moindre rassemblance avec un temple de l'Egypte”. In Cina il modello di ogni costruzione è la tenda: cosa perfettamente conforme con lo stato primitivo dei Cinesi che sono stati, come tutti i tartari, dei nomadi. La città cinese? Rassomiglia a “un camp à demeure”. Tra le meraviglie della architettura cinese il padre Parennin aveva citato il famoso ponte di ferro fucinato, detto dai Cinesi “ponte senza rimpianti (della vita)”. Per il de Pauw il ponte “volante” era stato inventato da uno che non possedeva il “senso comune”. L'architetto austriaco Fischer Von Erlach ne era rimasto invece tanto colpito da raccomandarne, nel 1721, la costruzione in Europa.[42] Per il de Pauw, i Cinesi non avevano nessuna capacità [254] ingegneresca: il canale imperiale, “ouvrage vraiment digne d'admiration, et où l'on a employé des architectes très versés, tant de pratiques du nivellement que dans la construction des écluses” non è stato fatto dai Cinesi: “Leurs architectes n'ont pas été en état de l'entreprendre, et bien moins de l'exécuter”. Il più alto edificio della Cina è la torre a nove piani nei dintorni di Nanchino, chiamata torre di porcellana, in realtà una torre di mattoni. È comunque un'opera solida: è infatti un monumento fatto erigere da Kublai-khan come trofeo per perpetuare la conquista. L'invenzione della polvere da sparo? È stata fatta da un altro popolo asiatico, forse il tibetano. L’invenzione della carta? L'epoca di tale invenzione è incerta e la qualità della carta pessima. Perfino sull'invenzione della porcellana e sull'arte di tingerla de Pauw resta freddo. La sua tesi, del resto chiaramente enunciata, è questa: sono stati uomini venuti da Occidente a cambiare la faccia della Cina. Persino le sue credenze religiose più importanti - il buddismo soprattutto - sono penetrate in Cina dall'India. Una monarchia despotica, un paese umiliato nella servitù, per molti lati ancora barbaro nelle strutture sociali, arretrato nelle tecniche rispetto all'Occidente, già tormentato da un eccesso di popolazione, che - come avviene in tutti paesi despotici - si addensava nelle città: no davvero, la Cina non era un paese modello. In particolare, trovava rivoltante l'amministrazione della giustizia. I Cinesi non soltanto permettevano ai colpevoli di riscattarsi con il pagamento di una certa somma; ma addirittura che i poveri si facessero bastonare, dietro compenso, in luogo del colpevole: “Le juge veut faire une exécution, il lui faut un patient: or il prend celui qui se présente”. Uso aberrante: “Les Chinois sont peut-être les seuls hommes du monde qui vendent et qui achètent des supplices”. Per non parlare dell'atrocità delle mutilazioni. Dietro alle outrances e al sistematico atteggiamento denigratorio o almeno riduttivo appaiono le tendenze riformatrici umanitarie che del resto non erano assenti neppure nelle Recherches sur les Américaines. L'osservazione più acuta: l'esclusiva dipendenza dell'economia cinese dal lavoro umano.[43]
[255] Diverso, come ho detto, l'atteggiamento nei confronti dell'Egitto. Innanzi tutto: il de Pauw scarta ogni studio del rayonnement della civiltà egiziana nel mondo: le spedizioni militari di Sesostri in Oriente e in Occidente che avrebbero reso l'Egitto padrone del mondo (“ce qui n'est qu'une bagatelle”) sono soltanto una “fable sacerdotale” senza il minimo contenuto storico. Oltre tutto Sesostri, che aveva appena liberato l'Egitto dagli Hyksos, non era troppo sicuro da minacce esterne: tanto è vero che fece costruire una grande muraglia per proteggere il paese, una folie comune a molti popoli che “se sont imaginé qu'on pouvait fortifier un pays comme on fortifie les villes”. Erodoto ha confuso gli insediamenti fenici nella Colchide con colonie egiziane fondate da Sesostri “et cette méprise est d'autant plus grossière qu'il avoue lui-même qu'en Egypte on n'avait pas la moindre connoissance touchant ces colonies-là”. Sarebbe come dire che in Spagna non si sapesse che vi erano insediamenti spagnoli nel Perù. E neppure si può sostenere che il nome di Sesostri si trova nel canone dei re d'Assiria né soprattutto concludere che l'Assiria era nel numero dei paesi che egli aveva conquistato. Altrettanto leggendaria la notizia della flotta di seicento navi che Sesostri avrebbe fatto costruire nel Mar Rosso: “on place de tels prodiges dans un temps où l'ignorance des Egyptiens par rapport à la marine était extrême, parce que leur aversion pour la mer était encore alors invincible”.
L'Egitto dunque non era stata una nation conquérante. Esso aveva in ogni tempo praticato una politica difensiva: aveva insomma cercato di prevenire o d'impedire ogni impresa d'invasione del paese, sia che provenisse dall'Asia o dalla Libia o dall'Etiopia. Su quanto Greci e Romani tolsero dalla cultura egiziana bisognava pure fare la tara. Per esempio: Ammiano Marcellino insinua che il diritto romano in origine abbia attinto dalla legislazione egiziana. Ma è facile vedere che i Decemviri respinsero la sola legge egiziana che avrebbe potuto convenire a una repubblica: la costituzione relativa ai debitori, sulla persona dei quali un creditore non poteva in Egitto esercitare la minima violenza. Quella dei Decemviri in proposito era invece “barbare et atroce”. In breve: non si trova nelle XII tavole, “qui sont le fondement du droit romain, aucune trace de la jurisprudence d'Egypte”. Per non parlare delle leggi relative alla schiavitù: “Aucun peuple n'eut sur la servitude des maximes plus désesperantes que les Romains”. Agli Egiziani era stato tolto almeno il potere di uccidere i loro schiavi. La libertà e la vita sono però inseparabili: chi è padrone della libertà lo è anche della vita. I padroni potevano sempre uccidere [256] i propri schiavi a forza di lavoro. Il fatto è che la schiavitù è una tale ingiustizia che non può essere sostenuta che da molte altre. Almeno in Egitto non vigeva come a Roma l'“axiome abominable” della condizione del ventre, che i figli dovessero cioè seguire la condizione della madre. E prima della dominazione dei Greci e dei Romani gli Egiziani avevano deciso molte cause con il giuramento, e non avevano conosciuto la tortura giudiziaria: “institution abominable”. Né in Egitto il potere paterno - “l'affreuse idée qu'on ne doit pas regarder les enfants comme des hommes” - aveva avuto l'estensione che ebbe in Grecia e soprattutto in Roma.[44] Le tracce che qualche interprete pretende rinvenire nella legislazione riformatrice di Solone sono vaghissime e oltre tutto problematiche. Prendeva dunque le distanze da quel “mirage égyptien” che aveva sedotto gli intellettuali greci (cfr. Froidefond, Le mirage égyptien dans la littératture grecque d'Homère à Aristote, 1971) e ancora seduce Martin Bernal (Black Athena, 1987 e sgg.).
L'Egitto va dunque studiato per se stesso: nelle sue istituzioni, nelle sue credenze, nei suoi monumenti, nella sua realtà geografica. Lo studio della geografia è indispensabile: “quand on n'a pas faite une étude particulière de la géographie, on ne sauroit voir fort clair dans l'histoire ancienne”. Ma ricostruire la storia egiziana non è cosa facile. A renderla anche più imbrogliata hanno contribuito i cronologisti moderni “qui ont eu la prévention presque inconcevable de vouloir ajuster les annales égyptiennes avec l'histoire des Juifs”. Di sistemi cronologici se ne contavano all'epoca centodiciassette “d'où il résulte prècisement, comme l'on voit, que nous n'avons plus aucune chronologie”. Marsham, Pezron, Fourmont e Jackson avevano preteso, per esempio, che in Egitto avessero regnato contemporaneamente quattro o cinque re. Sfortunatamente, “on a découvert de nos jours que l'Egypte est un pays beaucoup plus petit qu'on ne l'avait jamais cru, et à-peu-prés une fois plus petit que Caylus même ne se l'imaginait, de sorte que quatre ou cinq rois à la fois ont dû y être très-mal à leur aise”. Uno di questi regni era stato collocato dal d'Origny[45] nell'isola di Elefantina, “parce que l'on est assez ignorant dans la géographie [257] pour se persuader qu'elle est d'une étendue prodigieuse”. Ma basta osservare la carta che Danville aveva premesso ai suoi Mémoires sur l'Egypte ancienne (1762) per accorgersi che si tratta di un isolotto di poche centinaia di tese: “Ainsi le royaume qu'on y met ressemble beaucoup au royaume d'Yvetot”. Tra tutti i cronologisti non c'era che Jackson che si fosse accorto che i Faraoni non hanno riseduto che a Tebe o a Menfi “et non dans des bourgades et dans des villages”. Vediamo dunque il philosophe all'opera.
Messe da parte con un colpo solo tutte le discussioni sulla cronologia egiziana e tutti i tentativi di accordare le liste regali di Manetone, quelle di Diodoro e i trecentotrenta sovrani di Erodoto, il de Pauw si rivolge allo studio delle tecniche di lavorazione della pietra. La sua guida sarà non uno storico, ma un tecnico, uno dei maggiori intagliatori di gemme del suo tempo: Johann Lorenz Natter.[46] La raffinatezza di quei manufatti (le tecniche progrediscono assai lentamente per effetto di lunghi, pazienti, innumerevoli tentativi di molti) e l'ampiezza stessa dei successi dell'industria egiziana (fusione del vetro, tessitura del lino, etc.) costringevano a fissare a una data molto alta l'inizio del processo d'incivilimento dell'uomo egiziano: “on n'a pas besoin des dynasties de Manéthon pour prouver l'antiquité des Égyptiens, puisqu'elle est bien démontrée par les progrès qu'avoient faits chez eux les arts dès les temps les plus reculés; et à la conquête des Macédoniens, on les trouva dans un état où il ne leur manquoit plus que le dernier degré de perfection [...]. Les fabriques qui rendirent l'Egypte si célèbre sous le Ptolémées, comme [258] la verrerie et la tapisserie, y avoient été établies une infinité de siècles avant les Ptolémées [...]”. Ormai la parola passava allo storico della vita materiale e, si capisce, all'archeologo. Al de Pauw il merito di aver aperto la via e di aver tentato, lui sedentario ma avido ed esperto dei più minuti dettagli tecnici, qualche non spregevole saggio del nuovo tipo di approccio al passato. Tanto felici riuscite tecniche esigevano, tra l'altro, il concorso di numerosi soggetti: in altre parole, un qualche principio di organizzazione sociale e politica.
Quando è dunque cominciata la storia politica d'Egitto, quando gli Egiziani si sono riuniti “en corps de nation?”. Il de Pauw non azzarda date. Ma poiché nel 2000 a.C. essi ci appaiono in possesso di tecniche avanzatissime nella lavorazione dei metalli e della pietra (e - si badi - nelle arti di lusso, che non hanno alcun rapporto con i bisogni della vita), e poiché egli nulla cura la cronologia biblica (deride anzi Marsham, che ha fatto iniziare la monarchia in Egitto il giorno dopo il Diluvio e ne ha fatto primo re Cam), la data di nascita dell'Egitto faraonico, l'unione dei due paesi, del giunco e dell'ape, della corona rossa e della mitria bianca, insomma del Basso e dell'Alto Egitto deve essere avvenuta in epoca di molto anteriore al 2000. Se non azzarda date sull'unione dei due regni, si fa invece dogmatico sulla direzione del processo: dal sud al nord, dall'Alto al Basso Egitto: “les Egyptiens sont descendus des hauteurs de l'Ethiopie; de sorte qu'ils ont commencé à se fixer au dessous des cataractes; aussi leurs premiers rois ont-ils résidé à Thèbes, et non pas à Memphis, comme cela est demontrè par le canon d'Eratosthène et par tous les catalogues des dynasties”. Sleale contraddirlo: Tebe non divenne splendida capitale che molto tardi, regnante la XVIII dinastia, nel periodo di maggior potenza mondiale dell'Egitto; né erano etiopi i primi popolatori della valle del Nilo. Ma è doveroso aggiungere che anche per Champollion la colonizzazione dell'Egitto era stata opera di popolazioni provenienti dall'Abissinia e da Meroe. E primo governo d'Egitto fu sacerdotale, di preti provenienti da Meroe tanti quanti erano i nomói. I principi della civiltà erano stati importati da Meroe in Egitto con il culto di Amon. Hegel dirà la stessa cosa. La casta sacerdotale era stata rovesciata da quella militare i cui capi si proclamarono re circa il 2200 a.C., epoca alla quale data la nascita di un regolare potere regale in Egitto. Ma si trattava di un sovrano unico o di molti sovrani che regnavano contemporaneamente nelle diverse parti del paese? Per de Pauw - abbiamo visto - non vi sono dubbi: si trattava di un unico sovrano. Per i primi egittologi la questione non è altrettanto [259] sicura. Fino alla XVIII dinastia, vale a dire secondo la cronologia dell'epoca, fino al 1822 (Rosellini) o al 1700 a.C. (Heeren, Seyffart, etc.) è probabile che si trattasse di tante monarchie coeve. Heeren, il maestro di Gottinga, è esplicito: “Non è che - scrive nel 1834 - con l'espulsione degli Hyksos e la XVIII dinastia cominci la riunione di tutti gli stati egiziani in un solo impero”.[47] È contrario a ogni verosimiglianza che trecento re di diverse famiglie si siano succedute regolarmente per così lunga serie di secoli. È difficile concepire che l'Egitto abbia costituito tutt'a un tratto un grande impero. Il periodo dunque compreso tra la prima e la XVII dinastia (l'Antico e il Medio Regno) è oscuro perché non vi sono monumenti (la Grande Piramide fu costruita sotto la IV dinastia menfitica). Come si vede, la ricostruzione della storia dell'Egitto predinastico e dinastico brancolava ancora, più di mezzo secolo dopo il de Pauw, nel buio.
Quel che importa sottolineare qui è che il de Pauw, se ricostruì abbastanza correttamente la direzione del processo di unificazione (sempre imperfetta) dell'Egitto, salvo l'errore di fare di Tebe invece che di Menfi la capitale del nuovo stato, peccò invece di parzialità escludendo, nell'evoluzione dell'Egitto dinastico, la parte avuta dalle città del Delta. Ma là dove l'ideologo prende la mano allo storico è nella ricostruzione della forma politica. Nulla sapeva, beninteso, della natura divina del faraone. L'egittologia continuò a ignorarlo per oltre un secolo fino a Erman, fino a Moret. Sapeva però delle piramidi; ma si ostinò a negare che fossero tombe. Erano piuttosto ricettacoli tenebrosi dove i sacerdoti, così umbratili e amanti del raccoglimento meditativo, amavano rifugiarsi.[48] Dupuis per parte sua ne aveva fatto degli osservatori astronomici. A entrambi pensava il Volney: “quelques écrivains se sont lassés de l'opinion que les pyramides étaient des tombeaux, et il en ont voulu faire des temples et des observatoires: ils ont regardé comme absurde qu'une nation sage et policée fît une affaire d'état du sepulchre de son chef [...]”. Bisognava però arrendersi all'evidenza: “ll faut donc revenir à l'opinion, toute vieille qu'elle peut être, que les pyramides sont des tombeaux”.[49]
[260] Comunque sia, il de Pauw s'ingannò nel fare della monarchia egiziana una monarchia limitata. Non era stato il primo. Aveva avuto anzi un illustre predecessore: Montesquieu. Favorevolmente colpito dal rigore con il quale veniva scandita la giornata del faraone, in un capitolo rifiutato delle Lois aveva concluso che quell'“étiquette” metteva un salutare limite al suo potere: “Quand les loix [roix?] n'en auroient tiré que cet avantage de sentir que leur volonté, qui devoit régler tant de choses, mais devoit elle-même être réglée, ils auroient beaucoup gagné, et leurs peuples aussi”.[50] E aveva incluso senz'altro l'Egitto faraonico (che per Voltaire era stato un “vrai pays d'esclaves”),[51] e perfino quello retto dai pascià ottomani, tra i paesi governati da un potere ‘moderato’. Lo esigeva la natura del paese, uno dei tre “que l'industrie des hommes a rendus habitables”.[52] Per il de Pauw, la monarchia egiziana era stata per secoli un modello di monarchia limitata: il potere era stato “véritablement monarchique par la forme de sa constitution, puisqu'on y avoit fixé des bornes su [261] pouvoir du souverain, reglé l'ordre de la succession dans la famille royale, et confié l'administration de la justice à un corps particulier, dont le crédit pouvoit contrebalancer l'autorité des Pharaons, qui n'eurent jamais le droit de juger ou de prononcer dans una cause civile”.[53] Non basta: “c'étoit une loi fondamentale dans ce pays que la royauté et le pontificat sont incompatibles”. Gli Egiziani delle prime diciannove dinastie erano stati abbastanza saggi da opporre questa barriera al despotismo, che ha soprattutto schiacciato molti paesi asiatici, dove i principi avevano usurpato il sacerdozio oppure lo avevano reso, come in Turchia e in Russia, amovibile. È chiaro che i sacerdoti fatti dipendenti dal sovrano non contavano più come forza di controllo e di opposizione: “de tels esclaves ne sauraient protéger le peuple puisqu'ils ne sauraient se protéger eux-mêmes”. Soltanto quando Sethon (Hrihor?), che occupava il sacerdozio per diritto ereditario, usurpò il trono, la costituzione egiziana ne fu per sempre sconvolta e ne risultò un “véritable despotisme” che durò da Psammetico all'invasione di Cambise. E da allora si produsse una incolmabile frattura tra il popolo e il suo re: gli Egiziani “commencèrent alors à haïr leurs rois”. E Amasis dovette mantenere una forte guarnigione a Menfi per timore di una rivolta dei sudditi. Quando una monarchia si estingueva si ricorreva all'elezione. Ma i soli che godessero dell'elettorato attivo e passivo erano i soldati e i preti. Siccome il numero dei soldati era senza confronto maggiore di quello dei preti del primo e del secondo ordine, il voto dei prophetae valeva quello di cento militari e così di seguito sino agli zacori in diminuzione proporzionale così che tre preti potevano controbilanciare il voto di centotrenta soldati. Il nuovo re al momento dell'insediamento doveva far giuramento solenne sul calendario. Quanto alle ricchezze dei faraoni esse sono state molto esagerate. Questi principi non ebbero mai una corte sfarzosa, “ce faste insultant des despotes de l'Orient”. Sono stati i primi tre Tolomei a fare dell'Egitto il centro del commercio mondiale, anzi “le centre du plus grand commerce qu'on ait fait alors dans l'ancien continent”. Ma quel gran commercio, che aveva posto l'Egitto e la sua nuova splendidissima capitale, Alessandria, al “centre de l'univers” (Montesquieu) era soprattutto fondato su un “luxe destructif”.[54] L'Egitto antico aveva vissuto soprattutto di agricoltura [262] e se aveva praticato il commercio si era trattato soprattutto di commercio interno.
Un lungo capitolo è dedicato - e si capisce - alla religione.[55] In questo caso, de Pauw non nasconde il proprio smarrimento: “la religion de l'ancien Egypte est véritablement un abîme [...]”. Ma ha trovato una guida, una buona guida: il Pantheon Aegyptiorum (1750-1752), del berlinese Paul Ernst Jablonski (1693-1767). Sfortunatamente, questo studioso si era lasciato influenzare da Mathurin Veyssière de Lacroze, un uomo ossessionato dall'ateismo, e aveva, nell'articolo Phtha, dipinto gli Egiziani come una nazione atea e spinozistica. Ma nell'articolo Cneph li aveva detti deisti, che ammettevano un essere intelligente, distinto dalla materia, e sovrano della natura. Il de Pauw s'indigna: “C'est une fureur ou pour se servir d'un terme moins dur, c'est une imbécillité d'accuser d'athéisme des nations entières”. Altro difetto: non essere andato a cercare presso gli Etiopi - tra i gimnosofisti di Meroe, di Axum, di Nàpata - le origini della religione egiziana. Naturalmente, la zoolatria egiziana fa la parte del leone. Su questo argomento il de Pauw fa un'osservazione acuta. Non bisogna confondere - ammoniva - il culto simbolico con l'idolatria. Lo stesso principio vale per l'India. Comunque sia, nella ricostruzione della religione egiziana - e questo è l'importante - il de Pauw scarta con fastidio ogni interpretazione ermetizzante. Il Corpus hermeticum era stato definitivamente dimostrato un falso dal Casaubon (“une production ténébreuse et méprisable, forgée par quelques chrétiens”); il De mysteriis del neoplatonico Giamblico non aveva nessuna autorità: Giamblico era “un fou et un rêveur” e non aveva nessuna conoscenza della dottrina degli Egiziani.
Le pagine più interessanti sono quelle dedicate alla classe sacerdotale. Si è lamentata l'eccessiva ricchezza degli ierofanti egiziani: “idées fausses et ridicules”. Tenuto conto dell'imponente mole di lavoro che a essi incombeva, ricevevano soltanto la paga dovuta. I quattro grandi collegi - quello di Eliopoli, quello di Menfi, quello di Tebe, quello di Sais - erano anche importanti centri teologici, di libera ricerca religiosa. Gli Egiziani non consideravano mai la religione come passibile delle limitazioni e delle costrizioni ferree del dogma o di conclusioni entro limiti invalicabili: “on avait à Thèbes la liberté de penser ce qu’on voulait, on [263] usait de ce droit à Héliopolis, à Sais, à Memphis”. La diversità delle idee religiose e dei culti non provocò mai conflitti finché l'Egitto fu governato dalle sue proprie leggi e dai propri ordinamenti. I contrasti nacquero con la conquista. E gli Egiziani non ebbero libri ispirati. Né mai ebbero zelo missionario e convertitore: “jamais les véritables égyptiens ne se soucièrent de faire des proselytes; et ce sont des Grecs asiatiques qui ont porté le culte d'Isis dans les îles de l'Archipélague, à Corinthe, à Tithorée, et dans presque toutes les villes d'Italie, où l'on recevoit les Néophytes sans les soumettre à la circoncision, qu'on regardoit en Egypte comme une opération indispensable”.
In conclusione: il popolo egiziano, “sombre et sérieux”, o piuttosto “mélancolique”,[56] dominato com'era dal pensiero della morte, ma aperto alla più larga esperienza del sacro, appariva alla fine della ricerca ben diverso dal popolo superstizioso e diffonditore tutt'attorno della superstizione dipinto dallo Shaftesbury, da Madame du Châtelet, da Voltaire.[57]
[264] Quest'ultimo, che stimava il de Pauw (“vrai savant, puisqu'il pense”), stima del resto cordialmente ricambiata, lette prontamente, l'anno stesso che apparvero, le Recherches, non mutò verosimilmente le sue idee sull'Egitto.[58] Nel suo Fragment sur l'histoire générale (1773) gli si dichiarò grato a ogni modo per aver liberato, sia pure in maniera sgarbata, i Cinesi dall'ipoteca egiziana: “Monsieur de Pauw [...] a traité d'absurde ce système qui fait des Chinoise une colonie égyptienne, et il se fonde sur les raisons les plus fortes”.[59] Con finta modestia confessava: “Nous ne sommes pas assez savants pour nous servir du mot absurde; nous persistons seulement dans notre opinion que la Chine ne doit rien à l'Egypte”. Due anni dopo accarezzò addirittura l'idea di farsene un alleato e indirizzò a lui, sotto la maschera di un “petit bénédectin”, quelle sue lettere “assez scientifiques, assez ridicules” che intitolò: Lettres chinoises, indiennes et tartares.[60] Lo invitava a mutar parere sulla Cina: “Ne voyez-vous pas comme moi, avec consolation, qu'il y a au bout de l'Asie une société immense de lettrés, auxquels on n’a jamais reproché de superstition ridicule ou sanguinaire? Et s'il se forme ailleurs une compagnie pareille, ne la benirez-vous pas?”.[61] Pur di farne un giudice più indulgente della civiltà cinese, si dichiarava disposto al compromesso: “Peut-être, monsieur, avez-vous trop méprisé cette antique nation, peut-étre l'ai-je trop exaltée: ne pourrirons-nous pas nous rapprocher?”.[62] Conciliazione [265] impossibile, temeva Federico, che ben conosceva l'umore di quel terribile homme à principes avendolo allora presso di sé a Berlino e a Potsdam come suo lettore privato: “Il a été pénétré - scriveva al patriarca il 10 gennaio 1776 - des choses obligeantes que vous écrivez à son sujet; il vous estime et vous admire, mais je crois qu'il ne changera pas d'opinion au sujet des Chinois; il dit qu'il en croit plus l'ex-jésuite Parenin, qui a été dans ce pays-là, que le Patriarche de Ferney, qui n'y a jamais mis le pied”.[63]
Fattosi tuttavia mediatore tra i due - lui totalmente incurioso delle civiltà extra-europee - trovò inaspettatamente un de Pauw arrendevolissimo:

L'abbé Paw est tant vain de ce que ces lettres lui sont adressées; il croit n'avoir aucune dispute avec vous pour le fond des choses; il croit qu'il ne diffère de vos opinions sur le Chinois que de quelques nuances; il croit que l'empire de la Chine remonte à la plus haute antiquité, qu'on y connaît les principes de la morale, que les lois y sont équitables, mais il est aussi persuadé qu'avec ces lois et cette morale, les hommes sont les mêmes à Pekin qu'à Paris, Londres et Naples.

Un buon ordinamento giudiziario non bastava a fare dei Cinesi il popolo “più umano” della terra. Su questo punto non cedeva: “Ce qui révolte le plus contre cette nation, c'est l'usage barbare d'exposer les enfants, c'est la friponnerie invéterée dans ce peuple, ce sont supplices le plus atroces que ceux dont on se sert encore que trop en Europe”.[64] Undici anni dopo queste schermaglie (Voltaire era morto nel 1778) nel 1787 il de Pauw mise fuori un'altra opera appartenente al ciclo di “histoire naturelle de l'homme”: Recherches philosophiques sur les Grecs. Questa volta il suo bersaglio polemico erano gli ammiratori indiscreti di Sparta. Le sue simpatie, e fu quasi solo nel suo secolo, andavano verso la democratica [266] Atene.[65] Il Vidal-Naquet vi vide audacemente prefigurate le linee della sua “Atene borghese”.[66] All'ammirazione incondizionata di Atene frammischiava le più nere previsioni sul futuro dei tristi e miserabili stati militari europei: “est-il très probable que cette crise violente finira enfin par une catastrophe qui étonnera et les vaincus et les vainqueurs”. L'opera fu letta e meditata da uomini come Lévesque, Constant, Joseph de Maistre e da molti altri. Il Denina si chiese acido se “le roman d'Anacharsis [di Barthélemy] ne ferait-il tort à l'ouvrage de Monsieur Pauw, puisqu'il roule sur le même sujet que celui-ci a traité”.[67] Torto glielo fece in ambito familiare, visto che il suo caro nipote ex-matre, Jean-Baptiste, barone di Cloots, divenuto a Parigi “orateur du genre humain”, volle mutare il suo nome in quello del virtuoso scita e divenne Anacharsis Cloots.[68] Dello zio disse e scrisse un gran bene nel suo foglio.[69] La fama del congiunto era allora alta nella Francia rivoluzionaria. Il 26 agosto 1792, la Convenzione giacobina aveva onorato il suo nome concedendo a lui, assieme allo Schiller, al Klopstok, al Bentham e ai padri fondatori degli Stati Uniti, la cittadinanza onoraria francese.[70] Due anni dopo, nel marzo del 1794, il processo-farsa e il ghigliottinamento del generoso [267] nipote incupirono l'animo del già misantropico filosofo. Rifiutò la carica di Commissaire du Directoire de Paris a Xanten, invasa nel 1795 dalle armate della Grande Nation. Disgustato, gettò nel fuoco la sua ultima fatica: Recherches philosophiques sur les anciens Germains. Vi faceva i Franchi, usciti dalle foreste di Germania, simili ai selvaggi d'America o agli Sciti.[71] Consumò gli ultimi anni (mori il 7 luglio 1799) nell'amarezza di chi vedeva attorno a sé, e ammantato quel che è peggio di propositi nobili, dilatarsi il regime politico che più aborriva: il despotismo.

Note

[*] Originariamente contenuto in La geografia dei saperi. Scritti in memoria di Dino Pastine, a cura di D. FERRARO, G. GIGLIOTTI, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 241-267. In questa edizione elettronica, rispetto alla versione a stampa, sono state sciolte le abbreviazioni e sfrondate alcune maiuscole nelle fonti primarie citate. La paginazione originale è riportata in grassetto tra parentesi quadre [Davide Arecco].

[1] G. BEYERHAUS, Abbé de Pauw und Friedrich der grosse, eine Abrechnung mit Voltaire, “Historische Zeitscrift”, CXXXIV, 1926, pp. 465-493; H. WARD CHURCH, Corneille de Pauw, and the controversy over his “Recherches philosophiques sur les Américains”, “PMLA”, LI, 1936, pp. 178-206; A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica (1750-1900), Milano-Napoli 1955, pp. 59-89, 163-168 e passim; H. BAUDET, Paradise on Earth: Some Thoughts on European Images of Non-European Man, traduzione a cura di E. WENTHOLT, New Haven-London-Yale 1965, pp. 37-55; N. BROC, La géographie des philosophes, Strasbourg 1975, pp. 457 sgg,; M. DUCHET, Cornelius de Pauw ou “l'histoire en défaut”, in Le partage des savoirs, Paris 1984, pp. 82-104; E. MANNUCCI, Selvaggi e civili: aspetti della disputa tra de Pauw e Pernety sul nuovo mondo (1769-1771), “Comunità”, XLIII, 1989, nn. 191-192, pp. 223-268; G. ABBATTISTA, Introduzione a A.-H. ANQUETIL DUPERRON, Considérations philosophiques, historiques et géographiques sur les deux mondes (1780-1804), Pisa 1993, pp. XIX-CIV; R. MORTIER, Anacharsis Cloots ou l'utopie foudroiée, Paris 1995, pp. 31-36, 43-45, 53, 71-72, 102, 104, 117, 123, 170, 212, 231, 235, 254-255, 260, 299, 442. Nato a Amsterdarn da un'antica e illustre famiglia olandese il 19 agosto 1739, presto orfano, non è certo dove avesse compiuto i suoi studi: a Gottinga oppure nei collegi gesuitici di Lüttich e Colonia. Il 23 marzo 1765 fu ordinato suddiacono a Lüttich e poco dopo divenne canonico prebendato della cattedrale di Xanten.

[2] C. DE PAUW, Recherches philosophiques sur les Américains, Londres 1774, I, Discours préliminaire, pp. III-V.
[3] C. DE PAUW, Défense des “Recherches philosophiques sur les Américains”, Londres 1774, III, p. 141.
[4] Ibid., p. 351.
[5] Ibid., p. 138. Le pagine di Raynal dedicare alle colonie inglesi d'America dipendono dal de Pauw (Histoire philosophique et politique, 1775, Libro XVIII).
[6] Ibid., p. 246.
[7] Ibid., p. 349, n. 1. Il capitolo in questione occupa nell'edizione parigina dell'anno III (1795) le pp. 250-388 del tomo I.
[8] C. DE PAUW, Recherches philosophiques sur les Égyptiens et les Chinois, Amsterdam et Leyde 1773, vol. I, p. 236. Altre edizioni: Berlin, J.D. Decker, 1773 e 1774; Genève, J.S. Cailler, 1774; Londres, Johnson, 1774. Un'edizione delle sole Recherches sur les Egyptiens (2 voll. in-12°, Berlino 1770) è segnalata nella New York Public Library. Purtroppo due miei tentativi per accertare la reale esistenza di questa rarissima edizione sono rimasti senza riscontro.
[9] G.L. FRENCH, Shiba Kokan, New York 1974.
[10] DE PAUW, Défense, cit., p. 349.
[11] Ibid., p. 275.
[12] Ibid., p. 366.
[13] Ibid., p. 230.
[14] Cfr. più avanti la nota 71.
[15] H. CORDIER, Histoire générale de la Chine, Paris 1920, pp. 11-12. La citazione è tolta dalla traduzione francese (La Chine d'Athanase K.ircher illustrée, Amsterdam 1670, p. 311). Su questa gran figura della cultura barocca cfr. D. PASTINE, La nascita dell'idolatria. L'Oriente religioso di Athanasius Kircher, Firenze 1978; V. RIVOSECCHI, Esotismo in Roma barocca, Roma 1982 (capitolo I: Kircher e l'Egitto, pp. 47-75) e, ora, D. ARECCO, Il sogno di Minerva. La scienza fantastica di Athanasius Kircher, Padova 2002, passim.
[16] Citato dal CORDIER, cit., pp. 12-13.
[17] G. HORN, Arca Noae, Leida-Rotterdam 1666, pp. 53-54. Citato dal GERBI, cit., p. 163 n. 2.
[18] E.L. TUVESON, Millennium and Utopia, Los Angeles 1949, p. 163.
[19] P.-D. HUET, Histoire du commerce et de la navigation des Anciens, Paris 1716, pp. 37-38.
[20] Riprodotta nell'antologia delle Lettres édifiantes et curieuses de Chine, par des missionaires jésuits, a cura d'I. e J.-L. VISSIèRE, Paris 1979, pp. 385-398 (Troisième lettre). Il Parennin morì nel 1741.
[21] J. GERNET, La Chine ancienne, Paris 1964, pp. 12-14.
[22] Citato in J. BALTRUŠAITIS, Essai sur la légende d'un mythe. La quête d'Isis. Introduction à l'Égiptomanie, Paris 1967, p. 225.
[23] Lettres de M. Mairan au R.P Parennin, Paris 1759, Préface. Il Mairan teneva a mettere ben in evidenza la priorità dell'idea: “J'avois, en touchant cette dernière nation (la chinoise) une idée tout à fait semblable à celle de M. de Guignes”.
[24] M. POPE, La decifrazione delle scritture scomparse, Roma 1978, pp. 75-76, 133-135.
[25] J.-J. BARTHÉLEMY, Réflexions sur quelques monuments phéniciens et sur les alphabets qui en résultent. La memoria era stata letta all'Académie des Inscriptions il 12 aprile 1758 (“Mémoires de l’Académie des Inscriptions”, XXX, 1764, pp. 405-427).

[26] Il 18 aprile 1758, il de Guignes lesse il suo Mémoire dans lequel, après avoir examiné l’origine des lettres phéniciennes, hébraïques, etc. on essaie d'établir que le caractère epistolique, hiéroglyphique et symbolique des Égiptiens se retrouve dans les caractères des Chinois, et que la nation chinoise est une colonie égyptienne, “Mémoires de l’Académie des Inscriptions”, XXIX, 1764, pp. 1-26. Al Mémoire fece seguito la pubblicazione separata di un Mémoire dans lequel on prouve que les Chinois sont une colonie égyptienne, Paris 1759.

[27] LEROUX-DESHAUTESRAYES, Doutes sur la dissertation de Monsieur de Guignes, Paris 1759; Réponse de Monsieur de Guignes aux doutes proposés par Monsieur Deshautesrayes, Paris 1759. Concludeva le Observations sur quelques points concernant la Religion et la Philosophie des Egyptiens et des Chinois lette il 24 gennaio 1775, con queste parole: “[...] les Chinois, qu'on nous a présentés jusqu'à présent comme des peuples isolés, qui ne tenoient rien des autres nations, et chez lesquels on a voulu même placer la berceau des Sciences et des Artes, ont tout emprunté de l'Egypte” (“Mémoires de l’Académie des Inscriptions”, XL, 1780, p. 186). Si tratta, come si vede, della massima, e più sofisticata, manifestazione di egittofilia. Su questa disputa, oltre al capitolo VIII del Baltrušaitis, vedi S.A.M. ADSHEAD, China, a Colony of Egypt. An Eighteenth-Century Controversy, “Asian Profiles”, XII, 1984, pp. 113-127.
[28] J.-J. BARTHÉLEMY, Oeuvres diverses, Paris, l'an VII (1799), vol. II, p. 409.
[29] E. GIBBON, Journey from Geneva to Rome. His Journal from 20 April to 2 October, edited by G.A. BONNARD, Th. Nelson and Sons, 1961, p. 38. Tutta la disputa è ben riassunta nelle note dal Bonnard, pp. 35-38. Sul giovanile Secolo di Sesostri cfr. E. GIBBON, Mémoires, a cura di G. VILLENEUVE, Paris 1992, pp. 93-94.
[30] O. DE GUASCO, De l'usage des statues chez les Anciens, Bruxelles 1768, p. 296. Il de Guignes era stato molto severo nei confronti di Needham. In una nota alla fine del suo Essai sur le moyen de parvenir à la lecture et à l'intelligence des Hiéroglyphes égyptiens (“Mémoires de l’Académie des Inscriptions”, XXXIV, 1770) scrisse: “En général, pour travailler sur ce sujet, il faut des secours qui manquent à M. Needham, c'est-à-dire la connoissance de la langue chinoise et celle des langues orientales”.
[31] J.J. WINCKELMANN, Geschichte der Kunst des Altertums (1764), a cura di M.L. PAMPALONI, Milano 1990, cap. II, p. 1: “La natura [...] si mostrò con loro [gli Egiziani] meno generosa che con gli Etruschi e i Greci, e questo è provato da quella sorta di aspetto cinese loro tipico [...]”. E in nota aggiunse: “Di questa osservazione avrebbero potuto approfittare coloro che di recente hanno scritto molto attorno alla somiglianza dei Cinesi con gli antichi Egiziani” (p. 269).
[32] G.B. VICO, Principi di scienza nuova. Terza impressione, Napoli 1744, libro I, sezione 1, Annotazione A alla tavola cronologica (Opere filosofiche, a cura di P. CRISTOFOLINI, Firenze 1971, pp. 407-411); P. ROSSI, Vico e il mito dell'Egitto, in Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 27-36.
[33] R. HUBERT, Les sciences sociales dans l'Encyclopédie, Lille 1925, pp. 45-63.
[34] DE PAUW, Recherches (1795), vol. I, Préface. Sulla interpretazione gesuitica dei classici confuciani cfr. J. GELNET, Chine et christianisme, Paris 1982.
[35] Fu il padre Joseph-Marie Amiot (1718-1793), divenuto M. Amiot (il principale redattore dei sedici volumi in-quarto apparsi tra il 1776 e il 1791 dal titolo: Mémoires concernant l’histoire, les sciences, les arts, les moeurs, les usages [...] des Chinois) a condurre la controffensiva: Remarques sur un écrit de M. P*** intitulé: Recherches etc. (Mémoire concernant [...], cap. II, pp. 365 sgg.); Extrait d'une lettre de M. Amiot à M.*** du 28 septembre 1777: Observations sur un livre de M. P*** intitulé: Recherches etc. (Ibid., cap. VI, pp. 275 sgg.); Réfutation de M. de P. auteur des Recherches etc. (Second Supplément aux Mémoire concernant les Chinois, Paris 1786, cap. X, pp. 218-265; V.C. LARCHER, Réponse [...] (“Journ. des Savants”, 1774, vol. I, pp. 63-127; vol. II, pp. 361-389). Va notato che in tutte le sue opere il de Pauw mai rivelò il suo nome.
[36] I primi due volumi del Supplément, un'iniziativa del Panckoucke alla quale Diderot si rifiutò di collaborare, uscirono nel luglio del 1776. Il gruppo dei collaboratori era prestigioso: Condorcet, Adanson, Haller, Guyton de Morveau, Bernouilli, Lalande, il barone de Tschoudi (J. PROUST, L'Encyclopédie, Paris 1965, pp. 187-188). Il de Pauw vi figura come autore di una sola voce: Amérique.
[37] VOLTAIRE, Essai sur les moeurs, edizione a cura di R. POMEAU, Paris 1963, vol. I, pp. 66-67, 206.
[38] DE PAUW, Recherches (1795), vol. I, Discours préliminaire, pp. 1-38.
[39] DE PAUW, Recherches (1795), vol. I, section II, De la condition des femmes chez les Egyptiens et les Chinois, pp. 39-131. Notevole la correzione dell'affermazione di Diodoro Siculo (I, xxvii, 2: “la regina riceve maggior potere e onore del re” e tra i privati “la moglie gode di maggior autorità del marito, quest'ultimo accettando per contratto matrimoniale di ubbidire in tutto alla sposa”): “dans tous les monuments, qui nous sont restés de ce peuple singulier, on ne découvre pas la moindre trace de cette préference accordée aux Reines; il n'y a tout au plus que trois ou quatre, dont le nom se soit conservé dans les Annales [...] ” (DE PAUW, Recherches, 1785, vol. I, pp. 31-32). In effetti, soltanto tre o quattro avevano occupato il trono del faraone (A. BURTON, Diodorus Siculus Book I. A Commentary, Leyden 1972, pp. 111-117). Ma potevano essere - il de Pauw ben lo notava - reggenti del re minore e trasmettere, in mancanza di un erede maschile, i diritti sovrani che deteneva suo padre. Eguale nei diritti all'uomo nell'età dell'individualismo nel campo del diritto privato (dinastie III e IV), la donna non aveva però ruolo attivo nell'organizzazione giuridica della società. Non figurava mai come testimone d'un atto; non svolgeva - tranne alcune funzioni sacerdotali inferiori - nessuna funzione pubblica (DE PAUW, Recherches, 1795, vol. I, pp. 46-47). Con il consolidamento dell'assolutismo (dinastie V e VI) e particolarmente nelle età dette ‘feudali’ (dinastie VII-XI, XXI-XXV), la donna perdette la sua indipendenza e fu sottomessa all'autorità del marito o del figlio maggiore. Riacquistò la piena capacità giuridica e l'intera indipendenza soprattutto durante il periodo saitico (J. PIRENNE, Le statut de la femme dans l'ancienne Égypte, “Recueil J. Bodin”, XI, 1983, pp. 63-77). Invano i Tolomei si sforzarono di ricondurre la donna egiziana alla situazione della donna greca, la quale non poteva agire che sotto l'autorità di un uomo - padre, sposo, fratello, parente o amico - designato come kyrios (C. PRÉAUX, Le monde hellénistique, Paris 1978, p. 598).
[40] DE PAUW, Recherches (1795), P. I, section III, Du régime diététique des Egyptiens, et de la manière de se nourrir des Chinois (vol. I, pp. 132-249).
[41] DE PAUW, Recherches (1795), P. II, section VI, Considérations sur l'état de l'architecture chez les Chinois (vol. II, pp. 1- 127).
[42] J.B. FISCHER VON ERLACH, Entwurff einer historischen Architektur, 1721; J. NEEDHAM, The Grand Titration. Science and Society in East and West, 1969, traduzione italiana con il titolo Scienza e società in Cina, Bologna 1969, pp. 13 (figura 3), 127.

[43] DE PAUW, Recherches (1783), P.I, section III, Du régime diététique, p. 172; cfr. E.O. REISCHAUER-J.K.FAIR-BANK, East Asia. The Great Tradition, traduzione a cura di C. ROVIDA, Torino 1974, p. 27: “L'economia cinese è sempre stata caratterizzata dalla sua esclusiva dipendenza dal lavoro umano”.

[44] Y. THOMAS, Vitae necisque potestas. Le père la cité et la mort, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma 1984, pp. 499-548.
[45] P.-A. D'ORIGNY, Chronologie du grand Empire des Égyptiens, Paris 1765.

[46] J.L. NATTER, Traité de la méthode antique de graver en pierres fines comparée avec la méthode moderne, Paris 1754. Ma il Natter lo mise fuori strada, facendogli supporre negli intagli degli obelischi l'uso del trapano, “dont la pointe doit être faite d'un acier extrêmement fine, sans quoi il s'émousseroit au premier effort sur le granit”. Concludeva perciò: “Ainsi toutes les pratiques les plus difficiles de la rnétallurgie ont dû nécéssairement précéder dans l'ordre des temps l'érection des obelisques”. Gli obelischi erano noti sin dal ventesimo secolo a.C., se non prima (L. HABACHI, The Obelisks of Egypt, New York 1977, capitolo I). Gli Egizi si servirono del ferro assai tardi (V secolo a.C.). Va notato tuttavia che in questo errore sono caduti anche studiosi a noi più vicini, indotti essi pure a supporre che gli Egiziani dell'Antico Regno conoscessero non soltanto il ferro, ma anche l'acciaio. È stato invece recentemente dimostrato che gli scultori dell'Antico Regno “non si valevano di alcun utensile di metallo per scheggiare le pietre dure, e si servivano invece solo di scalpelli di pietra” (J. VERCOUTTER, Gli Imperi dell'Antico Oriente, I, Milano 1968, pp. 288-289).

[47] A.H.L. HEEREN, Manuel d'histoire ancienne, cit., p. 71; ID., De la politique et du commerce des peuples de l'Antiquité, traduzione a cura di W. SUCKAU, Paris 1834, vol. VI, p. 36.
[48] Recherches (1783), P. II, section VI, Considérations sur l'état de l'Architecture chez les Chinois, pp. 36-41.
[49] C.F. VOLNEY, Voyage en Syrie et en Egypte pendant les années 83, 84, 85, Paris, an VII (1799), pp. 234-236.
[50] MONTESQUIEU, Pensée 1701 (Oeuvres complètes, a cura di A. MASSON, Paris 1950, vol. II, p. 508).
[51] VOLTAIRE, Essai sur le moeurs, a cura di R. POMEAU, p. 74 (l'espressione si legge nella Philosophie de l’histoire, 1765, divenuta nell'edizione di Kehl (1782) 1'Introduction all'Essai).
[52] MONTESQUIEU, Esprit des lois, XVIII, 6: “Il fallait que le pouvoir y fût modéré, comme il l'était autrefois en Egypte”. Nelle edizioni anteriori a quella del 1757 il testo continuava: “et il l'est encore aujourd'hui dans cette partie de l'Empire des Turcs” (edizione DERATHé, vol. I, p. 401). Un giudizio così indulgente sulla monarchia faraonica trae ispirazione dalla lettura di Diodoro, il quale aveva insistito sul fatto che, a differenza di altri monarchi, il faraone doveva render conto del suo operato; non giudicava a suo arbitrio, ma secondo un preciso codice di leggi; aveva attorno a sé come collaboratori non degli schiavi, ma figli adulti dei più illustri preti; era laborioso e sottoposto alla morte a un severo giudizio pubblico (I, lxx-lxxiv). Montesquieu trovava anche ammirevoli nella costituzione egiziana la separazione delle funzioni civili (affidate ai preti) da quelle militari (I, lxxviii, 4-6; Pensée 1906), le “umanissime” leggi sui contratti (I, lxxix, 6; Pensée 1750) e sugli schiavi (I, lxxvii, 6; Pensée 1916). Tutto questo non giustifica però la qualifica di governo moderato riferita al governo faraonico, tenuto conto di quante ingegnose combinazioni dei poteri fossero necessarie secondo lui a formare quel “capolavoro di legislazione” (MONTESQUIEU, Esprit des lois, V, 14; Pensées 831, 892, 918, 935). In realtà, il faraone - quest'essere sovrumano venuto a prendersi cura delle cose degli uomini - era un sovrano onnipotente: ogni autorità, soprattutto quella religiosa, era attributo del potere regale ed era esercitata per sua delega (revocabile). Cfr. H. FRANKFORT, La religione dell'Antico Egitto, Torino 1957, capitolo II). Non a torto l'Encyclopédie parlava di “teocrazia”.
[53] DE PAUW, Recherches (1795); P.III, section IX, Du gouvernement des Égyptiens, pp. 332-420.
[54] DE PAUW, Recherches (1795), II, p. 393.
[55] DE PAUW, Recherches (1795), P. III, section VI, De la religion des Égyptiens, pp. 128-235.
[56] Il primo, a mia conoscenza, che abbia distrutto il cliché del popolo malinconico è Hegel: “Potremmo immaginarci gli Egiziani tristi, cupi, oppressi; ma ciò è smentito dalla realtà [...] Il pensiero della morte, invece, non ha affatto diffuso la tristezza fra di loro; è anzi stato per essi [...] un incitamento a godere la vita [...]; noi avvertiamo in essi [...] uno smisurato fermento, un impulso, un empito che si espande in opere” (VorIesungen über die Philosophie der Geschichte, traduzione a cura di CALOGERO-FATTA, Firenze 1947, vol. II, pp. 279-289).
[57] L'opera ebbe un'accoglienza calorosa da parte dell'amico Jacobi; tre lettere sul “Teutsche Merkur”, 1773 (raccolte nei Werke, edizione F. ROTH, Leipzig 1825, vol. VI, pp. 265-344). Kant stesso la leggeva e ne raccomandava la lettura (12 agosto 1777, Briefwechsel, Ak. Ausgabe, X, p. 210). Goethe ammirava in essa la distruzione di antichi pregiudizi (Kampagne in Frankreich, 1792, in Werke, Berlin 1873, p. 99). Herder, Dupuis la citavano con onore. La Correspondence littéraire aveva lodato quell'opera che - diceva - “brille surtout par des connaissance rares, et suppose la critique la plus ingénieuse et la plus profonde”. Purtroppo lo stile lasciava a desiderare: “C'est un édifice vaste et riche, mais lourdement composé, et qu'il faudrait refaire comme Fontenelle a refaite l'histoire des oracles”. Senza entrare in tutti i “détours de ce labyrinthe immense”, il giornalista apprezzava soprattutto la sezione cinese: “Ce qui me paraît parfaitement démontré à l'égard des Chinois, c'est que ce peuple est un des plus anciens de la terre, et qu'il est encore aux premiers éléments de toutes les sciences et de tous les arts, parce qu'il vit sous le joug du despotisme le plus terrible [...] ” (F. GRIMM, D. DIDEROT et alii, Correspondence littéraire, edizione TOURNEAUX, Paris 1879, vol. X, pp. 297-300, octobre 1773). Il mito del buon governo della Cina era ormai avviato al tramonto (L. DERMIGNY, La Chine et l'Occident. Le commerce à Canton au XVIIIe siècle, Paris 1964, vol. I, p. 42). Restava intatto invece quello della sua grande antichità, ben superiore a quella dell'Egitto (“l’Égypte - dirà Voltaire proprio al de Pauw - n'est pas d'une race fort ancienne”).
[58] Voltaire a Federico, 21 dicembre 1775: “je ne connais point monsieur Pauw [...]. Je trouve ce monsieur Paw un très habile homme, plein d'esprit et d'imagination; un peu systèmatique à la vérité, mais avec lequel on peut s’amuser et s’instruire” (edizione BESTERMANN, D.19806).
[59] VOLTAIRE, Fragment sur 1’histoire générale (1773), art. IV (Oeuvres complètes, Paris 1908, vol. XXX, p. 8). È qui che si legge la frase “vrai savant, puisqu'il pense” (p. 4).
[60] [VOLTAIRE], Lettres chinoises, indiennes et tartares à monsieur Pauw par un bénédictin, Paris (ma Genève) 1776 (Bengesco, n° 317). Ironizzava però sull'antropologo sedentario: “Monsieur, j'ai lu vos livres; je ne doute pas que vous n’ayez été long-tems à la Chine, en Egypte, et au Mexique; de plus, vous avez beaucoup d'esprit: avec cet avantage, on voit et on dit tout ce qu'on veut. Je vous fais le compliment que les lettrés chinois se font les uns aux autres: ‘Ayez la bonté de me communiquer un peut de votre doctrine’” (Lettre III).
[61] Ibid., lettera IV (Oeuvres, cit., p. 141). Su Voltaire e la Cina vedi B. GUY, Image of China before and after Voltaire, “Studies on Voltaire”, XXI, 1963, pp. 214-284.
[62] Ibid., lettera V (Oeuvres, cit., p. 143).
[63] Federico a Voltaire, 10 gennaio 1776 (edizione BESTERMANN, D.19854). È in questa lettera che Federico confessa la sua “extrême ignorance” delle moeurs dei popoli orientali: “vaine curiosité”. Tutto il suo interesse era per l'Europa: “J'ai borné mon attention à l'Europe”.
[64] Federico a Voltaire, 8 aprile 1776 (edizione BESTERMANN, D.20055). Il Voltaire garantista (e prima di lui il RAYNAL, Histoire Philosophique, 1770, vol. I, pp. 147-149) aveva giudicato ammirevole che la giustizia nella Cina manciù ammettesse tre gradi di giudizio e aveva esclamato: “Quand je ne connaîtrais de la Chine que cette seule loi, je dirais: “Voilà le peuple le plus juste et le plus humain de l'univers” (Lettres chinoises, V). Il regime manciù “à ses débuts du moins” aveva cercato “effectivement à protéger les petites gens” (DERMIGNY, La Chine, cit., vol. II, p. 455).
[65] L. GUERCI, Libertà degli antichi e libertà dei moderni, Napoli 1979, pp. 263-272.
[66] P. VIDAL-NAQUET, La démocratie grecque vue d'ailleurs, Paris 1990, pp. 165, 172-174: “C'est avec surprise [...] que nous avons constaté le rôle central d'un personnage comme Cornelius de Pauw”, questo “amateur étrangement audacieux”.
[67] C. DENINA, La Prusse littéraire sous Frédéric II, tomo III, Berlin 1791, p. 145. Il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce del filospartano (ma infine filoscita) Barthélemy era uscito anonimo lo stesso anno delle Recherches del de Pauw (1788).
[68] MORTIER, Anacharsis Cloots, cit.
[69] L'Orateur du genre humain, III, 1791, p. 26: “ses Recherches ont contribué à planter l'arbre de la Révolution. Démocrate à la cour d'un despote, il dictoit les leçons de la vérité à un roi devant qui tout se prosternoit. Pauw et Fréderic étoient les seuls mortels qui marchassent la tête levée dans le Palais de Potzdam. Hertzberg rampoit comme une couleuvre, en redoutant le stoîcisme du frère de ma mère. Voici le premier homme qui ne flatte jamais, s'écrioit le monarque”. Durante la Rivoluzione gli indirizzerà una Lettre à mon oncle, nella quale giustificava la residenza forzata di Luigi XVI alle Tuileries, della quale cita un estratto nella sua Motion d'un membre du Club des Jacobins (MORTIER, Anacharcbis Cloots, cit., pp. 32, 35). Mortier esclude tuttavia una forte influenza intellettuale di de Pauw su Anacharsis.
[70] A. MATHIEZ, La Révolution et les étrangers, Paris 1918, pp. 75-76.
[71] DE PAUW, Défense des Recherches sur les Américains, cit., p. 29: “Il n'y pas de doute que les armoiries Européennes n'aient pris leur origine en Allemagne, où les moeurs et les usages avoient tant d'analogie avec ceux des peuples d'Amérique et de la Scythie: les premiers Francs, qui penetrèrent dans les Gaules, avoient dans leurs armoiries des abeilles; mais comme ils ne dessinoient mieux que les Hurons, les Gaulois prirent ces abeilles mal faites pour des crapauds, on en fit des fleures de lis, sans cependant beaucoup changer la forme d'abeille, qu'on y reconnoît encore bien sensiblement. Il est naturel que des barbares, qui sortoient de leur forêts comme un essaim et qui avoient un chef ou un roi prissent pour leur emblème des abeilles: cette allusion devoit tomber dans les esprits”. Esce pertanto confermata l'ipotesi del Vidal-Naquet: “Il n'est guère douteux qu'il ne s'y employât à démolir les représentations idéalisées que la noblesse française se donnait de ses ancêtres ‘francs’” (La démocratie, cit., p. 112).