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Salvatore Rotta Montesquieu nel Settecento italiano:
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3. Traduzioni e prime reazioni 4. L'accoglienza negli Stati della Chiesa 1. Premessa."La ammirabile opera dello Spirito delle Leggi - scriveva il 22 luglio 1752 l'abate Niccolini al cardinale Neri Corsini - si intenderà da molti più che da novecentonovantanove millesimi del genere umano pensante. In Inghilterra, in Olanda e nella parte illustre dell'Allemagna saranno moltissimi; e in Italia da molti in Napoli, e da noi [toscani] non pochi, e da qualcheduno nello stato veneto. Insomma s'intenderà ove sarà gusto di filosofare, cognizione superiore delle leggi e del diritto pubblico, e cultura di spirito. In Roma non regna gusto di filosofare, la cognizione delle leggi quanto vi à massima nel diritto privato, altrettanto vi à limitatissima per diritto pubblico, e per ciò che forma la legislatura [...]"[1]. Il Niccolini dubitava dunque che i più dei lettori italiani avesse a disposizione le "molte chiavi" che occorrevano "per penetrare pienamente" nell'opera: "la più grande, la più sublime, e la dotta opera di questo secolo"[2]. Un libro difficile. "Per intender quel libro - spiegava - ci vuole almeno una tintura di tutto, ed una profondissima cognizione della Giurisprudenza civile, e del Diritto della natura e delle genti, e delle leggi barbare, oltre una filosofia non comune ne i tre ordini morali, Etica, Politica ed Economia"; e a posseder tutte queste cognizioni insieme in Italia eran pochi. Non si meravigliava perciò che molti l'avessero trovata alla prima lettura "scucita, [58] disordinata, e oscura". Per suo conto egli l'aveva intesa perfettamente da capo a fondo ("A me non è oscura in veruna benché minima parte"), e la leggeva e rileggeva avidamente a propria istruzione e diletto, appassionandovisi sempre più, tanto da parerne al Tanucci alquanto infatuato. L'ostacolo maggiore in Italia alla comprensione dell'Esprit des Lois era, secondo il Niccolini, il divorzio tra cognizione delle leggi e filosofia: espertissimi nella pratica giuridica, gli italiani erano affatto digiuni di quella "scienza della legislazione" (mi si consenta di usare una volta per comodità l'espressione filangieriana) nella quale ci vuole molta filosofia: e l'opera era appunto destinata non ai giuristi pratici, ma ai legislatori: ai "legali della legislatura", che formano un ordine di persone molto differente dagli altri, ai "legali Ministri, de' quali se ne trova pochissimi in tutto il mondo". L'Esprit des Lois era dunque per il Niccolini (come del resto per il Montesquieu) un breviario dell'illuminato uomo politico: "un piano istruttivo delle maniere con cui la savia legislatura deve far le leggi"; e in Italia mancava una classe politica capace di appropriarsi la nuova arte di governo montesquiana: "l'art de gouverner avec succès, - ha detto benissimo il Lanson - non pas pour la grandeur et la gloire du prince, mais pour la réalisation d'un idéal de civilisation fondé sur la justice et sur l'humanité"[3]. Né si poteva pensare a una diffusione più larga: le deficienze culturali, la scarsa sensibilità ai problemi politici della maggioranza degli italiani colti - la mancanza del gusto di "filosofare" sopra le leggi -, l'assenza di discussione pubblica erano altrettanti fattori negativi. Non era ancòra giunto in Italia quel "temps de lumière" che s'augurava il Montesquieu, allorché l'opinione pubblica, "éclairée" sui veri interessi della comunità nazionale, sollecita e controlla l'azione dei governi. Ben diversa la situazione in Inghilterra [59]: "In Inghilterra tutto lo gusteranno come lo gustano al sommo, perché tutti fìlosofano e perché ignuno s'interessa nella legislatura, per cui è fatta l'opera, e non per far le leggi a caso"[4]. Occorreva dunque tutta una evoluzione dello spirito pubblico - e una cultura rinnovata e vivificata da più larghe esperienze di vita - perché i semi dell'opera potessero fermentare nelle coscienze e dare frutto: il Niccolini aveva indicato in maniera insuperabile le condizioni per la penetrazione del pensiero montesquiano in Italia. Come poteva il censore del romano "Giornale de' Letterati" intendere l'importanza di concetti come quelli di libertà dello stato e di libertà del cittadino se gli mancava la necessaria esperienza politica? Solo "se avesse osservato i felici paesi che ne godono, avrebbe compreso di che peso e di che utile al buon operare è questa distinzione, e quanto infelice sia una soggezione Asiatica, ove né l'una né l'altra libertà si godono"[5]. [60] Al Niccolini di questi anni, preoccupato come nessun altro della diffusione efficace dell'Esprit des Lois nei vari stati della penisola, faceva forse velo l'orgoglio intellettuale; ma non si può dire che non vedesse acuto. Il suo quadro, per quanto poussé au noir, corrispondeva abbastanza fedelmente alla realtà delle cose. Una profonda influenza ci fu, da parte del Montesquieu, sul pensiero politico italiano, e fu estremamente vitale, ma si sviluppò un decennio più tardi, allorché prese slancio il movimento per le riforme: basti pensare al Beccaria, ai Verri, ai Vasco, al Genovesi, al Filangieri, al Gianni[6], e - perché no - a [61] Vittorio Alfieri[7]. Nel processo di preparazione, di maturazione di questo movimento e di cristallizzazione dei suoi grandi temi di lotta il Montesquieu ebbe anzi una parte decisiva, contribuendo in misura larghissima alla generalizzazione della curiosità politica e sociale, all'approfondimento [62] della critica delle istituzioni. Subito che apparve, l'Esprit des Lois agì come un eccitante intellettuale di straordinaria efficacia: in Italia come in Francia e nella stessa Inghilterra l'effetto fu lo stesso, e curiosamente concordi le espressioni di lode[8]. Era un'opera che costringeva a pensare, proprio per effetto della sua alta densità espressiva e più ancora della sua ricchezza problematica: "c'était un afflux d'idées qu'on sentait bouillonner en soi"[9]; o per esprimerci con le parole di un amico e ammiratore italiano, Filippo Venuti: "Egli dà più materia da pensare, che da leggere". E aggiungeva: "Così non fuvvi mai libro, il quale come questo, nello istante medesimo di sua nascita, si sia tanto prodigiosamente moltiplicato, in seno della propria e delle esterne Nazioni"[10]. Non si potrebbe dir meglio: è proprio questa "moltiplicazione" che dobbiamo qui studiare. Una storia di malintesi[11]? Ammettiamolo. Ma forse che un'opera non si arricchisce [63] storicamente dei significati che le attribuiscono i suoi interpreti, e proprio i più appassionati? Il "vero" Montesquieu, da questo punto di vista, ci interessa assai meno del Montesquieu ripensato dai contemporanei, divenuto un fermento, uno stimolante intellettuale. L'Esprit des Lois, nel quale il Montesquieu aveva depositato vent'anni di meditazioni personali e nel quale s'era composto in unità (per dividersi poi nuovamente tra strade diverse) il travaglio di oltre un cinquantennio di pensiero politico europeo, offriva innanzi tutto una discussione allargata, universalizzata, dei problemi politici; e una discussione indipendente. Il fiorentino Buondelmonti, nel 1756, si chiedeva perché mai la politica, "questa sublime Scienza in quella parte che riguarda il governo interiore degli Stati, non ha fatto nei tempi moderni quei progressi, che il numero degli Scrittori, e il lume sparso su le altre Scienze meno interessanti, pareva che promettessero anche a questa, da cui tanto dipende la pubblica utilità. Bacone, ed altri pochi Autori della libera Nazione Britannica hanno scritto bene, è vero, ma sopra pochi soggetti universali [...]"; erano troppo legati alla loro storia, al viluppo delle situazioni interne[12]. Al confronto risaltava [64] la grandezza, l'originalità rivoluzionaria dello scrittore francese: "Era riserbato a un rapido ingegno Francese, ad un illustre Togato il promuovere la scienza dei Legislatori ad un altissimo grado da cui per lo innanzi o era, o sembrava molto distante, coll'opera immortale dello [65] Spirito delle Leggi [...]"[13]. La colpa maggiore dell'arretratezza degli studi politici era di quegli "Autori vili e mercenari, che hanno osato fabbricare senza osservazione, e senza esperienze o sistemi di politica, o teoremi, e regole di governo". Non dunque solo carenze di metodo (il Buondelmonti evidentemente considerava una conquista intellettuale il metodo d'investigazione "scientifica" del mondo politico adottato dal Montesquieu: la sua "sociologia"), ma un atteggiamento non libero nei confronti dei poteri costituiti avevano ritardato lo sviluppo della riflessione politica. Quest'ultima causa aveva agito negativamente anche nello svolgimento della scuola di diritto naturale: "Con più felice successo è stata coltivata dopo la ristorazione delle Lettere la scienza del diritto della natura, e delle Nazioni, che ha sì stretta connessione con la vera politica, e che ne contiene le cognizioni preliminari; ma nonostante dai giorni di Grozio a' di nostri non ha fatto quei progressi, che si sarebbero potuti aspettare, considerando [66] la vasta molteplicità degli Scrittori, che su queste materie hanno scritto. Lo spirito di adulazione, e di venalità, che purtroppo frequentemente si trova nelle persone ignobili, e bisognose, delle quali il volgo de' letterati abbonda, ha in parte ritardato gli avanzamenti di questa utilissima facoltà; e molti han lavorato più per oscurare le idee chiare, che per istabilire, o illustrare quelle che avean bisogno e di sostegno, e di luce"[14]. La stessa accusa - è singolare - che qualche anno più tardi il Rousseau rivolgerà ai jurisconsultes[15]. Ma, mentre il Rousseau si accanirà contro Grotius e rispetterà il Pufendorf, il Buondelmonti proprio contro quest'ultimo userà le parole più severe: "Infra il gran numero degli Scrittori che del Diritto naturale han favellato dopo Grozio, si distingue Pufendorf, uomo insigne, e che avrebbe renduto a questa scienza più utile servizio, se avesse scritto con maggior eleganza e con maggior nobiltà di sentimenti; se troppo non avesse amato di contradire al dotto ed onesto Ugone Grozio; se non avesse avuta una soverchia stima per alcuni falsi pensieri dell'irreligioso e dispotico Hobbes [...]". Il Buondelmonti non ignorava la correzione in senso liberale che ne aveva fatto il Barbeyrac, imbevuto - si sa - di pensiero politico lockiano, ma non la giudicava ufficialmente: "Barbeyrac ha corretto, ma non tutto ha veduto, non tutto ha notato". Sono, queste del Buondelmonti, pagine davvero notevoli; e stanno a provare la maturità raggiunta, qualche anno dopo le parole del Niccolini, dalla cultura italiana a ricevere (e a valutare esattamente) il grande insegnamento del Montesquieu: sia il contenuto riformistico del suo pensiero sia la novità [67] nel metodo di investigazione delle realtà storiche e politiche, la sua sociologia "sperimentale". La sociologia del Montesquieu era però l'aspetto più ambiguo del suo pensiero: la sua vasta inchiesta su le società - e non solo su le più vicine, ma su tutte quelle del vasto mondo - mettendo a confronto gli ordinamenti giuridici con le totalità sociali, finiva per giustificare le leggi anche più assurde, più irragionevoli, più colpevoli: esse possono egualmente render felici coloro che le hanno stabilite e accettate. Il relativismo montesquiano non offriva eccellenti armi alla conservazione politica e sociale? Ma il préjugé (per usare l'espressione di una lettera falsamente attribuita all'Helvétius) non si impadronì dell'Esprit des Lois: lungo tutto il Settecento non si rinviene nell'ambito della cultura italiana che qualche tenue traccia di una utilizzazione reazionaria e conservatrice dell'opera montesquiana[16]. Nessun difensore del passato sorse in Italia a contestare, in nome della razionalità immanente al processo storico, la necessità di radicali riforme e a giustificare i privilegi[17]. Nessuno dei lettori italiani [68] dell'opera dimostrò la benevolenza, il senso religioso del passato con cui il giovane Burke, su le tracce del Montesquieu, si volse a studiare lo svolgimento storico della legislazione inglese[18]. Neppure là dove l'insegnamento del Montesquieu poteva incontrarsi con quello del Vico. Si veda, per esempio, con che forza il Delfico respingeva i giudizi del Montesquieu su le giurisdizioni feudali: "[...] chi dice Monarchia dice unità di tutte le parti che compongono il potere supremo; ma i feudi ne sono direttamente opposti alla costituzione Monarchica. Quindi è che i Regni tanto più si sono accostati allo stato monarchico, quanto meno hanno avuto di feudi e meno di feudale giurisdizione; poiché l'indivisibilità del potere, e la inalienabilità di qualunque parte giurisdizionale costituiscono nella sua integrità questa forma di governo. Se Montesquieu pensò diversamente, ognuno sa che spesso fu contraddittorio con se stesso, e che aveva ancora l'immaginazione troppo occupata dall'eroismo della vecchia cavalleria"[19]. Il fatto è che l'Italia, come ha ben visto lo Zapperi, "era il paese europeo meno sensibile al richiamo del vecchio costituzionalismo che svolgeva ancora un ruolo politico, ma di respiro grettamente locale, solo in qualche regione periferica, come la Sicilia e la Sardegna"[20]. [69] Se lo studio del Montesquieu non fruttò alla cultura italiana una nuova visione del passato storico, un più ricco e profondo senso dell'evoluzione storica, aiutò invece - ed efficacemente - la sua volontà di riforma. All'interno di questo desiderio di riforma il richiamo montesquiano alla concretezza delle situazioni storiche e ambientali - la lezione del suo relativismo - si fece sentire con forza. Il Cerati si dichiarava grato al Montesquieu per le "vues salutaires" che egli aveva fornito per portare "les sociétés de chaque pays à la perfection et au bonheur dont chacune est capable". Lo sforzo degli interpreti italiani si volse se mai a rettificare quanto poteva esserci di meccanicistico, di fatalistico in tale relativismo, a rivendicare una maggiore libertà e possibilità di successo all'azione riformatrice. La discussione su la teoria del clima, quando non fu un'esercitazione puramente accademica - il Montesquieu per primo ne aveva avvertito il pericolo - ha questo significato[21]. Questa critica si farà più aperta e impegnata [70] nel triennio democratico. E si capisce: c'era stato chi come il Lacretelle (il "savio Lacretelle" del Galeani Napione - uno dei campioni del "risorgimento" calcaterriano - l'"infame Lacretelle" del Gioia) aveva contestato la possibilità per l'Italia di governarsi liberamente; e aveva trovato in Italia orecchie pronte ad ascoltarlo. Scriveva il Gioia: "[...] al presente che rendesi una stima ragionata a Montesquieu, cioè a dire che scopronsi in lui degli errori, non si calcola la forza del clima nel determinare la forma di governo che conviene alle varie nazioni, e si decide francamente che tutte sono suscettibili d'un governo libero"[22]. La religione più che altro manteneva i popoli in schiavitù: "Gli storici ci diranno che se regnò per tanto tempo la schiavitù su la terra si è perché ella era armata della forza [...], perché la speranza ingannatrice d'un avvenire migliore calmando l'immaginazione leva loro l'armi di mano quando stanno per ricuperare i loro diritti, e prolunga senza fine le loro miserie [...]"[23]. La presa di posizione dei democratici è unanime: [71] italiani come il Galdi ("non v'è angolo di terra abitabile - aveva scritto nelle "Effemeridi repubblicane" - sotto qualunque clima, che non sia suscettibile di governo democratico")[24] o stranieri, come il Fabre. Alcuni però, come Vincenzio Russo, assumono in sede teorica una posizione più sfumata: il Rousseau aveva accolto, si ricordi, la teoria ("non convengo con Montesquieu a fare del clima una fatalità, non con Hume e con Helvezio a negarli ogni influenza. Quegli è smentito dalla storia politica del genere umano, questi lo sono dalla storia naturale della terra")[25]. Tutt'al più si concedeva che fossero "cangiabili secondo le varie circostanze e le varie idee dei popoli o dei legislatori" gli istituti di diritto privato, non quelli di diritto pubblico[26]. Si deve concludere che gli interpreti italiani avessero frainteso, utilizzandolo in senso riformistico, il senso del capolavoro montesquiano? Certamente no. La critica più recente ha fatto giustizia dell'immagine convenzionale di un Montesquieu conservatore: "Montesquieu - scrisse addirittura il Jaurès - beaucoup plus hardi que sa légende, pressentait l'avènement de démocraties audacieuses qui ne pourraient assurer leur équilibre qu'en prévenant l'extrème inégalité des fortunes"[27]. L'odio dei tiranni, cioè degli usurpatori, e dei despoti, cioè
dei sovrani oppressivi e arbitrari, la rivendicazione della tolleranza,
della legalità, lo spirito di esame applicato alle istituzioni,
il desiderio di migliorarle e renderle più favorevoli alla prosperità
delle nazioni: sono i [72] grandi sentimenti dell'opera, e non
sono i sentimenti di un conservatore. 2. Gli amici italiani.[75] Un'osservazione preliminare: sarebbe stato preferibile che la Berselli si fosse servita dei tre volumi di opere del Montesquieu usciti tra il 1950 e il 1955 sotto la direzione di A. Masson[32] in luogo dell'edizione Caillois[33]. Nell'edizione Masson l'epistolario, curato da François Gebelin (uno dei benemeriti editori della Correspondance montesquiana pubblicata a Bordeaux nel 1914), mette infatti a disposizione degli studiosi ben 72 nuove lettere, delle quali 52 sono del Montesquieu (III, pp. 721-1555). La lettera, per esempio, al cardinale Quirini del 22 giugno 1751 citata dalla Berselli come inedita (p. 37, n. 51) fu già ritrovata dal Cotta e inserita nella raccolta in questione (III, pp. 1383-1384). Citerò d'ora in avanti dall'edizione Masson con la sola indicazione del volume e delle pagine. Dell'Esprit des Lois l'edizione da usare era quella critica apprestata dal Brethe de la Gressaye, della quale erano apparsi tra il [76] 1950 e il 1958 tre volumi[34]. Non si tratta di un lusso da eruditi: come si vedrà più avanti, l'utilizzazione di questa edizione, doviziosamente e intelligentemente annotata, avrebbe giovato a una più esatta ricostruzione di episodi narrati nel libro della Berselli: in particolare a meglio definire l'atteggiamento del Montesquieu di fronte alle censure ecclesiastiche. Lo stesso Caillois (che sapeva tutta l'importanza dello studio delle varianti tra la edizione del 1748 e quelle del 1749 e 1757, e che non ignorava l'esistenza del manoscritto della redazione immediatamente precedente a quella definitiva dell'opera)[35] aveva indicato come "principale défaillance" della sua raccolta il non aver potuto offrire un testo critico del capolavoro montesquiano[36]. Nel capitolo I la Berselli narra sveltamente il viaggio italiana del Presidente: i suoi incontri, le sue impressioni delle città visitate[37]. Troppo sveltamente. Non fa parola, o dice pochissimo, per limitarci agli incontri, [77] di Carlo Rinuccini, "un des meilleurs esprits de Florence" (II, 1082)[38]; non del vecchio Jacques-Hyacinthe Serry, questa figura vigorosa e combattiva del mondo universitario padovano, che al Montesquieu (il quale si affrettò ad acquistare, sempre che già non la possedesse, la sua [78] opera De Auxiliis) fece l'impressione di "homme d'esprit" (II, 1019)[39]; non di Matteo Ripa, reduce da un lungo soggiorno in Cina e creatore a Napoli di quel "Collegio dei Cinesi" che resta uno dei più curiosi istituti missionari dell'epoca[40]; non del Fouquet, che più ancora del Ripa, [79] riuscì a soddisfare la grande curiosità del Montesquieu per le cose cinesi[41]; non del Lodoli (se è lui, come è molto probabile, il "Sodoli franciscain, homme de lettres, qui travaille à plusieurs éditions des Pères" incontrato dal Montesquieu a Venezia; II, 1016), il futuro precettore dei più illuminati patrizi di Venezia e funzionalista avant la lettre in architettura[42]; non del canonico Filippo Martini [80], buon amico del Cerati e dei Niccolini e se non proprio giansenista certamente fermissimo anti-gesuita (II, 1091)[43]; non di quel Dathias "principal juif de Livourne" "homme de lettres" con il quale il Montesquieu conversò a lungo in Firenze della situazione degli ebrei in Portogallo e in Livorno (II, 816-817, 1087, 1091) e che altri non era che quel Josef Filalete Athias (come nei suoi ultimi anni gli piacque chiamarsi per distinguersi dagli omonimi) che s'era fatto premura a suo tempo d'inviare la Scienza Nuova - opera che dava, così diceva, motivo di pensare a molte cose "peregrine e grandi" - a Jean Le Clerc, a Conyers Middleton, a Jean Boivin[44]; [81] non di Bernardo Lama e di Joseph Roma, gli uomini di [82] punta dell'Università torinese[45]; non di Giovanni Antonio Davia, cardinale illuminato non tanto perché filo-giansenista (non tutti i filo-giansenisti lo erano, e non lo [83] erano i giansenisti) ma perché possedeva, a differenza dei tanti più noti Querini e Passionei, una solida cultura scientifica: allievo del Montanari e del Malpighi, amicissimo del Bianchini, aveva animato a Bologna a Rimini e Roma accademie sperimentali ed era stato, tra i primissimi in Italia, ad aver notizia dell'opera del Newton (è probabile che fosse stato lui e presentare al Montesquieu Celestino Galiani)[46]; non quell'Alessandro Marcello (indebitamente [84] confuso dallo Shackleton con il fratello Benedetto) "qui aime les Français, qui a été en France, qui fait des vers, des tableux, joue des instruments: c'est une espèce de fou" (II, 1007, 1016)[47]. Accenna all'incontro con il Bonneval, il conte-pascià[48]; ma non ricorda un altro famoso personaggio che assai interessò il Montesquieu durante il suo soggiorno veneziano: il Law, con il quale aveva "beaucoup parlé [du] Système" (II, 1004-1007, 1016). L'incontro a Modena con il marchese Orsi, dato per avvenuto, molto probabilmente non ebbe mai luogo[49]. E non [85] è esatto dire che a Bologna il Montesquieu "più [...] del celebrato Istituto fondato da Luigi Ferdinando Marsili [...] lo interessano le industrie e i commerci della Legazione, i bozzoli di seta [...], le anguille di Comacchio, la canapa". È quello che si dice capovolgere i fatti. È vero che il Montesquieu s'interessò alle risorse economiche di Bologna, ma a Roma, prima di aver visitato la città (II, 1132). La notazione non occupa più di un terzo di pagina. Quanto alle anguille, il Montesquieu annota: "Le Pape remet de l'argent à Bologne; il en remet à Ferrara; non à Comacchio, oú il y a une eccellente pêche d'anguilles" (II, 1209). È tutto. Il racconto della visita all'Istituto il 14 luglio 1729 riempie tre pagine (II, 1204-1207). Ne osserva con attenzione il museo militare, le macchine per le esperienze ("lesquelles machines sont presque toutes tirées de s'Gravesande"), la raccolta d'antichità, quella di libri rari ("entre autres, des livres de géographie turcs en arabe. J'y ai vu l'Italie, qui y paroit très-bien") e, soprattutto, 1'"appartement de l'histoire naturelle". Questa volta non può nascondere, tuffandosi tra quelle ghiottonerie, la propria meraviglia: "C'est là que l'on voit des amas immenses de toutes sortes de curiosités". Infine l'osservatorio: il regno di Eustacchio Manfredi (purtroppo assente da Bologna), che l'aveva eccellentemente equipaggiato ("Il y a là de très-beaux & de très-bons instruments pour observer"). E ancora: la scuola di pittura, il giardino [86] dei semplici, il gabinetto per le opere al tornio. Il visitatore lascia l'istituto pieno d'ammirazione: "Il est impossible de ne sortir point avec admiration de ce beau palais, qui est admirable par sa beauté méme & son bel escalier, mais bien plus par la beauté: des recherches & l'amour pour les sciences de ceux qui l'habitent". Pieno di ammirazione anche per la generosità del fondatore: "La ville de Bologne devroit élever une statue au général Marsigli". Se questo non è interesse, non so come altrimenti si potrebbe chiamare. Più in generale, sarebbe stato opportuno ricostruire con tutta la precisione possibile gli ambienti più a lungo frequentati dal Montesquieu: almeno il circolo attorno al cardinale de Polignac, che oltretutto fu a Roma, tra il 1724 e il 1730, uno dei maggiori centri di resistenza cartesiana al newtonianismo. È qui che il 4 giugno 1729 il Presidente ascoltò la lettura del primo canto dell'Antilucretius, che a lui, cartesiano convinto fino ai suoi ultimi giorni ("Ce grand système [...] ce systemè immortel"; III, 112), fece l'impressione di "ouvrage admirable" (II, 1178): "Nous lui - diceva del Polignac - devons cet ouvrage immortel dans lequel Descartes triomphe une seconde fois d'Epicure" (II, 433). Ricerca che andrebbe fatta soprattutto per la società provinciale: è tutto un piccolo mondo di eruditi, di esprits curieux e di femmes savantes (come quell'assemblea di virtuosi che ogni venerdì si riuniva a Firenze attorno alla marchesa Feroni [II, 1082][50]; e quell'altra, assai più importante, attorno alla contessa Clelia Grillo Borromeo a Milano) che si ripresenta [87] ai nostri occhi; ed è quanto di più vivo poteva offrire la società aristocratica italiana allo spirare del primo quarto del secolo. C'è però da domandarsi se il Montesquieu non avesse sacrificato troppo ai suoi gusti aristocratici; se non avesse preferito di gran lunga la compagnia di nobili a quella dei dotti. È vero che cercò di avvicinare gli uomini più in vista della cultura italiana; anzi, in una nota asserì di averli visti tutti, tranne il Bianchini morente e il Manfredi. Ma li aveva davvero conosciuti tutti? Se disegnassimo la mappa della cultura italiana su la scorta dei carnets di viaggio del Presidente rischieremmo di lasciar fuori qualcuno, e non dei meno importanti. Soprattutto degli scienziati. E per cominciare il Morgagni, il Grandi, il Poleni, mai nominati. Ma anche lo Zendrini, il Michelotti, il Riccati, il Torti, il Leprotti, Gabriele Manfredi, il Cocchi. Del Vallisnieri, se non riuscì a incontrarlo di persona, riuscì almeno a visitare il museo. E non è a dire che al Montesquieu, ancora caldo dei suoi giovanili entusiasmi per le scienze della natura, facessero difetto gli interessi in quella direzione. Ché anzi si provvide, per fare un caso, degli Opera omnia di Bernardo Ramazzini (La Brède, N. 1184) su suggerimento probabilmente del Muratori, benché il nome del medico modenese non gli fosse prima sconosciuto (II, 17, 1213). Malgrado ciò, si può dire che il Montesquieu, viaggiatore riflessivo, studiò attento la situazione politica, sociale e culturale dell'Italia del tempo e lo storico delle cose italiane potrebbe trarre più d'una indicazione utile dai suoi diari, solo che si applicasse a sfruttarli meglio di quanto non abbiano fatto la Berselli e lo stesso Shackleton. Se ne otterrebbe uno "spaccato" di eccezionale fedeltà. Anche se, com'è ovvio, andrebbe precisata la parte che in tale quadro tocca agli informatori del Presidente. Non tutte le osservazioni e considerazioni generali sono evidentemente il risultato di impressioni dirette. In questo caso anche le figure minori da lui intervistate hanno la loro importanza: sia che si tratti di nobili o di funzionari [88] o comunque di personale dell'alta amministrazione o infine di operatori economici, com'era - per esempio - quell'ebreo ricchissimo proprietario a Reggio Emilia di "un moulin oú se file une prodigieuse quantité de soye", il quale gli aveva illustrato oltre che i procedimenti tecnici in uso nel suo mulino anche la situazione dell'industria serica nell'intera regione (II, 1216-1217). Lo Spicilège, venuto ad aggiungersi nel 1944 alla tradizionale documentazione dei Voyages, conferma e rafforza quest'impressione di intelligente attenzione. Le ragioni personali di un interesse così acuto, e insomma le ragioni del viaggio, andavano meglio precisate: tanto più che immettono direttamente nel vivo nel processo di formazione dell'Esprit des lois[51]. A questo proposito non sarebbe stato forse superfluo allargare l'indagine oltre l'àmbito dei rapporti personali - pure importantissimi - e delle esperienze dirette, e cercare di definire complessivamente i rapporti del Montesquieu con la cultura italiana, prima e dopo il viaggio[52]. Quali libri, quali idee [89] nuove egli portò con sé dal soggiorno italiano? Il Muratori e il Gravina sono espressamente citati nell'Esprit des Lois; e le carte private confermano che, quest'ultimo soprattutto, furono attentamente meditati. Ma il Doria, il Giannone, il Maffei, il Vico (non soltanto il Conti, non soltanto gli amici napoletani, ma - s'è visto - l'Athias e il Lodoli possono avergli svegliato la curiosità del gran libro vichiano) non furono probabilmente sconosciuti al Presidente, e - che più conta - gli offrirono, nel corso della tormentata ricerca dei principes per la sua immensa investigazione (lo Shackleton lo ha ben mostrato), qualche spunto illuminante[53]. Non sarebbe stata soltanto - [90] si badi - una mera ricerca di fonti, quanto piuttosto individuazione dei settori della cultura italiana che avrebbero potuto manifestarsi, in seguito, più aperti e recettivi nei confronti delle idee politiche o soltanto dei metodi d'indagine montesquiani. Le amicizie italiane del Montesquieu non furono strette tutte durante il viaggio: ce n'erano di più antiche. Ricorderò quell'abate Oliva, bibliotecario dei Soubise, che accolse il giovane provinciale al tempo del suo primo viaggio a Parigi nella propria società letteraria. Il Montesquieu ne parlava con calda riconoscenza e con stima a distanza di anni: "Je me rappelle toujours avec délices les momens que je passai dans la société littéraire de cet italien éclaire, qui a su s'élever au-dessus des préjugés de sa nation [...]" (III, 1343). Ma non fu un lungo commercio: disgustato dalle soperchierie di padre Tournemine che dominava in quel conciliabolo, il Montesquieu abbandonò ben presto la compagnia. E perdette di vista il letterato trevigiano[54]. E prima ancora di lui aveva frequentato a Parigi l'abate Bernardo Andrea Lama, ma non tutto il tempo che suppone lo Shackleton; appena qualche [91] giorno nell'estate del 1717[55]. Lo rivedrà a Torino, anche questa volta per poco tempo (a Torino "ville riante", ma "assez ennuyeuse" il Montesquieu non si arrestò che diciotto giorni, tra l'ottobre e il novembre del 1728). Altre, tra le più importanti, furono strette in seguito (Guasco, Venuti). Un posto infine va fatto alle conoscenze occasionali: diplomatici (Lomellini, Pallavicini, [92] i due Solaro) e ammiratori che si recavano a visitarlo nei suoi ultimi anni, come quell'Alessandro Serti, allievo del Genovesi, che lo vide nei primissimi mesi del 1754: "Godo, che abbia veduto il Legislatore di tutte le Nazioni, il gran Montesquieu - gli scriveva da Napoli il maestro - e la ringrazio vivamente, che abbia voluto fargli noto il mio nome"[56]. Su i più importanti amici italiani del Presidente nulla nel libro della Berselli si legge che già non si sapeva; in molti casi si sapeva di più. Non sempre poi le notizie sono esatte. Il Maffei, visitato dal Montesquieu a Verona nel 1729 ("il est chef de secte", II, 1230), sarebbe rimasto secondo la Berselli in corrispondenza assidua con lui (pp. 8, 141). Il Maffei avrebbe detto: unde tenes? Nell'epistolario montesquiano non una volta appare il nome del veronese, e altrettanto profondo è il silenzio di quest'ultimo nei confronti del suo maggior contemporaneo. È invece provato dallo Spicilège che il Montesquieu possedeva e leggeva l'Istoria Diplomatica (II, 806); e che delle osservazioni fatte dal Maffei nel corso del colloquio veronese aveva tenuto qualche conto (II, 858). Ma non per questo andrà messo nel numero degli amici. A Parigi, dove il marchese soggiornò tre anni e quattro mesi (dal gennaio del 1733 al maggio del 1736) ebbero - è vero - modo di rivedersi; e si rividero infatti. Ma non legarono. Eppure tra gli italiani che il Montesquieu frequentò il Maffei era l'uomo che più di ogni altro era in grado di recepire certi temi della sua riflessione storica e politica. Alle Considérations (uscite nell'agosto del 1734) fanno esatto pendant le riflessioni maffeiane, tuttora inedite, sul governo dei Romani nelle province. E nella valutazione della costituzione inglese il Maffei sarà non meno caloroso del Montesquieu. Si riapra il Consiglio politico (che è del 1736 o del 1737): "Non bisogna lasciarsi ingannare [93] dal nome di regno, supponendo il governo d'Inghilterra monarchico: La Nazione è libera, e si governa in repubblica". E si rilegga subito dopo qualcuna delle Notes sur l'Angleterre: "L'Angleterre est à présent le plus libre pays qui soit au monde, je n'en excepte aucune république". Non si può non restare colpiti dalle affinità di giudizio[57]. Per non parlare della convergenza su la questione dell'"impiego del denaro" (Esprit des Lois, XXII, 19). Eppure, come dicevo, il Maffei non sembrò neppure essersi accorto dell'Esprit des Lois: cosa tanto più inspiegabile data l'attenzione con la quale il Maffei seguiva in quegli anni gli armeggi di Roma. Ma si sa che l'epistolario maffeiano raccolto dal Garibotto, oltre a non essere impeccabile, è lontano dall'essere completo. Antonio Conti. Il Montesquieu lo incontrò nell'agosto 1728 a Venezia, dove il Conti gli fu ottima guida. L'abate padovano era rientrato da appena due anni dal suo lungo soggiorno in Inghilterra e in Francia[58]; e ancora tutto infervorato dalla cultura di quei paesi, andava compiendo i suoi sforzi maggiori per rinnovare l'ambiente italiano: cercava, come poteva, di favorire "il commerzio tra i libraj di Venezia e di Parigi", e proprio in quell'anno aveva formato con il Vallisnieri il progetto di un'Accademia di scienze e società di filosofia in Italia, e ne aveva anche diffuso il piano, come provavano - per testimonianza del Toaldo - le lettere che gli scriveva la nobildonna milanese (ma genovese d'origine) Clelia Grillo Borromeo[59]. E alla Borromeo (che la Berselli, poco generosa verso il suo sesso, giudica alla maniera di Fausto Nicolini una "seccatrice") il Conti indirizzò il Montesquieu, che rimase "étonné de sa prodigieuse érudition" (III, 914). Poteva [94] ben dirlo: "Oltre alla cognizione - si legge in un pubblico necrologio apparso alla sua morte, nel 1777 - della lingua toscana, latina, francese, spagnuola, tedesca, inglese e di alcune orientali ancora possedute in gran parte da lei fino alla più fine eleganza", la Borromeo si dilettava di filosofia sperimentale: aveva anzi aperto nella sua casa un'accademia scientifica[60]. Il Montesquieu non esitò perciò a metterla tra "les principaux savans d'Italie" (II, 1213). Non mancava neppure di curiosità e di abilità tecniche: è proprio il Montesquieu a parlarci di una sua invenzione, destinata a meccanizzare la produzione dei merletti[61]. Tornando al Conti: la Berselli giudica assai severamente con il criterio dell'"originalità" (ma di originalità neppur egli mancò, a saperla cercare), e si rammarica della perdita delle sue carte, tra le quali era segnalata una Dissertazione storico-politica sullo stato della Francia dal 1700 al 1730, nella quale forse passò qualcosa delle conversazioni con il Montesquieu. Per fortuna le carte contiane, considerate perdute fino a pochi anni fa, furono donate nel 1950 dal co. Manin, che ne era il depositario, alla Biblioteca Comunale di Udine. La notizia era stata data dalla Baravelli nell'atto di pubblicare l'inedito trattato della virtù[62]. La Dissertazione, o per esser esatti, il Discorso in questione è ora collocato: Ms. Manin, 1351 (ex-Priuli, 189). Il nucleo di questa storia della Reggenza - il periodo decisivo, si sa, per la formazione politica del Montesquieu - è costituito da choses vues: "[...] andrò successivamente sviluppando la serie delle cose accadute a tempi del mio soggiorno in Francia e se io non [95] l'esporrò con lo splendor delle parole e con la maturità dei riflessi convenienti a sì importante materia non mi mancheranno certamente sincerità e diligenza nel riferire ciò che ho veduto con l'occhio proprio o che mi è riuscito di raccoglier nelle sentenze di uomini gravi o per il loro ministero o per le loro aderenze pienamente instruiti delle varie cagioni de' variamenti". A parere del Conti, nel decennio tra la morte di Luigi XIV e il ministero Fleury, s'era compiuta in Francia un'evoluzione irreversibile: "Stabilito questo principio [lo stato in cui Luigi XIV lasciò il regno, morendo] facilmente si scorgerà da una parte per quali fini e con quali arti se ne allontanarono prima il Duca d'Orléans e poi il Duca di Borbone amministratori successivi del Regno e dall'altra parte quanto al cardinale di Fleury, il quale ora maneggia con assoluta indipendenza le cose, sarà difficile di rimetter nel primo piede la monarchia". Può darsi che il Montesquieu fosse uno tra quegli "uomini gravi" che avevano fornito al Conti notizie preziose (specialmente per il periodo di governo del duca di Borbone); ma, se influenza da parte del suo pensiero politico ci fu, fu di natura sottilissima; e andrà accertata con una delicata analisi del testo. Tale influenza è implicitamente ammessa dal Badaloni: "Il quadro è sufficiente per concludere che Conti in forza delle sue idee personali e dei suoi legami coll'aristocrazia francese è favorevole ad un tipo di governo non molto diverso da quello proposto dal Montesquieu, un governo cioè modellato su quello inglese, ma, a differenza di quello dominante in Inghilterra in questi anni, ispirato ad un senso della virtú"[63]. Ma è questo l'ideale di governo che il Montesquieu sogna per la Francia? E avrebbe mai ammesso il Presidente la mescolanza dei princìpi? Ed è proprio questo l'ideale dell'aristocrazia francese? E poi: è certo che il Montesquieu del 1728 avesse [96] già scoperto i suoi principes? E infine: è questo l'ideale del Conti? La sua nostalgia della Francia del Re Sole, il suo giudizio pieno di riserve sul Reggente (che il Montesquieu considerava uno dei più grandi principi che mai fossero vissuti: "La mort de M. le duc d'Orléans m'a fait regretter un prince pour la première fois de ma vie", III, 758), il suo giudizio su la politica del Fleury (espressi con quasi le stesse parole nella corrispondenza con Madame de Caylus, prima dell'incontro veneziano con il Montesquieu): questi e molti altri elementi sono sufficienti tuttavia a escludere che lo scritto del Conti riflettesse idee montesquiane[64]. Del resto gli interessi fondamentali del Conti non erano politici; erano filosofici e artistici. E dai luoghi dello Spicilège che lo riguardano, si può arguire che i discorsi col Montesquieu avessero avuto per principale argomento la letteratura (II, 814). Purtroppo dell'epistolario contiano, che dovette essere vastissimo, dati i rapporti del Conti con i dotti di mezza Europa, non si trova tra le carte udinesi alcun vestigio. Non possiamo perciò sapere se tra lui e il Montesquieu la relazione durasse oltre la partenza di questi dall'Italia. Più lungo discorso meritavano i due fratelli piemontesi A.M. Solaro di Govone e G.R. Solaro di Breglio (perché usare sempre la forma francesizzata?) dal momento che su di loro si sa, ammette il Piscitelli, "quasi nulla"[65]. Li aveva conosciuti entrambi in Vienna, dove il di Breglio fu ambasciatore dal 1720 al 1731, alla vigilia del viaggio in Italia; e rimase loro affezionatissimo: "Dites au Marquis de Breille & à M. le grand Prieur - scriveva al Guasco il 9 novembre 1751 - que tant que je vivrai, je serai à eux: la première idée qui me vint, lors que je les vis à Vienne, ce fut de chercher à obtenir leur amitié, & je l'ai obtenue" (III, 1406). Il primo, commendatore [97] e poi gran priore dell'Ordine di Malta, era stato per un decennio - fino al 1743 - prima plenipotenziario e poi ambasciatore del suo re a Parigi. Era un uomo gai, e negli anni parigini aveva condotto una vita più che brillante: l'amicizia con il Montesquieu, in virtù dell'assidua frequentazione, s'era consolidata. Allorché nel 1748 fu inviato a Roma ambasciatore dell'Ordine di Malta (non del re di Sardegna, come crede la Berselli) - ambasceria "ni cherchée ni desirée" ("Je crois - si confidava con il Montesquieu - que c'est la malediction de Madame de Tencin qui m'a attiré le malheur de me trouver dans cette tracasserie; j'ai tâché de m'en tirer, mais il faut marcher et obéir", III, 139) - avrà parole di rimpianto per il soggiorno nella capitale francese: "je vais y mener [a Roma] une vie sérieuse; cela est à sa place; nos beaux jours sont passés. [...] Vous ne m'auriez pas cru capable de morale dans le temps de mes folies [...]." (III, 1140). E lascerà, partendosene, un vivo rimpianto di sé: non era uomo - diceva di lui Voltaire - "fait pour être oublié" (Besterman, 2679). Il Montesquieu, che faceva - si sa - alta stima dei diplomatici piemontesi, intelligenti e profondi scrutatori dell'indole delle nazioni (III, 1452), mantenne con il commendatore una abbastanza lunga corrispondenza: alle quattro lettere a questi indirizzate che si leggono nella Correspondence vanno aggiunte sicuramente almeno altre quattro lettere perdute (29 dicembre 1747; 10 ottobre 1748; marzo-aprile 1750; 9 settembre 1750; cfr: III, 1139, 1170, 1298, 1340). Lo scambio più intenso di lettere tra i due si ebbe proprio durante il soggiorno romano del Solaro; il quale però - ammalatosi seriamente pochi mesi dopo il suo arrivo ("le pauvre ambassadeur de Malte est dans un état qui continue de être fâcheux - scriveva il duca de Nivernais il 30 novembre 1749 - je le connoissois peu & il gagne bien à être connu: c'est véritablement [...] un homme de grand mérite [...]"; III, 1270) - nella primavera del 1750 lasciò Roma definitivamente (III, 1298, 1306). Nell'anno o poco più che vi restò fu però utilissimo al Montesquieu, adoperandosi a tutto potere per impedire (da parte, com'egli diceva, [98] dei "fanatiques de Rome") la condanna dell'Esprit des Lois; libro ch'egli aveva letto tra i primissimi in Italia e che gli aveva fatto subito esclamare secondo la testimonianza del Guasco: "Voilà un livre qui opérera une révolution des esprits en France", e del quale prometteva al Montesquieu di fare "l'étude de toute sa vie" (III, 1225). Fu lui, già amico del Passionei[66], a mettere in contatto il Montesquieu con il cardinale ("Vous êtes faits - gli scriveva il 22 marzo 1749 - l'un & l'autre pour vous connoître & vous aimer"; III, 1298), anche se la "grande lettre" del 2 giugno 1750 fu scritta dal Montesquieu per istigazione del de Nivernais (che, su l'operato del cardinale nella faccenda, dava un giudizio assai meno benevolo di quello del Solaro; III, 1304). I rapporti con il Solaro di Breglio ("un homme que j'adore"; III, 1199), pure stimato di molto superiore al fratello (II, 971), furono meno continui. Il capolavoro del marchese era, agli occhi del Montesquieu, l'educazione del duca di Savoia, il futuro Vittorio Amedeo III, affidatogli all'età di 6 anni, poco dopo il suo richiamo da Vienna: "L'humanité lui devra beaucoup - scriveva nel febbraio-marzo 1742 al Guasco - pour la bonne éducation qu'il a donné à Monsieur le duc de Savoie, dont j'entens dire de très-belles choses"; e aggiungeva: "J'avoue que je me sens un peu de vanité de voir que je me formai une juste idée de ce grand homme, lorsque j'eus l'honneur de le connoître à Vienne" (III, 1017). Va però corretta l'affermazione della Berselli essere stato il di Breglio a dar da leggere l'Esprit des Lois al duca (p. 10). In realtà fu il padre, Carlo Emanuele III (chi lo avrebbe detto)[67], che mise il libro nelle [99] mani del giovane principe ("des qu'il parut à Turin, le roi de Sardaigne le lut; il ne m'est pas non plus permis de répeter ce qu'il en dit; je vous dirai seulement le fait: c'est qu'il le donna pour le lire à son fils, le prince de Savoie, qui l'a lu deux fois"; III, 1248). Ciò accadeva nei primissimi mesi del 1749, allorché il di Breglio era a Nizza e non aveva, per parte sua, che frettolosissimamente scorso il libro prima della partenza (III, 1180). Lo lesse e lo fece studiare al duca, questo è vero, al suo ritorno; e ne ricevette la promessa "qu'il le relira encore bien de fois en sa vie": "son approbation doit faire plaisir - commentava - pouvant vous assurer sans prevention & en toute verité qu'il a de grandes connoissances, beaucoup de sagacité, d'entendement & une justesse infinie pour juger" (III, 1242, 1289). Molto probabilmente al di Breglio, non al marchese Vicardel de Fleury (come ha creduto lo Shackleton) alludeva il Guasco nella dedica (stesa nel 1754; III, 1522) al giovane duca della sua traduzione manoscritta dell'Esprit des Lois: "La saggia instituzione ricevuta da quell'alto ingegno a cui la tenera età dell'Altezza Vostra Reale fu confidata [...]"[68]. I [100] frutti di un'educazione così illuminata e di tante incantevoli virtù furono quelli che furono. La promessa di fare dell'opera montesquiana la lettura di tutta la vita era soltanto una frase. Divenuto re, al suo suddito Dalmazzo Vasco fu inasprita la reclusione (l'aveva già notato lo Sclopis) proprio perché andava traducendo e troppo assiduamente meditando quel libro. Ma l'italiano che più di tutti restò vicino al Montesquieu fu incontestabilmente il Guasco. Duole dirlo: forse un avventuriero. Stanno a provarlo le trentasei lettere a lui indirizzate che si leggono nella Correspondence, e più che il numero, il tono di quelle lettere. Pietro Verri attribuiva al Montesquieu un po' della animosità e del disprezzo ch'egli nutriva per il Guasco (un "Guasco, - diceva - di Mondovì") scrivendo al fratello Alessandro: "è il più noioso, insensibile, imperterrito uomo che io conosco e dalle lettere istesse di Montesquieu si conosce che ne aveva pressa poco anch'egli l'opinione che ne abbiamo noi"[69]. In realtà il Guasco non era soltanto il "complaisant" e il fido servizievole adibito al disbrigo di delicati uffici (come quello di accompagnare in viaggio Madame Montesquieu; III, 1068): il Montesquieu lo metteva altresì a parte dei suoi più gelosi progetti intellettuali e ne cercava il consiglio: "[...] je vous consulterai surtout - gli scriveva il 1° settembre 1744 - sur mon grand ouvrage, qui avance à pas de géant [...]" (III, 1048). Fu il Guasco, si ricordi, che costrinse il Montesquieu, "l'épée dans les reins", a comporre, nel 1749 la Défense (III, 1275-1276, 1441). Mancavano davvero a lui profondi interessi politici e filosofici? Certo: fu forse una spia o se non lo fu, per liberare la propria persona da quella calunnia, ricorse - più avanti lo dimostrerò - alla fabbricazione di false lettere montesquiane. Eppure, tra i suoi ammiratori c'erano persone di merito: non solo Montesquieu, non solo Barbot, ma anche Helvétius, che si [101] rivolgeva a lui chiamandolo "le premier des philosophes". Lord Chesterfield si apriva con lui a proposito dell'Esprit des Lois per deplorare la reticenza dell'autore, dettata, a parer suo, da eccessiva prudenza politica: "retenu par la crainte du ministère n'a pas eu le courage de tout dire". E tra una dissertazione e l'altra per questa o quella accademia andava progettando opere più forti: vivente ancora il Montesquieu, una Galerie de portraits politiques de ce siècle (un'opera compromettente, destinata ai secoli a venire, perché "l'entrée de ce sanctuaire est dangereuse aux profanes"; III, 1527); più tardi, nel 1764, un'inchiesta diretta su le "devastations du despotisme" (del despotismo asiatico, beninteso): un progetto - è appena il caso di sottolinearlo - di pura marca montesquiana. Anche le dissertazioni vanno, del resto, riesaminate. Egli per primo si doleva, a proposito di De l'usage des statues chez les Anciens, che "la parte antiquaria che direbbesi a prima gionta il principale oggetto dell'opera" non avesse "messo in vista la parte filosofica". In realtà, era un tentativo di trattare la storia dell'arte "più in iscorcio di che abbia fatto contemporaneamente il Signor Winckelmann". Riapriamo dunque con tale chiave questo libro dimenticato. È una intera struttura mentale, una mentalità abolita che l'autore vuol ritrovare e far rivivere: "les statues appartiennent plus à la Philosophie qu'on ne le penseroit". Guai a trasportare "dans les siècles reculés les idées du siècle où l'on vit". Per noi le statue non sono che oggetti di lusso civile e religioso; non erano la stessa cosa tra i pagani: "Chez les payens l'histoire des statues est presque l'histoire de l'idolâtrie, une statue d'un Dieu étoit un Dieu...". Si trattava dunque di ritrovare i molteplici legami di quel culto con le altre manifestazioni della vita sociale: la religione, la morale, le massime di governo, il sentimento della natura... Cammin facendo trovava modo di caldeggiare la creazione di un "tiers état libre" in Russia perché si formassero "artisti" nazionali. Inutile, diceva, attirare artigiani stranieri: "leurs [102] leçons seront steriles, parce que l'émulation et l'ambition sont peu compatibles avec l'esprit d'esclavage". Gli stessi accenti di novità nelle dissertazioni: soprattutto quelle su lo "stato delle scienze in Francia" sotto i regni di Carlo VI, Carlo VII, Luigi XI. Anche qui il punto di vista è risolutamente "filosofico": "on ne fait pas une histoire littéraire, mais un tableau". La storiografia come studio d'epoca, dei mutamenti da epoca a epoca, di un processo dai tempi diversi, dai ritmi lenti: "parce que le gout ne change pas toujours, ou pas en tout, d'un Regne à l'autre"[70]. Quale che fosse il risultato di questi tentativi, non si può negare che la vicinanza del Montesquieu avesse fruttato al Guasco una nuova visione della storia, o quanto meno il presagio di una storia diversa. Un'altra delle dissertazioni del Guasco merita attenzione. Il Montesquieu per primo ne aveva rilevato l'affìnità con le proprie ricerche storico-politiche: "je suis bien aise de vous voir, vous, chasser sur mes terres" (III, 1076). Si tratta della dissertazione "couronnée" dall'Académie des Inscriptions nel 1747 su l'autonomia delle città greche e latine. Il Presidente, lodatala, obiettò su due punti: ma l'autore, se non erro, stampando il suo scritto e ristampandolo tre anni dopo nella versione italiana di Filippo Venuti[71] tenne conto soltanto della seconda remarque (distinzione tra eleutheria e autonomia), senza badare alla prima (la posizione di Cartagine dopo la seconda guerra punica)[72]. "Nulla prova tanto l'amor degli uomini per la libertà - tale è l'esordio - [103], quanto la cura che hanno preso di conservare infin le reliquie. Avvezzi ad assaporarne il dolce, ed abbagliati dal titolo glorioso di liberi, hanno creduto possederla, quando per loro la libertà non era che una pura illusione"[73]. Sono soprattutto le osservazioni su la politica romana nei confronti delle città sottomesse che vanno prese in considerazione. È il gran tema del governo dei romani nelle province: lo stesso che aveva offerto, una decina d'anni avanti, materia di riflessione politica al Maffei[74]. Proprio nella massima di governo adottata da Roma verso i popoli vinti il Maffei aveva individuato il segreto della sua straordinaria potenza. Il Guasco trovava, al contrario, poco da ammirare. Per lui, quanto più comune era sotto i romani la concessione dell'autonomia - ossia del privilegio di governarsi con le proprie leggi, di conservare l'antico governo, di avere magistrati propri per il maneggio degli affari interni - altrettanto era limitata. Tale concessione era fatta sin dall'inizio per mero calcolo politico: "avendo essi per unica mira la Monarchia universale, incominciavano coll'affezionarsi i Popoli colla lusinghevole idea della libertà, dichiarandosi di quella Protettori in tutto l'universo [...]"[75]. Era solo una ruse politica: "Voleano essi dare ad intendere, che non prendevano se non per rendere, e che non vincevano se non per proteggere. Onde i protetti si abbandonavano ad una folle gioia, senza pensare che il protetto dipende tuttora dall'autorità del Protettore. E non molto tardarono a provarlo, allorché i Romani divennero padroni assoluti. Allora tutto dipendette dal Senato, e da' suoi Commissarj [...]"[76]. La perdita della libertà interna rese la politica romana anche più dura: "Ma quest'ombra istessa di libertà andò a poco a poco dileguandosi sotto gl'Imperatori. Roma fatta schiava de' capricci di un solo, parve [104] gelosa che vi fossero nazioni che vantassero indipendenza; i Cesari dunque loro la tolsero e la rendettero, l'accrebbero, e la minuirono a loro talento"[77]. Il destino di Roma era segnato da quella politica: "Il privilegio della cittadinanza Romana, accordato a tutto l'Impero avea tutto messo in eguaglianza. [...] Le legioni continuarono a riempirsi di soldati Barbari. [...] Insensibilmente da scosse sì vigorose furono i fondamenti dell'Impero Romano indeboliti, e quella Roma, che avea fatte tutte le nazioni lo scherzo di sua ambizione, divenne ella stessa lo scherzo dell'universo"[78]. La frequentazione del Montesquieu aveva non solo liberato l'abate piemontese da vecchi pregiudizi (come la condanna dell'usura; III, 1076), ma l'aveva attratto per un momento in una sfera di più ampi interessi ideali: il ricercatore d'antichità aveva guadagnato da quel contatto una maniera insolitamente larga nello studio del passato. Da lui aveva imparato a "leggere" nella storia di Roma: il "connoisseur" era divenuto "philosophe". A quel pulviscolo di fatti che acceca l'osservatore comune aveva trovato un senso: "celui qui aura devant lui le flambeau de la Philosophie, verra dans tous ces faits un résultat de maximes suivies, la liberté politique main tenue par les divisions mêmes". E d'interessi politici egli non fu in effetti privo. Dall'Inghilterra, visitata alla metà del 1750, non riporta soltanto amicizie, ma libri, curiosità nuove. A Londra fa addirittura un corso per apprendere le tecniche inoculatorie e cerca di propagandarle in Francia, ma senza successo: "Je crois - pronosticava Montesquieu - que son apostolat ne fera pas fortune à Paris" (III, 1352). Vi si era provveduto anche di libri di economia; e per esercitarsi nella lingua inglese andava traducendo Josiah Child, questo Keynes avant la lettre, "che procurò al commercio nazionale una rivoluzione - diceva - sì vantaggiosa". Nel corso dei suoi viaggi studia la situazione economica dei paesi: a Trieste, a Napoli, a [105] Livorno. In quest'ultima città "fu unica sua occupazione il conversare coi negozianti affine di avere un'idea giusta di quell'emporio di commercio d'Italia più attivo per i negozianti forestieri che per i toscani troppo solleciti di trasformarsi in nobili oziosi". Tornato in Firenze qualche anno dopo, nel 1767, sarà lui a rianimare e soprattutto a riorganizzare i Georgofili, trasformando quella languente accademia d'agricoltura in una società economico-scientifica; e ad ottenerle i necessari sussidi da Pietro Leopoldo. I toscani, benché punti sul vivo, dovettero riconoscere i suoi meriti: "molto è concorso a far danno a questo letterato l'aver egli progettate - annotava il Pelli - le leggi della nostra Accademia dei Georgofili, e l'aver voluto mostrare in essa, benché con di lei vantaggio, una superiorità speciale, e marcata". E si rifacevano su la sua persona sgraziata ("Quando io lo conobbi - è sempre il Pelli che parla - era una vera caricatura callottiana attaccata a Rosemberg"), su la sua incredibile "filautia" e il resto[79]. Sono pochi esempi; ma sufficienti a mostrare che il Guasco ebbe qualche parte, piccola quanto si vuole, nel movimento per le riforme. Varrebbe forse la pena di studiarlo meglio. Era noto che il Guasco aveva eseguito "sous les yeux" di Montesquieu una versione italiana dell'Esprit des Lois; ma soltanto recentemente il testo di questa traduzione è stato ritrovato dallo Shackleton tra i manoscritti della Biblioteca Comunale di Verona segnato Ms. 216 (382). Dei due volumi, il primo contiene una versione quasi completa dell'opera (manca interamente il l. XXIII e la maggior parte del l. XXIV); il secondo, che offre un testo più rifinito, contiene soltanto i libri I-XXIV e i due primi capitoli del l. XXV[80]. Da quel grande conoscitore di cose montesquiviane che è, lo Shackleton ha esaminato [106] con cura estrema il manoscritto in questione: non soltanto la versione ma anche la filigrana della carta. I risultati sono eccellenti: la carta usata per la prima stesura è la stessa che usò il Montesquieu per la seconda revisione dell'Esprit des Lois. Ma quando il Guasco iniziò la sua versione e su quale testo la eseguì? Lo Shackleton ha accertato che essa fu condotta su l'edizione 1748, con una sola eccezione: il capitolo secondo del libro I, per il quale il traduttore risulta essersi servito del cosiddetto manoscritto di Parigi che è il testo dell'opera come si presentava alla fìne del 1746. Difficile spiegare questo particolare, e continuare a credere con lui che il Guasco avesse iniziato la sua traduzione durante il soggiorno che fece a La Brède dall'aprile 1748 all'aprile successivo, e che l'avesse interrotta a causa delle difficoltà di lettura del manoscritto, data la sua grave infermità visiva (il Montesquieu parlava di un "demi-oeil", III, 1247). Tanto più che non è l'unica difficoltà: v'è, inequivocabile, l'accenno della lettera del Montesquieu al Guasco del 17 luglio 1747: "[...] la traduction italienne que vous avez entreprise [...]" (III, 1094)? La soluzione della difficoltà è offerta dalla lettera indirizzata dal Montesquieu al Cerati il 19 aprile 1746, della quale parlerò fra poco: il Guasco era a La Brède nell'aprile di quell'anno ("Je suis actuellement dans ma terre de Labrede [...] avec deux hommes de votre connoissance l'abbé Venuty & l'abbé Guasco [...]"). Fu allora che il Montesquieu fece "incoronare" l'amico (III, 1075, 1076). Questo soggiorno durava dal 1744: il Montesquieu rimase a Bordeaux fino all'agosto, ma il Guasco aveva lasciato certamente prima di questa data la compagnia (III, 1068). Mi pare lecito supporre che proprio alla fine di questa dimora di due anni a La Brède il piemontese avesse messo mano alla traduzione dell'opera montesquiana, e sul manoscritto allora in pronto; ma, partendosene di lì a poco, non andò oltre i primi due capitoli del libro primo. Proprio per la difficoltà di far consultare al vagabondo abate il manoscritto, lo stesso Montesquieu consigliò di ritardare sino all'uscita dell'opera la prosecuzione dell'intrapresa traduzione. Vi tornò a lavorare - per l'appunto sotto [107] gli occhi del Presidente - subito che uscì l'edizione ginevrina. Di più difficile, e forse impossibile soluzione con la documentazione che possediamo, è l'altra questione discussa dallo Shackleton: "Jusqu'à quel point peut-on dire Guasco ait eu une influence sur Montesquieu et sur l'Esprit des Lois?"[81]. L'influenza dell'abate italiano si esercitò durante la composizione dell'opera in privatissime conversazioni. Ma influenza può esserci stata, sebbene più modesta, anche a pubblicazione avvenuta. Shackleton indica solo un caso in cui l'influenza del Guasco è, a parer suo, "quasi certaine": solo nell'edizione 1757 dell'Esprit des Lois si trova menzionata l'opera dell'Anson[82], mentre il Guasco la cita in nota alla sua versione qualche tempo prima. È stato dunque il Guasco ad attrarre l'attenzione del Montesquieu su l'opera dell'inglese? Ne dubito. Il piemontese leggeva il Voyage autour du monde alla metà di ottobre 1749; ma il Montesquieu l'aveva letta tre mesi prima, e l'aveva raccomandata caldamente agli amici: ("Je lis actuellement - scriveva il 22 luglio - l'admirable ouvrage de Milord Anson [...] Je le lis & je le relirai; c'est un livre plein de lumières à ce qu'il m'a paru"; e in altra lettera, scritta lo stesso giorno: "Il nous est venu d'Angleterre un bon livre: c'est le voyage de l'expédition de l'amiral Anson [...] C'est un composé de choses très-utiles & très-sensées, & il n'y a guère de livres plus propres à nous donner une idée juste de l'état actuel de l'Europe, par rapport au commerce & à la navigation" (III, 1245, 1246). Il Guasco era in quei giorni a Parigi; il Montesquieu giunse nella capitale verso il 17 luglio (III, 1243, 1247). È più probabile che fosse stato il Montesquieu a segnalare l'opera al Guasco, e non il contrario. Purtroppo, nella versione Guasco non s'è trovata traccia [108] di quel capitolo su lo Stathoudérat che il Montesquieu fu costretto a sopprimere nell'edizione francese e che aveva promesso al Guasco per la traduzione italiana[83]. Offre invece indicazioni preziose l'affaticamento del traduttore nella resa del titolo dell'opera: in un primo tempo traduce Della mente delle leggi, ma poi corregge: Della ragion delle leggi. Inizialmente sottolineava dunque - conclude con esattezza lo Shackleton - l'ispirazione intellettuale e razionale delle leggi; successivamente richiamava l'attenzione su la nozione di causalità: interpretazione giustificata dal cap. 13 del l.VI in cui origine des lois e Esprit des Lois sono sinonimi. Sono indicazioni da tener di conto, perché le scelte del traduttore certamente riflettono in casi di tale importanza suggerimenti dello stesso Montesquieu. La Berselli ha tuttavia buoni motivi per mettere innanzi a tutti gli amici italiani del Montesquieu. Niccolini, Cerati e Venuti. Poco importa che i rapporti personali fossero radi come è il caso del Niccolini - trattandosi di un'amicizia intellettuale. Quel che conta, dal nostro punto di vista, è che l'incontro con il Montesquieu avvantaggiò cospicuamente la loro evoluzione spirituale; la fecondità insomma di quest'incontro. Anzi: mentre in personalità posteriori l'influenza del Montesquieu si fece sentire in combinazione con quella di altri pensatori dell'illuminismo, in essi - soprattutto nei primi due - fu l'influenza decisiva, quella che impresse un nuovo corso ai loro pensieri; e rimase preponderante, se non l'unica. Cominciamo dal Niccolini. Occorre in primo luogo rettificare alcuni particolari della sua biografia che la Berselli ha stravolto. Non è vero che il Niccolini "aveva viaggiato mezza Europa quando conobbe il Montesquieu" (p. 21). Lo aveva conosciuto a Firenze, nel 1728, dove era la "étoile polaire" del circolo di virtuosi, attorno alla Marchesa Feroni (II, 1982): a quest'epoca il Niccolini s'era mosso solo tra [109] Firenze e Roma[84]. Neppure è vero che egli intraprese il suo tour de l'Europe nel 1748, in seguito all'intimazione di allontanarsi da Firenze fattagli dall'imperatore e granduca Francesco I: l'abate toscano prese in realtà la strada della Germania verso la metà del 1745, con lo scopo di "sempre più adornarsi di nobili, e utili cognizioni"[85], ma anche con il preciso incarico, affidatogli da Benedetto XIV, di visitare le Missioni cattoliche nei paesi del Nord. L'ordine ci fu, ma non di uscire bensì di non accostarsi ai felicissimi stati toscani; e lo colpì alla fine del viaggio, allorché stava per rientrare in patria. La causa? I "discorsi poco misurati - dice il rescritto del 23 ottobre 1748 - tenuti in Inghilterra, Olanda, ed altri paesi contro il governo dell'Augusto Padrone, come anche di un [110] altro governo". Questi particolari non li ho scoperti io: li aveva già ordinatamente narrati, quasi un secolo fa, il Carducci[86]. Secondo la Berselli, il Niccolini cacciato da Firenze "andò a La Brède presso Montesquieu". Si ritirò invece nella sua cara Foligno. Non mi risulta che il Niccolini sia mai stato in Francia, e quindi presso il Montesquieu; con grande delusione di quest'ultimo, possiamo crederlo, che al momento della partenza gli aveva fatto ricordare dal Cerati "qu'il nous doit un voyage en France" (III, 1061) e che rinnovava l'invito l'anno seguente per lo stesso canale. Nei tre anni ch'egli trascorse all'estero, 21 mesi li consumò in Inghilterra[87] (soggiorno lungo, quanto quello del Cerati, come si vedrà, era stato breve); gli altri li passò in Olanda e in Prussia. Nel 1750 il divieto fu tolto e il Niccolini poté rientrare in Toscana: da Firenze sono infatti datate tutte le lettere al Neri Corsini pubblicate dalla Berselli. Quivi "si fece protettore delle lettere e dei letterati"[88]. Ma di tempo in tempo ritornò nell'odiata Roma. A Roma lo vide nel marzo 1753 il giovane genovese Pietro Paolo Celesia, che ne disegnò questo vivo ritratto per uso dell'amico A.M. Bandini: "L'abate Niccolini litiga ciarla e s'imbarazza in' tutto ciò che giornalmente si presenta. Lui matrimonj, lui impegni di cavalleria, lui progetti di nuove missioni, lui affari politici economici cose umane e divine tutto si arroga e tutto riduce a uno stesso capo di materia"[89]. Il mese successivo era a Napoli, dove, in casa di un olandese, conobbe il [111] Genovesi[90]. Il succo dei suoi discorsi napoletani era amaro: "L'abate Niccolini, rispettabile per la sua gran mente e gran cuore, anche quando la fantasia li trasporta, diceva di non essere troppo soddisfatto del presente stato d'Europa". Il Genovesi reagiva, a modo suo, al pessimismo niccoliniano: "Io non entro in piato per lo tutto; ma mi pare d'aver delle ragioni, se l'amor della patria non m'inganna, d'oppugnarnele. Avvalora le mie speranze il gran numero d'eccellenti giovani che s'avanzano nelle vere, solide ed utili cognizioni. lo gli conosco, e posso dire [...] ch'io vi influisco in buona parte"[91]. Il Niccolini recriminava dunque su la situazione spirituale, oltreché politica, del proprio tempo. Dove la "fantasia" lo trasportasse, e quanta parte avesse nel suo scontento la lettura dei Montesquieu, ce lo dice il Tanucci: "Quel magnanimo nostro Catone andato pel Mondo, forse non ha trovato molti, che portino quella natural inclinazione dell'anima umana [alla virtù] fino alla corte. Forse è invaso dallo Spirito delle Leggi del Montesquieu, che toglie la virtù, e l'onore dai Governi dispotici, ond'è l'Italia per la maggior parte agitata, e la Germania, e la Francia, e la Spagna, e la Turchia, e l'Africa, e l'Asia, e perciò valuta più del dovere quel pregio repubblicano"[92]. [112] Rimeditando le proprie esperienze di viaggiatore (bisognerebbe ritrovare le sue "relazioni"[93]) alla luce dei principi montesquiani - un Montesquieu letto evidentemente in chiave "repubblicana" -, il Niccolini par dunque che accentuasse il suo atteggiamento critico nei confronti dei regimi monarchici d'Europa o, a dirittura, delle forme monarchiche. Certo è che, nelle lettere al cardinale Corsini, messa da parte con fastidio la discussione sul clima (un pretesto accademico), l'impetuoso abate toscano rilevava con la massima energia il nucleo di problemi squisitamente politici dell'opera montesquiana: la critica delle forme despotiche principalmente nella quale tutti quei problemi si rannodavano e trovavano il loro fuoco. Ammirava l'autore perché benefico all'umanità "con i gran principi di Governo, che egli insegna più ampiamente, e più profondamente, [113] e più onestamente di qualunque altro scrittore" (p. 219); e aveva cara l'opera poiché, in particolare, "nemica implacabile del despotismo, di cui non vi è fiera la più crudele e la più contraria ad ogni spirito di religione" (Ibid.). Commemorando la morte del Montesquieu - "l'onore dell'intelletto umano" - usciva in queste parole bellissime: "Noi abbiamo fiducia che Dio gli abbia fatto misericordia per la bontà del suo cuore verso il genere umano, per il suo amore della giustizia e della felicità pubblica, e per la guerra dichiarata al Despotismo e alla Tirannide, in forma tale che non è inverosimile che col tempo mediante le sue fatiche passate, restino questi mostri, se non domi, almeno non tanto trionfanti come al presente" (p. 220). Per tutto ciò usava indulgenza verso il "deismo" montesquiano, e non trovava "esagerativa" la lode di un ammiratore. "che cento Newton non farebbero un Montesquieu" (Ibid.), Da frasi come queste, si vede bene per che cosa battesse il cuore del Niccolini, e con che spirito egli vivesse l'esperienza cristiana: "[...] ho concluso che l'Autore non fa altro che svelare i veri tiranni, quali anche independentemente operano, come posso dire di avergli veduti operare prima del libro con tutti gli stessi principj nel dispotismo, che l'Autore tanto detesta, benché coerenti alla massima stabilità del despotisrno, che ove si creda da chi comanda, la Religione cristiana mai potrà aver luogo" (p. 217). Dove almeno una cosa è chiara: che il Niccolini non solo faceva propria, ma radicalizzava con la risolutezza che gli era tipica la tesi montesquiana del cristianesimo conveniente a forme politiche temperate ("La Religion chretienne est éloignée du pur despotisme [...]"; Esprit des Lois, XXIV, 3). La poca convenienza è divenuta senz'altro, per il toscano, incompatibilità. L'ammirazione niccoliniana per l'Esprit des Lois e per le Considérations (su la cui traccia voleva comporre nei suoi ultimi anni un'opera intorno al governo elettivo di Roma, ossia sul papato - "per mostrarne l'indole in [114] se stessa, e la maniera di conservarlo"[94] non si estendeva invece, va notato, alle Lettres Persanes, "opera di puro ingegno", "effetto di gioventù" - della "vivacissima gioventù dell'autore" - ("se pur son sue, che io non credo"): non ritrovava in esse l'ispirazione filantropica, la destinazione umanitaria, l'alto contenuto morale insomma dell'Esprit des Lois (pp. 215; 220-221). Si pensa per contrasto al Beccaria, che proprio alle Persanes si dichiarava debitore della sua conversione alla filosofia. Ma nel Niccolini scarseggiava la virtù della speranza. Il Genovesi aveva indirettamente indicato il limite di questo intelligente appassionato e spregiudicato scrutatore dell'età sua - quel suo far appunto da "semplice spettatore" (come più volte ebbe a dire di sé) quel suo tenersi occulto, chiudendosi nel rifiuto di un presente inaccettabile -, con il contrapporgli la propria fiducia nelle possibilità dell'azione educativa, il proprio fervore di proselitismo. Più ardenti generazioni battevano alle porte; e il Genovesi lo sentiva. Personalità risentita, dai modi generosi e franchi, dalla simpatica outrance intellettuale non sorprende che il Nicolini avesse fatto sul Montesquieu un'impressione incancellabile: "Vous étes un de ces hommes, que l'on n'oublie point - gli scriveva il 6 marzo 1740 -, & qui frappez une cervelle de votre souvenir. Mon coeur, mon esprit sont tout à vous, mon cher abbé" (III, 1000). Tuttavia i loro rapporti epistolari non furono intensi: tutt'altro. Di lettere del Montesquieu al Niccolini se ne conoscono solo tre; e la terza è un breve biglietto di presentazione di La Condamine (biglietto che la Berselli pubblica - p. 22, n. 79 - come inedito, ma che si leggeva già tra le Lettres familières e in tutte le edizioni recenti dell'epistolario montesquiano). Non [115] si deve pensare a dispersione o, come nel caso del Cerati, a volontaria distruzione. Il Niccolini stesso, nelle lettere al Neri-Corsini pubblicate dalla Berselli, riconobbe di non essere in commercio "coll'Autore amabilissimo, che ogni dieci anni una volta" (p. 215). Valga tuttavia, a prova dell'affetto che sempre gli portò il Montesquieu, la testimonianza di J.B. Montesquieu: aver egli "cent fois" sentito suo padre parlare del Niccolini e del Cerati "dans les termes plus affectueux qui peignoient le mieux la sympathie qui étoit entre leurs mes & la sienne" (III, 1553). Anche l'amico Cerati aveva letto l'opera con lo stesso animus, con gli stessi interessi: "Je vous félicite - scriveva il 25 agosto 1749 all'autore - de tout mon coeur d'avoir employé la superiorité de votre génie, la quintessence de votre grand sçavoir & les rayons de votre éloquence laconique à tourner les esprits européens vers un très grand nombre de vérités utiles au genre humain, que le gouvernement militaire & despotique avoit pres que partout fait disparaitre. Ce fera toujours le plus beau projet du monde d'avoir tenté avec une noble hardiesse de sauver les débris de notre espèce des ravages de la puissance arbitraire" (III, 1252). Per il Cerati ogni linea dell'opera era "un flambeau pour l'esprit d'un lecteur instruit & attentif" (III, 1183); solo si rammaricava che il Montesquieu per prudenza non avesse detto tutto, e voleva fare un viaggio a Parigi "uniquement pour recueillir avec une oreille docile & avide tout ce que la prudence a retranché de votre grand ouvrage" (III, 1252). La Berselli fulmina la Palozzi e il Codignola per aver errato nel datare l'incontro Cerati- Montesquieu (avvenuto a casa del Polignac, a Roma, nel 1729; ma il Guasco non l'aveva già detto?); erra però a sua volta datando il gran viaggio europeo del Cerati al 1733. In realtà, nel 1733 il Cerati era in Italia e riceveva il 17 novembre di quell'anno dal granduca la nomina a provveditor generale dello Studio pisano[95]. Uno dei motivi del viaggio, si ricordi, [116] fu quello di prender conoscenza degli istituti universitari stranieri per migliorare l'organizzazione dello Studio cui doveva provvedere. Il viaggio ebbe inizio nel 1742, ma fu progettato nei primi mesi del 1740 (III, 1000). La partenza doveva essergli stata annunziata dal Niccolini molto vicina, se il Montesquieu temeva, soggiornando a Bordeaux ancora tre o quattro mesi, di perder l'occasione di riveder l'amico comune al suo passaggio dalla capitale (III, 1001). Lo rivide invece, ed ebbe agio di frequentarlo alcuni mesi, a Parigi, nel luglio 1742: "Nous parlons souvent de vous - scriveva a Martin Ffolkes il 10 novembre 1742 - Msgr. Cerati & moi. Il y a quatre mois qu'il est en France, & il compte bien vous aller voir en Angleterre" (III, 1025). Il Ffolkes, presidente della Royal Society, aveva conosciuto il Cerati nel suo viaggio in Italia, nel 1734 (III, 1026); forse per suo interessamento questi era stato ascritto alla Royal Society due anni dopo. Per rivedere quest'uomo perfettissimo (II, 644) il Cerati "traghettò" in effetti in Inghilterra: "M. Cerati part pour l'Angleterre, c'est-à-dire presque uniquement pour vous aller voir. Il restera si peu de temps qu'il n'acquerra guère autre chose que l'envie de retourner [...]" (III, 1036). A Londra il Cerati dovette fermarsi effettivamente pochissimo; poiché dall'Inghilterra passato in Olanda (dove dimorò alcun tempo in Amsterdam, in Utrecht e all'Aja, quivi infermandosi gravemente), e dall'Olanda in Belgio, alla fine del 1743 era nuovamente a Parigi (III, 1041, 1044). Va perciò corretto il Pezzana, dove dice che il Cerati dal Belgio direttamente "rivolse il viaggio a Berlino"[96]. Tornò a Pisa nel novembre del 1744[97]. Ritornava con estesissime amicizie letterarie e ricco di un'importante esperienza culturale: "Oltre il suo proprio tesoro - diceva bene il futuro papa Clemente XIV -, ella è ritornata alla patria carica di ricchezze, che si trovano in Alemagna, [117] in Olanda, e particolarmente a Parigi"[98]. Sono noti i suoi rapporti con Réaumur, con Jussieu, con Fontenelle ("Je fis dernièrement vos complimens à M.e Fontenelle - gli scriveva il Réaumur il 1° marzo 1746 - il fut si enchanté, qu'il me sauta au col avec la legérété d'un homme de trente ans, & me pria de vous dire tout ce qui se pouvoit de plus obligeant [...]"), con il giovane D'Alembert proprio allora impostosi all'attenzione del pubblico scientifico con il suo Traité de Dynamique[99]. Nella Correspondence del Montesquieu si leggevano otto lettere a lui indirizzate: quelle poche che il Cerati aveva creduto bene di mostrare al Guasco. Altre, più compromettenti, pare che negli ultimi anni egli avesse distrutto. Sfuggì evidentemente alla distruzione la lettera pubblicata quasi per intero da Antonio Cerati (il Pezzana si limitò a pubblicare i brani soppressi, contrariamente a quanto afferma la Berselli; p. 22, n. 79); lettera che questi datò 19 aprile 1747[100]. La Berselli gli fa fiducia, e lascia intatta la datazione. Pubblica bensì il facsimile della lettera (conservata presso la Biblioteca Palatina di Parma) con la didascalia: "Montesquieu annuncia a Gaspare Cerati l'imminente pubblicazione dell'Esprit des Lois". Ma la data della lettera non è il 1747, come ha dimostrato lo Shackleton ripubblicandola[101]. Accenni molto precisi permettono di datarla con molta sicurezza al 19 aprile 1746: oltre all'accenno al Guasco, quello al viaggio da non molto tempo cominciato del Niccolini: "On m'a dit que l'abbé Niccolini s'étoit ébranlé et qu'il parcouroit les vastes Royaumes de l'Europe"; viaggio intrapreso, sappiamo, verso la metà del 1745. L'accenno all'Esprit des Lois è infine molto chiaro ("j'ay extrémement avancé ce que vous sçavez et je crois que dans six mois de tems je n'auray plus rien à y faire"): [118] vi si annuncia l'imminente compimento, non la vicina pubblicazione, dell'opera. Analoga dichiarazione faceva al Guasco nel settembre: "[...] mon ouvrage avance [...]" (III, 1069); e sempre al Guasco alla fine dell'anno annunziava di aver terminato ventisei libri su i trenta che, secondo il piano, dovevano comporre l'opera (III, 1072, 1074, 1075). L'annuncio dell'imminente pubblicazione la diede per primo al Cerati l'anno dopo, il 31 marzo 1747 (ma ancora in maggio lo stava facendo copiare); e riaccarezzò (si direbbe per pura cortesia) l'idea di una gita a Pisa "pour corriger mon ouvrage; car qui pourroit le mieux faire que vous? & oú pourrois-je trouver des jugemens plus sains?" (III, 1082). La Berselli si studia di distinguere il Cerati dai suoi amici giansenisti: da essi, pur condividendone certe speranze e l'odio antigesuitico, sarebbe rimasto separato per il suo intransigente attaccamento all'ortodossia. Non ho elementi per decidere. Ma un buon testimone, il Montesquieu, ci apprende che, attorno al tempo del suo viaggio europeo, s'era compiuta nel Cerati un'evoluzione mentale che l'aveva portato assai lontano dalle dispute teologiche: "Il a quitté la théologie pour la philosophie naturelle. Un homme que la première science n'a point gâté est par la nature de son esprit très-propre à l'autre" (III, 1033). Chi ricostruirà la sua figura dovrà pur tener conto di tale spostamento d'interessi. Nella sua conversione alla filosofia "reale", come diceva il Genovesi, il Cerati non si fermò del resto qui. Nei suoi ultimi anni intraprese di buona volontà lo studio dell'economia: "Quantunque la mia situazione non mi dia per se stessa verun impulso di volger la mente alle teoriche del Commercio - scriveva al Genovesi il 12 marzo 1767 -, con tutto ciò l'inclinazione, che ho alla prosperità del Genere Umano, mi ha invogliato d'acquistare un picciolo assortimento di libri, che trattano di tal materia, e nelle ore libere ne ho fatto un pascolo assai gradito della mia mente"[102]. Le idee del [119] Montesquieu erano ancora in tale studio le sue ispiratrici. Letto il primo tomo delle Lezioni genovesiane, discutendone con l'autore, richiamava subito una tesi cara al Presidente ("la capitale divora il Regno")[103]. Pensando a se stesso, al suo debito intellettuale verso l'"incomparabile" amico scomparso, aveva dunque ragione di comporre, scrivendo al Galiani il 16 marzo 1755, questo toccante elogio: "Egli ha contribuito infinitamente a sollevare le menti europee a grandi e sublimi pensieri che sono utilissimi al genere umano. In Francia l'Esprit des Lois è in mano di tutti, e pare che abbia prodotto una specie di rivoluzione negli spiriti di quella Nazione". E accennava all'agitazione parlamentare: proprio al Galiani, che di quell'agitazione darà un giudizio negativo, incolpando soprattutto per essa il Montesquieu di rovinosa astrattezza[104]. Anche per il Venuti si sarebbe desiderato, da parte della Berselli, maggiore esattezza. Dal testo pare infatti che il Venuti fosse stato nominato preposto di Livorno e avesse fondato il "Magazzino Toscano" prima di ricevere nel 1738 la carica di vicario di Clairac (carica che perdette nel 1742 per dissidi con la corte di Roma e per intrighi dei gesuiti; dopodiché divenne, per interessamento del Montesquieu, bibliotecario dell'accademia di Bordeaux; III, 1018, 1020)[105]. Inoltre la Berselli prolunga il soggiorno francese del [120] cortonese al 1753. È invece provato che egli fece ritorno in Italia nell'autunno 1750. Ciò risulta inequivocabilmente dall'epistolario montesquiano ("Je suis bien fâché, mon cher Abbé, que vous partiez pour l'Italie [...]", 18 maggio 1750; "Je ne puis m'accoutumer [...] à penser que vous n'étes plus à Bordeaux [...]", 30 ottobre 1750; III, 1306, 1336) e dalla epistola dedicatoria al Puysieulx di Il Trionfo Letterario della Francia datata da Bordeaux il 25 settembre 1750: "Je serois bien insensible, si après un séjour de douze ans en France je ne ressentois une vive douleur en la quittant. Que d'agrémens n'y ai-je pas trouvé? Que de sujets de regrets ne me fournissent pas tant de personnes, qui m'ont honoré de leur estime?"[106]. Dopo il ritorno in patria, nonostante i favori ricevuti, "l'esprit de tous les esprits" si dimenticò quasi del suo protettore: "Je n'ai point de nouvelles, ni de lettres de l'abbé Venuti - si lamentava il Montesquieu con il Guasco il 9 novembre 1751 - depuis son départ de Bordeaux; il avoit quelque bonté pour moi avant que d'être prétre & prévôt" (III, 1406). Si fece vivo solo l'anno seguente; "J'ai reçu une belle lettre de l'abbé Venuti, qui, après m'avoir gardé un silence continuel pendant deux ans sans raison, l'a rompu aussi sans raison" (III, 1430). Dopo quest'accenno, nell'epistolario montesquiano, non si parla più di lui. La lettera infatti del 21 febbraio 1754 (già pubblicata come indirizzata al Guasco e che il Gébelin ha giudicato invece diretta al Venuti) va senz'altro rimessa tra quelle scritte al Guasco per due motivi: a) perché a Roma in quel momento c'era il Guasco e non il Venuti; b) perché il fatto che il Montesquieu si rivolga al suo corrispondente chiamandolo "mon cher Abbé" anziché "mon cher comte", come negli ultimi tempi soleva, non prova nulla. Il Montesquieu aveva infatti confessato qualche mese prima il proprio [121] imbarazzo nella scelta del titolo da usare rivolgendosi al vecchio amico: "Mon cher ami - gli scriveva il 28 settembre 1753 - vos titres se multiplient tellement que je ne puis plus les retenir"; e in lettera successiva, del 3 settembre 1754, torna al "mon cher abbé" (III, 1472, 1520). Non è poi certamente il Venuti l'"abbé de Clairac" nominato nella lettera 695. Sul Venuti il Montesquieu s'era fatto molte illusioni: "[...] il ne respire que l'étude. [...] Je crois que cet homme - aveva pronosticato scrivendo al Barbot il 9 luglio 1742 - pourra devenir un des plus célèbres de l'Europe" (III, 1019). All'abate cortonese affidò la traduzione del Temple de Gnide che apparve anonima in Londra (Parigi) senza data, ma forse nel 1749 o 1750 (III, 1248-1249; esemplare presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, segnato Y2 54.786, datato però nel catalogo al 1755). La Berselli cita la versione nella bibliografia, ma oltre a non datarla, dimentica di segnalare ch'essa era opera del Venuti. Certamente il soggiorno in Francia e i molti contatti con gli uomini di cultura francesi (ma questo lungo e interessante periodo della vita del Venuti è ancora avvolto nell'ombra, come ha dovuto riconoscere il suo più recente biografo, il Weinert)[107], ebbero un'efficacia benefica sul suo spirito. Un entusiasta della cultura francese è l'autore degli orribili versi (ma al Montesquieu pareva che fosse "de la belle poésie"; e addirittura: "Vous étes Petrarque [...]"; III, 1336) de Il Trionfo letterario della Francia, opera cominciata all'inizio del suo soggiorno francese, avanti il 1741[108], su la quale grava però il sospetto di adulazione interessata (per essa ricevette, tra l'altro, una gratifica dal re di Francia). L'operetta ha tuttavia il merito di essere un dettagliato catalogo dei letterati (e delle dame letterate) viventi in Francia verso la metà del secolo. Quanto profonda fosse stata la trasformazione mentale operata [122] nel Venuti dal dodicennio francese deve essere calcolato da ciò che egli fece in Italia dopo il suo ritorno. Si sa che organizzò sin dal 1751 a casa sua ogni domenica privati convegni per l'incremento delle scienze - le "conversazioni letterarie venutiane" - ma gli argomenti principali delle "notti labroniche" (come anche furon dette) erano di antiquaria (non sarà stata una mascheratura?). Venuti era dunque tornato a essere quello studioso di anticaglie ed etruscherie ch'era prima della partenza? A giudicare dalle opere da lui pubblicate in questi anni si dovrebbe rispondere di sì. Ma se si allarga lo sguardo all'intera sua attività livornese la risposta dev'essere diversa. Il suo nome è legato alla fondazione di una pubblicazione periodica, il Magazzino italiano, che, mutato nel 1754 il titolo in quello di Magazzino Toscano, uscì fino al 1756 (in realtà fino a tutto febbraio 1757, avendo i redattori adottato lo stile fiorentino), allorché per "alcune sinistre circostanze, fra le quali è l'interruzione del Commercio in molte parti d'Europa per la presente guerra", dovette sospendere le pubblicazioni[109]. È una pubblicazione assai interessante: tra gli articoli sul serpente a sonagli e su i modi infallibili di guarire i morsi dei cani arrabbiati trova posto più d'una energica presa di posizione in favore delle idee nuove. Per cominciare, in essa apparvero, nel corso del 1752 (ed è sfuggito alla Berselli) le Riflessioni del Sig. di Montesquieu [...] sopra le rivoluzioni che ha patito il Commercio, estratte dal Libro dello Spirito delle Leggi[110]. Fra gli articoli spicca una Dissertazione delle ragioni di fare e abrogare le leggi[111], ripubblicata nel "Journal Etranger" nel novembre dello stesso anno. Queste riflessioni - diceva bene il corrispondente delle "Memorie per servire [123] all'Istoria Letteraria" - "hanno il loro merito"[112]. L'autore restava anonimo e aveva senza dubbio le sue ragioni: era Federico II[113]. Un testo classico dell'assolutismo illuminato (se ne ricorderà ancora il Manzoni nelle Osservazioni sopra la tortura)[114]. Nello stesso volume, in nota alle Brevi e generali riflessioni di un inglese sopra il commercio[115] veniva discussa e respinta per la Toscana l'opinione del Montesquieu sul problema della nobiltà commerciante: "[...] in Toscana ove lo stato non è militare, e piccole sono le fortune, la mercatura è stata e sarà sempre il solo mezzo per ingrandir le famiglie". Nell'ultimo fascicolo, uscito nel febbraio 1757, appariva l'estratto del Ragionamento sul Commercio universale di Antonio Genovesi (che è l'introduzione al Cary). E qualche mese prima i redattori avevano riprodotto con evidente consenso la celebre critica apparsa sul "Journal Economique" del 1751 alla Dissertazione sul Commercio, da poco ristampata a Livorno, del Belloni, arieggiante nelle vedute economiche al Montesquieu; critica che è tutta una caldissima difesa della libertà del commercio[116]. Pieno di autentico spirito [124] cosmopolitico è - si è visto - il Ragionamento sul diritto della guerra giusta del Buondelmonti. Gli scritti importanti non sono però solo quelli politici: nel 1755 era stata pubblicata la Dissertazione di La Condamine su l'inoculazione. Sull'opportunità dell'innesto era tornato con più forza il chirurgo Giuseppe Cei, indirizzando il 30 agosto 1756 al Venuti una lettera impaziente: "V.S. III.ma che tanto s'interessa pel bene dell'uman genere avrà certamente sentito con rammarico la perdita di passa seicento livornesi, che il solo innesto avrebbe potuto salvare. Tanto più che aveva dato per tempo - e alludeva alla dissertazione de La Condamine - alla nostra Toscana, e particolarmente a Livorno, un modello su cui ciascuno anche non medico poteva ravvisarne i vantaggi"[117]. Pur con tanti esempi di combattività e di adesione sincera alle idee più avanzate nel campo economico, politico e scientifico (si vedano anche, nel vol. II, le discussioni su le ricerche intorno all'irritabilità animale dello Haller), il tono della rivista si serbava moderato. Il suo atteggiamento verso la tradizione era espresso con molta chiarezza da Gio. Panfilo Gentili: "[...] la semplice, e nuda autorità non si ammette, ma quella che è fondata su qualche ragionevole principio, sicché la fede dovutagli totalmente cieca non sia [...]"[118]. Comunque sia, l'aria che circola in queste pagine è fresca, è nuova: filantropismo, liberismo, lotta contro i pregiudizi e le superstizioni, esigenze di riforma; e nessuno di quei problemi di devozione che riempiono le pagine delle "Novelle Letterarie" fiorentine. C'è di che dichiarare i redattori del "Magazzino Toscano" buoni, anche se moderati, seguaci delle lumières. Possiamo indicare i loro nomi: Venuti, Adami, Bertolini, Buondelmonti, De Soria, Cocchi etc.; gli stessi, tranne qualcuno, che tra il 1749 e il 1753 avevano stampato a Firenze presso il Bonducci tre volumi di Dissertazioni e Lettere, tra le quali Agostino [125] Lomellini, assai legato al gruppo, aveva incluso la sua versione del Discours Préliminaire del D'Alembert. L'accenno ha le sue ragioni: il Venuti divenne, per usare le parole della Berselli, "collaboratore, anzi magna pars, delle edizioni commentate di Lucca e di Livorno dell'Enciclopedia" (p. 11). Bisogna però aggiungere che, se il Venuti aderì alla società degli enciclopedisti lucchesi, si ritirò da essa quando era in preparazione il IV vol., nel 1759; e che non ebbe parte alcuna nella edizione livornese del 1770, per il buon motivo che, ritiratosi a Cortona per le sue infermità sin dal 1767, venne a morte due anni dopo. Le sue "giunte" rimaneggiate furono bensì ripubblicate (si trattava unicamente di voci d'antiquaria). Quali fossero stati i motivi del ritiro, il Weinert non riesce a spiegare, e in mancanza di documenti si limita a proporre delle congetture più o meno probabili. È, ovviamente, una questione importante. Il 1759 è una data critica nella storia dell'Encyclopédie: condannata in Francia come opera empia, e privata dal consiglio del re del privilegio, il 3 settembre era stata colpita - nonostante gli sforzi del Passionei per evitarlo[119] - dalla condanna pontificia. Non è sforzato pensare che questa serie di condanne, l'ultima soprattutto, avessero inciso in maniera determinante nella decisione venutiana. Resta dunque assodato che al Venuti va solo una parte del merito (non tutto il merito, come vuol far credere la Berselli) dell'edizione (non traduzione!) lucchese dell'Encyclopédie (p. 13). Certamente si può parlare per il Venuti di "riformismo", anzi si deve; ma a patto di specificare in quale direzione e dentro quali limiti quel suo spirito riformistico si muovesse. Le osservazioni al riguardo della Berselli sono, oltre che poco convincenti, poco perspicue. Su un punto tuttavia si può darle ragione: che il Venuti non volesse intaccare il dogma cattolico, e che gli atteggiamenti innovatori coesistessero [126] in lui (e nei suoi amici) con l'ossequio sincero alla chiesa di Roma. Tuttavia le tre letterine al Guasco che pubblico in appendice ce lo mostrano tutt'altro che tenero nei confronti delle gerarchie romane e degli stessi pontefici. E il Pelli, che ben lo conosceva e assai lo stimava, lasciò scritto di lui che "non pareva di esser fatto dalla natura per esercitare i doveri rigorosi di ecclesiastico, e di curato, ma quelli soli di uomo culto, e studioso". Occorrono - è evidente - ulteriori ricerche. 3. Traduzioni e prime reazioni.Il cap. 3 è dedicato alle prime reazioni suscitate in Italia dall'Esprit des Lois e, in gran parte, alle vicissitudini dell'opera dinnanzi alla congregazione dell'Indice. Il capolavoro montesquiano apparve nel 1748. Bisogna aggiungere: alla fine di ottobre. Nonostante l'azione "esemplarmente capillare" dei librai elvetici (p. 23), l'opera tardò tuttavia alcuni mesi a diffondersi in Italia. La prima città dove essa entrò fu Torino (e si capisce: era stata stampata a Ginevra). Nell'autunno del 1748 la lesse appunto in Torino David Hume (III, 1217)[120]. Nei primissimi giorni del 1749 Carlo Emanuele III, l'aveva già letta e fatta leggere a suo figlio; e alla metà di gennaio il commendator Solaro, passando da Firenze, ne mostrò al Cerati una copia non sua, che aveva tuttavia potuto portare con sé da Torino (III, 1171, 1183). Il Vernet aveva sì promesso al Cerati di fargli avere "cet admirable ouvrage" nell'ottobre passato; ma ai primi di febbraio il libro era pervenuto solo a Milano, "de sorte - aggiungeva l'impaziente Cerati - qu'il me faudra dévorer encore pour quelques jours le chagrin de la privation" (III, 1183-1184). Nel marzo era già giunto però a Napoli nelle mani del Genovesi. L'affermazione della Berselli - che "nel giro di pochi mesi moltissime copie erano giunte anche in Italia" (p. 23) - va pertanto attenuata. Naturalmente, con il [127] moltiplicarsi delle edizioni - 22 in poco più di un anno[121] - la diffusione diveniva più facile. La prova più evidente dell'interesse suscitato dall'opera è la traduzione che ne fu intrapresa a Napoli nello stesso 1749. Il 16 maggio 1750 l'Intieri aveva comunicato al Bottari, rallegrandosene, che s'era "intrapreso a stampare la traduzione italiana" del libro; e il 23 maggio aveva aggiunto: "L'autore dello Spirito delle Leggi comincia ad essere conosciuto anche qui"[122]. Nel settembre il primo volume era già impresso (III, 1321), ma il Nivernais, per ragioni d'opportunità, fece sospendere la stampa (III, 1335). Il Montesquieu, pur approvando la mossa del duca, dispose però che "si elle voit que mon livre sera condamné & les premières éditions défendues, elle laissera faire à ceux de Naples ce qu'il voudront" (III, 1332). Il Nivernais seguì le istruzioni: nel dicembre fece togliere il divieto. La comparsa della traduzione italiana, completata nel 1751, danneggiò in effetti la già difficile posizione del Montesquieu di fronte alla congregazione dell'Indice (III, 1413). Autore della traduzione era il fiorentino abate Giuseppe Maria Mecatti con la collaborazione di un irlandese, che, per Bartolomeo Corsini, aveva assolto "assai bene" il suo compito (p. 31)[123]. Ma la "Gazzetta Letteraria" di [128] Milano dava venti anni dopo ben diverso giudizio: "Dalle stampe di Napoli ne fu già pubblicata una versione Italiana, ma siccom'ella era troppo male eseguita, così serviva piuttosto a screditare l'Opera originale, che a far rilevare i sentimenti, la precisione e la vivacità dello scrivere del celebratissimo Autore [...]"[124]. Un esame di questa, come delle successive versioni, sarebbe venuto, in realtà, assai a proposito. L'interesse di tale traduzione (che la Berselli cita nella nota bibliografica con la data del 1752: si tratta forse di una ristampa della precedente 1750-1751? Non mi risulta) sarebbe accresciuto dalle note, "divenute presto classiche" di Antonio Genovesi (p. 31). Le note erano in realtà anonime e, date le circostanze in cui furono stese, servivano da contravveleno alle affermazioni troppo audaci del testo[125]. In ogni caso, non sono [129] queste le note divenute classiche del Genovesi, ma quelle pubblicate la prima volta nell'edizione Terres, uscita a Napoli nel 1777 (non 1773, come si legge nel vol. della Berselli, p. 221): "[...] renderanno singolare questa mia stampa - scrive il Terres - le altre [note] dottissime, e rare [130] del celebratissimo nostro Signor Abate Don Antonio Genovesi, il cui originale conservo nel mio studio privato". Erano note, come fa notare il revisore Domenico Cavallario, "che Antonio Genovesi nostro gran letterato, nel margine del suo Montesquieu per privato uso aggiunse". Avevano dunque un'origine ben diversa da quelle, apposte per blandire le autorità, dell'edizione 1750[126]. Dall'edizione [131] Terres sono derivate le due edizioni Silvestri (Milano 1819 e 1838: "fin d'allora [1819], per fare una più diligente ristampa, mi valsi - così il Silvestri - dell'edizione di Napoli [...] che è la migliore delle italiane, ma la feci interamente ritoccare per l'ortografia e pel punteggiamento (ché ben ne abbisognava) [...]"[127]; l'edizione veneziana del 1821 (non registrata dalla Berselli) che oltre alle note genovesiane riproduceva le note dell'Anonimo - cioè del Luzac -; e l'edizione napoletana del 1819 (seconda edizione napoletana)[128], sfuggita, essa pure, alla Berselli. La versione adottata dall'edizione Terres, a sua volta, non era originale: "Io mi sono in verità valuto della traduzione italiana, che non ha guari è comparsa in Italia, ma senza affidarmicisi interamente. [...] Difatti mi sono spesse fiate imbattuto in certi luoghi, ne' quali il [132] traduttore non ha, per quel che mi sembra, rapportato il vero senso del nostro Autore, e perciò ho stimato di farli nuovamente tradurre". La versione italiana alla quale il Terres alludeva era quella uscita ad Amsterdam (ma a Venezia, presso il Graziosi, non presso lo Zatta, come afferma la Berselli)[129] nel 1773. Il "volgarizzamento è fatto da mano maestra", affermava la "Gazzetta Letteraria di Milano"[130]; e altrettanto diceva L'Europa Letteraria (il giornale della Caminer): "[...] il Traduttore è soggetto molto opportuno a simili imprese"[131]. Purtroppo la persona del traduttore mi è rimasta finora sconosciuta[132]. Secondo il piano, i volumi dovevano essere cinque: il quinto avrebbe dovuto ospitare la versione delle Considérations, quella del Goût, nonché una nuova versione del Temple de Gnide. Ma, con molta probabilità, questo quinto volume mai vide la luce. I primi quattro contengono oltre all'Esprit des Lois, l'Eloge e l'Analyse del D'Alembert, il Discours de reception à l'Académie française, la Défense de l'Esprit des Lois, il Lysimaque, nonché il Remerciment sincère à un homme charitable, che era del Voltaire ma che per molto tempo fu creduto del Montesquieu, e stampato con le opere sue. Le note sono le Observations d'un Anonyme del pastore Elie Luzac, uscite la prima volta nel 1763 e riprodotte nell'edizione di Amsterdam delle Oeuvres del Montesquieu (in tutto e per tutto imitata dall'edizione veneziana) del 1771. Inizia così la singolare fortuna in Italia di queste Observations, riprodotte ancora, oltre che nell'edizione Terres, in alcune ottocentesche. [133] Resta dunque assodato che la versione capostipite di tutte le ottocentesche è quella veneta del 1773: rimaneggiata (quanto profondamente?) dal Terres, fu riprodotta con mere varianti ortografiche e di punteggiatura nelle edizioni milanesi del 1819 e 1838, in quella napoletana del 1819 e in quella veneta del 1821. Non ho visto l'edizione fiorentina del 1822; ma credo di poter affermare, su la base degli elementi raccolti, che l'Ottocento, in fatto di traduzioni dell'Esprit des Lois, visse su l'eredità settecentesca. Ma le tre traduzioni settecentesche citate non sono le uniche: nel 1797 ne uscì un'altra in cinque volumi presso lo Zatta[133]; e l'anno precedente pare che se ne fosse fatta una a Bologna (la Berselli la cita a p. 78, ma non la registra nella bibliografia). Quattro edizioni, e forse cinque, del testo tradotto in un cinquantennio: un bel numero. Ad esse vanno aggiunte almeno tre versioni eseguite [134] ma rimaste inedite: del Guasco, dell'Almici, di Dalmazzo Vasco[134]. Resta da vedere il successo delle altre opere del Montesquieu. Delle Lettres Persanes non si fece, pare, alcuna traduzione prima di quella di Luigi Bassi (ma non sarà Bossi, il traduttore del Condorcet?) apparsa in Milano (ma è completa?) nel 1821. Delle Considérations si fecero non una, ma almeno tre traduzioni: [135] la prima uscita anonima a Venezia presso il Pitteri nel 1735 (otto mesi dopo l'apparizione dell'opera: il privilegio dei Riformatori porta la data del 22 marzo); la seconda, apparsa a Berlino presso il Voss nel 1764 con dedica a Federico "il Massimo" ad opera di F.A.B. di B.L. (p. 221)[135]; la terza uscita in Londra (Firenze) nel 1776, opera di Domenico Eusebio De Kelli-Pagani[136]. Il traduttore era toscano e dedicava l'opera a Pietro Leopoldo ("il mio cuore e l'unanime sentimento de' miei [136] concittadini m'assicurano che i più bei giorni della mia patria splendono infine sopra di essa, poiché V.A.R. vi regna") affinché vi si esercitassero nelle due lingue - italiana e francese - i giovani arciduchi: a fronte della traduzione, il più possibile "fedele", è stampato infatti il testo originale. La scelta di un tale libro per lo studio dei principi era fatta a ragion veduta: "Sembra non aver egli [il Montesquieu] scritto che pei padroni del mondo", in questo senso, che insegnava che "i gran re fanno felici gl'imperii". È la stessa traduzione riprodotta nella "Biblioteca Universale di scelta letteratura antica e moderna" (Milano, 1828). Il successo maggiore toccò però al raffinato pastiche che è Le Temple de Gnide: il gusto neoclassico si deliziava di quella "serie di sceltissime idee velate di ammirevole semplicità"[137]. "Questo bel poemetto [...] - pronosticava - formerà sempre la delizia delle anime veramente delicate e sensibili"[138]. Non mancavano in esse, del resto, gli spunti di critica del costume: "[...] tra la vivacità e la fragranza di tante rose il poeta talvolta sollevò le punture di una critica salutare, e trafisse il dissoluto costume del suo paese"[139]. Cominciò l'Algarotti tentandone un'imitazione nel suo Congresso di Citera (1743). La prima versione italiana apparve, forse nel 1750 (come s'è visto), ad opera del Venuti. Seguì quella di Giovanni Battista Vicini[140] - "uno dei magni poetastri d'Italia", come lo chiamava il Baretti - uscita in Londra nel 1761; e, nel 1767, quella di C. Vespasiano[141]. La quarta, in versi sciolti, era stata lavorata nel 1770 da Salomone Fiorentino, "la migliore certamente di quante fino allora erano comparse alla luce"[142]. [137] Valeva forse la pena di fermarsi su la figura del traduttore "onor de' figli d'Israel dispersi" (come lo chiamava il Fantoni), al quale tocca un posto, piccolo quanto si vuole, tra i poeti "preromantici"[143]. Nel 1779 usciva la traduzione in ottave del Mallio[144]. L'ultima traduzione settecentesca è la "versione libera" di Francesco Gritti (Venezia, 1793)[145]. Nulla so delle due traduzioni, veneta e padovana, del 1771: si tratta forse di ristampe di qualcuna delle traduzioni già citate. Otto edizioni del testo tradotto; almeno cinque traduttori diversi. Un successo, si può ben dire, larghissimo: tanto più largo, se si pensa che dell'operetta si fecero anche tre edizioni in lingua originale: una a Napoli nel 1786 e due a Parma dal Bodoni nel 1790. Prima di studiare le reazioni all'Esprit des Lois era opportuno indicare almeno quei luoghi dell'opera che più direttamente potevano colpire i lettori italiani. In particolare i giudizi su le Repubbliche italiane. Essi erano talvolta così aspramente critici, che un "giacobino" come il Bocalosi, per mostrare l'orrore di quei governi, poteva contentarsi di citare uno squarcio dell'Esprit des Lois: "Rispetto alle Repubbliche che sono in Italia, io non farò altro che ripeterti le parole stesse d'alcuni, e più venerati politici pensatori e più liberi, dette da loro su tal proposito. Senti quelle del Montesquieu [...]"; e citava per disteso il brano riguardante la repubblica di Venezia, concludendo: "Io ti ricordo le teorie di Montesquieu perché riguardano singolarmente la Repubblica Veneziana, che [138] nella mente de' balordi pare la più saggia" ed è invece "la tirrania in maximum"[146]. I governi per primi se n'erano preoccupati. La repubblica di Genova si adoperò premurosamente, nei primissimi mesi del 1749, per indurre il Montesquieu a modificare una espressione sul banco di San Giorgio, che faceva derivare tutta la prosperità dello stato dalla partecipazione indiretta - attraverso il Banco - del popolo al governo (Esprit des Lois, II, 3n. a); e il Montesquieu, in considerazione del fatto che Genova era, all'indomani dell'insurrezione del 1746, "dans un temps de délicatesse à cet égard" - attraversava in realtà una profonda crisi politico-sociale, che minacciava direttamente la struttura aristocratica dello stato - finì per accondiscendere (III, 1224); cioè ritoccò la frase sul Banco[147], ma lasciò intatta [139] la massima generale di cui l'esempio genovese doveva servire a mostrare, in un caso concreto, la verità politica: "Ce sera une chose très heureuse dans l'aristocratie si, par quelque voie indirecte, on fait sortir le peuple de son anéantissement" (l. II, 3). Ma, nell'Esprit des Lois, non c'erano soltanto prese di posizione - caute quanto si vuole nella formulazione, ma nette nel fondo - in favore della borghesia, come questa. C'era anche l'ammonizione alle repubbliche aristocratiche di evitare le inuguaglianze estreme tra governanti e governati, e tra i membri stessi della aristocrazia, perché le disuguaglianze economiche sono le fonti principali di disordini (l. V, 8). È vero che il Montesquieu sembra consigliare piuttosto di coprire con l'"esprit de modération" (il quale, nelle repubbliche aristocratiche, tiene il posto che nelle popolari ha l'"esprit d'égalité") la natura di classe dello stato, e insomma di renderla sopportabile, invece di promuovere una più equa distribuzione della ricchezza (con l'esclusione, però, dei casi estremi). Le sue premesse metodologiche gli impedivano di andare più avanti: non voleva [140] infatti proporre un ideale astratto di governo perfetto, ma solo definire le condizioni oggettivamente più efficaci perché una forma politico-sociale storicamente data potesse realizzarsi nella sua perfezione, senza metterne in discussione i princìpi. E le repubbliche aristocratiche erano un regime, per essenza, fondato su le disuguaglianze politico-sociali. Tolte queste, sarebbe stata tolta anche la forma politica. Il che non gli impedirà però di scrivere: "Plus une aristocratie approchera de la démocratie, plus elle sara parfaite" (l. II, C. 3). Del resto, la fenomenologia montesquiana delle forme politiche - con la connessa esigenza di tipizzazione - lo indurrà ad affermazioni cariche di una forte potenzialità politica. Si pensi alla definizione del patriottismo repubblicano come "amour de l'égalité": ne discendeva per le repubbliche aristocratiche che, se tale "égalité" doveva limitarsi ai membri della classe privilegiata, all'interno di questa classe doveva essere però completa. Chi conosce appena la situazione interna delle repubbliche di Venezia e di Genova, sa che asserzioni come questa potevano suscitarvi un'eco profonda. Montesquieu poteva servire di base alle rivendicazioni della nobiltà povera, la cui esistenza e le cui inquietudini erano un fattore permanente di insicurezza di quegli stati. Il libro dei Montesquieu poteva dunque trovare, e in effetti trovò, all'interno delle nostre repubbliche (per limitarci a questo solo esempio di immediata evidenza), le forze sociali pronte a impadronirsi del suo contenuto politico e a farsene un'arma ideologica di lotta. In ogni caso, quel libro poteva giovar loro a prender una più chiara coscienza politica della propria situazione. La storia di un qualunque pensiero politico - si sa - che non si faccia anche analisi di strutture sociali e di situazioni politiche, integrando le reazioni espresse in libri o articoli con quelle espresse direttamente nell'azione e ben connettendo quelle a queste, resta una storia incompleta, il cui senso profondo ci sfugge. Ed è proprio nello studio della diffusione del pensiero del Montesquieu come "ideologia" che il libro della Berselli è più delusivo. [141] La storia dell'Esprit des Lois dinanzi alla Congregazione dell'Indice non è storia nuova; era stata di recente narrata, in gran parte su i documenti utilizzati dalla Berselli, da Léon Bérard[148]. Ma la Berselli lo ignora. Le Note del Bottari del Cod. Ott. Lat. 3157, già segnalate dal Dammig (unicuique suum), largamente utilizzate dallo studioso francese nel saggio citato,[149] erano state da lui pubblicate per intero[150]. La Berselli le ripubblica in Appendice come inedite (pp. 213-214). Inoltre era forse bene citare almeno una volta per completezza le Réflexions sur le Rapport de Mgr Bottari, anche se si tratta di una nota stesa su una traccia di Montesquieu dal Nivernais. Il Bottari era stato incaricato di preparare un rapporto per la Congregazione dell'Indice, e aveva assolto il suo compito con molta moderazione: "le Consulteur, lui, ne fait pas - ha detto bene il Bérard - à l'écrivain un procès de tendance. Les rectifications qu'on lui demande à apporter à son texte n'impliquent aucun remaniement profond de l'ouvrage dans aucune de ses parties"[151] e il duca de Nivernais, nell'atto di inviarle al Montesquieu, aveva osservato: "quelques-unes sont dictées par divers préjugés, mais non pas écrites avec un mauvais esprit" (III, 1305). Nel racconto della vicenda, la Berselli ha però omesso di dire che nell'aprile 1751 il libro fu tolto al Bottari e fu dato, perché ne riferisse nuovamente alla Congregazione, all'Emaldi, segretario delle lettere latine: era stato un [142] espediente del duca per guadagnar tempo. Dal nuovo consultore, che pur si dichiarava "admirateur" dell'opera montesquiana, non c'era da aspettarsi, a parere del duca, un giudizio troppo favorevole "parce que la crainte de passer pour trop tolérant aura plus de force sur lui que sa propre opinion" (III, 1377). E aveva visto giusto. Il Bottari non si era però limitato a stendere il suo parere:
aveva composto una più diffusa censura dell'opera e l'aveva data
alle stampe. La Berselli identifica tale censura con l'articolo apparso
sul Giornale de' Letterati di Roma nel 1750. Vi si leggevano grandi
lodi all'autore, ma giudizi poco benevoli sull'opera: libro oscuro e inintelligibile,
disorganico ("è una raccolta di pensieri staccati"), pieno di manifeste
ed enormi contraddizioni. Soprattutto la teoria del clima provocava i
sarcasmi dell'autore. Il Niccolini, lettolo tre volte, infuriò
e dichiarò l'estensore "ignorante della materia e temerario". Non
solo inveì contro "la poca intelligenza del Censore; e quel che
è peggio la falsa logica", ma mise in dubbio la sua buona fede:
"Circa poi la buona fede di quest'Autor del Giornale o quante cose avrei
da dire!" (pp. 215-216). Frasi assai dure che con difficoltà si
può pensare fossero rivolte al Bottari, buon amico del Niccolini.
Alla censura bottariana allude certamente il Niccolini qualche mese dopo:
"Costà so - scriveva il 20 aprile 1751 - che si è stampata
una nuova censura del medesimo [Montesquieu]. So che è di un mio
amico che amo e venero in tutto fuorché in queste materie in cui
avrei avuto piacere per l'amore che gli porto che non si fosse imbarazzato"
(p. 218). La riserva del Mazzucchelli non può dunque essere sciolta:
l'articolo del Giornale de' Letterati fu tutt'al più composto
da altri sulla traccia della censura bottariana, ma non è la censura
bottariana. Lo "spirito frizzante che non faceva difetto al prelato fiorentino",
e di cui è ripieno l'articolo, non è una prova sufficientemente
probante. Occorrerà cercare meglio. Sul Bottari, del resto, la
Berselli non risulta molto bene informata. Che egli fosse noto in Europa
fin dai primi anni del secolo (era nato nel 1689) è difficile ammettere.
[143] Ma difficilissimo è credere ch'egli dovesse la sua
notorietà europea all'Elogio di Cosimo di Medici, padre
della Patria (non Cosimo III), che non è gran cosa, e all'Ercolano,
che non è opera sua, ma come ognun sa del Varchi. Da buon cruscante
il Bottari ne aveva curato nel 1730 una eccellente edizione, premettendovi
una lunga vita del Varchi e dando in appendice un Dialogo sopra la
lingua ch'egli attribuì (e ciò fa onore al suo intuito
di filologo) al Machiavelli. Del resto, il Bottari non fu solo un erudito
(come crede il Rosa): basta rileggere la sua corrispondenza con Celestino
Galiani per ritrovare un ventenne avidissimo delle ultime scoperte scientifiche,
molto impegnato "filosoficamente". Dopo il "magnetico" Passionei ("abbate magnetico", lo aveva soprannominato il Montfaucon)[156], il Querini. Temperamenti diversi: quest'ultimo più manieroso, più calcolatore, amante all'estremo delle forme. Si direbbe: più ambiguo. Operarono in ambienti diversi: il Passionei proveniva dalla diplomazia, il Querini s'era dedicato, dopo gli anni di vagabondaggio europeo, all'esercizio pastorale. Negli ultimi suoi anni aveva inseguito con ostinazione, e molta vanità, una chimera: riportare alla chiesa di Roma i protestanti, quelli almeno più in vista. Il dialogo ch'egli intrattenne, nei toni più amabili per non dire melliflui, con l'alta cultura protestante tedesca - dal Reimarus al Gottsched, dal Feverlin allo Schlaeger al Kiesling - è un episodio ancora da studiare (oltre ai mss. della Queriniana e della Querini-Stampalia è da vedere il ms. it. 511 della Bibliothèque Nationale); e ha qualche volta dell'incredibile. Basti dire che i professori dell'Università di Gottinga festeggiarono nel 1748 i vent'anni dell'episcopato queriniano[157]. Come il Passionei, il Querini si compiaceva di coltivare estesissime conoscenze letterarie: "... [145] il forme en sa personne - aveva scritto con ragione il "Journal de Trevoux" - une espèce de centre littéraire [...]; on le connoit dans toutes les Académies, dans tous les Pays, où l'on sçait penser, parler, & écrire [...]"[158]. Pure un tratto è degno di rilievo negli ultimi anni del Cardinale: l'interesse per il movimento riformatore cattolico e non cattolico del Cinquecento, e anche per figure di eretici (come Marcantonio Flaminio). E giustamente il Cantimori vi ha richiamato sopra l'attenzione degli studiosi[159]. Era il Querini sinceramente attratto dal dramma religioso delle coscienze del primo Cinquecento? La pubblicazione delle lettere poliane obbediva - si sa - più a una preoccupazione controversistica che a un genuino interesse storico. L'ambizione del Querini era di rovesciare, con l'esibizione di un copioso materiale inedito, l'interpretazione che il Burnet e gli "adoratori del Burnet" avevano dato dell'origine della Riforma. Voleva dunque spezzare uno schema storiografico che aveva largo uso nella pubblicistica protestante; e spezzarlo nelle mani stesse di coloro che lo adoperavano con più accanimento e rigore: i dotti tedeschi. Chiamava infatti, con belle maniere, in causa le figure più rappresentative della cultura protestante tedesca (quella inglese rimase estranea al dibattito) perché difendessero le loro posizioni e, nel caso che non vi fossero riusciti, si dichiarassero vinti. Lo sfruttamento polemico dei documenti che veniva mettendo in luce non poteva essere più massiccio; e non solo nelle prefazioni e nei nutriti apparati critici alle Epistolae. In margine all'edizione, veniva infatti, con lettere aperte e animadversiones, continuamente provocando quei dotti alla discussione. Non voleva davvero dar tregua ai suoi "carissimi nemici". Il dibattito - mantenuto volonterosamente dall'una parte e dall'altra su un tono civilissimo - investiva, [146] per volontà del Querini, le ragioni stesse delle grandi scissioni nel corpo cristiano di due secoli innanzi. È vero: la linea adottata dal Querini era troppo rigida e, ai fini della polemica, anche scomoda: non era facile, proprio parlando del Pole, dimostrare in ogni caso una condotta irreprensibile nelle gerarchie romane. A meno di non far grave violenza ai fatti. Tuttavia, è innegabile l'attrazione sempre più forte esercitata sopra di lui dagli "eroi" delle sue diatribe: Pole, Sadoleto, Contarini, Cortese. Aveva subito avvertito la grandezza spirituale delle loro figure: a mano a mano che veniva scoprendoli meglio, se ne entusiasmò e finì per identificarsi in qualche modo con loro. Era diventato - diceva - "come il segretario della Congregazione da loro composta, e solita tenersi in questa stagione - così scriveva al Tamburini il 30 gennaio 1744 - ogni giorno più ore avanti il sole, il che non succede alle congregazioni di Roma"[160]. Parlava ormai in loro nome: vive sentenze del Contarini e del Pole affioravano spontaneamente alla sua memoria a commento dello stato presente della corte di Roma, o - com'egli diceva con disprezzo - della "piazza di Roma". Si sentiva investito del loro zelo riformatore; cercava di imitarne il linguaggio aperto, i modi risentiti: "[...] Contarini, Pole, e Sadoleto si sono regolati anche nel parlare al loro Santissimo Benefattore con un linguaggio, che quanto era più libero tanto era più pieno non solo di religione, ma di vero amore per la gloria del medesimo Pontefice". L'ostilità romana - la "guerra che ogni terzo giorno viene fatta alle mie povere fatiche in Roma" -, le minaccie di sanzioni disciplinari (qualcuno aveva avuto la "galanteria" di deferire uno scritto del Querini al Santo Offizio) lo addoloravano come sintomi preoccupanti d'incomprensione. Ma non gli [147] facevano mutar linea di condotta. I suoi scritti provocavano confusione? Non si può pretendere - rispondeva - da chi stampa che "niente si pubblichi che in una forma o nell'altra venga a formare la censura dei costumi presenti". È stato sempre un pessimo assioma di morale vietare che "le cose buone si facessero o dicessero, perché fatte o dette partorirebbero confusione in chi opera diversamente da quello che le medesime additano o prescrivono"[161]. Lo indignava soprattutto la freddezza con cui a Roma venivano accolte le sue iniziative di riunificazione religiosa: che anzi si disperasse del successo di quella impresa. Uomini di poca fede. Egli invece ne era moralmente certo e veniva sempre più infervorandosi. Dirà la propria certezza con parole vibranti, nelle quali il tono profetico è appena corretto da una lieve autoironia, nella lettera ai capi d'ordine del collegio dei cardinali allorché nel 1753 gli verrà impedito il progettato viaggio a Berlino: "viva è la mia fede dell'ingresso che faranno un giorno in quel tempio de' Cattolici [la chiesa cattolica che s'andava edificando a Berlino] i Principi regnanti, e che al loro esempio la metà della Germania s'indurrà ad abbracciare la nostra santa religione"[162]. "Anche i sassi più duri - aggiungeva - [...] possono con la benedizione del Signore diventar atti a comporre la mole della vera chiesa per l'opera che sarà principalmente per contribuirvi la santa sede". La collaborazione di Roma era essenziale: aveva rinunziato al viaggio perché voleva giungere in Germania non da privato, ma con le credenziali del papa. Avrebbe continuato da Brescia la sua opera, aspettando che Dio destasse "spiriti più attivi ed all'opera più analoghi, e però disposti a prestarvisi con tutte le maggiori forze quali richiedono le grandi imprese"[163]. Nel calore per quella "grande impresa" sentiva rivivere dentro di sé lo spirito dei cardinali riformatori del Cinquecento: [148] la loro alta preoccupazione per l'unità della chiesa, l'atteggiamento di moderazione e di cristiana carità verso gli erranti. Si sentiva approvato e assistito da loro. Devoto alla loro memoria, voleva che venisse subito riparata l'infamia che talune delle loro opere più ispirate - il De unitate ecclesiae del Pole, il Consilium de emendanda ecclesia - figurassero ancora nell'indice romano. Era un argomento troppo forte in mano agli eterodossi che gli scritti di quegli uomini dei quali più doveva inorgoglirsi la chiesa e che tanto avevano operato per la sua grandezza apparissero condannati, come se fossero stati dettati da cattivo affetto verso di essa. Aveva finito insomma per amare quei suoi "eroi" per se stessi; per lo stile della loro pietà, per i valori che rappresentavano nella tradizione cattolica. Attraverso l'opera loro, gli si andava svelando tutta la ricchezza del dibattito religioso all'interno del cattolicesimo cinquecentesco: di quell'epoca di grandi turbamenti e di grandi speranze per la chiesa. Resta da accertare quanto il Querini abbia contribuito - malgrado lo schema apologetico con il quale aveva troppo fortemente marcato il proprio lavoro storiografico - a una migliore conoscenza e definizione della loro figura storica. L'epistolario con il Tamburini ci permette di penetrare, qualche volta, nel vivo del suo sforzo di ricostruzione: l'interpretazione dello scritto contariniano De justificatione, quella dello stesso Consilium gli costarono non poca fatica. E dovè lottare a lungo con il sospetto di non aver bene inteso. Segno che, nonostante tutto, il Querini lavorava coscienziosamente. Il terreno dove più fraterni si sentiva quei grandi spiriti, dove meglio Querini cercava di adeguare la propria azione al loro modello era quello dei rapporti con gli eretici: solo con la dolcezza e la serena dimostrazione del vero si potevano ricondurre quelle anime alla chiesa. La sua simpatia umana per loro era sincera: in quella "povera gente" - confidava al Tamburini con gioia - aveva rinvenuto "un buon fondo che non saprei come chiamarlo [149] se sola umanità, o pure equità, ingenuità, docilità"[164]. Frequentandoli, la sua stima crebbe; e se li sentì più vicini delle circospette gerarchie romane. A Roma, in effetti, le iniziative queriniane avevano fatto scandalo: "Questa guerra guerreggiata col genere umano - gli scriveva Benedetto XIV -, questa familiarità con gli eretici danno nel naso a molti [...]"[165]. Il pontefice, dandogli consigli di moderazione, era certamente più obiettivo di lui: negare che preoccupazioni per la grandezza della famiglia avessero influito sopra la politica religiosa di Paolo III per dar spicco solo alla sua volontà riformatrice, era (come, "rapito dalla felicità di quel pontificato, andava facendo il Querini) negare l'evidenza: "Sunt mala mixta bonis, sunt bona mixta malis"[166]. Più obiettivo perché più realista, più disincantato: "Se le riuscirà di ridurre alla Santa Sede lo Schelhorn ciò sarà un gran vantaggio alla nostra santa religione e un bel trionfo per lei"[167]. Ma è chiaro che lui, a quel trionfo, non credeva. In cuor suo, pensava che quegli sforzi per l'"unione de' disuniti" fossero fatica sprecata. Malgrado l'indiscreto zelo convertitore, quel tentativo di dialogo resta ugualmente all'attivo del Querini. Meglio: quella fiducia nel dialogo. Era pur sempre, in un cardinale, una manifestazione di tolleranza. E come tale - come l'annunzio di un'epoca nuova nei rapporti intellettuali tra uomini di confessioni diverse - fu interpretato a salutato con gioia negli ambienti protestanti più avanzati. È il caso di Jacques Pérard, cappellano del re di Prussia e ministro del santo vangelo a Stettino, nonché [150] attivo membro della società degli Aletofili[168]. Raccontando la sua storia al cardinale, gli metteva dinanzi agli occhi i disastri dell'intolleranza: "Quoique habitant de la Poméranie, je suis parisien de naissance, mais j'ai quitté ma patrie dès l'age de neuf ans: né Protestant, je ne pouvois m'y promettre aucun établissement convenable et [151] j'ai cru devoir me fixer dans ce Pais oú je jouis de la précieuse liberté de conscience, liberté qui devroit être générale si les hommes pouvoient renoncer à des préjugés favoris, s'ils vouloient laisser à l'aimable Verité le soin de dissiper l'erreur et de ramener les errans"[169]. E poco più avanti chiedeva che venisse accettata e rispettata proprio la diversità delle opinioni religiose: "La différence de Religions ne doit pas en effet alterer les liens aimables de l'humanité ni troubler l'heureuse harmonie qui doit regner entre tous les membres de la République Littéraire"[170]. In nome dell'unità degli uomini nella ragione, si dovevano mettere a tacere gli odi teologici: senza darlo troppo a vedere, ma senza neppure nasconderlo troppo, il Pérard tentava di accantonare il dibattito religioso. Parlava l'aletofilo, l'amico del Voltaire. Il Querini, il Lambertini ("il est trop éclairé - diceva - pour être intolérant")[171] stavano diventando, nella mitologia dei lumi, gli esponenti della "raison" tra il clero cattolico. Un bel caso, come una volta si diceva, di eterogenesi dei fini. Il Querini credeva di lavorare, con il suo "fascinante letterario commercio"[172], per il trionfo della sua chiesa; cooperava invece a quello del principio di tolleranza. Senza volerlo, s'era messo al servizio dei grandi ideali del secolo. Quest'uomo poteva - è evidente - apprezzare l'Esprit de Lois: vi ritrovava solennemente affermato [152] quell'ideale di tolleranza che era divenuto il motivo centrale della sua vita. Delle buone disposizioni del Querini, prefetto della congregazione dell'Indice, verso il Montesquieu, questi era stato informato dal duca de Nivernais alla fine del dicembre 1750 (III, 1349). Per meglio affezionarlo alla propria causa, gli aveva inviato nel marzo del 1751[173] una lettera nella quale ribadiva la sua consueta linea di difesa ("mon livre est le livre d'un jurisconsulte françois [...]", III, 1364-1365). Il Querini fu toccato dall'onore fattogli dal Presidente: attraverso il Nivernais gli faceva pervenire nell'aprile una lettera nella quale rendeva giustizia alla sua opera e alla sua persona (III, 1376). Una lettera imbarazzante. Il duca raccomandava al Montesquieu di ringraziare, poiché non poteva farne a meno, ma con "des politesses vagues & générales": la cattiva abitudine del prelato bresciano di render pubbliche le attestazioni private di stima che riceveva ("il imprime régulièrement à Brescia tout ce qu'il écrit et tout ce qu'on lui écrit [...] - diceva Voltaire - Ce bon cardinal aime les louanges à la folie"[174], poteva comprometterlo agli occhi del papa. Il Montesquieu s'attenne alle istruzioni ricevute: "elle [la lettera per il cardinale] est si plate, que j'espère qu'il perdra l'envie de la faire imprimer; et j'avoue que si je ne réussit point, j'aurais deux dégouts au lieu d'un"[175]. Nonostante [153] i buoni uffici di tante degne persone (ma il Querini si limitò a promettere, e poco in effetti fece); nonostante la disposizione benevola del papa (III, 1292), l'Eprit des Lois fu messo all'Indice il 29 novembre 1751. La Berselli ritiene che "qualche fatto politico nuovo fosse intervenuto in quei giorni a modificare l'atteggiamento sino allora benevolo del Pontefice" (p. 38); ma non dice quale. Tale convinzione resta pertanto nel numero delle sue private certezze. Abbastanza chiara risulta invece la linea di condotta adottata dal Montesquieu: la condanna avrebbe forse potuto essere evitata - lo ha detto bene Brethe de la Gressaye - se egli si fosse affrettato a dare una nuova edizione corretta nel senso indicato da Monsignor Bottari. Ne ebbe l'intenzione, la preparò, ma non la pubblicò. Solo nella edizione postuma del 1757 si troveranno certi passi dubbi meglio chiariti, o frasi contestate soppresse. "Au fond - conclude persuasivamente il suddetto studioso - Montesquieu n'a pas voulu céder, il a préféré [154] courir le risque d'étre condanné"; fors'anche per l'illusione, tenace in lui, e alimentata dall'offerta di aiuto di tanti cospicui personaggi, che la sentenza di condanna non sarebbe stata pronunciata[176]. Accetto le riserve su Giovanni Lami[177]. L'atteggiamento del fiorentino di fronte all'Esprit des Lois rivela, in effetti, una grave angustia mentale. Nell'aprile del 1751 non l'aveva ancora letto "perché non l'ho mai voluto - dichiarava - e per la prevenzione che ho contro il medesimo, non lo stimando opera dotta e profonda, e perché s'io lo leggeva, saria stato per me pericoloso il darne giudizio svantaggioso, perché i politici l'avevano qui ricevuto come un nuovo Alcorano" (p. 39). Con il [155] Niccolini però proprio in quei giorni conveniva sulla calunniosità delle censure delle giansenistiche "Nouvelles Ecclesiastiques". Il Niccolini lo scusava per il silenzio: "[...] per lui tali materie e tali studi sono nuovi [...]" (p. 218). Ne parlò infine nel 1753, ma in maniera poco impegnativa; si limitò a dire che era opera "troppo prolissa". Se fosse stata nove decimi più breve, avrebbe guadagnato un posto accanto al Principe, "operetta che nella sua brevità contiene insegnamenti politici per più di un Calepino in materia" (la Berselli parla a questo proposito di "felice illuminazione": ma non risulta punto da questo brano che il Lami avesse sia pure lontanamente intuito i reali rapporti tra il Montesquieu e il Machiavelli). Ma, a render arduo il giudizio, ecco - inaspettata - la lode delle Lettres Persanes: da esse "si ricavano molti insegnamenti solidi di Morale, con lettura utile e gioconda" ("Novelle Letterarie", maggio 1755). Bisogna ammettere che il comportamento del Lami è per lo meno strano. La Berselli gli rimprovera in generale un certo gusto malèdico e anche bassezze nella polemica antigesuitica. Era il suo sistema: "Fate quello che fo io: ridete molto - consigliava al Brunacci il 10 febbraio 1747 -, e bastonate senza discrezione: ma con gli scritti, non con la lingua. Questa vi farebbe maledico, quegli erudito insieme ed ingegnoso"[178]. Più avanti la Berselli tenta di definire la sua personalità di uomo di cultura e lo avvicina all'Hardouin. Accostamento curioso. Il gesuita Hardouin fu in effetti un grande erudito e in molti campi un buon servitore della storia: i suoi Acta conciliorum hanno segnato un progresso negli studi ecclesiastici. Ma su i quaranta, nel 1690, si mise in testa di contestare l'autenticità di gran parte della letteratura greca e latina, classica e cristiana: l'Eneide, le Odi di Orazio, l'opera intera dei Padri della Chiesa sarebbero stati dei falsi fabbricati da ingegnosissimi monaci del secolo XIV. La ragione di questo [156] "échafaudage insensé"? Strappare ai giansenisti le armi che forniva loro l'opera di Sant'Agostino[179]. La Berselli pensa forse, per il Lami, al De recta Christianorum in eo quod mysterium divinae Trinitatis adtinet libri VI (Florentiae 1733) e al successivo De eruditione Apostolorum liber singularis (Florentiae 1737), che anche al giovane Gibbon faceva l'effetto di "ouvrage très curieux"[180]: il Lami vi sosteneva che gli apostoli, e in particolare Giovanni, fossero gente grossa e ignorante, "litterarum rudes, & imperitos fuisse". Senza la minima tintura di sapienza secolare, la loro eloquenza consisteva nel peso delle cose che annunciavano, punto nell'espressione letteraria. Certo il Lami si dimostrava in questi scritti nemico delle frodi pie, e con spregiudicatezza utilizzava opere di studiosi non cattolici (Fabricius soprattutto, ma anche Grotius, Abbadie, Turrettini). Ma la sua tesi era poi così paradossale come potrebbe sembrare? Innanzi tutto, bisogna convenire con l'acuto recensore della "Bibliothèque Raisonnée" che c'era "un peu de logomachie dans toute cette dispute"[181]. Ma, a parte ciò (e a parte un eccesso di bile che il Lami metteva nella polemica) egli non aveva fatto che ripetere gli argomenti degli Apologisti: Origene, Arnobio, Minucio Felice, Agostino. "Dans le fond - notava il citato giornalista - M. Lami n'a fait que parler le language des Pères"[182]. Lo scopo della polemica? Non essendo gli apostoli versati nelle scienze umane, né istruiti nell'arte retorica, "tout l'Univers doit reconnoitre le doigt de Dieu dans le succès étonnant [157] de leur doctrine & de leurs discours"[183]. La Berselli vede in una presunta scuola italiana di cui il Lami avrebbe fatto parte, gli "antesignani della scuola di esegesi biblica di Tubinga": dimentica cioè tutto il debito che il Lami aveva verso la grande erudizione protestante europea. Né, d'altra parte, la scuola di Tubinga era imbevuta, come la Berselli crede, di positivismo. Sono, a dir poco, delle ingenuità. Più lungo discorso merita Stefano Bertolini, autore dell'Analyse raisonnée de l'Esprit des Loix. La Berselli afferma che l'opera apparve nel 1752 e che "se ne fecero in seguito parecchie ristampe" (p. 48)[184]. L'opera era in realtà ancora in lavorazione nel dicembre 1753 (III, 1485): il Bertolini ne inviò per il tramite del Guasco al Montesquieu la prima parte nel 1753 e il resto nel novembre 1754[185]. Il Montesquieu ringraziò personalmente l'autore "Je m'y trouve paré comme dans un jour de fête"; III, 1523) e suggerì leggeri emendamenti (III, [158] 1524-1525). L'opera però allora non fu stampata. Era "sous presse" nel 1767, nel momento in cui il Guasco pubblicava le Lettres familières; ma ancora una volta, per ragioni che ignoro, la pubblicazione fu differita. L'opera vide la luce a Ginevra solo nel 1771. Se ne fece una seconda edizione a Pisa nel 1784, a due anni dalla morte dell'autore. Fu ripubblicata infine nel 1798, ad istanza di "tous les amis des lettres", che la giudicavano superiore all'Analyse del D'Alembert, tra le Oeuvres posthumes del Presidente[186]. Le numerose edizioni si riducono dunque, per il Settecento, a tre, o se si vuole a quattro, poiché delle Oeuvres posthumes si fecero due edizioni: in 8° e in 12°. Nell'Ottocento fu ripubblicata nella edizione del 1819 delle Oeuvres del Montesquieu e infine dal Laboulaye[187]. L'Analyse era il "discours préliminaire", la prefazione a un lungo commento dell'opera montesquiana, destinato ad arricchire, si può arguirlo con facilità, una riedizione italiana, e forse toscana, del testo originale. "Ma quale sarà il Tempio - scriveva l'Algarotti all'autore - a giudicarne da un tale peristilio?"[188]. Dunque il Bertolini stava annotando l'opera montesquiana; ma con che tipo di note? Lo diceva lui stesso: "je ne suis qu'un voyageur, qui, à la vue d'une grande Pyramide, se plait à examiner la charpente, qui a servi pour l'elever"[189]. E [159] poco prima aveva detto: "Mon dessein est de montrer la conformité de penser de notre Auteur, avec les plus grands génies de tous les ages"[190]. Si trattava dunque di note illustrative a metà tra la ricerca delle fonti e il proposito di mostrare nell'Esprit des Lois il punto d'arrivo e di confluenza di più secoli di pensiero politico. Il Bertolini ci teneva a non essere frainteso: se si accingeva a smontare il gran libro per mostrarne i materiali con i quali era stato costruito, non voleva perciò abbassare il merito inapprezzabile del suo autore: "Mais à Dieu ne plaise, que par-là j'aie voulu porter atteinte à la plus précieuse prérogative de son Ouvrage, qui consiste dans son esprit créateur"[191]. A quest'opera di commento il Bertolini attese per anni. Pezzi staccati delle sue meditazioni in margine alla sua opera di commentatore egli venne anticipando, con gran cura dell'anonimo, sul Journal étranger del 1754 e del 1755: come quel Parallèle entre Athènes et l'Angleterre, più tardi rifuso tra le pagine del commento inedito (la Berselli ignora, o non dice, che tale scritto era dello stesso Bertolini)[192]. Il Bertolini compose dunque in gran parte il commento, ma non lo pubblicò (si trova ora col titolo Notes à l'Esprit des Lois, nell'Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti, F. 777-783). Esso non è il corollario o il lavoro preparatorio dell'Analyse, come crede la Berselli (pp. 91 e 93), ma - come s'è visto - il corpo dell'opera, il lavoro propriamente personale del Bertolini. Lo aveva detto chiaramente lui stesso, concludendo l'Analyse: "Après [160] avoir parlé de l'ouvrage de notre Auteur, j'aurais mauvaise grace à entretenir le Lecteur de mon travail; c'est au Lecteur équitable à en juger par le travail même"[193]. Il testo dell'Analyse che possiamo leggere, se non in tutto, è però molto simile a quello che lesse e approvò il Montesquieu. Solo ne era stato tolto, su viva richiesta del Presidente, il passo che concerneva gli inglesi, dove il Bertolini aveva detto ch'egli aveva fatto "sentir la beauté" del loro governo meglio dei loro stessi scrittori ("Si les Anglois - osservava - trouvent que cela soit ainsi; eux qui connoissent mieux leurs livres que nous, on peut être sur qu'ils auront la générosité de le dire"). Ma il Bertolini aveva coscienziosamente aggiornato il suo scritto su le ultime edizioni dell'opera specie su i punti più discussi: in particolare, la virtù repubblicana viene definita - giusta l'Avertissement de l'auteur pubblicato in testa all'edizione del 1757 - come "vertu politique, c'est-à-dire l'Amour de la Patrie et de l'égalité"[194]. Ma, se riprendendo in mano il suo scritto per aggiornarlo dopo il 1757, ne migliorava il dettato, non gli bastava l'animo per sopprimere la parte più caduca: ossia la profezia politica, smentita dai fatti, di un'immediata possibilità d'attuazione - grazie a un avanzatissimo processo di unificazione morale della società europea ("une si étroite liaison de l'Europe entière, que [...] on peut dire qu'elle ne compose qu'un seul Etat")[195] e grazie all'equilibrio politico creato dalle "négotiations anglaises" - del progetto di Dieta europea del Saint-Pierre. Era in realtà il suo sogno più caro: il progetto del Saint-Pierre e l'Esprit des Lois - il capolavoro della "modération", cioè dei più [161] dolci e umani costumi del secolo - dovevano potersi accordare. Lo tentava infatti, nonostante gli sembrasse che il Montesquieu aveva composto la sua opera solo "pour s'opposer aux sentimens de l'Abbé de Saint Pierre"[196]. Questa è la chiave della lettura dell'Analyse: "Cet ouvrage ne paroît fait que pour inspirer de la modération, de l'humanité & des moeurs"[197]. E già aveva, iniziando l'esposizione, indicato i principi "benèfici" dell'opera, il suo contributo alla creazione di una nuova comunità umana e di nuovi rapporti tra le nazioni: "La paix & le désir de vivre en société puisés dans le loix de la nature; le système, autant dangereux qu'absurde, de l'état naturel de guerre anéanti; le droit des gens établi sur ce grand principe, que le Nations doivent se faire dans la paix le plus de bien, & dans la guerre le moins de mal qu'il est possible; l'esprit de conquête & d'agrandissement decrié; de fletrissures perpetuelles sur le Despotisme; de l'horreur contre le grands corps d'autorité; la felicité publique fondées sur le rapport d'amour entre le Souverain & les sujets; enfin des maximes propres à faire naître la candeur des moeurs, & la douceur des loix"[198]. A proposito dell'Analyse, lo Sclopis notò ironicamente "l'humilité plus qu'exemplaire de ce commentateur": "l'auteur - diceva - s'y place constamment aux pieds de Montesquieu"[199]. L'osservazione è diventata un luogo comune: il Giorgetti, la Berselli compiaciutamente la ripetono. Certo, se dovessimo giudicare del valore attuale di questo scritto, non potremmo concludere diversamente dal Cabeen: "In general this essay is of no particular interest or importance to-day, since it contains nothing memorable in the way of analysis or criticism: it is really scarcely more than a summary of some of the better known parts of the Lois, rather monotonously eulogistic in tone"[200]. [162] Ma se il bibliografo del Montesquieu ha ragione di parlare in questa maniera, lo storico di cose italiane ha il dovere di sottolineare nello stesso tempo l'importanza di atteggiamenti simili diciamo pure di ammirazione incondizionata, quando sono assunti da uomini politici, e specialmente quando sono vissuti con tanta profondità di persuasione, è come in questo caso, fino ai limiti dell'utopismo. Senza nascondersi però l'arretratezza sostanziale di tali posizioni, che il Mirri ha benissimo dimostrato. Come mai il Bertolini si decise a pubblicare l'Analyse separata dal commento, ch'era la parte più originale del suo lavoro? Le attribuiva cioè qualche suo autonomo valore, per cui potesse correr le strade anche senza le Notes? Così come si presenta, il libriccino bertoliniano si allinea con tutta quella letteratura, fiorita subito intorno al capolavoro montesquiano, applicata a metter ordine nel piano dell'opera, o a mostrarne - come in questo caso - la razionalità della interna organizzazione[201]: si colloca cioè decorosamente tra le Observations sur l'Esprit de Loix ou l'art de lire ce livre, de l'entendre et d'en juger dell'abate de la Porte (che è del 1751), l'Analyse del D'Alembert (che è del 1755) e l'Analyse raisonnée del Pecquet (che è del 1758). In opere del genere l'originalità dello scrittore aveva poco spazio per farsi luce: persino [163] il D'Alembert "n'y prodigue pas les jugements"[202]. E s'è visto che molti lettori preferivano alla sua l'Analyse del Bertolini, perché più diffusa. Tuttavia, da certe vivaci sottolineature nell'esposizione, si può arguire verso quali luoghi dell'opera la sua adesione, sempre calda, fosse più fervida[203]. Che valore hanno le Notes? Esse sono, in realtà, una enorme rubrica, nella quale il Bertolini versa giorno per giorno le schede delle sue letture. Le ambiguità del testo restano tali: si vedano, per esempio, le note al l. XV sulla schiavitù coloniale. Come sourcier tuttavia sembra che avesse avuto qualche volta il fiuto felice: come là dove cita, tra le fonti del Montesquieu il Temple (p. 92)[204]. Degno di [164] rilievo è che tra gli antecedenti nella letteratura giuridica e politica, il Bertolini mettesse giustamente il "greffier de la République Florentine": un Machiavelli visibilmente risentito attraverso il Montesquieu. Nel 1771 - era bene ricordarlo - il Bertolini aveva messo insieme, combinando insieme sentenze machiavelliane, un volumetto: La mente dell'uomo di stato, raccolta tendenziosa che nel Machiavelli isolava gli spunti antitirannici e le massime favorevoli a regimi paterni[205]. Ma era soprattutto la cultura politica di questo funzionario toscano che bisognava ricostruire partendo dalle Notes: tanto più che la discussione con il Montesquieu si arricchiva per strada della conoscenza di opere più tarde dell'illuminismo. In genere, si può dire che il Bertolini era preparato all'incontro con il Montesquieu: era nutrito di pensiero giusnaturalistico, "il fondamento della solida giurisprudenza" (aveva concentrato la sua attenzione - è sintomatico - sul diritto delle genti, il ius "che ci fa cittadini di una stessa repubblica universale") e insieme di pensiero storico e di riformismo muratoriano (al Muratori nonché ai classici, gli adorati classici, egli si rifarà di preferenza nella replica allo Ximenes a proposito della Maremma, neppure una volta al Montesquieu che resta però beninteso sullo sfondo). In Montesquieu egli aveva trovato una più precisa definizione del suo ideale politico - la monarchia temperata e forse la monarchia "à l'anglaise" - e le linee generali dell'azione riformatrice nella sfera civile: libertà civile, difesa della vita e della proprietà del cittadino, giusta distribuzione dei tributi, migliore giustizia criminale etc. Ma, in genere, egli si teneva più indietro del suo autore: se condivideva con lui l'orrore del despotismo, non era però, per esempio, disposto ad accettare l'accusa di despotismo mossa dal Montesquieu alle repubbliche italiane (l. XI, 6): i sentimenti del francese "alla prova dell'esperienza" [165] non reggevano (p. 92). Ma delle Notes occorrerebbe, come ho detto, un esame più attento, più scaltro. Ad ogni modo la "maxime suprême", con la quale il Bertolini suggellava il suo commento, esprime bene in quale direzione egli usufruisce del pensiero montesquiviano: "Les plus belles Loix ne sont pas celles qui tendent à rendre les hommes plus riches, mais ce sont celles qui peuvent les rendre plus sages et plus propres à former entr'eux une société qui leur soit à tous également avantageuse" (p. 93). Tra i primi approvatori del Montesquieu in Toscana vanno citati gli economisti. A cominciare dal Pagnini, che, pubblicando nel 1751 il suo Saggio sopra il giusto pregio delle cose in appendice alla versione italiana, sua e del Tavanti, del lockiano Trattato della moneta, dà a vedere una conoscenza precisa dell'opera intera del Montesquieu: non solo dell'Esprit des Lois, ma delle Considérations ("più innanzi degli altri ha esaminato ed inteso il sistema del governo dei Romani") e delle Lettres Persanes (in particolare le lettere XCII e CIV, contro il "pouvoir sans bornes")[206]. Non risulta invece che si movesse su le tracce del Montesquieu il Neri nelle sue "nitidissime" (per usare l'aggettivo dell'Einaudi) Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete: è invece il Locke il suo riferimento costante tra i moderni. E non è vero che in esse "l'autore non dice nulla di nuovo" (p. 89): la Berselli non s'è resa conto di trovarsi di fronte a una [166] delle opere più fortemente originali dell'illuminismo italiano. Ma il Neri aveva indirettamente preparato il terreno alla ricezione del pensiero montesquiano compiendo - tra il 1745 e il 1747 - il suo tentativo di "refonte générale des loix"[207]. Da allora la discussione attorno al problema della codificazione delle leggi patrie (progetto perseguito fino agli ultimi anni del secolo) si fece insistente e serrata. In queste discussioni bisognava cercare gli echi più profondi del pensiero montesquiano in Toscana. Citerò un caso solo, ma ragguardevole: i Prodromi all'estirpazione del Pirronismo dalla ragion civile d'Italia (s.l., 1769) di Giovanni Battista Ceri: il problema della codificazione toscana s'era ormai dilatato a problema della codificazione italiana[208]. Se il Ceri si fermava al problema formale della [167] codificazione, l'anonimo autore che venti anni dopo, nel 1791, concludendo in qualche modo per il Gianni un quarantennio di discussioni e di tentativi, stendeva il Saggio sulla legislazione toscana,[209] andava ben più oltre; e si [169] poneva in tutta la sua ampiezza il problema delle strutture politiche "despotiche" e dello "spirito" nazionale. 4. L'accoglienza negli Stati della Chiesa.Con il cap. IV la Berselli inizia, partendo dagli stati pontifici, lo studio della diffusione delle idee di Montesquieu nei vari stati italiani: ognuno di essi infatti richiede un discorso separato. Il vantaggio dell'Italia su gli altri paesi che avevano una sola capitale - diceva il Pilati - era di avere più metropoli: "ainsi la manière de penser, les choix et les goûts dans les sciences et dans les arts sont plus variés"[210]. Diverse erano soprattutto le condizioni politiche e sociali, le tradizioni di cultura. La Berselli fa bene a far rilevare le diversità, caso per caso. Non occorreva però presentare i quattro pontefici che dal 1740 al 1799 si succedettero sulla cattedra di Pietro: sono troppo ben conosciuti. La Berselli ha invece torto ad insistere sulla vivacità intellettuale dell'ambiente romano, specie al tempo di Benedetto XIV, "le pape des sçavants", come diceva il Montesquieu. Si pensa al largo dibattito delle idee religiose più che alle ricerche d'erudizione sacra e d'archeologia, in secondo luogo al gusto diffuso per le moderne scienze della natura (che però non è una novità di quel pontificato). [170] La Berselli nomina vari "uomini onesti" che illustrarono la cultura romana. Alcuni di essi lo erano, ma non lo era certo il Mamachi. Antigesuita fino al 1760, diventò se non proprio filogesuita molto riservato nei confronti della Compagnia e ruppe i rapporti con i vecchi amici sotto Clemente XIII, salvo a ridiventare al tempo di Clemente XIV fiero antiloiolita. Come si vede, un opportunista. Ma gli illuministi, come lo Spiriti e il Galanti, dicevano di peggio[211]. A letizia del clero romano il nunzio Gualtieri diffuse, alla morte del Montesquieu, la notizia della sua "conversione" al momento del trapasso: era stata un'operazione manovrata con molto tatto dai gesuiti[212]. Non c'è che dire: un bel caso. Fu additato a esempio, diventò il pretesto di discorsi edificatorî. Fin qui, per lo storico delle idee, c'è poco da rallegrarsi. Per fortuna negli stati della chiesa il Montesquieu si leggeva, e non soltanto per dirne male. Lasciamo dunque da parte confutatori, difensori dell'ordine e altri seccatori (farei eccezione per il Buonafede, che non riusciva a nascondere, tra le censure, una certa ammirazione per l'ingegno "energico, sublime, leggero, vasto, penetrante, benefico, delizioso del Valentuomo") e cerchiamo invece le tracce di un atteggiamento più comprensivo. La Berselli addita sopra tutti l'Amaduzzi. Un provinciale. Era venuto "alle sponde del torbido Tevere"[213] dalla natia Savigliano nel 1762 e s'era così ben fuso con l'ambiente romano - ecclesiastico e letterario - da possederne tutti gli arcana. Nel suo epistolario, al quale egli dedicava gran parte dei suo tempo e che teneva con cura meticolosa, egli se ne fece per vent'anni il cronista perpetuo. [171] C'era in lui - il Munster si mostrò buon psicologo - un bisogno irrefrenabile di parlare, e di scrivere, una "sincerità veramente femminile" celata sotto la violenza dei giudizi: "egli si atteggia ad uomo, e non lo è". Ma la cerchia dei suoi corrispondenti e dei suoi amici non oltrepassava i confini d'Italia: "Io non tengo in Parigi veruna corrispondenza [...]" egli aveva affermato il 15 maggio 1776 a Isidoro Bianchi; e aveva detto la verità[214]. Di qui l'aria chiusa che si respira in tante migliaia di pagine. Il suo momento di maggior fortuna e di maggior impegno fu il pontificato di Clemente XIV. Alla memoria di papa Ganganelli egli resterà devotissimo: sarà lui a fornire al Caraccioli molto del materiale per la biografia del pontefice defunto[215]. Chiuso nella nostalgia del passato, inasprito dalle persecuzioni, del nuovo pontefice e della sua attività riformatrice darà giudizi sempre meno benevoli. Del Montesquieu parlava con ammirazione e riconoscenza: "All'immortal Montesquieu [...] io debbo - confidava a I. Bianchi il 17 luglio 1777 - una rivoluzione troppo felice nel mio sistema intellettuale"[216]. In che cosa consistesse questa rivoluzione e quando si fosse prodotta nell'animo suo nulla dice il suo più recente biografo, e nulla la Berselli. Era invece il punto da chiarire. I suoi interessi più costanti furono soprattutto antiquari. In tale discipline non fu grande, e neppure in verità degno di ricordo; e così poco aperto al nuovo da parlare sempre con ironia e suffisance dell'uomo che andava rivoluzionando sotto i suoi occhi lo studio dell'arte classica: Winckelmann. Di un altro contemporaneo che coltivò le belle arti - son parole del Galanti - con "gusto filosofico", "arditezza" e "uno spirito superiore ai pregiudizi"[217], il Milizia, disse cose che non gli fanno punto onore e che [172] provano non essere in lui spirito alcuno di "civile tolleranza": "In questi giorni è qui uscito un miserabile libercolo - così scriveva a I. Bianchi il 22 gennaio 1772 - intitolato Del Teatro, che è opera d'un tal Don Francesco Milizia, che negli anni scorsi pubblicò pure in Roma certe vite di Architetti scritte con una caustica ed intemperante censura. Costui rinfondendo la caduta delle mura di Gerico in un elatterio d'aria causato dal suono di trombe toglieva di mezzo il prodigio enunciato nelle Sacre Scritture con una maniera pur anche mimica, ed irreligiosa. V'erano pure certe sciapite grazie sull'infibulazione, che non poco offendevano il buon costume. Onde la Santità di Nostro Signore ha provvidamente ordinato, che questo libriciattolo si supprima, e già se ne sono raccolte tutte le copie, che in poco numero n'erano uscite. Certi Pseudoletterati, come è questo Napoletano, anderebbano frenati dallo scrivere con sovrana autorità, facendo ad essi contrabando il rittenere in casa penna, carta, e calamaio, oppure introducendo per essi un interdicere atramento et papyro"[218]. Giansenista forse non fu (gli mancava il rigore teologico); ma operò mischiato alle schiere gianseniste. Il de Ricci lo ricordò con affetto ("mi contenterò solo di nominare fra tanti altri amici [...] l'abate G.C. Amaduzzi per la sua lealtà e per il suo amore della verità fatto vittima del fanatismo e che fin dalle prime dovè soffrire contradizioni per cagion mia")[219]. La Berselli ne ingigantisce la figura quando dice: "Indubbiamente, egli lasciò tracce profonde nel pensiero cattolico italiano, preludendo, per molti aspetti, a quel cattolicesimo liberale, che di lì a pochi decenni avrebbe dato anche in Italia frutti copiosi" (p. 60). Lo scritto per il quale l'Amaduzzi merita tanto onorevole posizione è un discorsetto accademico recitato nell'Arcadia di Roma l'8 gennaio 1778: La Filosofia alleata della Religione. L'orazione [173] non manca di arditezza. L'Amaduzzi respinge sì fermamente le punte razionalistiche della nuova filosofia, ma esalta i successi della scienza della natura, e, trasportato dal suo entusiasmo, descrive con i colori più belli l'azione liberatrice nel campo dei rapporti politici e sociali compiuta dal moderno pensiero civile. Tra filantropismo filosofico e carità cristiana regnava, e poteva regnare, un'armonia perfetta: perché il primo procedeva direttamente, per l'Amaduzzi, da un impulso cristiano. C'è però da domandarsi se l'Arcadia romana non fosse assuefatta ad ardimenti del genere. Due anni prima nello stesso ambiente, in un'adunanza straordinaria di oltre cinquecento persone, il principe Luigi Gonzaga - "infime rejeton de l'arbre vivace des Gonzaga" - aveva letto un suo discorso: Il letterato buon cittadino, messo subito dopo a stampa dall'Amaduzzi (grande amico del Gonzaga, nel quale trovava "una dottrina non ordinaria, una religione esemplare, un genio antilojolitico assai bizzarro, una politica assai savia, ed una soavità sorprendente di tratto, e di costume", e dell'amica sua, Corilla Olimpica, intorno alla quale proprio in quei giorni veniva montato dall'Amaduzzi e dai suoi arcadi un grosso scandalo) in stupendi esemplari in "carta cerulea reale". Nello scritto "c'era qualche epiteto ed espressione un poco ardita, che dalla docilità dell'Autore si sarebbe moderata, - così diceva Giuseppe Bandini al fratello - se quel buttafoco di Amaduzzi non l'avesse impedito"[220]. La Berselli discorre di quest'opera nel capitolo su la cultura veneta, alla quale in realtà il Gonzaga non appartenne: nel 1772, tornato infatti nella sua seconda patria da Vienna, dove aveva ceduto in cambio di un'annua pensione i suoi feudi, "diventò - scrive il Litta - un celebre panegirista de' principj di democrazia", tenendo in giro discorsi così imprudenti che gli Inquisitori di Stato "a lui, benché patrizio, fecero dire che se n'andasse". [174] E, dopo lo scandalo romano, raggiunse Parigi e Londra, morendo infine in Vienna nel 1819. Nel discorsetto in questione il principe massone non lesinava le lodi al Montesquieu e al suo gran libro "dettato dall'amore del bene pubblico e dal desiderio di vedere gli uomini veramente felici": egli aveva visto giusto, esaltando come ottimo tra i governi il repubblicano democratico. Poco si sa di questo singolare personaggio, specie degli anni vissuti all'estero, sappiamo però che scrisse altre cose: Dell'influenza dello spirito guerriero dei Romani sulla decadenza delle belle arti in Italia e in Grecia, e Riflessioni filosofico politiche sull'antica democrazia romana, nelle quali ultime, stando alle parole del Bertana, "vagheggia la repubblica, e una repubblica di popolo, non d'aristocratici superbi e corrotti; vagheggia una legislazione che abbia per base l'umanità, per fine la gloria, per mezzo la virtù, per misura la dignità dell'uomo; vuole che lo stato assicuri al popolo la maggior somma di beni, e che il benessere venga diffuso tra il maggior numero di cittadini il più egualmente possibile [...] e se ammette che la democrazia possano tralignare crede pure che i mali del despotismo superano sempre quelli della libertà corrotta"[221]. Rimesso nel suo ambiente (ancora da studiare come si deve), il discorso dell'Amaduzzi appare meno una manifestazione isolata d'indipendenza, quanto l'espressione delle idee e delle aspirazioni di un gruppo. L'influenza del Montesquieu su l'Amaduzzi, a giudicare da quanto del suo atteggiamento politico questo scritto rivela, è soltanto indiretta, generica; e va confusa con quella del nuovo pensiero. Non solo. L'Amaduzzi vi si mostra caldo assertore non solo della politica riformatrice dei sovrani, ma anche dell'assolutismo illuminato. Siamo evidentemente assai lontano dal Montesquieu. Alla rivoluzione francese, ci rivela la Berselli, egli guardò con simpatia. Forse dalle ultime sue lettere, nelle quali commentò il primo triennio rivoluzionario, si potrebbero [175] rinvenire più precise indicazioni su i suoi orientamenti politici. Ma purtroppo la Berselli si è limitata a segnalarle soltanto. Ad ogni modo, d'influenza dell'Amaduzzi sulla formazione dei cattolicesimo liberale, non è neppure il caso di parlare. Dirò di più: a conti fatti, l'Amaduzzi non mi sembra neppure un episodio significativo nella storia della diffusione del pensiero montesquiano in Italia. L'influenza più estesa del Montesquieu nello stato pontificio si esercitò per la Berselli sugli economisti: dal BelIoni (la cui Dissertazione sopra il commercio mi risulta essere apparsa nel 1751) a quella schiera di pubblicisti in genere non romani trapiantati in Roma - che ispirò od orientò le riforme di Pio VI: Vergani, Corona (Laonice), Tedeschi, Cacherano. Sul valore dell'opera di costoro e su le riforme braschiane sono state dette cose esatte da studioso ben più autorevole di me e a quelle pagine rinvio[222]. Ma la Berselli non ha detto una parola dei giuristi: penso al Renazzi e al Duni. Il primo, per sua stessa testimonianza, compì sforzi "immensi, indefessi, veementissimi" per illustrare il diritto penale "in nuova foggia, da niuno prima [...] tentata, di regolare sistema, di sodi principj, di chiaro metodo [...]" sia nell'insegnamento orale che negli scritti[223]. Tra il 1773 e il 1775 pubblicò i suoi Elementa Juris Criminalis; due anni dopo una dissertazione su lo stesso argomento[224]. In quest'ultimo scritto il Renazzi prendeva le mosse dal "perspicacissimus" Montesquieu [176], e lo teneva sempre presente via via che tracciava agilmente la storia dell'evoluzione degli istituti criminali: a proposito dei giudizi di Dio, a proposito della "conversio morum, legumque" prodottasi nell'occidente in seguito alla reviviscenza del diritto romano ("Plures profecto fuerunt Scriptores, qui memorandae hujus conversionis caussas atque effectus recensuerunt. Sed nemo acutius ac gravius hujusmodi argumentum pertractavit saepe memorato Montesquieu"), a proposito della solennità dei giudizi ("Quin immo constat eô plures, et accuratiores in Criminalibus Caussis discutiendis solemnitates ibi receptas esse atque vigere, ubi Civium vita fortunae honos libertas majori in pretio habentur")[225]. Non mancano le citazioni di opere più recenti (Bielfeld e soprattutto Schmidt, lodato come scrittore "perspicacis ingenii": i Principes erano usciti si badi l'anno precedente)[226]; ma Montesquieu e Beccaria (con una citazione dello scrittore lombardo si chiude l'operetta) restano le sue grandi guide. La fama del Renazzi non fu mediocre: tradotte in varie lingue straniere le sue opere gli meritarono l'onore di un invito da Caterina II a Pietroburgo "per travagliare all'ordinamento in Russia della procedura criminale: non potendo aver Beccaria doveva accontentarsi di Renazzi[227]. Ma anche il giurista romano declinò l'offerta. Emanuele Duni è un caso ancor più interessante, trattandosi di un allievo del Vico. Il Renazzi suo collega non l'aveva in grande stima: "aveva composto - diceva - un opuscolo italiano, in cui pretese di dar l'idea di un sistema di Giurisprudenza universale secondo i principi del rinomato [...] de Vico, già suo Maestro, e del quale adottato aveva la metafisica intralciata, ed entusiastica"[228]. Alludeva al Saggio di Legislazione universale del 1768[229]. [177] Ma è soprattutto l'opera sua del 1763: Origini e progressi del cittadino e del governo civile di Roma a mostrare come egli avesse saputo portare avanti le meditazioni di Vico e di Montesquieu sulla storia di Roma: "Nelle democrazie - scriveva per esempio - particolarmente i mali, che nascono dalla corruttela del costume, si rendono irreparabili per la ragione che contaminandosi per così dire il sangue, che scorre dappertutto per le vene del corpo democratico, non v'è medicina che vaglia a guarirlo"[230]. E più avanti avanzava l'idea che la lotta di classe a base economica fosse sopraggiunta in Roma quando fu vinta la lotta di classe a base politica: idea feconda, diceva Max Ascoli[231]. Il fatto stesso che al principio dell'Ottocento il tedesco W. Eisendecher traducesse quest'opera facendola passare per propria sta a provare la novità delle intuizioni duniane. È nell'opera storica più che in quella sistematica - il Saggio di giurisprudenza universale appunto e Della scienza del costume, o sia sistema del diritto universale uscita postuma a Napoli nel 1775 - tutta piena com'è delle idee vichiane - che converrà cercare tracce dell'influenza montesquiana[232]. Ma, forse, uno studio più accurato potrebbe modificare queste impressioni. Le pagine più diffuse e ricche di notizie sono quelle della Berselli, dedicate alla vita intellettuale delle Legazioni [178]: di Bologna soprattutto. Nella seconda metà del ‘700 si intensifica nelle province dello stato pontificio la curiosità intellettuale, la fermentazione delle idee politiche si fa più acre. La Berselli richiama l'attenzione su le Memorie enciclopediche compilate dalla Società letteraria diretta dal dottor Giovanni Ristori, che uscirono in Bologna dal 1781 al 1786; e su la Storia politica dell'anno 1781, scritta da un Pensatore Italiano, che per godere di maggior libertà il Ristori stampava a Modena. Va subito notato che la Storia politica, come aveva congetturato la Cocconi, continuò a uscire negli anni seguenti: certamente nel 1782 e nel 1783[233]. I due periodici del Ristori - "capitano della sconciatura bolognese" come dicevano i suoi nemici, giovane avvocato fiorentino, trapiantatosi nel 1780 a Bologna (dopo aver compiuto in patria un'esperienza vivificante in quel Giornale Fiorentino uscito dal 1778 al 1780 con il progetto "vastissimo" di "dare tradotti in lingua italiana tutti i libri migliori che fossero sortiti nell'anno dai torchi europei" e che mantenne con serietà nella sua non lunga esistenza la promessa) piacevano al gruppo milanese: "Qui leggiamo - gli scriveva il 2 settembre 1783 il Frisi (che divenne anche uno dei collaboratori) - proprio con singolar piacere tutti i suoi fogli"; e indicava come pezzo di suo gusto "quelle tanto filosofiche riflessioni sul celibato che il conte Verri ed io abbiamo letto con sommo piacere, e desideriamo che in cotesto paese le tante belle cose dei suoi fogli non le portino alcun disgusto"[234]. Nei due periodici la discussione delle posizioni più avanzate della cultura europea era certamente, pur con tutte le cautele, larga e viva; e nei collaboratori [179] (Compagnoni, Osti, Zacchiroli) era notevole la spregiudicatezza. Ma non mi pare che si possa dire, con la Berselli, che essi "soprattutto hanno fatto del Montesquieu il loro campione". Il Montesquieu è a quest'epoca ormai un classico della letteratura dei lumi; non stupisce perciò che gli estensori delle Memorie ne prendano più volte le difese. Di una preferenza esclusiva per il Montesquieu non vi sono però le prove. Ci sono anzi le prove dei contrario. Nel 1792 il Ristori diffuse il manifesto d'una sua grande opera in cinque volumi: Nuovo Digesto delle Leggi Romane, a cui rigettate le leggi, che più non convengono ai nostri costumi, le pugnanti, le ripetute, le abbreviate, le troppo prolisse, disposte le rimanenti in un ordine più esatto ecc. La parte più nuova dell'opera era la seconda, destinata ad occupare il quarto volume: Il diritto di ragione, "ossia l'Analisi delle leggi, quale servirà di commentario perpetuo delle Leggi Romane; opera tutta originale, e diversa nei principi da quanto s'è detto da Grozio sino a Filangieri. Forse nel solo Wolfio si troveranno alcune tracce di un tal lavoro"[235]. Il giusnaturalista Wolff, dunque, non Montesquieu era il gran lume del Ristori e gli serviva da guida nel suo riordinamento delle leggi romane. Sulla riforma della giurisprudenza egli ritornerà nella dissertazione presentata al famoso concorso indetto nel 1796 dall'Amministrazione lombarda per ripetere le stesse cose. In tutta la memoria il suo giusnaturalismo appare ancor più nettamente affermato: di costituzioni veramente libere non può esservene che una sola - la francese -; i principi della giustizia sono "immutabili sotto tutti i climi e in tutte le età"[236]. La Berselli pensa forse al giacobino Compagnoni. Ma sul Compagnoni, come su tutti i giacobini (anche moderati), l'influenza decisiva l'ha esercitata Rousseau. È vero però che il Montesquieu ha goduto sui rivoluzionari un [180] qualche ascendente: come teorizzatore appunto del regime repubblicano, il sistema della "virtù". E che questa influenza di Montesquieu "repubblicano" si è esercitata largamente sia in Italia sia in Francia. Il rivoluzionario Goupil de Préfelne non aveva proposto nell'anno IV al Consiglio degli Anziani di erigere un busto a Montesquieu a fronte di quello di Bruto asserendo che egli aveva dimostrato categoricamente che il miglior governo era quello repubblicano? E con maggiore finezza il Barrère non aveva l'anno dopo affermato che egli era stato repubblicano nel cuore, e che la descrizione degli altri tipi di governo era nelle intenzioni satirica? La rappresentazione fortemente idealizzata del regime repubblicano che il Montesquieu aveva colorito contribuì principalmente a rendere possibili queste interpretazioni. Ma resta il fatto che il suo ideale politico era la monarchia temperata, "le seul gouvernement raisonnable - diceva il suo allievo Boulanger - fait pour la terre"[237]. Ma torniamo al Compagnoni e seguiamone sveltamente le vicende. Da Bologna passato a Venezia, continuò l'esperienza giornalistica bolognese componendo per il Graziosi le Notizie del Mondo, nelle quali offrì al pubblico con la moderazione necessaria un "prospetto" politico della rivoluzione per gli anni 1790 e 1791: a quello del 1792 fu però vietata la stampa[238]. Intanto, esaltava gli ebrei su i greci, e divulgava da buon amico di Vincenzo Dandolo i principi della chimica del Lavoisier per le dame. Legatosi con il Pepoli, faceva uscire nel 1796 il "Mercurio d'Italia storico-politico-letterario" (che l'anno seguente, essendo il Compagnoni già passato nella Lombardia liberata, fu "rigenerato" da Luigi Rossi e perdette il "politico"). Del Pepoli la Berselli analizza in breve il Saggio di libertà sopra vari punti (Ginevra, 1783), segnalando la [181] presenza di motivi montesquiani nella preferenza data alle forme repubblicane sulle monarchiche: "tra l'arbitrio delle monarchie orientali e quello delle europee non differisce che la forma, perché l'uomo vi è ugualmente schiacciato e annichilito. Tutto il mondo è ormai docilmente piegato in catene [...] (e prima aveva scritto: "Tutti corrono alle catene [...]"). Pochi sono nelle società del giorno d'oggi gli uomini liberi [...]" (cit., pp. 70, 84). Motivi, in questo sfortunato emulo dell'Alfieri, di sapore veramente alfieriano. Ma omette di far notare che per il Pepoli, se l'ottimo dei governi è la repubblica democratica, quella aristocratica - Venezia soprattutto - resta pur sempre un buon governo. In questa idealizzazione del governo veneto però era Rousseau più che Montesquieu a venirgli in aiuto[239]. Bisogna infine notare che la notizia, ripetuta dalla Berselli, di un suo disgustato ritiro dall'esperienza democratica è una favola (p. 138). È vero che il Pepoli ostentò atteggiamenti filofrancesi e che a Milano ebbe rapporti frequenti con il Bonaparte (nel rapporto del commissario centrale di polizia del 4 dicembre 1796 veniva giudicato, però poco benevolmente, "un fol")[240]. Ma non ebbe il tempo di disgustarsene perché, colpito da febbre maligna il 14 dicembre 1796, sulle ore otto della notte cessò di vivere. Nel Mercurio si accenna una volta al Montesquieu, negli anonimi Consigli di un letterato morto ad un letterato vivente che passa dalla cattedra di Eloquenza a quella di Storia romana. In forma di lettera: "Oh se avessimo un corpo di Storia scritto da Montesquieu, da Vertot, da Mably, conosceremmo meglio i Romani! Essi ne hanno inteso i vizi, le virtù e i loro libri son pieni d'ingegno, di pensieri, di verità. La virtù primaria della Cattedra a [182] lei conferita è di giovare ai proseliti di Giustiniano. [...] Ma anche qui io vorrei filosofare un poco, e l'Esprit des Loix c'insegna pure di grandi cose! abbondano le scanzie delle biblioteche di legali eruditi, che si erano trasfusa in succo e in sangue la Storia romana. Ma quanto poco di raziocinio in quel gran cumulo di sapere! [...]"[241]. Ma è difficile dire se l'autore ne fosse il Compagnoni. Il Montesquieu del resto non è raccomandato qui che come storico del mondo romano. Ma c'è un testo che può illuminarci esaurientemente su la cultura politica del Compagnoni: le lezioni di diritto costituzionale ch'egli tenne a Ferrara nel 1797. Quale occasione migliore per utilizzare il Montesquieu? Ma, significativamente, egli non vi è neppure una volta nominato. Il Compagnoni si stringe invece tutto a Rousseau, che è giustamente divenuto il supremo maestro di questa materia. Non possiamo allontanarci da quanto egli ha dettato senza correre manifesto rischio di "perderci negli oscuri avvolgimenti delle divisioni metafisiche"[242]. Interi capitoli sono nient'altro che un commento a diversi "cospicui passi" del Contrat social: "Coloro i quali rifletteranno che il solo Rousseau è quegli che ha aperta la carriera del vero Diritto politico, lungi dal condannarmi, applaudiranno, io spero alla preferenza che io do a questo grand'uomo [...]". Ma di Rousseau il Compagnoni non accettava tutto: "Io ho seguito il filosofo ginevrino dappertutto ove i suoi lumi potevano dirigermi. [...] Qualche volta l'ho abbandonato, ed anche combattuto. Soprattutto ho cercato di presentare più concatenate e dedotte le teorie fino all'applicazione più minuta"[243]. I punti di maggior dissenso erano il giudizio sulla Repubblica veneta ("Rousseau ha osato il riguardare il governo veneto come democratico", mentre per il Compagnoni l'aristocrazia ereditaria è il peggiore dei governi)[244]; e il [183] capitolo degli schiavi. "Rousseau ha detto, che un popolo libero non può sussistere senza schiavi. Egli ha distrutto con questa frase la santità di tutti i suoi principi, ed ha violentemente oltraggiato il genere umano". Non Montesquieu dunque, ma esclusivamente Rousseau era la guida intellettuale del Compagnoni anche in quei capitoli nei quali si poteva prevedere un'influenza del Presidente: come il cap. IX - Del Dispotismo - nel quale l'impostazione è invece rigorosamente roussoiana ("Il governo è un corpo intermedio stabilito tra il Sovrano e lo Stato. È opera del Sovrano; è diretto a mantenere l'oggetto del contratto sociale, è una commissione amministrativa [...]. Possono trovarsi nel Dispotismo verificate queste condizioni?")[245]. Tuttavia un documento c'è a prova che anche Montesquieu era un elemento vivo della cultura del Compagnoni: la "parlata" ch'egli fece il 16 germile dell'anno VI al corpo legislativo della Cisalpina a favore della poligamia, sviluppo paradossale di uno spunto palesemente montesquiano[246]. Lo scrittore che ferma da ultimo l'attenzione della Berselli è l'abate Tocci: con il suo progetto di una Società di Cristiani Pari (1794) "si conchiude idealmente il ciclo montesquiviano nello Stato Pontificio" (p. 84). La Berselli vorrebbe aggiungere ai tre motivi individuati dal Cantimori nell'opera del Tocci un quarto motivo: "il contrappunto che l'Esprit des Lois fa all'opera del simpatico abate marchigiano" (p. 83). Ma la proposta non regge. La discussione dell'opera del Montesquieu non è assente nelle tante e tante pagine dell'abate; ma bastano gli accenni sparsi in sei volumi per asserire la centralità del pensiero montesquiano nella riflessione dell'abate utopista? Né si può dire che il Tocci si contrapponesse, anche implicitamente, al Montesquieu, che questi fosse il [184] suo principal termine di riferimento polemico. La cosa si spiega: il Montesquieu discute soprattutto il rapporto tra ordinamenti politici e vita sociale; e al Tocci resta estranea la discussione delle forme politiche, "benché mostri di intuire il rapporto fra il nuovo ordine desiderato e un ordinamento politico su base elettiva"[247]. Egli è invece assorbito totalmente dall'organizzazione minuta della sua associazione volontaria. In quest'opera di "legislatore" lo soccorse qualche spunto così del Montesquieu come di altri "Letterati e Saggi del secolo". La Berselli indica le derivazioni, ma a me non paiono così essenziali come paiono a lei: utilizzazione di qualche massima del Montesquieu circa i regimi politici liberi (ma la forma di governo della Società è il governo misto), disciplina del lusso, diritto (o piuttosto obbligo) al lavoro, condanna del cicisbeismo, nesso popolazione-libertà. La teoria del clima gli pare invece di un'"empietà incredibile", frutto di "fanatismo"; e la rifiuta, salvo a riconoscere altrove che il clima influisce "moltissimo sul Genio o natural pendenza ed inclinazione dei Popoli"[248]. E con energia rifiuta la necessità della nobiltà di nascita in una monarchia. Il Tocci dunque lesse e utilizzò Montesquieu come lesse e utilizzò altri scrittori (egli voleva, è noto, assomigliarsi più di tutti al Filangieri); ma non dal Filangieri, e neppure dalla contemporanea letteratura utopistica francese, più a lui affine, egli derivò l'ispirazione centrale per la costruzione del suo "mondo nuovo", ma, ripeteremo ancora con il Cantimori, da certo Muratori. Per finire si profila qualche utilizzazione conservatrice del Montesquieu tra coloro che per primi tentarono di sbarrare il passo alle idee rivoluzionarie? A Roma [quelli] più in vista furono lo Spedalieri e il de Franceschinis. Il [185] primo, svolgendo equivocamente la teoria roussoiana del contratto, mirava a dimostrare la necessità dell'alleanza fra trono e altare; non si curava quindi di Montesquieu. Il secondo, si può dire, guardava invece soprattutto a quest'ultimo. Scienziato e filosofo finché restò a Udine, si sentì nascere la vocazione al pensiero politico appena mise piede negli stati della chiesa: fissò gli elementi della sua politica sin dal 1787 in poche pagine[249]. Cinque anni dopo quelle poche pagine erano divenute un'opera voluminosa: La legislazione dedotta dai principii dell'ordine, ristampata accresciuta nel 1795. Il barnabita conte de Franceschinis era, pare, un uomo affascinante: andava "molto a' versi alle Signore". La Teotochi Albrizzi ne lasciò un lusinghiero ritratto (era, disse tra l'altro, "tutto più d'altrui che di se stesso")[250]. Mme de Staêl "s'intertenea assai volentieri con lui": "Lo avresti detto un Humboldt, frate e italiano"[251]. Seguiva la metafisica del cardinale Gerdil (un altro barnabita); ma, soprattutto, amava l'ordine. E amava l'Austria. All'avvicinarsi dei francesi a Roma, riparò a Venezia e di lì nelle terre dell'impero, dove visse tutto il tempo che durò la Cisalpina. Allorché vide nel Regno Italico stabilito "un governo regolare e forte", rientrò in Italia ed ebbe la cattedra di matematica applicata all'Università di Padova. Era rettore allorché nel 1809 gli austriaci fecero un breve ingresso nella città: corse loro incontro a festeggiarli. Perdonato dal Beauharnais, perdette però la cattedra. L'imperatore Francesco non si dimenticò di lui. Finalmente tranquillo, riprese e portò innanzi le antiche ricerche su la legislazione: "Ora, poiché da vari anni viviamo - scriveva nel 1825 - sotto il paterno austriaco governo, il quale nell'esserci tolto lasciato avea in noi tanto rammarico e tanto desiderio di sé [...]" riprendeva "la fatica per guidare gli uomini e ricomporsi, per mantenerli docili e volonterosi [186] nella sociale dipendenza"[252]. Il suo ideale coincideva pienamente con la realtà politica della Restaurazione. La Berselli discorre a lungo di lui (pp. 66-68); ma si lascia sfuggire l'essenziale. Che cioè, se nel de Franceschinis non manca l'intento confutatorio (ma il suo linguaggio è sempre temperato, e lo stile fluido), l'intento principale è di addomesticare il Montesquieu facendolo servire alla delineazione di una monarchia temperata che rassomiglia sempre più, nella successiva elaborazione, ai paterni monarchi della restaurazione. Senza dire che tutto il piano dell'opera era un tentativo di rifacimento, partendo da altre premesse, dell'Esprit des Lois. Non mancano infine le osservazioni intelligenti: come quella arieggiante una analoga del Destutt de Tracy sull'opportunità di ridurre le forme di governo a due: governi arbitrari e non arbitrari[253]. Appendice.I documenti che qui si pubblicano sono tratti da un codicetto adespoto intitolato genericamente dal catalogatore: Lettere di personaggi francesi ed italiani del secolo XVIII, che si conserva nella Biblioteca Civica di Verona (Ms. 247). Non è che il resto di un quadernetto nel quale il Guasco fece copiare da tre mani diverse - (sofferente egli pure, come il Montesquieu, di una grave forma di oftalmia, era costretto a servirsi di segretari) qualcuna delle lettere più importanti da lui ricevute (di tre di esse però - per l'esattezza: quella del Passionei del 26 aprile 1755; quella di Benedetto XIV del 1756; quella di Lord Chesterfield del 1751 - non si legge che la nuda indicazione [187] del nome del mittente e della data: la pagina è rimasta bianca). Quando fu eseguita la raccolta? Termine post quem: 14 febbraio 1764 (la data della lettera più recente). Ma si può, credo, essere più precisi. Nella minuscola silloge si leggono infatti lettere di Montesquieu e della duchessa d'Aiguillon incluse nella raccolta delle Lettres familières du président de Montesquieu à divers amis d'Italie dal Guasco stesso pubblicata in Firenze nel 1767. Tra queste, la famosa lettera del 1755 dov'è questione delle calunnie di Madame Geoffrin, ma in un testo un po' diverso da quello edito (Nagel III, 1531-1534). Poiché sull'autenticità di questa come di altre due lettere montesquiane al Guasco (quelle dell'8 e del 25 dicembre 1754; Nagel III, 1525-1527, 1529-1530) gravano forti sospetti, un confronto tra i due testi - quello che si legge nella raccolta veronese e quello a stampa - s'impone. Confronto proficuo: lo studio delle varianti ci dà insperatamente le prove che cercavamo per decidere dell'autenticità o inautenticità del documento. Non vi sono dubbi: il codice veronese rappresenta uno stadio anteriore del testo. Anteriore, e quindi imperfetto. Siamo quindi introdotti, per così dire, nel laboratorio del falsario. La prova decisiva è nella data. Nelle Lettres la lettera è datata genericamente (e abilmente): janvier 1755. Ma nella raccolta veronese la data è molto più precisa: Paris, Premier Fevrier 1755. Data improbabile: è cosa notissima che Montesquieu, ammalatosi il 29 gennaio, in quel giorno delirava; e nei momenti di lucidità si mostrava ben cosciente di essere in punto di morte. Nessun accenno invece non dico alla propria fine imminente, ma neppure alla propria infermità nella lettera in questione; accarezza anzi sereni progetti di viaggi a La Brède, di incontri con il Guasco. Il testo veronese rivela inoltre qualche incertezza nell'uso del francese, inspiegabile se l'autore fosse Montesquieu: "Ce qui m'a le plus scandalisé dans tout ceci" diventa nelle Lettres: "dans tout cela"; la "source de la bêtise" diventa "d'où est partie la bêtise". Il Guasco, è [188] evidente, andò lentamente perfezionando la sua lettera Un esempio: "Madame Geoffrin est venue chez moi, le crois pour me sonder; elle a voulu vous mettre sur le tapis". Prima correzione, nell'interlinea: "je crois" è stato sostituito con "à ce qu'il m'a paru"; "elle a voulu" con "elle n'a pas manqué de". Ed ecco il risultato finale di questo lavorio, quale si legge nelle Lettres: "Madame Geoffrin est venue chez moi, à ce qu'il m'a paru pour me sonder; elle n'a pas manqué de vous mettre sur le tapis d'un air moqueur". Frasi intere sono state aggiunte nell'interlinea di mano del Guasco, come questa: "Quand on a un grand tort, il n'est pas étonnant qu'on cherche a l'excuser par toutes sortes de voies et même de noirceurs". Si potrebbe pensare - è vero - che il Guasco, rivedendo il testo, avesse ovviato a una svista del copista. Il guaio è che l'ultimo elemento della frase ("et même de noirceurs") è cassato; e la parola viene adoperata più avanti, in una frase aggiunta - essa pure - nell'interlinea, la più pesante nei confronti di Madame: "je ne la croyoli pas capable de tant de mechanceté et de noirceur". E' dunque un lavorio "creativo" che queste varianti ci rivelano; non già un semplice lavoro di revisione. La frase precedentemente citata s'interrompe nel testo veronese a voies; ma nel testo delle Lettres figura una nuova aggiunta, una frase "forte": "Des tracasseries on va jusqu'aux horreurs". Si deve dunque concludere che la raccoltina veronese risale a un'epoca anteriore alla pubblicazione delle Lettres, tra il 1764 e il 1767. Venuto successivamente in possesso di lettere dei Montesquieu ad altri amici italiani, il Guasco trovò più espediente far parlare lusinghevolmente di sé senza aver l'aria di aver preso parte all'impresa (si sa ch'egli negò di esser l'autore della raccolta: "Journal Encyclopédique de Bouillon", XV, p. 122). Il codicetto in questione non è il solo manoscritto del Guasco posseduto dalla Civica di Verona: cinque ne aveva segnalato il Biadego e sono stati esaminati in parte dallo Shackleton (R. SHACKLETON, L'abbé Guasco, cit., p. 4): il Ms. 216 (la versione [189] dell'Esprit des Lois); il 305 (De l'édifice appelé le Temple de Sérapis à Pozzuolo); il Ms. 328 (L'état des sciences en France sous le règne de Louis XI); il Ms. 590 (Dissertazione intorno al tempo in cui le scienze e le arti incominciarono ad essere coltivate dai Volsci e dei cambiamenti, che s'introdussero nei costumi, negli usi, nel governo, e nella religione di questi popoli); il Ms. 727 (Ebauches de sept lettres sur les antiquités de Naples, indirizzate nel 1754 al Montesquieu, che ne lo aveva richiesto: Nagel III, 1504; cfr. pure l'abbozzo autobiografico di cui dirò). Ma, scorrendo l'inventario, ne ho trovato molti altri, che qui segnalo per comodità degli studiosi: il 251 (Ritratto di un generale italiano: G.F.A. Guasco); il 280 (Vita di G. Guasco); il 304 (Dissertation sur l'incompatibilité de deux bénéfices); il 308 (Mémoire touchant le seminaire de Tournai); il 310 (Documents relatifs à l'éloge de G.F.A. Guasco); il 317 (Essais de justification sur les griefs que l'on a pris a Vienne et que l'on m'a imputé par la voie du leu Cardinal de Malines); il 321 (Points à traiter avec l'Evêque de Tournai au sujet du Seminaire); il 334 (Mémoire sur le projet d'évasion fait par le Général Giamini); il 675 (Eloge historique de J. Fr. A. Guasco); il 724 (Relation de ce qui s'est passé à Tournai depuis que j'ai été fait vicaire général). Né m'illudo di averli individuati tutti. Nella riproduzione dei testi ho preferito adottare la trascrizione diplomatica. Ho limitato le note a quelle poche necessarie a illuminare la figura del Guasco. [190] I. J. Barbot[254] a O. GuascoDe Bordeaux, 1746[255] Il n'en est que pour ces Diables de Piemontois, ils triomphent partout[256]. Soyez pourtant persuadé, Mon cher Ami, que je suis plus aise de votre victoire a l'accademie, qu'on ne l'est a Versailles de celle de votre Roi a Asti. Je n'ai point l'histoire de l'Eglise de Saint-André par Lopez, on me l'a volée. Vous avez reçu le volume de l'histoire des Cardinaux que vous m'aviez demandé. Notre Paîs et notre Accademie vous seront obligé des recherches que vous faites sur la vie de Clement V[257]. Notre Accademie attend avec empressement la lecture de quelques echantillons de cet ouvrage a votre retour[258]. Je vous envie le plaisir d'etre a la Brede avec notre Illustre Ami, et je voudrois bien que mes affaires me permissent d'etre en tiers. Aimez moi toujours, comme je vous aime et vous estime. A Dieu. [191] II. O. Guasco a Montesquieu[1748][259] Vos conseils, mon cher President, ont la force du genie, qui echaufe, qui inspire, qui enbardit à entreprendre ce que la paresse, et la timidité d'esprit faisoit regarder comme impossible. En lisant votre lettre, j'ai senti l'ardeur renaitre en moi et une impulsion irresistible m'a forcé de reprendre la plume; le fil des connoissences et des idées liées au sujet que je traitai, il y a deux ans, s'est presenté comme de lui méme. Les difficultés d'un travail pénible, et d'une lecture immense pour des yeux aussi chetifs que les miens, ainsi que celles que mon état actuel de voyageur occasionnent necessairement, ont disparu et je me suis trouvé un autrefois assez audacieux pour entreprendre d'ecrire sur la litterature françoise, malgré ma qualité d'etranger. Je vous envois ce fruit de vos conseils, vous priant de parcourir mon ouvrage à momens perdus, et si vous trouvez qu'il puisse pretendre au concours pour le prix, faites moi l'amitié de le faire tenir à M. Freret par le Bureau de l'Intendence. Que n'aise-je cus dans le cours de mes recherches le secours de cette histoire de Louis XI qu'un qui pro quo cruel a fait livrer aux flammes[260]. L'abondance de vos lumieres m'auroient guidé, et fait donner autant de varieté que d'agrément à mon sujet, qu'en devroit fournir la diversité des objets que j'ai été obligé de parcourir. Si je reusis, je vous regarderai comme la premiere cause de mes succés ainsi que le mouvement des [192] Planetes doit son étre aux premier mouvement du firmament ou plutot comme celles - ci doivent leurs lumières à celle du premier Astre. Adieu mon cher ami usque ad aras. III. Helvétius a O. GuascoDe Paris, 31 Août 1751[261] Oui vraiement Mr. je suis marié[262]. J'ai peché contre la Philosophie[263], et j'en demande pardon à vous le premier des Philosophes. C'est une sotise de l'Amour dont je ne puis me repentir, et je n'ai rien de mieux à faire à cet égard que de mourir dans l'Impenitence Finale. Vous allez donc encore recourir le monde[264]. Vous trouverez surement partout des admirateurs, et des amis. Mais [193] vous n'en trouverez nulle part de plus sincere que moi, ni qui desire plus vivement votre amitié. Je compte à votre retour d'Italie vous présenter ma femme, et j'espère qu'en la connoissant vous n'aurez pas de peine à me pardonner. Je suis avec respect Mr. et cher Ami. IV. Helvétius a O. GuascoDe Voré en Perche, le 8. 8bre 1758 Non Monsieur quoique j'aime beaucoup les femmes, je ne suis point auteur de l'Ami des femmes[265]. Ce n'est pas que je n'aie fait un livre, et un livre en 4° qui pis est. Mais quoique j'aie parlé d'elles avec tous les sentimens qu'elles meritent comme elles les font nàitre, elles n'en sont pas l'objet. C'est l'esprit à quoi je me suis attaché, et je comptois que les persecuteurs quelquonque n'en vouloient qu'au corps mais c'étoit une erreur grossière. On m'a traité à la Bayle, et à la Montesquieu. Je m'en consolerois si c'étoit un presage d'une future association à leur gloire. Mais de tant je ne me fiatte. Je n'ai pourtant pas à me plaindre du succès: les achetteurs on été aussi alerte que les persecuteurs. J'ai osé vous citer dans une de mes notes. C'est la lettre que Milord Chesterfield vous ecrivit au sujet de l'Esprit des Loix[266]. N'en soyez pas faché. Je vous assure de mon respect. [194] V. Helvétius a O. GuascoJanvier 1759[267] Vous n'aurez point de compliments Monsieur puisque vous n'en voulez point, je vous sauverai même ceux du nouvel an. Mais vous voudrez peut-être bien recevoir mes remercimens sur tout ce que vous me dites de mon livre. Il ne me falloit pas moins que cela pour me consoler un peu des persecutions [195] que les Jesuites, et leurs devots ont suscités contre moi. Vous aurez sans doute vu leurs saintes imprécations, leurs imputations odieuses, et leurs magnifiques calomnies dans leurs Trevoux. Les ames honnêtes sont obligés de chercher longtems le mal avant de le découvrir même ou il est: les jesuites savent très bien le trouver méme ou il n'est pas; Voila ce que vaut une adresse exercée. Je ne dois pourtant pas me plaindre d'eux. j'ai été elevé au College de Louis Le Grand, et ces RR.PP sont en droit d'en conclure que je scais très bien deguiser mes intentions et que plus je proteste de leur pureté plus il y a des restrictions à supposer et de faux fuyant à craindre. Au reste je me felicite d'avoir pu fournir quelques gibiers a un chasseur tel que vous. Votre [196] honnète critique me fait honneur. A Dieu, Monsieur, Ma femme vous fait ses complimens, et moi je vous prie de vous souvenir quelques fois de Moi. Vale, et me ama. VI. F.Venuti a O. GuascoLivorno, 31 dicembre 1753 Beato voi che sapete essere nel medesimo tempo viaggiatore cortigiano e filosofo; che sapete togliervi dal mezzo di Roma per andare nelle solitudini. Mi dicono però che il vostro ospite è un seccatore, chiacchierone, che pretende molto sapere perché ha molti libri[268]. Io vi confesso che se avessi [197] a scegliermi un soggiorno per passarvi la vita, questo non sarebbe Roma. Mi paion tanto ridicole le maniere di codesta Corte, la quale si occupa come le donne in bagatelle di precedenze, di cappelli rossi o paonazzi, che una Persona di bon senso e che guarda gli uomini da spettatore, non può fare a meno di non entrar nella setta di Eraclito. Credete voi che gli Apostoli s'immaginassero di dovere aver successori simili, vani, ambiziosi, ricchi delle spoglie altrui, vendicatori e potenti? Ma bisognava prima di ogn'altro cangiare la natura umana. Godo che voi riportiate a casa maggiore idea degli Antichi, che dei Moderni Romani, i quali non sarebbero buoni a far loro se non la cucina. Avete voi letto il libro di Voltaire sul secolo di Luigi XIV? Vi sono tratti molto arditi, ma si dura gran fatica a leggere [198] l'opera tutta intera scucita stiracchiata ampollosa e spesso mendace. Non dubito che vi provederete costà delle Dissertazioni dell'Accademia Etrusca; opera mal menata dallo stampatore Pagliarini, che pure bisogna lisciare per trovare chi stampi in Italia cose, che in altri Paesi si pagherebbero a bei danari contanti. Io vado ora mettendo assieme i materiali per il VII tomo. So che voi volete predicare avanti il Papa in materia antiquaria, e desidero che la sua benedizione vi vaglia quella dell'Accademia di Parigi[269]. A proposito non mi è riuscito mai veder caratteri ne di Montesquieu, né di Barbot, né di alcun amico di Parigi. Rarissime volte mi scrive Le Franc e l'afflitta Contessa, sicché mi son quasi spogliato di tutti gli attachi con quella amabile ma incostante Nazione. Cosa che non mi sarei mai pensata, e che mi fa accorgere, che mi accosto a quell'età in cui tutto diventa indifferente. La mia ambizione si riduce a procacciarmi una domestica solitudine in seno alla mia famiglia in una campagna, a cui il cielo nulla ha negato delle sue ricchezze. Vi annoierete ancor voi una volta di quel vortice che vi strascina pel mondo, e vedrete che tutti gli uomini operano diametralmente in contrario alla loro natura e a loro desideri. Questo è assai filosofare. Prima di partire per Napoli scrivetemi che ho qualche incumbenza da darvi per quel Paese[270]. Scrivetemi ancora se tornerete a Vienna perché anco colà avrei bisogno di voi. Il Padre Beria e l'avvocato Baldasseroni vi rendono centuplicati i saluti. Io vi auguro sanità, bezzi, avanzamenti e tutto quel che potete desiderare in quest'anno nuovo con molti in appresso di simil tempera. Addio. [199] VII. F.Venuti a O. GuascoRoma, 29 luglio 1759 E come diavolo si può fare a scrivere a voi se sempre girate come i zinghari? Godo che siate vivo, e stiate bene. Io piango con voi il naufraggio delle quattro Statue antiche, che avevo comprato per voi, e godo che simil disgrazia non sia accaduta alle altre due per il principe Carlo. Una parte de vostri libri è dunque andata anche nel fondo del mare. Il guaio maggiore si è che il libraro vuol esser pagato, ed à ragione, perché esciti dalla bottega sono a carico del compratore. Sono false idee che i Francesi mi levino gli avventori, sono gli Italiani. Il vostro Francese è stato due volte da me, gira solo, e vede pochissimo le antichità, non essendo questo il suo gusto. I cardinali Francesi, e i loro Abbati girano parimenti soli, e male, non avendo né direzione né lume, ma in quella nazione regna molto l'Economia, o la scarsezza di denaro. Il nuovo Papa Santo vuole gran rifforme nelli Ecclesiastici, serve a Tavola i Pellegrini, visita li Spedali, non vuole spettacoli le Feste, cose buone e sante: ma per il governo poi non sò cosa sarà. Il Cardinal Spinelli per adesso può molto. I Ministri sono deboli, il nepote giovane è buono; regneranno i colli torti, e in conseguenza l'ignoranza, e l'Impostura, i Letterati saranno odiati, e le Accademie di Palazzo andranno a monte. Già saprete le traversie de Gesuiti in Portogallo; il Papa è loro amico. Mandatemi le opere del bravo Antiquario Froelich. Qua non abbiamo che un'edizione delle opere inedite del Baronio in tre tomi in quarto. Il Dizionario Enciclopedico si stampa a Lucca, che vergogna per i vostri Francesi, che non si continui. Tutto il Meursio vien pubblicato dal Lami. Amate me, che sono vostro con tutti li Amici. VIII. F.Venuti a O. GuascoRoma, 5 Aprile 1760 Averò piacere che venghiate in Italia, ove può essere che i vostri Occhi miliorino[271]. È passato di qua l'Ambasciator di [200] Francia che và a Napoli, che ha detto conoscervi molto. Sono qua a vedere queste funzioni della settimana Santa molti Tedeschi, ma non paion curiosi d'altro, o fanno alla peggio il viaggio Antiquario. Il Cardinal Alessandro, e Feroni vi salutano. Il p[272]rimo è poco contento del Papa, come anche il Paese. Il Pontificato è inetto affatto e tutto và alla peggio. I Francesi non bravano che qua. Di Portogallo non vi sono più nuove da gran tempo e noi ci godiamo seicento Gesuiti Portoghesi. Gli scritti a favore, e contro sono continui, e sono venuti a noia. Queste sono le nuove. Il marchese Guasco non lo vedo quasi mai, e se ne stà quasi sempre dalla duchessa d'Atri. Io stò bene, state voi sano e amatemi. IX. Philippe Dormer-Stanhope, conte di Chesterfield a O. Guasco[273]Londres, 26 Avril 1757 La raison, Mon cher comte, pourquoi je ne vous ai pas ecrit depuis si longtemps, pour vous remercier de mille attentions que vous avez eu pour moi, c'est que je n'ai pas pu. Vous m'aurez peut etre cru mort, et vous ne vous seriez beaucoup trompé. Car depuis un an et demi j'ai été mouraent. Tourmenté a tout moment de vertige, accablé de languers, et d'abbattemens, loin de pouvoir agir a peine pouvois je penser, et ma tete et ma main se refusoient egalement a mes desirs, tant l'union du corps et de l'esprit ou de l'ame si vous l'aimez mieux est intime. Quoiqu'un peu mieux dans ce moment, a peine puis-je vous temoigner ma reconnoissance des marques reiterées que vous m'avez donné de votre souvenir [201] et de votre amitié, surtout des livres de votre composition que vous avez eu la bonté de m'envoyer l'année passée. Je les ai lu avec un tres grand plaisir: ils sont egalement agreables et utiles; l'erudition et les graces s'y trouvent heureusement reunis. J'attend avec impatience les nouveaux volumes de notre academie dont vous vous etes chargé pour moi. La lecture qu'on appelloit autrefois la medecime de l'esprit est actuelement devenue mon unique resource et ie suis devenu par nécessité helluo librorum. Je suis bani de la société par ma malheureuse surdité, et mon esprit affoibli avec mon corps ne me permet plus d'écrire. Je ne fais donc plus que lire, et il me faut une lecture variée, parceque ie ne puis plus appliquer mon esprit longtems de suite au meme objet; de sorte que je trouve parfaitement mon copte dans les memoires de l'academie qui me fournissent toujour a l'ouverture du livre quelques choses d'agreables et d'instructifs. Pour moi qui ne peut plus vous être ni l'un ni l'autre, je fìnirai ma lettre en vous assurant que je suis veritablement votre fidele ami et serviteur. X. Boutru[274] a O. GuascoParis, 17 Aout 1757 J'ai lu, Monsieur, le livre que Monsieur l'abbé Venuti a fait en reponse au Marquis d'Argens[275] et je ne puis vous cacher que je suis très surpris qu'il ait parlé comme il a fait sur le compte de nos artistes et sur l'état actuel des Arts en France. Si j'eusse pas fait venir ce livre de Rome pour en juger par moi même je l'aurois pu croire qu'un homme aussi recommandable par ses connoissances et ses talens, par l'honneteté de ses moeurs et de son caractere se fut abbaissé jusqu'à mettre au jour les platitudes, les faussetés, et les miseres que j'ai trouvé sur notre Ecole, et qui quoiqu'en dise Mr. Venuti s'etendent jusque sur la Nation en general. C'est sans doute un piege qui lui a été tendu et dans lequel je suis [202] très faché qu'il soit tombé. Il s'est rendu volontairement le jouet et l'instrument de l'ignorance de la basse jalousie et des envies particulieres de quelques artistes subalternes contre leurs Maitres et contre des gens dont ils n'ont pas l'honneur d'etre rivaux. J'ai été faché par l'interet que je prend a Monsieur l'abbé Venuti qu'il n'ait pas seu conserver l'avantage que tout Ecrivain sage instruit et moderé auroit sur Monsieur le Marquis d'Argens dont l'ouvrage etoit fait pour tomber de lui meme et est a peine connu ici par le peu de cas qu'on en fait[276]. Cet ouvrage n'etoit pas digne de l'honneur qui lui a fait Mr. l'Abbé Venuti qui par la maniere dont il y a repondu s'est malheureusement donné les mémes torts et les mémes ridicules. Il ne scait pas que le gens qui cultivent et qui aiment les arts en France font tous le cas qu'ils doivent des grands Maitres d'Italie et de leurs Chef d'oeuvres et fort peu de ceux qui en parlent sans les connoittre. Ils ignorent que nous mettons nos artistes a la place qui leur est due, que les sotises de Mr. D'Argens non sont pas à beaucoup près le voeu de la Nation laquelle ne peut desavoeur autrement un ouvrage de cette espece que par l'oubli dans lequel on le laisse tomber. L'escuse qui donne Mr. Venuti de n'avoir été que traducteur ne le justifie pas et je suis trop de ses amis pour l'employer en sa faveur. Au surplus si je ne deguise ma façon de penser sur l'ouvrage de Monsieur Venuti je ne me fais pas non plus sur le cas que je fais de sa personne sur les obligations que je lui ai et sur le desir que je conserverai toute ma vie de lui temoigner en toute occasion mon estime. C'est de quoi je vous prie de l'assurer. J'ai l'honneur d'etre & C. XI. J.-J. le Franc de Pompignan a O. Guasco
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[*] Originariamente apparso in
"Materiali per una storia della cultura giuridica", I, 1971, pp. 55-209;
nella presente edizione, curata da Calogero Farinella e Davide Arecco,
la paginazione originale è riportata tra parentesi quadre ed in
grassetto. [1] P. BERSELLI AMBRI, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze, Olschki, 1960, p. 219. [2] Ibid., pp. 214-215. [3] G. LANSON, Le déterminisme historique et l'idéalisme social dans l'"Esprit des Lois", in Etudes d'histoire littéraire, Paris, 1930, p. 157. [4] BERSELLI AMBRI, cit., p. 216. Sulle prime reazioni inglesi, cfr. F.T.H. FLETCHER, L'Esprit des Lois" before Early British Opinion, in "Revue de Littérature Comparée", XIV, 1934, pp. 527-541. Nonostante che tutto l'interesse fosse stato nel 1749 monopolizzato dal Bolingbroke, che in quell'anno aveva pubblicato la sua Idea of a Patriot King, nel marzo 1750 il Guasco da Londra poteva dare al Montesquieu lusinghiere notizie su "l'approbation des Anglois"; e l'anno dopo, nel febbraio 1751, il Clément poteva scrivere che, a Parigi come a Londra, l'Esprit des Lois era riguardato come "un des meilleurs livres de ce siècle" (BERSELLI AMBRI, cit., p. 533, n. 3). Sin dal giugno-ottobre 1749 la "Monthly & Critical Review" aveva pubblicato, assieme a una notizia dell'opera, qualche estratto di essa. Ai primi di giugno dello stesso anno si faceva a Londra una ristampa dell'edizione del 1748. La prima traduzione inglese - quella del Nugent - apparve nell'autunno 1750 (quasi contemporaneamente - giova sottolinearlo - a quella italiana di Napoli): traduzione che nel 1773 raggiungeva la sua decima edizione. Su l'influenza esercitata dal Montesquieu sopra la cultura britannica, cfr. i numerosi contributi dello stesso Fletcher (D.C. CABEEN, Montesquieu: A Bibliography, New York, 1947, NN. 420-426), soprattutto lo studio conclusivo, degno di essere additato a modello, Montesquieu and English Politics (1750-1800), London, 1939; e R.S. CRANE, Montesquieu and British Thought, in "Journal of Political Economy", XLIX, Chicago, 1941, pp. 592-600. [5] BERSELLI AMBRI, cit., p. 216. [6] Del Gianni la Berselli parla di sfuggita, accennando che "stava redigendo la costituzione leopoldina, nella quale, com'è noto, si sancisce per prima cosa la separazione dei poteri" (p. 93). E le par poco? Quale prova migliore che il Montesquieu era penetrato profondamente nella cultura toscana, nel tentativo di tradurre in realtà costituzionale uno dei principi-chiave del suo pensiero politico? Personalità caratterizzata da una forte adesione al concreto, il Gianni non amava pedanteggiare: non troviamo riferimenti alle sue letture nei suoi scritti, che non sono del resto pagine di teoria, ma esami di situazioni reali a scopi di immediata riforma. Avendo trasfuso i suoi autori in succo e in sangue del suo pensiero, passava a farne valere le esigenze nell'azione quotidiana di governo. Pure una volta, nell'ozio forzato di Genova, scrivendo a Giovanni Fabbroni, e con l'aria di scusarsi della momentanea debolezza, si lasciò andare a citare un luogo di Montesquieu (evidentemente sua lettura in quei giorni amari), aggiungendo: "quel grande autore" (F.M. GIANNI, Scritti di pubblica economia, II, Firenze, 1849, pp. 346-347). Del suo gran progetto di trasformare il granducato in un regime rappresentativo con l'intento "di far pervenire dalla nazione al trono la cognizione dei bisogni delle piccole comunità, delle maggiori provincie, e dell'universale dello stato" è stata indicata l'origine pratica: una riforma dello stato, un allargamento della sua base sociale, era la conclusione inevitabile delle riforme e la condizione perché il modo riformistico non si arrestasse di fronte alla resistenza degli interessi costituiti. Più ancora che nelle pagine a commento del progetto di costituzione, è nelle Meditazioni sul dispotismo (pubblicate parzialmente dal Venturi) che bisogna cercare le pagine più fortemente personali del Gianni, il punto d'arrivo della sua meditazione politica. Il motivo montesquiano vi è approfondito e ravvivato, come al solito, dalle esperienze personali, da un vigorissimo impegno di lotta (Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a c. di F. VENTURI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, pp. 1065-1075); F. DIAZ, F.M. Gianni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966. [7] L'Alfieri è il grande assente del libro della Berselli; ed è dimenticanza grave. Montesquieu era per lui uno dei pochi "scrittori del vero", che vissero indipendenti e non protetti da nessuno. Tuttavia "chi può dubitare... che Montesquieu e Corneille, non riconosciuti né onorati dal principe, e aventi una esistenza indipendente affatto da lui, non sarebbero andati molto più in là nelle loro massime, sviluppando e lumeggiando col loro forte pennello tante importantissime cose spettanti alla felicità umana, le quali si vedono appena accennate e velate assai nei loro timidi scritti?". E più avanti: "Montesquieu... alquanto più ardiva [del Montaigne], ma non però mai abbastanza: il che di tanto più gran macchia sulla sua fama riesce, quando si vede benissimo da ciascuno che egli per solo timore tacque, o adombrò o intralciò quelle semplici ed alte verità, le quali egli pure assai vivamente nel più profondo del cuore sentiva" (V. ALFIERI, Del Principe e delle Lettere, in Scritti politici e morali, vol. I, a c. di P. CAZZANI, Asti, 1951, pp. 134, 183). Non si fa fatica a individuare i motivi dell'opera montesquiana che raccoglievano il consenso e l'ammirazione dell'Alfieri; e a scoprire perché, confrontandoli al proprio sentire, li trovasse svolti con troppa reticenza; sono certamente i motivi antitirannici. Nel Trattato della Tirannide, nato da una personalissima rimeditazione del "dotto e profondo Montesquieu" (così si legge nella prima stesura dell'opera; Scritti, cit., II, p. 332), l'Alfieri dava egli stesso un saggio di come andassero "liberati" i concetti montesquiani degli impacci con cui li aveva avvolti il loro autore: annullata la distinzione che il Montesquieu s'era ingegnato a segnare tra despotismo e monarchia, colpiva con la stessa condanna tutte le monarchie europee (eccezion fatta per l'inglese, una "quasi-repubblica"). I concetti del Montesquieu subivano tutti, da parte dell'Alfieri, una caratteristica intensificazione: la crainte diveniva la "paura", "la vicendevole paura che governa il mondo" (M. FUBINI, Vittorio Alfieri, Firenze, 1953, II, pp. 32-33, 387). Se è vero che l'Alfieri trovò soprattutto in se stesso le ragioni morali per rifiutare l'esperienza dell'assolutismo illuminato, è pur vero che dal Montesquieu la sua rivolta trasse il primo alimento, e che al Montesquieu egli ricorse ancora nei suoi ultimi anni per dare un contenuto positivo al suo ideale politico, per vago che fosse. (Si veda pure la giustificazione su l'autorità del Machiavelli e del Montesquieu, della vitalità per le "vere repubbliche" delle "gare eterne" delle classi, delle "dissensioni", insomma delle lotte sociali e politiche, e dei partiti). La lettura dell'Alfieri è meno personale, meno unilaterale di quanto si potrebbe pensare. "L'odio del Presidente di Montesquieu verso ogni governo assoluto - l'osservazione è del Galiani - traspare in tutti i suoi scritti, sebbene egli abbia cercato mascherarlo..." (F. GALIANI, Della moneta e scritti inediti, a c. di A. MEROLA, Milano, 1963, p. 342): un odio in effetti violento verso tutti gli abusi della forza, verso il potere arbitrario, verso l'inquisizione e l'intolleranza religiosa, verso la schiavitù, verso l'oppressione dell'uomo sull'uomo. "Per tutto egli combatte il Dispotismo - notava il "Giornale Enciclopedico" di Firenze in un articolo peraltro fortemente limitativo del valore dell'opera montesquiana -, rende odiose le genti di Finanze, spregevoli i cortigiani, ridicoli infine coloro che sono inutili al bene della società. Tutti quelli pertanto che non sono né oziosi, né finanzieri, né cortigiani, né aspiranti ad esserlo, hanno ricevuto quest'opera coll'ultimo gradimento" ("Giornale Enciclopedico di Letteratura Italiana e Oltremontana", Italia, 1780, vol. I, p. 54). È il motivo più profondo circolante nell'opera, la sua inconfondibile coloritura morale: sottolineando questo motivo l'Affieri (e prima di lui il Cerati, il Niccolini etc., per limitarsi ai soli italiani) andava veramente al cuore del pensiero montesquiano, al cuore del suo universo di valori. [8] Cfr. E. CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la Constitution française au XVIIIe siècle, Paris, 1927, pp. 103 e segg.; F.T.H. FLETCHER, English Imitators of Montesquieu, in "Revue de Littérature Comparée", XIII, 1963, p. 491: "The impetus thus given to political thought by the Esprit des lois must be accounted in large measure responsible for the accelerated production in England of works on political subjects immediately following its publication". [9] E. CARCASSONNE, cit., p. 110. [10] F. VENUTI, Il Trionfo letterario della Francia, Avignone, 1750, p. 27. [11] J. EHRARD, Politique de Montesquieu, Paris, 1965, p. 7. Cfr. pure de1lo stesso Études sur Montesquieu et l'Esprit des Lois, in "L'Information littéraire", mars-avril 1959. [12] G.M. BUONDELMONTI, Ragionamento sul diritto della guerra giusta, in "Magazzino Toscano", II, 1755-1756, p. 522. Giuseppe Maria Buondelmonti non era sicuramente il "Connétable Buondelmonti" conosciuto dal Montesquieu al tempo del suo viaggio italiano (Montesquieu, Oeuvres, ed. A. MASSON, II, Paris, 1953, p. 1091), come opina la Berselli. Un semplice calcolo delle date ce ne fa certi: Giuseppe Maria era nato il 13 settembre 1713 (G.M. MAZZUCCHELLI, Gli Scrittori d'Italia, vol. II, p. IV, Brescia, 1765, p. 2374). Dubito anche che il Ragionamento sopra la guerra giusta fosse un rifacimento dell'orazione funebre pronunziata il 16 gennaio 1741 (non 1740) in morte di Carlo VI, orazione che, "per essere in alcune parti assai mordace", non fu mai pubblicata: il contenuto del Ragionamento e la natura affatto differente dell'orazione mi fanno escludere che tra i due scritti vi sia dipendenza. Altri scritti che il Buondelmonti ("il più gran talento - aveva detto l'amico de Soria - tra i Fiorentini viventi e che ha pochi eguali, anche nell'altre nazioni": Raccolta di opere inedite del dottor Giovanni Alberto De Soria, Livorno, 1773, vol. I, pp. 46-48) lasciò inedite morendo il 7 febbraio 1757 - tra i quali il Mazzucchelli segnala un Ragionamento sopra alcuni articoli del Dizionario Enciclopedia (ossia presumibilmente considerazioni critiche su voci apparse nei primi sei volumi dell'Encyclopédie) ed una illustrazione "di uno de' più astrusi passi del Saggio del Locke" (G.M. MAZZUCCHELLI, cit.., p. 2378) - meritano certamente di essere ricercati e studiati. Del Ragionamento la Berselli cita una fantomatica edizione del 1751: esso apparve invece la prima volta nel "Magazzino Toscano" (II, 1755-1756, pp. 521 e segg.), ma, essendone la stampa scorretta, il Buondelmonti ristampò il suo discorso in Firenze nel 1756 e, ancora in Firenze, nel 1757, aggiungendovi un altro suo Ragionamento (la Lettera sopra la misura, e il calcolo dei dolori, e dei piaceri apparsa tra le Dissertazioni e Lettere scritte sopra varie materie da diversi illustri autori viventi, t. I, Firenze, 1749, pp. 109-118, con la quale il fiorentino si inseriva nella disputa, in quel momento viva nei settori più avanzati della cultura europea, elaborando in maniera interessante il concetto lockiano di Uneasiness; per le polemiche suscitate da tale scritto vedi G.M. MAZZUCCHELLI, cit., pp. 2377-2378). Nel Ragionamento sopra la guerra giusta il Buondelmonti riprendeva e svolgeva, alla vigilia della guerra dei sette anni, al cospetto degli accademici della Crusca l'invito montesquiano a stabilire un nuovo ordine internazionale, una benevola solidarietà tra le nazioni, per costruire la città dell'uomo nel mondo intero; difendeva i diritti dell'umanità nello stato di guerra, "indeboliti, e distrutti" da "certi famosi scrittori"; condannava le "guerre crudeli e sterminatrici"; affermava, con le parole stesse del Montesquieu, l'influenza benefica del cristianesimo su gli ordinamenti politici interni e su i rapporti internazionali ("...nella guerra noi dobbiamo al Cristianesimo un certo diritto delle genti diverso dall'antico e dal barbaro, non meno di quello che gli dobbiamo nel governo interiore un certo diritto politico si opposto al Despotismo Orientale, e tirannico...": cit., p. 535), faceva solenne professione di cosmopolitismo ("Ma noi altri potenti Europei colti, e orgogliosi abitatori di una parte sola della terra assai minore del rimanente, riguardiamo con troppo disprezzo, e con occhi poco filosofici il restante degli uomini, e ci facciamo centro del genere umano, nella stessa guisa che molti filosofanti han fatta la terra centro dell'Universo" (Ibid., p. 537). Per l'eco avuta da questo scritto cfr. "Novelle Letterarie", Firenze, 1756, col. 577; "Novelle Letterarie", Venezia, 1756, p. 324; "Memorie per servire alla storia letteraria d'Italia", novembre 1756, p. 63. La Berselli, non toccata da questi accenti, considera tutto lo scritto una "prova lampante che il suo autore mancava del minimo spirito critico" (p. 94): giudizio, a dir poco, iniquo. L'interesse di questa figura del mondo fiorentino-pisano del primo settecento è accresciuto dalla conoscenza, ch'egli ebbe larga sin dalla giovinezza, della letteratura filosofico-religiosa inglese: Locke in primo luogo, ma anche Swift, Butler, deisti e free-thinkers. Ne è una prova la lettera premessa alla versione bonducciana del The Rape of Lock: versione alla quale il Buondelmonti pare che avesse collaborato in maniera decisiva (Il Riccio rapito... del Sig.r A. Pope, tradotto dall'inglese in verso toscano, Firenze, 1739). Le posizioni deistiche sono però, nella lettera in questione, fermamente respinte: in essa è non solo riaffermata la necessità della rivelazione contro le esigenze della "pura ragione", ma è predicata l'assoluta obbedienza alla tradizione cattolica ("è necessario rinunciare assolutamente alla critica privata [dei dogmi], ed acquietarsi nella visibile autorità delle invariabile Chiesa Cattolica", cit., pp. 14-15). Tra i più importanti corrispondenti del Buondelmonti pare che fosse il D'Alembert: la notizia è credibile, dati i legami del toscano con il Lomellini, grande amico, si sa, del filosofo francese (cfr. S. ROTTA, Documenti per la storia dell'Illuminismo a Genova. Lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in Miscellanea di storia ligure, I, Genova, 1958, pp. 189-329). Purtroppo temo che le sue carte più non si trovino. Nel gennaio 1768 Giuseppe Pelli pensava di procurare un'edizione degli scritti in prosa e in versi di quel "gran talento" (ad eccezione delle cose oscene); aveva anzi - così diceva - "tirate delle linee per avere le cose inedite, che possiede il sen. Buondelmonti suo padre". Ma in margine annotò qualche tempo dopo: "Non ne fu fatto altro perché trovai poche poesie" (G. PELLI, Efemeridi, Serie I, vol. XX, p. 83; Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, N. Acq. 1050/I). Era stato tra i primissimi in Firenze ad aderire alla massoneria ed era stato nel 1738 implicato nell'affare Crudeli. In attesa del saggio che gli ha consacrato E. Cochrane, cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 55, 56, 57, 318, 448 n. 5; M. ROSA, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni "repubblicane" di Machiavelli, Bari, Laterza, 1964, pp. 1-14. [13] Ibid., p. 522. [14] Ibid., p. 523. [15] Cfr. R. DERATHÉ, Jean Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Paris, 1950, cap. II. Va notato che il Montesquieu si dichiarava egualmente obbligato sia verso il Grozio che verso il Pufendorf, ed entrambi giudicava "grands hommes": "Je rends gráces à MM. Grotius et Pufendorf d'avoir exécuté ce qu'une grande partie de cet ouvrage demandoit de moi, avec cette hautear de génie à laquelle je n'aurois pu atteindre" (MONTESQUIEU, Oeuvres, ed. A. MASSON, II, Paris, 1953, p. 556). [16] Un esempio di utilizzazione del Montesquieu in difesa dei privilegi nobiliari è la Lettera al Sig. Cavaliere Don Gaetano Filangieri sull'esame d'alcuni progetti politici di Giuseppe Grippa, professore di matematica in Salerno, datata 14 agosto 1782. Perché attaccare l'aristocrazia - sosteneva l'abile professore - quando questa era precisamente l'unica forza capace di opporsi al dispotismo? "I principati d'Europa non cadono nel dispotisrno de' governi dell'Asia a cagione del sistema de' feudi e dell'ordine de' baroni". Era il feudalesimo a costituire la gran differenza tra Europa ed Asia: era esso il baluardo "della prosperità e della libertà de' popoli". Nel 1784 il Grippa ristampava la sua lettera aggiungendovi numerose pagine polemiche con il titolo: La Scienza della Legislazione sindacata. Contro il Grippa e in difesa del Filangieri replicò subito Michele Torcìa nel suo Sbozzo del commercio di Amsterdam, uscito nello stesso 1782. L'altro esempio, citato da M. ROSA (Sulla condanna dell'"Esprit des Lois" e sulla fortuna di Montesquieu in Italia, in "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", XIV, 1960, p. 427), è quello dell'abate siciliano Salvatore Cannella (cfr. R. ROMEO, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, 1950, p. 92 n. 62). Ma, in questo caso, più che d'influenza del Montesquieu, si deve parlare d'influenza del Bolingbroke (L'elogio di Mylord Bolingbroke, quale possa servire come di preliminare a' di lui saggi filosofici, composto da S.C.S. [= S. Cannella Siciliano], Cosmopoli [ma Palermo], 1794). [17] Del tipo, per intenderci, di quel James Beattie, professore di filosofia morale al Marischal College di Aberdeen rivelatoci dal Lough (J. LOUGH, L'Esprit des Lois in a Scottish University in the Eighteenth Century, in "Comparative Literature Studies", XIII, Cardiff, 1944, pp. 13-16). [18] C.P. COURTNEY, Montesquieu and Burke, Oxford, 1963. [19] M. DELFICO, Opere, a c. di G. PANNELLA, vol. IV, Teramo, 1904, p. 15. La Berselli trova questo passo, che è chiarissimo, "troppo logico e piuttosto peregrino", e ne conclude che il Delfico respingeva l'idea della divisione dei poteri e della monarchia costituzionale (pp. 161-162). [20] R. ZAPPERI, Burke in Italia, in "Cahiers Vilfredo Pareto", VII-VIII, 1965, p. 42. Alla diligentissima ricerca dello Zapperi aggiungerò tuttavia una scheda riguardante la Lombardia, del tutto assente dal suo quadro. Vale, naturalmente, quello che vale. Nel necrologio del Cons. Presidente Giovanni Gognetti apparso nell'Appendice alla "Gazzetta di Milano" del 12 agosto 1835, N. 224 si legge: "...nell'Università di Pavia niun giovane fu mai più caro di lui al sommo Gregorio Fontana suo maestro, il quale [...] se ne valse ben anche a giovevole aiuto nel voltar dall'Inglese la Storia della Rivoluzione di Francia che poi pubblicò". Il Custodi in margine notò: "non è storia ma il libercolo di Burke tradotto e stampato, prima del 1796, d'ordine ed a spese del governo austriaco della Lombardia" (Bibliothèque Nationale, Paris, Ms. italien 1551, f. 319). [21] Metto da parte, beninteso, i confutatori mossi da risentimenti più o meno religiosi. Il senso della loro polemica è, mi pare, ben riassunto da Antonio Valsecchi, che poteva benissimo figurare, nel libro della Berselli, accanto al Sandi al Concina, allo Scardua: se non altro in omaggio alla sua fama europea (il cardinale Garampi l'aveva tradotto perfino in polacco: cfr. A. PRANDI, Religiosità e cultura nel ‘700 italiano, Bologna, 1966, pp. 111-121, 256-378). Il professore primario di teologia nell'Università di Padova denunciava l'Esprit des Lois come uno dei "preziosi volumi" dei "libertini moderni": era offeso soprattutto che quel "grand'uomo" facesse nascere i monaci come i garofani, "per lo calore del clima" (A. VALSECCHI, Dei fondamenti della Religione e dei fonti dell'empietà libri tre, Padova, 17714, III, p. 300). Egli aveva scientificizzato la satira, aveva "ridotto la Satira alle leggi del calcolo" (p. 301). La totale riduzione del morale al fisico era per lui "la gran base, e, per così dire, lo spirito dello Spirito delle Leggi, sopra di cui, per conseguenza, l'alzata fabbrica deve crollare" (Ibid., II, p. 100, n. a). "Non si vuol negare però, - si affrettava ad aggiungere - che l'Autore non fosse dotato d'ingegno eccelso e di erudizione assai vasta, e che sparsa non sia l'opera di brillanti e acuti pensieri; ma questi son molte fiate sconnessi, e non legati in sistema. Le antitesi ci sembrano troppe; e perciò molte ve ne sono, che se fanno impressione nella fantasia per isbattimento di voci, forse non la fanno nello spirito per valore di cose" (Ibid.). Se nell'Esprit des Lois l'autore par che "ferisca, almeno in virtù di conseguenza, verità certissime di Religione", le Lettres Persanes "certamente putiscono per ogni lato" (Ibid.). E dei confutatori religiosi s'è detto abbastanza; anche perché nel libro della Berselli se ne parla anche troppo. Ben diverso suono danno, tanto per fare un esempio, le note con le quali Dalmazzo Francesco Vasco, nella sua prigionia, andava costellando la sua versione dell'Esprit des Lois. "Il clima colla schiavitù non ci ha che fare nulla. Tutte le antiche repubbliche della Grecia non sono adesso in schiavitù? Era forse diverso allora il clima?". "La schiavitù è contro natura in tutti i paesi del mondo", compresa quella dei negri d'America. E se gli abitatori delle montagne sono più liberi la ragione è (il Montesquieu stesso l'aveva intuito) che lo sono militarmente più sicure. Non ci sono popoli votati alla schiavitù: "alla fine, abbiamo provato il coraggio eroico degl'orientali quando il legislatore glielo ha saputo risvegliare, siché non gli si può negare; eppure costì fa caldo davvero" (D.F. VASCO, Opere, a c. di S. ROTA GHIBAUDI, Torino, 1966, pp. 303, 312-314). [22] M. GIOIA, Quale dei governi liberi..., a c. di C. MORANDI, Bologna, 1947, p. 47. [23] Ibid., p. 48. [24] Cit. da S. PIVANO, Albori costituzionali d'Italia, Torino, 1913, p. 399. In genere la Berselli ha il torto di non aver tenuto presente questo dibattito politico, che pure è rivelatore della cultura politica dei gruppi democratici: trattandosi di problemi costituzionali il Montesquieu non poteva ovviamente essere ignorato. Cfr. A. SAITTA, Un celebre concorso del 1797, Roma 1967. [25] Giacobini italiani, a cura di D. CANTIMORI, Bari, Laterza, 1956, vol. I, p. 327. [26] N. CARAVITA, Niun diritto compete al Sommo Pontefice sul Regno di Napoli... [a cura di E. PIMENTEL], Aletopoli 1790, pp. 140-141, n. 35. [27] J. JAURÈS, L'Armée nouvelle, Paris 1932, p. 312. [28] F. SCLOPIS, Recherches historiques sur l'Esprit des Lois, Torino, 1857. [29] S. ROTTA, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in "Il movimento operaio e socialista in Liguria", VII, 1961, pp. 204-285. Se Genova non è tenuta dalla Berselli in conto alcuno, più sfortunata non è la sua antagonista: voglio dire la Corsica, che pure fa parte, con pieno diritto, della vecchia Italia. E non si può proprio dire che la Corsica di questi anni fosse un angolo morto d'Europa. La necessità di creare nuovi ordinamenti politici e civili, di tradurre in istituzioni la "libertà" trasformava i capi dell'insurrezione in legislatori, pronti a utilizzare politicamente - sia per accrescere il prestigio internazionale della causa còrsa, sia per rafforzare la propria posizione personale all'interno del movimento - le idee e le figure più in vista del mondo dei lumi. Citerò un solo caso, ma significativo: la memoria inviata da Matteo Buttafuoco al Rousseau: Memoria sopra la Constituzione politica da stabilire nel Regno di Corsica; nella quale si dà un piano generale delle cose più essenziali che constituiscono un governo in Repubblica mista, Fatto al Vescovado, nel gennaio 1764 (Ms. Neuchâtel 7940) a proposito della quale il Buttafuoco dichiarava, nell'atto di rimetterla al Rousseau, il 31 agosto 1764: "...je commencerai par vous communiquer ce que mes faibles lumières et mon attachement pour ma patrie m'on dicté d'après vos principes et ceux de M. de Montesquieu..." e un anno dopo, il 19 ottobre 1765: "Vous m'inspirez une bien bonne idée d'un petit manuscrit daté de Vescovado. Mais, Monsieur, il n'est pas de moi; il est à vous, à Machiavel et au Président de Montesquieu. Je n'ai que le faible mérite d'avoir cousu vos idées. Trop heureux, si ce travail est adaptable au pays pour lequel j'ai fait cette recherche" (The Political Writings of J.-J. Rousseau, ed. by C.E. VAUGHAN, Cambridge, 1915, II, pp. 365 e 367). Sul Buttafuoco cfr. E. DEDECK-HERY, Jean-Jacques Rousseau et le projet de constitution pour la Corse, Philadelphia, 1932. [30] M. ROSA, Dispotismo e libertà, cit.; M. MIRRI, Profilo di S. Bertolini. Un ideale montesquieuiano a confronto col programma di riforma leopoldino, in "Bollettino Storico Pisano", XXXIII-XXXV, 1964-1966, pp. 433-468. [31] Le inesattezze nel libro della Berselli non sono poche. Oltre a quelle che dirò, eccone alcune delle più grosse. A p. 130 lo Stellini è detto autore di La morale del sentimento. L'opera è invece di Isidoro Bianchi. Lo scritto - una teorizzazione dell'"anima bella" di sapore piuttosto roussoiano - ebbe qualche rinomanza: lo Zacchiroli lo tradusse in francese e ne discusse pubblicamente alcune proposizioni (Lettere capricciose di F. Albergati Capacelli e di F. Zacchiroli dai medesimi capricciosamente stampate, Venezia, 1780, pp. 352-259), provocando una vivace replica da parte delle "Effemeridi Letterarie" di Roma (X, 1781, p. 160). A p. 134 il Roberti è citato come autore di un Saggio di legislazione, o siano mezzi per eccitare e promuovere l'amor della Patria nelle Monarchie e nelle Repubbliche (Bassano, 1791) che non è certamente suo, anche se l'autore vero resta da identificare. Il Roberti, un gesuita amico del Bettinelli ("L'unione nostra - questi diceva - fa quella de' Gesuiti, vera, schietta, cordiale, fraterna"), così penetrato dei costumi del secolo che il Tommaseo poté ricavarne, attraverso le sue pagine, un'immagine gustosa, era autore invece di un'opericciola Dell'amore verso la patria uscita postuma. È un ragionamento generico sopra l'amor di patria, dove son da notare le pagine sopra il falso patriottismo ("chi sa che il patriottismo di qualche mio caro lettore non sia che [...] un ammasso di pregiudizi, come ne dubitano Voltaire e Sant'Agostino?". [G.B. ROBERTI, Dell'amore verso la patria, Milano, 1831, p. 146]), le riserve su gli eroi ("Certo che alcuni furono anime veramente forti: ma alcune altre, e quelle forse di cui più romoreggia la storia, furono anime veramente fanatiche"; p. 121), nonché le lodi alla "filosofia sociale" del suo tempo ("Siano benedetti tutti gli autori che si mostrano amanti del prossimo, ed esortano gli uomini a far del bene agli altri uomini", p. 85). Del Verci e del suo romanzo Delì si dice che imitò le Lettres Persanes e che avesse "appresso qualcosa anche da Arsace et Isménie" (p. 135). Il romanzetto del Verci è del 1771; Arsace et Isménie non fu conosciuto che nel 1783. [32] Oeuvres complètes de Montesquieu publiées [...] sous la direction de M.A. MASSON, Paris, Nagel, 1950-1955. [33] MONTESQUIEU, Oeuvres complètes, ed. R. CAILLOIS, Paris, 1949. [34] MONTESQUIEU, De l'Esprit des Loix, texte établi et présenté par J. BRETHE DE LA GRESSAYE, Paris, Les Belles Lettres, 1950-1961, 4 voll. [35] Bibliothèque Nationale, Paris, Nouv. acq. franc. 12.832-12.836. Messo nel 1904 a disposizione del Barkhausen (che però s'era limitato a descriverlo e a pubblicarne i brani soppressi nell'edizione definitiva), fu acquistato dalla Bibliothèque Nationale nel 1939, ma a causa della guerra è stato reso accessibile agli studiosi solo nel 1946. [36] MONTESQUIEU, Oeuvres complètes, ed. CAILLOIS, p. XXXVI. [37] L'esperienza italiana del Montesquieu era stata affettuosamente rievocata dal Barrière in un saggio ignorato dalla Berselli (P. BARRIÈRE, L'expérience italienne de Montesquieu, in "Rivista di Letterature Moderne", III, 1952, pp. 15-28). Ma lo stesso Barrière riconosceva di essere stato troppo sommario, e che c'era ancora molto, moltissimo da fare: "Elle [expérience italienne] mériterait, répetonsle, une étude complète portant à la fois sur l'exactitude des faits et leur interprétation, sur les idées exprimées, leur rapport avec la pensée générale de Montesquieu et celle de ses contemporains, spécialement des italiens. Ce fut plus qu'une expérience intellectuelle, une expérience d'homme, engageant toute la personalité, une impregnation totale par un monde nouveau... c'est le temperament tout entier qui semeut et se transforme, l'étre tout entier qui vibre et qui jouit" (pp. 27-28). Un'esperienza, dunque, che aveva agito in profondo: al contrario di quanto accadrà in Inghilterra, "en Italie c'est une intime communion avec le pays tout entier, physique et moral. Pour la profondeur de l'impression subie l'expérience italienne n'a d'équivalent, dans l'existence de Montesquieu, que 1'expérience parisienne de ses jeunes années, mais combien celle-ci reste-t-elle plus étroite!... L'ironie et l'indignation des Lettres Persanes n'a pas la valeur de cette comprehension qu'il porte en Italie... " [Ibid.]. Finalmente: dopo tante belle frasi, e dopo aver rischiato di travestire il Montesquieu da viaggiatore romantico, la parola giusta. Il Barrière ignora infine il saggio, niente affatto spregevole, di E. FOURNIER DE FLAIX, Montesquieu statisticien. La population et les finances de l'Italie au XVIIIe siècle, in "Journal des économistes", XXXII, 1897, pp. 66-75. Di nessun interesse ormai (ma si poteva citarli nella non strabocchevole bibliografia sull'argomento) il saggio di E. ARMSTRONG, Montesquieu in Italy, in "Quarterly Review", CXC, 1899, pp. 43-65; e quello di C. CANTù, Montesquieu in Italia, in "Nuova Antologia", 1894, pp. 567-572. La recente pubblicazione dell'ottima biografia dello Shackleton (R. SHACKLETON, Montesquieu: A Critical Biography, Oxford, 1961) rende in gran parte superati questi studi. L'esperienza italiana del Montesquieu vi è studiata con tutta l'attenzione dovuta. Se mai lo Shackleton ha peccato in qualcosa, è stato forse nel sopravvalutare questa esperienza. Cosa di cui, a ogni modo, non saremmo noi a dolerci. Va da sé che la prospettiva dello studioso inglese è diversa dalla nostra. Per lui si tratta di ripercorrere a passo a passo la formazione del pensiero montesquiano, le sue "occasioni". A noi interessa soprattutto la storia della cultura italiana per se stessa in un'epoca - è stato detto autorevolmente - di crisi (F. VENTURI, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969). [38] Incaricato tra il 1702 e il 1717 di missioni varie in Germania, Olanda, Inghilterra, Spagna, Francia, Danimarca, il Rinuccini fu grande amico e protettore del Cocchi (curiosamente assente dagli incontri del Montesquieu). È' a lui che il giovane medico aveva inviato da Londra il 6 agosto 1724 la famosa lettera "intorno all'educazione e al genere di vita degli inglesi", dov'è anche un breve resoconto delle mode filosofiche d'Oltremanica: "In generale i filosofi inglesi, dei quali è padre il Newton, abborrono le ipotesi tanto familiari ai francesi; e, imitando il nostro Galileo, nulla supponendo, ed osservando solo le cose esposte ai nostri sensi, si affaticano di ridurre tutti gli effetti in natura per una catena di cause secondarie alle due prime ed oscure, gravità e attrazione, ove finiscono le loro indagini, non trovandosi altra dipendenza che dall'autore della natura suprema causa Iddio... Per l'astronomia hanno il Gregory; per la metafisica quel bellissimo trattato dell'Intendimento umano di Locke; e per conoscere le differenti opinioni degli Antichi un esatto e giudizioso libro nella loro lingua, che si chiama Sistema intellettuale del dottissimo Cudworth. Molti leggono il Newton ancòra, contentandosi di crederne le conclusioni sulla fede dei più eccellenti matematici che hanno esaminato le prove, le quali sono da pochissimo intese..." (A. COCCHI, Opere, I, Milano, 1824, pp. 450-451). Ritornato nel 1726 in Italia, il Cocchi, con l'aiuto del Rinuccini, aveva ottenuto la cattedra di medicina teoretica presso l'Università di Pisa. È ancora a lui che il Cocchi indirizza la sua celebre lettera sull'Henriade di Voltaire (S. ROTTA, Voltaire in Italia, in "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", I-II, 1971, p. 1). Già capo dei Consiglio di guerra della Reggenza, il 30 settembre 1738 ricevette con il Tornaquinci l'incarico di compilare una relazione intorno all'origine, progressi, regolamenti dell'inquisizione in Toscana (A, ZOBI, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, I, Firenze, 1850, p. 197 n. 33). Per la verità, il Rinuccini è nominato dalla Berselli, ma viene erroneamente chiamato Alessandro (p. 5). Che il Cocchi fosse "grand admirateur" dell'Esprit des Lois è rivelato da Stefano Bertolini (Notes à L' Esprit des Lois, vol. IV, [L. XIV, 2 § 3]; Arch. di Stato, Firenze, Fondo Manoscritti 780). Ma nel febbraio del 1750 non lo aveva ancora letto, con grande disappunto di Horace Walpole, che lo aveva proclamato subito "the best book that ever was written" (H. WALPOLE, Corrispondence with Sir H. He Mann, ed. by W.S. LEWIS, IV, London, W.H. Smith & G.L. Lam, 1960, pp. 107, 117, 126). [39] A. VECCHI, Correnti religiose nel Sei-settecento veneto, Venezia-Roma, 1962, pp. 225-305. Legato d'amicizia oltreché con il du Vaucel - pare - con il Quesnel, che nel 1700 avrebbe curato l'edizione lovaniense della sua opera maggiore (Historia congregationum de auxiliis), conservò fino ai suoi ultimi giorni simpatie per i giansenisti d'Olanda, per la chiesa separata di Utrecht, per il Codde (E. CODIGNOLA, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze, 1947, pp. 8-9). Ma, sul significato dell'insegnamento del Serry (di quest'uomo eccessivo che non sognava nei suoi ultimi anni che di bastonare e sculacciare) non bisogna equivocare. La Berselli scrive: "Indubbiamente a Padova esiste un gruppo di conservatori, e sul piano politico e su quello culturale...; ma nella stessa Padova, dalla metà del secolo all'occupazione francese, opera un gruppo che, per certi aspetti non ha dimenticato la tradizione averroistica del Pomponazzi, e dall'altro rivela l'efficacia del magistero del Serry" (p. 126). Serry, quest'uomo tutto preso del primato della teologia; quest'uomo che nei suoi ultimi anni aveva "fulminato" un confratello, Niccolò Concina, per il solo fatto che aveva osato prospettare la possibilità di un'autonomia filosofica del diritto naturale; quest'uomo ostilissimo a ogni novità filosofica messo insieme al Pomponazzi: un bel pasticcio ideologico. Giustamente il Vecchi conclude: "Il Serry, pur con le sue audacie ed i suoi assalti furibondi, restava figura assai più medioevale che settecentesca" (cit., p. 303): il rappresentante comunque di una linea di pensiero assolutamente inconciliabile con l'averroismo. [40] L'importanza di questo incontro non è sfuggita all'attentissimo R. SHACKLETON, Montesquieu, cit, pp. 100, 116, 340). La discrepanza tra la testimonianza del Montesquieu ("Il en a mené quatre" [i. e. studenti cinesi]) e la Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, che parla di cinque, è facilmente eliminabile: Montesquieu non tenne conto del loro precettore. Josef Athias così narrava il 20 novembre 1724 al Muratori l'arrivo a Livorno del missionario: "È arrivato qui dalla China per via di Londra il Signor Don Matteo Ripa Napolitano Missionario Abate di Sant'Angelo in [Nido] nel Regno di Napoli, il quale conduce seco un Tartaro Chinese già provetto intelligentissimo della lingua, caratteri e scibile della China, ma non intende né punto né poco le lingue Europee, questo deve servire da Maestro a quattro altri Chinesi di minor età, uno de' quali che avrà circa ventiquattro anni parla molto bene il latino, l'altro di pari età non è così abile, e gl'altri due avranno da quindici anni per uno; Il predetto Don Matteo è andato d'anni ventuno in China per Missionario, e vi è stato più di quindici anni, è intelligentissimo delle cose de Chinesi, ed à operato con gran zelo, et applicazione, sincerissimo nelle relazioni, senza incorrere nel difetto della più parte de' viaggiatori che ci vogliono inserire il mirabile" (Biblioteca Estense di Modena, Archivio Muratoriano", F. 52, fasc. 3). Fu proprio questa sincerità che probabilmente attrasse il Montesquieu. Non mancano sul Ripa e sul Collegio opere più recenti della Biografia utilizzata dallo Shackleton: G. DE VINCENTIIS, Documenti e titoli sul privato fondatore dell'attuale R. Istituto (antico Collegio dei Cinesi in Napoli), Matteo Ripa, sulle missioni in Cina nel secolo XVIII e sulla costituzione e consistenza patrimoniale della antica fondazione, Napoli, 1904; A. SISTO ROSSO, Apostolic Legations io China of the Eighteenth Century, South Pasadena, 1948; G.R. LOEHR, The Sinicization of Missionary Artists and Their Work ai the Manchu Court During the Eighteenth Century, in "Cahiers d'Histoire Mondiale", VII, 3, 1963, pp. 795-815. La Berselli si limita a scrivere: "L'abate Ripa, "bon ecclésiastique"" (p. 6). [41] A.H. ROWBOTTOM, China in the "Esprit des lois": Montesquieu and Mgr Fouquet, in "Comparative Literature", 1950; H. BERNARD-MAITRE, Un ami romain du président de Brosses: J.-N. Fouquet, in "Mémoires de l'Académie de Dijon", 1947-1953; R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 99-100. [42] La frase del Montesquieu farebbe pensare a un filologo di scuola maurina: attività tra le tante di quest'uomo (diceva il Conti al Vico il 3 gennaio 1728) "versato in ogni genere di studi" di cui non si ha conferma da altre fonti. Il Maffei, che dieci anni prima lo aveva "scoperto" o per dirla con le sue stesse parole tratto fuori dalla sua "tana" e che sognava per lui una "lettura" a Torino o a Padova, diceva tuttavia che era "atto a tutto" anche alle "belle lettere" (S. MAFFEI, Epistolario, e cura di C. GARIBOTTO, Milano, 1955, pp. 313 e 333). Forse la frase di Montesquieu va interpretata in senso largo: si sa che come revisore delle stampe il Lodoli a Venezia era "autorevole co' librai" (era stata sua l'idea nel 1728 di una nuova edizione venera della Scienza Nuova), ne orientava le scelte e formava per loro piani d'edizione di grande respiro. Non è da escludere che tra i suoi progetti ci fosse un'edizione dei Padri. Sul Lodoli, cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., pp. 295-299). [43] S. DE' RICCI, Memorie, ed. A. GELLI, Firenze 1865, vol. I, p. 14: "La falsità delle decretali, le funeste conseguenze che ne sono derivate, una maggiore libertà di spirito nel giudicare della giustizia e del valore di certi decreti romani di questi ultimi secoli, furono l'effetto di quel migliore indirizzo ch'ebbemo nei sacri studi dal canonico Martini"; E. DAMMIG, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano, 1945, pp. 137-140 e passim. [44] Sull'Athias cfr. la voce del GENCARELLI per il Dizionario Biografico degli Italiani, II, pp. 525-526. Oltreché scialba, essa contiene numerose inesattezze: la più grave è l'errata datazione al 1725 dei viaggio dell'Athias a Parigi. Questo viaggio è invece di qualche anno anteriore: nel dare notizia dei propri "poveri studij" d'autodidatta al Muratori il 22 dicembre 1724 già vi faceva cenno: "ho fatto varj viaggi per l'Italia ed uno in Francia, dove ho conosciuto i letterati viventi" (Biblioteca Estense di Modena, "Archivio Muratoriano", F. 52, fasc. 3). In altra lettera, del 20 novembre 1733, era anche più preciso: "ho viaggiato per l'Italia, fermatomi più mesi nelle città del primo ordine, ed in Francia, e particolarmente in Parigi dove ho conosciuto i grandi huomini della nostra età". Ma quando avesse realmente compiuto questo viaggio e quali fossero i grandi uomini che aveva avvicinato non diceva. Tra questi c'era probabilmente Jean Boivin, custode della biblioteca del re. A lui invia, o pensa d'inviare, nel marzo del 1725, il "libbro dei Sig. Vico": "Il Padre Sostegni fiorentino Canonico Lateranense ch'à predicato quest'anno a Lucca mi scrive l'inchiusa lettera toccante il libbro dei Signor Vico, il quale manderò in Londra al Signor Conjers Midelton Bibliotecario d'Oxford, ed al Signor Boivin Custode della Biblioteca del Re a Parigi miei cari padroni" (Ibid.). L'opera giunse forse nelle mani del Boivin (morto di lì a poco, nel 1726), ma è dubbio che giungesse nelle mani del Middleton, che era "principal Librarian" a Cambridge, non a Oxford (l'Athias l'aveva probabilmente conosciuto al tempo del suo viaggio in Italia che gli dette l'occasione per comporre quella famosa lettera in cui dimostrava l'identità di cattolicesimo romano e di paganesimo sulla quale ha discorso con il solito acume G. GIARRIZZO, Fra protestantesimo e deismo: le origini della moderna storiografia inglese sul cristianesimo primitivo. Fra latitudinari e ortodossi: Conyers Middleton, in "Ricerche Religiose", I, 1954, pp. 151-199). La posizione ideologica dell'Athias oscilla tra un blando lockismo (fa circolare, fra l'altro la sua copia dell'Essay nella traduzione Coste per molte mani: nel settembre del 1728 è in quelle del Conte Gabriele Verri, e già la promette, appena la riavrà, al Muratori) e l'ammirazione per il capolavoro del platonismo di Cambridge: The True Intellectual System of the Universe del Cudworth. È sorpreso quando scopre che il Muratori non ne ha mai sentito parlare ("Non può fare che V. S. III.ma non habbia notizia del famoso libro del Cudworth..."; Athias a Muratori, 5 dicembre 1727); e costernato dal giudizio negativo del Cocchi ("non comprendo perché non stima l'opera del Cudworth, che è zeppa di tante cose rare..."; Athias a Muratori, 4 febbraio 1728). Nessuna simpatia verso la tradizione mistica del giudaismo: ad alcuni baroni sardi che gli chiedono la Clavicula Salomonis consiglia piuttosto di portar in Sardegna "alcuni esemplari" dell'"aureo libro" muratoriano Riflessioni sopra il buon gusto, "dove potranno trovare il modo di medicarsi di questo ci altri pregiudizi ed errori volgari" (Athias a Muratori, 12 gennaio 1725). Per lui quell'opera è senz'altro un'impostura e vorrebbe sapere chi ne fosse stato l'"inventore". Del resto "qualunque persona erudita per scherzo ne potrebbe compor una che avesse maggiore apparenza d'opera di Salamone imitando l'idiotismi biblici e trattando materie oscure e bujo pesto a guisa del libro Cabalistico Zoar" (Livorno, 9 febbraio 1725). (Sulla Clavicula cfr. Clavicula Salomonis. A Hebrew Manuscript Newly Discovered and Now Described, ed. by H. GOLLANCZ, Frankfurt a.M., 1904; circa la sua diffusione basterà ricordare che ancora nel 1713 Eugenio di Savoia se la faceva voltare in lingua italiana: La Clavicula di Salomone sopra la Magia Cabalistica..., ms. finito nelle mani del Crevenna, Catalogue raisonné de la Collection de Livres de M. P.A. Crevenna, Amsterdam, 1776, VI, 107). Evita con cura le discussioni religiose: "sempre ho avuto repugnanza d'ingerirmi nelle materie teologiche, particolarmente nelle polemiche"; ed è "molto inquietato dall'impertinenza di alcuni che subbito subbito vi entrano nella Religione, se si risponde cortesemente fuggendo il contrasto, siete un indolente (in materia così importante); se scherzando miscredente; se obbiettando caparvio e ostinato, che però sempre che posso me ne astengo" (Athias a Muratori, 20 novembre 1733). Di che parlarono Athias e Montesquieu? Virtualmente di tutto: dalle scienze naturali (cfr. G. CESTONI, Epistolario ad Antonio Vallisnieri, a cura di S. BAGLIONI, Roma, 1941, pp. 482, 486, 495, 496, 500, 502, 504, 514, 517, 794) alla musica alla storia sacra e alla critica veterotestamentaria. "Peritissimo della lingua, e della storia santa, critico, e di tutto facondo" lo diceva L. Magnanima (Elogio istorico e filosofico di G.A. De Soria, Livorno, 1777, p. 12); e lui stesso diceva di essere posseduto da una "viziosa curiosità d'intendere cose nuove". Naturalmente, l'Athias poté parlargli del Vico, che egli aveva personalmente conosciuto e della cui amicizia menava vanto (R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 103, 106, 116). Ma il Montesquieu non era venuto in Italia soltanto a caccia di libri: molto più lo interessavano le situazioni concrete, specialmente se possedevano un carattere di eccezionalità: com'era certamente la situazione degli ebrei a Livorno. E dai due appunti che il Montesquieu prese di quelle conversazioni par bene concludere che fu questo il principal argomento dei loro colloqui. Fu l'Athias a correggere la sua prima stima della popolazione ebraica di Livorno (II, 1073, 1087). Da quelle interviste e dalla visita fatta alla città ("une fort belle ville, bien peuplée & bien fortifiée"; II, 1073) il Montesquieu tolse l'idea di una "ville juive": "Il faudroit faire une ville juive sur la frontière d'Espagne, dans un lieu propre pour le commerce, comme à Saint-Jean-de-Luz ou à Ciboure. Ils y passeroient eri foule et achèveroient de porter toutes les richesses quils ont, dans ce royaume. Leur donner seulement les mèmes privilèges qu'ils ont à Livourne, ou même plus, si on vouloit" (II, 107). Sull'atteggiamento di Montesquieu nei confronti degli ebrei, atteggiamento caratterizzato sostanzialmente da "bienveillance" e da riformismo realistico, cfr. L. POLIAKOV, Histoire de l'antisémitisme, III, De Voltaire à Wagner, Paris, 1968, pp. 96-100. [45] Su Giuseppe Roma cfr. G. RICUPERATI, Bernardo Andrea Lama professore e storiografo di Vittorio Amedeo II, in "Bollettino Stororico-Bibliografico Subalpino", LXVI, 1968, pp. 76-79, 93-95. Al Roma e al Lama il Ricuperati attribuisce la paternità della lettera Sur les objections que font les newtoniens contre le système des tourbillons de Descartes apparsa sulla "Bibliothèque Italique", XI, 1731, pp. 1-43; lettera che, tradotta in latino col titolo Agger obiectus Cartesianorum vorticum eluvionibus, figura tra le carte Giannone dell'Archivio di Stato di Torino (Mss. Giannone, Mazzo 1, Ins. 19) e che il Recuperati aveva in precedenza attribuito allo stesso Giannone ("ha l'aria di essere una breve riflessione originale del Giannone"; G. RICUPERATI, Le carte torinesi di Pietro Giannone, in "Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali Storiche e Filologiche", IV, 4, 1962, p. 40). La nuova attribuzione è più probabile, ma restano motivi di perplessità. Nella lettera a Celestino Galiani del 21 luglio 1726 appare chiaramente il disorientamento del Lama, che non riesce ancòra ad afferrare i termini del problema (G. RICUPERATI, Bernardo Andrea Lama, cit., p. 75). Né il Roma, scrivendo al Conti il 26 giugno 1728, dà l'impressione di essere un newtoniano. A proposito della dissertazione cartesiana di Bulffinger premiata in quell'anno dall'Académie des Sciences commenta: "Je ne sais rien au dela de ce que les nouvelles publiques nous ont appris de la Dissertation de la cause de la pesanteur. L'impulsion et l'attraction sont deux causes pretendues, qui bornent furieusement l'esprit humain: malheur à nous, s'il ne venoit un Moscovite, un Lapon, ou quelque chose de semblable, pour nous decharger du poids de nótre ignorance!" (Biblioteca Comunale di Forlì, "Fondo Piancastelli"; sulla De causa gravitatis physica generali disquisitio experimentalis del Bulffinger cfr. P. BRUNET, L'introduction des théories de Newton en France au XVIIIe s., Paris, 1931, p. 153). Comunque sia, newtoniano o no, il Roma fu un uomo di larghi e moderni interessi; e contribuì a svecchiare l'ambiente universitario torinese (M. GLIOZZI, Fisici piemontesi del ‘700 nel movimento filosofico del tempo, in "Filosofia", XIII, 1962, pp. 559-571; G. RICUPERATI, L'Università di Torino e le polemiche contro i professori in una relazione di parte curialista del 1731, in "Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino", LXIV, 1966, pp. 351 e segg.; N. BADALONI, Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 102, 103, 112, 252). È il caso di ricordare che il Montesquieu rimase tutta la vita cartesiano? Da segnalare infine la lettera del Roma al Conti del 13 novembre 1728, nella quale è fatta menzione del passaggio del Montesquieu (Biblioteca Comunale di Forlì, "Fondo Piancastelli"). Il ritrovamento di queste lettere è merito di Nicola Badaloni. [46] Manca su di lui un qualunque studio d'insieme. Quel poco che si legge in F. NICOLINI, Un grande educatore italiano: Celestino Galiani (Napoli, 1951) è però sufficiente a svegliare la curiosità (cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., pp. 23-24 ss.). Ancora adolescente, aveva creato a Bologna verso il 1677 un'accademia frequentata dai migliori ingegni della città: Malpighi, Montanari, Guglielmini (M. MEDICI, Memorie storiche intorno le Accademie scientifiche e letterarie della città di Bologna, Bologna, 1852, p. 12). Nel 1681 aveva visitato l'Inghilterra: Malpighi l'aveva raccomandato a Robert Hooke, al Boyle e agli altri membri della Royal Society (M.A. FOSTER, Marcello Malpighi e la Società Reale di Londra, in Marcello Malpighi e l'opera sua, Milano, 1897, p. 67). Internunzio a Bruxelles nel 1687, chiedeva con insistenza al Redi, che l'aveva carissimo, il Lucrezio del Marchetti. Lo ricevette infine in dono dallo stesso autore (F. REDI, Opere, Milano, 1811, vol. VIII, pp. 180-183). Ma, già anni prima, in un'amichevole corrispondenza con Francesco Bianchini aveva assunto atteggiamenti epicurei (Biblioteca Capitolare, Verona e Biblioteca Vallicelliana, Roma). Interlocutore del dialogo di Geminiano Montanari Le forze d'Eolo (un'opera del 1686 uscita postuma a Parma nel 1694; cfr. S. ROTTA, Francesco Bianchini, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969, ad vocem, e S. ROTTA, Scienza e pubblica felicità in Geminiano Montanari, in Miscellanea Seicento, II, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 65-208), vi assume atteggiamenti cartesiani. E posizioni dello stesso tipo assume in un dialogo inedito del Bianchini degli stessi anni sulla causa della gravità (Biblioteca Capitolare di Verona). Dopo varii impieghi diplomatici che lo condurranno in molti paesi europei, creato nel 1715 cardinal legato in Romagna, aveva istituito a Rimini un'Accadernia di cui fu pars magna il Leprotti e segretario Giovanni Bianchi (Janus Plancus): quello stesso che tenterà di lì a qualche anno di far rivivere i Lincei. Tra Rimini e Roma, tra il Leprotti soprattutto e Celestino Galiani, s'intreccia da questo momento una strettissima rete di relazioni scientifiche: esperimenti elettrici con la macchina di Hauksbee, con la pompa pneumatica, etc. Non c'è esperienza nuova di cui essi vengano a conoscenza che non venga intelligentemente ritentata. Il Davia incoraggia, stimola anzi quelle curiosità; commenta con intelligenza quei tentativi. A quest'uomo davvero colto e moderno non mancavano, del resto, anche gli interessi antiquari e quelli di storia ecclesiastica (a Bruxelles era stato in rapporto con il Papenbroeck; Bibliothèque Royale de Belgique, Bruxelles, "Papiers Papenbroeck"). È davvero un peccato che, trasformati dal rumore che Passionei e Querini seppero fare attorno alla propria persona, gli storici del ‘700 italiano non gli abbiano ancora prestato la dovuta attenzione. E dire che, come notava il Montesquieu, era uno dei più forti del Sacro Collegio, uno dei papabili nel conclave del 1730, quello da cui, contro le previsioni del Montesquieu ("Corsini ne le sera pas"), uscì eletto Lorenzo Corsini. [47] Cfr. la voce di F. GIEGLING in Die Musik in Geschichte und Gegenwart (Allgemeine Enzyklopädie der Musik), Basel-London-New York, VIII, 1960, coll. 1616-1617. Tra le sue opere: Juveniles Joci, Paris, s.d. (circa mille epigrammi latini che sono verosimilmente quelli mostrati al Montesquieu: "m'a fait voir ses épigrammes latines"; II. 1016) e Ozi giovanili, Venezia, s.d. (circa duecento sonetti italiani). Che si occupasse di filosofia e matematica è confermato dal recente biografo. [48] H. BENEDIKT, Der Pascha-Graf A. von Bonneval, Graz-Koln, 1959, pp. 40, 78. [49] Berselli, cit., p. 8: "A Modena egli conobbe anche il vecchio conte Orsi, già celebre agli inizi del secolo per la contesa col Bouhours. Ma l'Orsi nella copiosissima corrispondenza che si conserva ancora inedita alla Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio in Bologna, in tante lettere scritte proprio in quei giorni ad amici bolognesi non accenna mai al Montesquieu [...]. Probabilmente, nel suo ardente nazionalismo letterario, l'Orsi non giudicò degno di attenzione particolare tino scrittore compatriota del Bouhours, ed autore, per di più, di quelle Lettres Persanes che forse la sua sensibilità di vecchio codino giudicava opera di uno spirito libertino, se non addirittura diabolico". Innanzi tutto: il Montesquieu nomina - è vero - l'Orsi in una sorta di riepilogo dei suoi Incontri italiani: "Les principaux savans d'Italie de mori temps etoient...", seguono i nomi, e infine la notazione: "Je les ai tous vus, excepté Manfredi & Bianchini". Di seguito aggiunge: "Plus, il y a le marquis Orsi, Bolonois, à Modène" (II, 1213). Il silenzio dell'Orsi si può forse spiegare più facilmente col fatto che non ricevette nessuna visita da parte del Montesquieu, che si limitò a prender nota del suo nome. In secondo luogo: aveva l'Orsi letto le Lettres Persanes? In terzo luogo: sapeva che erano del Montesquieu? Sono tutte domande alle quali bisogna rispondere prima di trattare con tanta durezza il vecchio marchese. [50] Per notizie su quest'accademia, ch'era ancora in vita nel 1746, cfr. la dedica di A.F. Gori al marchese F.M. Feroni di: G. AVERANI, Lezioni Toscane di varia letteratura, Firenze, 1746. Il marchese - "un perfetto Cavaliere cristiano" - e la marchesa Matilde, nata Malaspina, erano cacciatori di manoscritti di storia fiorentina; ma avevano anche messo su una "Libreria di moderni spezialmente oltramontani scrittori dottissimi (cit., p. VII). La marchesa morì ottantenne senza eredi maschi, il 25 luglio 1772: "Questa Dama - annotava il Pelli - in gioventù ebbe una bella" (G. PELLI, Efemeridi, cit., S. I, XXIX, p. 142). [51] R. SHACKLETON, La genèse de l'Esprit des Lois, in "Revue d'histoire littéraire de la France", LII, 1952, pp. 425-438. [52] Oltre alle carte private ora accessibili ci si può servire del catalogo della biblioteca di La Brède, ritrovato nel 1950 e pubblicato nel 1954 (Catalogue de la Bibliothèque de Montesquieu, ed. L. DESGRAVES, Genève-Lille, 1954). A ragione, lo Shackleton, che ne fu il fortunato riscopritore, ha definito la pubblicazione "a big event in Montesquieu studies" (R. SHACKLETON, in "French Studies", IX, 1955, pp. 71-75). Bisogna dire però che esso non ci fornisce la lista completa delle letture montesquiane. Non figurano opere che certamente o molto probabilmente il Montesquieu ebbe presenti (il Civil Government del Locke, la Vita Civile del Doria, la Scienza Nuova). Del Gravina c'è Della ragion poetica (N. 2047) e non le Origines juris civilis. Ma, anche se non avessimo altre testimonianze che il Montesquieu aveva letto quest'opera (II, 526, 527, 575; E.L., I, 3), c'è nel catalogo, riprodotta a guisa d'epigrafe in testa alla rubrica Politici, una frase graviniana tratta da quel libro ("Res est sacrosanta libertas etc."). Quale uso intelligente si possa fare delle indicazioni del catalogo ha mostrato lo stesso Shackleton nel ricostruire i debiti di Montesquieu verso Machiavelli (largamente rappresentato nella libreria di La Brède): R. SHACKLETON, Montesquieu and Machiavelli. A Reappraisal, in "Comparative Literature Studies", I, 1964, pp. 1-13. Posso aggiungere che l'edizione dell'Aia in 4 voll. in-12° (non registrata dal Gerber) delle Opere del Machiavelli (è la raccolta posseduta anche da Voltaire: Biblioteka Vol'tera, Moskva-Leningrad, 1961, N 2242) fu stampata dal libraio Bousquet di Ginevra (J. Athias a L.A. Muratori, Livorno, 9 febbraio 1725: "È capitato qui il Sig. Bousquet Mercante Ginevrino, che à aperto Negozio ancora nell'Haya, il quale m'à mostrato i primi fogli dell'opere di Machiavelli in 12° di buonissima carta e carattere che à sotto il torchio in Olanda"; "Archivio Muratoriano", Modena, F. 52, ins. 3). Molti dei libri italiani sono con molta probabilità, acquisti fatti in Italia; il Giornale de' Letterati dall'anno 1668 al 1678 di Francesco Nazari (N. 2586), la Galleria di Minerva (La Galleria di Minerva overo notizie universali... non solo nel presente secolo, ma ancora ne'...; N. 2387); il Giornale de' Letterati d'Italia (NN. 2584 e 2585) di cui il Montesquieu pare che possedesse un doppione dei primi dieci volumi, in tutto ventisette tometti della rivista (fino cioè al 1718, vale a dire fino a che la curò lo Zeno): la Biblioteca Italiana (N. 1828) che è evidentemente la nota opera dei Fontanini, Biblioteca dell'Eloquenza italiana. Numerosissimi gli scienziati, fisici e medici del cinque-seicento: Galilei (i Discorsi), [Della] Porta (Pytognomica, cioè Phytognomica), Malpighi (NN. 1151-1254), Borelli (NN. 1411, 1762), Cavalleri, cioè Cavalieri (N. 1669); Baliani (il cui De motu non fu stampato a Geneva ma a Genova, N. 1759), Baricelli (NN. 1044, 1323), Bonciuoli (non Bonacciucoli, NN. 1052, 1173), Bonamici (N. 1053), Campanella (NN. 1059, 1416: De sensu rerum et magio, cioè magia), Grossi (N. 1108), Ramazzini (N. 1184), Sala (N. 1197), Pacchioni (N. 1257: Disquisito anatomica, cioè Disquisitio), degli Alessandri (N. 1293: Apollo omnem omnium usu... illustram, cioè usum illustrans), P.M. Canevari (N. 1327, De altramentis cioè De atramentis), Cardano (NN. 1418, 1419, 1420), Liceti (N. 1802), B. Cesi (N. 1798, Mineralogia... concretionis... suecorum, cioè concretionis succorum), G. Bianchi (N. 1233) etc. È da deplorare la poca cura posta dal Desgraves nella riproduzione di nomi d'autore e dei titoli, anche quando l'identificazione era facilissima (il Vittorio Sivi dei NN. 2719 e 2720 è, evidentemente il Siri). Cfr. anche R. SHACKLETON, rec. cit. [53] Per i rapporti col Vico cfr. C. ROSSO, Vico e Montesquieu, in Omaggio a Vico, Napoli, 1968. Veramente la "fine di una leggenda". [54] R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 61-63. Incuriosito da questa notazione del Montesquieu, ho fatto ricerche sul personaggio. Ch-A. L'Escalopier de Nourac, nell'elogio premesso alla ristampa postuma di alcune delle sue dissertazioni composte durante il periodo italiano (G. OLIVA, Oeuvres diverses, Paris, 1758, p. 13), afferma che l'Oliva da Parigi "entretint un commerce réglé avec plusieurs Sçavans de l'Europe". Non ho trovato traccia di questo commercio. Al contrario: l'Oliva, poco dopo aver messo piede in terra di Francia, lasciò morire la corrispondenza che tra il 1717 e il 1722 mantenne fittissima con Ludovico Antonio Muratori, che singolarmente lo prediligeva e si prendeva a cuore la sua sorte ("Archivio Muratoriano", Modena, F. 73, fasc. 3). Queste ventitrè lettere costituiscono il diario delle inquietudini dell'intellettuale trentenne, che il Renier, presso il quale nel 1713 era precettore, trovava "alquanto stravagante" (A. ZENO, Lettere, I, Venezia, 1752, pp. 348-349). Divenuto di lì a poco professore di umanità nel collegio di Asolo, non sognava che di uscirne: di andare "in una città abbondante e d'eruditi e di libri" (7 settembre 1717). E sperava che Muratori lo potesse aiutare. In occasione dell'apertura degli studi, l'anno dopo, progettava un'orazione che gli conciliasse "l'amore dei dotti d'Italia". Il Muratori pensava di fargli dare una cattedra a Torino; ma l'Oliva coltivava sogni più modesti ("Ella mi augura una cattedra, e io mi augurava una libreria"; 29 gennaio 1719). Questo stesso anno, riuscirà ad andare a Roma con l'aiuto del padre Minorelli, bibliotecario della Minerva. Le lettere, nella città dei papi, "languiscono senza premio". Non importa. E' felice lo stesso essendovi venuto "per il puro di fine di studiare". E di nuovo non sogna altro per sé che "qualche nicchia in una libreria" (13 aprile 1720). Finalmente nel 1721 entrò al servizio del cardinale di Rohan: adibito prima a tradurre un suo opuscolo anti-giansenistico, quindi come suo bibliotecario a Parigi. Lavorare nella biblioteca che era stata del de Thou: il suo antico sogno si andava avverando. Esitava tuttavia a partire per Parigi; "perché a me non lascia di sembrare una cosa ridicola, un Italiano in Francia" (26 novembre 1721). Da Parigi - dalla Parigi della Reggenza - scriveva disgustato il 15 febbraio 1722: "Io sto bene, e fatico: ho lasciato però da parte alcune cose di mio genio, e faccio il catalogo della libreria di Sua Altezza il Cardinale di Rohan, che mi tratta male e malissimo; e per dirgliela schietta non spero nulla, perché i più de' Grandi dopo la morte del Re passato non hanno altro gusto che quello della tavola". Ancora s'aggrappava al Muratori. Poi più nulla. Di lì a due anni, quando lo conobbe il Montesquieu, era completamente francesizzato. L'amico Escalopier riferisce che "il aimoit si fort le françois, qu'il étoit difficile de le rencontrer sans être environné de Dictionnaires & des Oeuvres de Balzac". Aveva finalmente trovato il "nicchio" che sperava e tutto si seppellì in quel lavoro. Le sue dissertazioni, quella soprattutto De marmo Isiaco, continueranno ad essere apprezzate (Montfaucon la ripubblicherà nel Supplemento all'Antiquité Expliquée, II, pp. 52 e segg.); ma più niente uscirà dalla sua penna se non, postuma, una traduzione francese dei Farlalloni del Lancellotti (Les impostures de l'histoire, Londres, 1770). [55] R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., p. 12, n. 2. Il Ricuperati ha accertato che il Lama giunse a Parigi nell'aprile del 1717 e ne ripartì alla fine di agosto o più probabilmente nel settembre (G. RICUPERATI, Bernardo Andrea Lama, cit., pp. 21, 29). Il che obbliga a ipotizzare un soggiorno del Montesquieu a Parigi nell'estate di tale anno (lo Shackleton lo dava come probabile soltanto per i primi mesi dell'anno; Ibid., p. 9). Resta sempre da spiegare come mai le due menzioni di lui che si leggono nello Spicilège portino verosimilmente la data dei 1727 o 1728 (si tratta in ogni caso di notazioni anteriori al viaggio in Italia: II, 787, 788). Che a distanza di dieci anni il Montesquieu si risovvenisse di quei colloqui è strano: a meno che non avesse preso nota di quei discorsi su fogli volanti, ricapitatigli tra le mani alla data in questione. Argomento delle due notazioni: la storia ebraica. [56] A. GENOVESI, Autobiografia e Lettere, a c. di G. SAVARESE, Milano, 1962, p. 79. A Vienna aveva conosciuto Pio Niccolò Garelli (II, 971), ma non Giannone (R. SHACKLETON, cit., p. 113). [57] R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 176-177; L. ROSSI, Un precursore del M. Scipione Maffei, in Scritti vari di diritto pubblico, VI, Milano, 1941, pp. 75-240; S. MAFFEI, Il Consiglio politico alla Repubblica Veneta, a c. di L. MESSEDAGLIA, Verona, 1955, pp. 106 e segg.; MONTESQUIEU, Notes sur l'Angleterre (Nagel III, 292). [58] N. BADALONI, Antonio Conti, cit. [59] A. CONTI, Poesie e prose, II, Venezia, 1756, p. 66. [60] A. GIULINI, Contributi alla biografia della contessa Clelia Borromeo del Grillo, in "Archivio Storico Lombardo", XLVI, 1919, pp. 583-592. [61] "Madame la comtesse Borromée a trouvé le moyen de faire de dentelles avec un métier, comme on fait des étoffes desoie, en prenant plusicurs mailles à la fois, comme on les prend dans les étoffes à fleurs en passant la traine. Le mai est qu'il est difficile d'avoir des peignes où le fil ne se rompe point" (II, 816). [62] "Rivista Critica di Storia della Filosofia", XIII, 1958, p. 209. [63] N. BADALONI, Antonio Conti, cit., p. 173. Tuttavia, il Badaloni aggiunge: "Tuttavia nel Discorso Istorico [...] noi avvertiamo una rivalutazione di Luigi XIV come strumento di rottura del gioco d'interessi entro cui si appiattisce la politica". [64] L. FERRARI, L'abate Antonio Conti e madame de Caylus, in "Atti del Regio Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", t. XCIV, p. II, pp. 1-38; J. EHRARD, La politique de Montesquieu, Paris, 1967. [65] Indici dell'Archivio Storico, II, La Legazione sarda in Vienna (1707-1859), a. c. di E. PISCITELLI, Roma, 1950, pp. 20-21. [66] D. Passionei al Presidente Bouhier, 15 novembre 1743 (Bibliotèque Nationale, Paris, Fonds Françaises, 24.421, f. 182). [67] Su l'ostracismo dato agli studi storico-politici sotto il "beau et mémorable règne conservateur" (per usare un'espressione di Botton di Castellamonte) di Carlo Emanuele III, cfr. G. QUAZZA, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena, 1957, II, pp. 432-436. Il Botton è lo stesso personaggio che, sparsi "i primi germi di ragionata ribellione" contro la "paterna ignoranza" in quella fervida operetta (nata - giova sottolinearlo - in un momento di grandi speranze nel prossimo regno di Vittorio Amedeo III) di cui discorre a lungo la Berselli (pp. 117-118), si adattò senza difficoltà alle strutture assolutistiche del vecchio Piemonte; salvo a diventare un personaggio di primo piano sotto l'occupazione francese. Il Balbo esattamente lo collocò tra quegli uomini "perdutisi alla fine del regno di Carlo Emanuele III, e in tutto quello di Vittorio Amedeo III" che "rinacquero ne' torbidi della rivoluzione dal 1789 al 1814" (C. BALBO, Lettere di politica e di letteratura, Torino, 1859, p. 268). Gallofilo acceso ("fummo Galli una volta") favorì l'annessione, e dopo il 1803 divenne alto funzionario napoleonico. In qualità di consigliere della Cour de Cassation compose, per la quarta edizione del Répertoire del Merlin, un lungo articolo su la legislazione piemontese. Vi premise una breve ma vigorosa storia degli istituti politici, che era tutta un'esaltazione dell'opera accentratrice della monarchia, da Emanuele Filiberto in poi, e una condanna dell'azione disgregatrice degli Stati ("Ces assemblées n'aboutissaient, en dernier résultat, qu'à affaiblir l'autorité du prince, à empécher les reformes, à étendre la puissance des seigneurs"; Répertoire Universel de Jurisprudence, ed. M. MERLIN, Bruxelles, 18275, t. XXIII, p. 277 e 284). Impostazione, come si vede, ben poco montesquiana. [68] R. SHACKLETON, L'abbé de Guasco, ami et traducteur de Montesquieu, in "Actes de l'Académie Nationale des Sciences, Belle-Lettres et Arts de Bordeaux", 4e Série, t. XV, 1958, p. 6. [69] A. e P. VERRI, Carteggio, a c. di F. NOVATI, vol. I, p. II, Milano, 1912, pp. 190-191. [70] O. GUASCO, De l'usage des statues chez les Anciens, Bruxelles, 1768, Préface; ID., Dissertations historiques, Tournay, 1756, Avant propos. La farse italiana citata è nella Vita di O.Guasco (Biblioteca Civica, Verona, Ms. 280). [71] Dissertation sur l'autonomie des villes & des peuples soumis à une puissance étrangère..., Avignon, 1748; Dissertazione... sopra l'autonomia de' popoli e delle città greche e latine, in Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Acc. Etrusca dell'antichissima città di Cortona, t. V, Roma, 1751, pp. 113-159. [72] Ibid., pp. 116, 133. [73] Ibid., p. 113. [74] S. MAFFEI, Il consiglio politico, cit., pp. 72 e segg. [75] O. GUASCO, Dissertazione, cit., p. 131. [76] Ibid., p. 131. [77] Ibid., p. 132. [78] Ibid., p. 159. [79] "Atti della R. Società Economica di Firenze ossia de' Georgofili", I, Firenze, 1791, pp. 7-8; Vita del Guasco, cit.; G. PELLI, Efemeridi, cit. Serie I, Vol XX, p. 13; XXII, p. 24 bis. [80] R. SHACKLETON, L'abbé de Guasco, cit., p. 5. [81] Ibid., p. 11. [82] J. ANSON, Voyage round the World in 1740-1744, Compiled from Anson's papers and published under his direction by R. WALTER, [s.l.], 1748. [83] R. SHACKLETON, L'abbé de Guasco, cit., p. 11. [84] Lo rivide però e lo frequentò ancora a Roma: "Je partis de Rome le 4 juillet 1729 - annotava il Montesquieu -, après avoir pris congé des personnes que j'avois vues et qui étoient, selon l'ordre de mon coeur: M. l'abbé Niccolini..." (II, 1191). Da lui ricevette una lettera di presentazione per Bonn, quattro per Colonia (II, 1192), nonché una per il cavalier Pecci e per il conte Grossi a Bologna (II, 1202). Il Niccolini portava vivo interesse alla situazione religiosa francese: prova ne sia quel parere sulla bolla Unigenitus steso per Vittorio Amedeo II nel 1719 (non 1723, come congettura G. RICUPERATI, Bernardo Andrea Lama, cit., pp. 50-52), che si conserva nell'Archivio di Stato di Torino, Materie ecclesiastiche, Car. 24, M. 2, N. 18. V'è infine la questione del ritratto del Montesquieu, che il Niccolini avrebbe fatto eseguire, in Firenze o in Roma, da un pittore sconosciuto e avrebbe poi conservato nella sua ricca pinacoteca. Da questo ritratto sarebbe derivata la incisione di Carlo Faucci del 1767, dedicata appunto al Niccolini, e che ci presenta il Montesquieu inconsuetamente di faccia (cfr. "Gazette des Beaux-Arts", LXI, 1899, vol. I, pp. 438-440; E. BOUVY, Autour du portrait de Montesquieu; la gravure de Carlo Faucci, in "Revue philomatique de Bordeaux", maggio-giugno 1913, pp. 139-142; ID., L'iconographie de Montesquieu, International Committee of Historical Sciences, Washington-Paris, 1931, pp. 87-94). In realtà, il ritratto che servì di modello al Faucci non era di proprietà del Niccolini, ma del Guasco: proprio quel ritratto che il piemontese aveva fatto eseguire da un ignoto artista italiano nel 1744-1746 o 1748-1749 (III, 1553; G. PELLI, Efemeridi cit., S. I, vol. XX, p. 12). Se l'incisione non riuscì gran cosa la colpa sembra essere stata dell'originale ("È venuto bene nella testa", assicurava il Pelli). La Berselli apporta senza accorgersene un contributo alla non ricca iconografia montesquiana pubblicando la gustosa caricatura di Mon.r (non Mons.re!) Le President de Montascu, disegnata da Pier Luigi Ghezzi il 12 (non 22) luglio 1729. [85] "Novelle Letterarie di Firenze", 1769, col. 690. [86] G. CARDUCCI, Opere, XIX, Bologna 1909, p. 325. [87] Sul soggiorno inglese notizie in: H. WALPOLE, Correspondence with Sir Horace Mann, cit., II, pp. 72, 329, 331, 339, 348, 353, 362, 369, 371, 372, 392, 398, 414. Lo Walpole non amava il Niccolini: "Rinuncini [!] returns to you this week, not at all contented with England: Niccolini is extremely, and turns his little talent to great account" (p. 339). In particolare, ironizza sulla sua intimità col Prince of Wales: "Niccolini sups continually with the Prince of Wales, and leams the constitution!" (p. 348). [88] "Novelle Letterarie di Firenze", 1769, col . 691. [89] Biblioteca Marucelliana, Firenze, Ms. B.II.27.VIII. [90] A. GENOVESI, Lettere familiari, Venezia, Pezzana, 1787, vol. I, p. 146, n. 1. [91] Ibid., I, p. 46. [92] E. VIVIANI DELLA ROBBIA, Bernardo Tanucci e il suo più importante carteggio, Firenze, 1942, II, p. 9. Il Tanucci (sul quale la Berselli nulla dice) poco stimava il Montesquieu: all'Esprit des Lois, "abortivo e puerile", egli preferì sempre l'opera di istituzionalisti come il Donello e il Fabro. Neppure il Cuiacio trovava grazia presso di lui. Formatosi nell'ambiente universitario pisano del primo Settecento, ne conserverà le esigenze intellettuali e anche i limiti attuali: la sua è una cultura invecchiata e per di più avversa ai moderni (Genovesi, Montesquieu "gente moderna, che non ha ricevuto dal corso dei Secoli, e dalla venerazione delle Nazioni quell'autorità necessaria... ", E. VIVIANI DELLA ROBBIA, Bernardo Tanucci, cit., vol. I, p. 26; vol. II, p. 593). Ma, nella sua avversione al Montesquieu entrava pure il fastidio del décousu dell'opera, riserva che fa un curioso effetto in bocca a lui ("Montesquiou vivacemente spara qualche cosa buona; ma non empié, né tessè i suoi libri, ove si salta molto vuoto tra cosa, e cosa; Non son fiumi placidi e continui li suoi libri, ma schizzetti e schioppettate"; Ibid., p. 189); e soprattutto entrava il suo attaccamento a Machiavelli: il suo crudo, brutale machiavellismo ("Di Montesquieu - testimonia il Galanti nelle sue Memorie inedite - aveva disprezzo, perché non l'intendeva, e mi parlava sempre di Machiavelli, come del più grande uomo della politica" (G.M. MONTI, Due grandi riformatori del Settecento: Antonio Genovesi e Giuseppe Maria Galanti, Firenze, 1926, p. 199). Sul Tanucci cfr. ora L. SALVATORELLI, Bernardo Tanucci "filosolo" e cristiano, in Spiriti e figure del Risorgimento, II, Firenze, 1961. Ma se il Tanucci restava fermo al passato, l'amico Niccolini (un giurista anche lui, e formatosi nello stesso ambiente culturale) andava oltre; e si rallegrava con se stesso d'aver anticipato - tessendo in Crusca nel 1745 l'elogio di Giuseppe Averani (tra i professori dello Studio pisano quello che aveva affermato con più chiarezza e rigore la necessità di procedere da regole e da principi razionali, condizione indispensabile perché vi fosse una scienza del diritto vera e propria, e la possibilità di interpretare le leggi oscure e le questioni controverse) - motivi dell'opera montesquiana ("Orazione che mi glorio corrisponda allo Spirito delle leggi comparso dopo", p. 216). E andrà oltre un altro collega del Tanucci nello studio pisano, il Rucellai, che dal Montesquieu toglierà spunti efficaci, per testimonianza della Berselli (pp. 88-89), nelle sue memorie su le mani morte e su l'Inquisizione, e in genere nella sua opera di funzionario intelligente e coraggioso. Stefano Bertolini infine passerà dallo studio dei giusnaturalisti all'ammirazione del Montesquieu. Su la diffusione del giusnaturalismo nell'ambiente universitario pisano cfr. PIANO-MORTARI,Tentativi di codificazione nel Granducato di Toscana, in "Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche", s. III, vol. VI, 1952-1953. [93] Finora ho ritrovato soltanto quella dell'Olanda (Biblioteca Angelica, Ms. 2290, ff. 460-490: Relazione del sistema della Religione Cattolica nello Stato d'Olanda formata d'ordine del cardinale Valenti Gonzaga dall'abate A.N. fiorentino, datata Colonia, agosto 1748). [94] G. AMATI, Lettere dell'abate A. Niccolini a monsignor G. Bottari, Bologna, 1867, p. 46; A. Niccolini a C. Galiani, Roma 19 marzo 1735: "Non vi sono nuovi libri, che facciano gran fracasso, fuori delle Considerazioni sulla decadenza dell'Impero Romano del Presidente di Montesquieu, opera di cui Mylord Carteret, uno de' più bei genij dell'Inghilterra, ha detto, che servirebbe per immortalizzare il suo nome" (Società Napoletana di Storia Patria, Ms. XXX. A. 5, f. 38). [95] A. CERATI, Elogio di Monsignor G. Cerati, Parma, 1778, p. 71. [96] Memorie degli scrittori parmigiani, vol. VII, p. 135. [97] N. CARRANZA, Monsignor G. Cerati Provveditore della Università di Pisa (1733-1769), in "Bollettino Storico Pisano", s. III, XXX, 1961, p. 175. [98] CARACCIOLI, Vita del Sommo Pontefice Clemente XIV Ganganelli..., Firenze, 1775, p. 187. [99] A. CERATI, Elogio, cit., pp. 80, 84. [100] Ibid., pp. 75-76. [101] R. SHACKLETON, Montesquieu's Correspondence. Additions and Corrections, in "French Studies", XII, 1958, pp. 330-332, 344. [102] A. GENOVESI, Lettere familiari, cit., vol. II, p. 113. [103] Ibid., p. 115. [104] F. GALIANI, Della moneta, Napoli, 17802, p. 413. [105] Il Venuti, intorno al 1737 (alla vigilia cioè del suo viaggio francese e del suo incontro con il Montesquieu) era stato al centro, con certi suoi "versi sanguinosi" contro i Gesuiti autori dei Sermones dello pseudo-Quinto Settano, della violenta polemica anti-gesuitica che mobilitò il meglio della cultura toscana (l'"élite des savans de Florence", diceva la "Bibliothèque Raisonnée") del tempo (Lami, Niccolini, Buondelmonti, Cocchi, Corsini etc.) e che ebbe risonanze anche all'estero (cfr. Raccolta di composizioni diverse sopra alcune controversie letterarie insorte in Toscana nel corrente secolo, s.1., 1761, I, pp. XVI-XVIII; "Bibliothèque Raisonnée des ouvrages des Savans de l'Europe", XXII, 1739, pp. 279-314; XXIII, 1739, pp. 172-190; 296-356): "Controversie letterarie" per modo di dire: i gesuiti incolpavano i loro avversari di essere ascritti alla società dei free-masons (e in generale non avevano torto), società "qui, s'il faut l'en croire - commenta il giornalista di Amsterdam -, proscrite en Angleterre, & en France... s'étoit cantonnée en Italie" ("Bibliothèque", cit., vol. XXIII, pp. 322-323). Il Venuti vi è chiamato "homme de qualité" (Ibid., p. 3061 n. a). Sull'attività di quest'ultimo all'Accademia di Bordeaux, cfr. P. BARRIèRE, L'Académie de Bordeaux, Bordeaux-Paris, 1951, passim. [106] F. VENUTI, Il Trionfo letterario della Francia, Avignone, 1750, pp. III-IV. [107] H. WEINERT, Filippo de' Venuti, in "Archivio Storico Italiano", CXII, 1954, Disp. III, pp. 348-376. [108] F. VENUTI, Il Trionfo, cit., p. 17. [109] "Magazzino Toscano", III, 1756-1757, p. 573. [110] "Magazzino Italiano", I, 1752, pp. 95-99; 125-129; II, pp. 8-10; 41-42. [111] "Magazzino Toscano", I, 1754-1755, pp. 47-51; 95-103; 145-154; 181-186. [112] "Memorie per servire all'Istoria Letteraria", t. VI, Venezia 1755, parte I, p. 13. [113] Dissertation sur les raisons d'établir ou d'abroger les lois, in FREDERIC II ROI DE PRUSSE, Ouvres, Berlin, 1789, II, pp. 165-210. Lo scritto è del 1753: "Il y a huit ans que la question [la "questione preliminare"] est abolie en Prusse" (p. 201). Su l'influenza del pensiero del Montesquieu su Federico, soprattutto in materia di diritto penale, cfr. V. FUCHS, Die strafrechtlichen Anschauungen Montesquieus und Friedrich des Grossen, Zurich, 1924 (Diss.) e K. MEHRING, Inwieweit ist praktischer Einfluss Montesquieu und Voltaires auf die strafrechtlichen Tätigkeit Friedrichs des Grossen anzunehmen, bezw. nachzuweisen?, Breslau, 1927. [114] A. MANZONI, Opere complete, a cura di N. TOMMASEO, Napoli 1860, pp. 331-332. L'operetta fridericiana fu ripubblicata ancòra nel 1779 a Napoli da quella "Società del Gabinetto Letterario" promossa e organizzata da Giuseppe Maria Galanti (RE DI PRUSSIA, Dissertazione sopra i mezzi da stabilire o abrogare le leggi, Napoli, 1779; cfr. N. CORTESE, Per una biografia di Giuseppe Maria Galanti, in "Samnium", VIII, 3-4, 1935, p. 9). [115] "Magazzino Toscano", I, 1754-1755, pp. 424-432. [116] "Magazzino Toscano", III, 1756-1757, p. 447 s. [117] "Magazzino Toscano", III, 1756-1757, p. 282. [118] "Magazzino Toscano", III, 1756-1757, p. 549. [119] P. SAVIO, La devozione di Mgr. Adeodato Turchi alla Santa Sede, Roma, 1938, p. 38. Per la condanna si pronunciarono invece il Cerati (N. CARRANZA, Monsignor G. Cerati, cit., p. 169) e il Niccolini (AMATI, Lettere, cit., p. 24), pur disapprovandone la forma. [120] Sui rapporti Hume-Montesquieu cfr. R.B. OAKE, Montesquieu and Hume, in "Modern Language Quarterly", II, 1941, pp. 25-41; 225-248. [121] La cifra, com'è noto, è del Montesquieu (lettera al duca di Nivernais, 26-1-1750). Ma, sinora, non se ne sono rinvenute che dodici (MONTESQUIEU, De l'Esprit des Loix, ed. J. BRETHE DE LA GRESSAYE, I, Paris, 1950, p. LXII, n. 1). [122] F. VENTURI, Alle origini dell'illuminismo napoletano, in "Rivista Storica Italiana", LXXI, 1959, p. 425. IL Venturi ha però omesso il resto della frase: "dove sempre più perde di stima". Può quindi affermare che l'Intieri si rallegrava del fatto. [123] G.M. MECATTI, Discorsi storici filosofici sopra il Vesuvio, II, Napoli 1770, p. CCLI, n. a: "Nell'anno 1751, era uscita alla luce la traduzione dello Spirito dette leggi del signor di Montesquieu, presidente di Bordella, nella qual traduzione ci aveva pure molto affaticato il signor D. Giovanni Mac Egan cavaliere irlandese, uffìziale negl'ingegneri di Sua Maestà e fra le altre cose intendentissimo di molte lingue, facendo l'autore per assenza del signor Egan le note che son marcate in fine col segnale Trad.". Sul Mecatti cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., passim. [124] "Gazzetta Letteraria", Milano, Galeazzi, 1773, p. 219. [125] Dello spirito delle leggi ovvero del rapporto che le leggi devono avere colla costituzione di ciascun governo, co' costumi, col clima, colla religione, col commercio... A cui l'Autore ha aggiunto delle nuove ricerche sulle Leggi Romane spettanti alle successioni... Tomo Primo rivisto e corretto e fattivi di cangiamenti considerabili dall'istesso Autore. Tradotto dal franzese in toscano con alcune note dei traduttori, in Napoli, per Giovanni di Simone, 1750 (Biblioteca Nazionale, Napoli, XVII.C.5-6). La traduzione è stata dunque eseguita sulla seconda edizione dell'opera (apparsa in Parigi alla fine di maggio 1749). Rivolgendosi al "candido lettore" i traduttori spiegavano perché avevano intrapreso la loro fatica: l'opera del Montesquieu era "degna... dell'attenzione di tutti i Popoli e Nazioni; e perciò se la debbe ciascheduna adottare per sua, traducendola nel suo nativo idioma, per potere agevolmente raccorre quegli ampi sensi, che in essa stanno nascosti, e da cui ne deriva una copiosa messe d'erudizione, e di sapere" (p. XII). A tale scopo essi non si erano limitati a tradurla in buon toscano, ma per maggior "utile, e benefizio della Nazione italiana" ne avevano fatto due edizioni, una in -4° e l'altra in -8°, "giacché in due forme, ci è la prima volta capitata in mano; e ci lusinghiamo - aggiungevano -, che in questo non sarà condannato il nostro pensiero, che è stato di sodisfare il genio di ognuno" (Ibid.). Circa le note, i traduttori dicevano abbastanza chiaramente che erano stati costretti a mettervele: "Riguardo poi al luogo, in cui ci troviamo, ed in cui non si può usare tutta quella libertà nel parlare, che forse si userà in Francia o di là dai Monti: riguardo che noi altri Italiani sentiamo alcune cose diversamente da quello, che le sentono gli Oltramontani: e riguardo, che qualunque Uomo per ispregiudicato che e' sia, ha il suo genio particolare, e la sua passione..." (p. XIII). Avevano perciò aggiunto delle note, ma pochissime: quelle strettamente necessarie ("Queste note si son fatte di rado, e solamente quando lo portava una estrema necessità"; Ibid.). Troppo tardi era apparsa la Défense per poterla utilizzare, come avrebbero voluto, mettendola "sotto a' suoi luoghi" (p. XIV). Promettevano però di pubblicarla in un tometto a parte "il quale anche potrà per avventura crescer di mole, qualora in questo tempo esca qualche altra cosa su tal proposito" (Ibid.). Non mi risulta però che la promessa sia stata mantenuta. I traduttori non erano però troppo sicuri che le loro note sarebbero state sufficienti ad assicurare al libro un viaggio tranquillo: sapevano troppo bene i motivi per i quali il Montesquieu aveva fatto sospendere l'edizione. Speravano dunque che "que' medesimi, che ci hanno stimolato tanto per determinarci a tradurla, e darla poi alle stampe, la proteggeranno, e la difenderanno dalle indiscrete e mordaci lingue de' calunniatori" (Ibid.). I permessi di stampa sono firmati dal can. Gennaro Pezzellio (VIII Kal. Sextiles) e da Carlo Gagliardi (Kal. Juliis 1750). Esaminiamo ora qualcuna delle note. Alla fine del capitolo 17 del libro VIII il Montesquieu aveva appena detto la frase famosa: "Les fleuves courente se mêler dans la mer: les monarchies vont se perdre dans le despotisme". Nel capitolo 18 riprendeva: "Qu'on ne cite point l'exemple de l'Espagne; elle prouve plutót ce que je dis"; e citava, a conclusione della sua serrata accusa al despotismo spagnolo, il caso dell'Italia: "Elle ne se maintint dans l'Italie qu'à force de l'enrichir et de se ruiner: car ceux qui auroient voulu se défaire du Roi d'Espagne...". I traduttori corrono ai ripari: "Se mai ci è stato alcuno italiano così stolto, che abbia mai desiderato di disfarsi del Re di Spagna, ha conosciuto ben presto la sua follia, perché nel governo spagnolo l'Italia è stata sempre ricca, doveché quelle estrazioni continue di danaro, e quelle imposizioni, che non hanno avuto mai fine, sotto altri principi l'Italia s'è spiantata affatto, e nelle ultime guerre di Lombardia s'è visto coll'esperienza, che gli Spagnuoli erano più che ogni altra nazione bramati dagl'Italiani" (vol. I, p. 270). Altro passo delicato: il capitolo 4 del libro XII. Il Bottari l'aveva minutamente confutato nel suo rapporto alla Congregazione dell'Indice (p. 213). La Sorbona, due anni più tardi, condannerà la proposizione come "scandalosa, impia, erronea et haeretica". Lo stesso Montesquieu, nell'abbozzo di risposta alla Faculté de Théologie, aveva promesso di togliere la frase (ma poi si guardò bene dal farlo: Esprit des Lois, ed. J. BRETHE DE LA GRESSAYE, vol. II, pp. 373-374). Nelle azioni "qui blessent la Divinité, là où il n'y a point d'action publique, il n'a point de matière de crime [...] Le mal est venu de cette idée, qu'il faut venger la Divinité". I traduttori ripetevano quasi alla lettera le controargomentazioni del "Journal de Trévoux". "Ancorché la pena che si dà a' Delinquenti contra la Divinità sia sempre, per acerba ch'ella sia, non proporzionata all'eccesso del delitto, non essendoci proporzione veruna tra la Creatura e il Creatore, non per questo però tali delitti devono restare impuniti, avendo i legislatori imposte tali pene per compensare in qualche parte all'onore che si viene a torre al Signore Iddio" (II, p. 85). Al Montesquieu, che citava il caso di un ebreo bestemmiatore della Vergine, scorticato vivo da cavalieri mascherati che si erano sostituiti al boia per vendicare l'onore della madonna, i traduttori non potevano però dar torto; e deploravano con lui "il furioso zelo de' Cavalieri", "non essendo queste persone approvate dalle Leggi e dai Legislatori di dar morte ai delinquenti" (Ibid.). Analogamente, all'asserzione del Montesquieu (XII, 6) che del delitto di magia "on pourroit prouver... qu'il n'existe pas" e di quello d'eresia "qu'il est susceptible d'une infinité de distinctions, interprétations, limitations", si facevano dovere di replicare: "È vero che contro tali delitti di magia, ed eresia si deve procedere con della circospezione: ma quando però sono provati, si devono punire rigorosamente..." (vol. II, p. 92). Difficile era pure ammettere che i suicidi fossero dovuti a una causa fisica, che fossero soltanto "l'effet d'une maladie" (XIV, 12). I traduttori protestavano: "...Noi veggiamo che [tra] gl'inglesi i quali più d'ogn'altra nazione sono soliti di dare in simili eccessi, tutti coloro i quali s'ammazzano da se stessi, o che sono fanatici o deliranti o che non hanno affatto veruna religione" (vol. II, p. 192). Era, detto in maniera più reticente, quanto aveva scritto il "Journal de Trévoux" ("...ou plutót par principe d'irréligion, comme on a tout lieu de le croire depuis que l'Angleterre est devenue le centre de toutes les mauvaises doctrines"). Potrei continuare. Ma a che pro? L'essenziale mi pare dimostrato: i traduttori si preoccupavano delle censure ecclesiastiche e, per prevenirle, utilizzavano largamente le obiezioni dei gesuiti di Trévoux. Queste note non hanno niente da vedere, né per il contenuto né per la loro natura, con quelle del Genovesi. Esse sono, come s'è visto, del Mecatti (cfr. supra, n. 4). [126] La copia dell'opera montesquiana postillata dal Genovesi fu messa in vendita a caro prezzo alla sua morte (lo narra il Forges Davanzati nelle note a M. DAMIANI, Componimento in morte del signor abate Antonio Genovesi, Napoli, 1772). Non è possibile indurre quale fosse l'edizione dell'Esprit des Lois della quale il Genovesi si servì. Ma quasi certamente le note in questione non sono impressioni di una prima lettura: una postilla a III, 5 fa pensare che il Genovesi annotasse il libro dopo il 1760 ("Se non è stato l'amor della patria quello, che nell'anno 1760 ha fatto dare a' Francesi il loro argento alla corte, è stato il timore") o che, in ogni caso, vi fosse tornato sopra in tempi diversi. Le note sono del resto assai diversamente distribuite: solo diciotto libri su trentuno sembrano aver attratto l'attenzione del Genovesi; inoltre le note cessano del tutto a partire dal libro XXIII. Segno evidente che il Genovesi non si proponeva affatto un'opera sistematica di commento. Per comodità del lettore dò una tavola delle note genovesiane: il numero arabico tra parentesi indica il numero delle glosse apposte a ciascun capitolo: I, 1(11), 2(5), 3(5); II, 1(1), 3(2), 5(1); III, 3(6), 4(2), 5(1), 6(5), 7(4), 8(4), 9(7), 10(7), 11(1); IV, 1(2), 2(18), 3(4), 5(5); V, 2(1), 3(2), 4(4), 5(4), 6(2), 8(2), 16(1), 17(1); VI, 2(1), 3(1), 5(1), 9(1); VII, 4(2), 5(1), 14(1), 17(1); X, 2(1) 3(1) 4(1), 8(1), 9(2); XIII, 10(3), 11(1), 12(4); XIV, 4(1), 13(2); XV, 11(1), 12(2); XVI, 10(1), 12(1), 13(1); XVII, 2(2), 3(1), 4(1), 5(3), 6(1); XVIII, 1(2), 2(1), 3(3), 4(1), 6(2), 9(1), 11(1), 19(1), 20(1); XIX, 27(3); XX, 1(2), 2(2), 3(1), 4(4), 5(1), 7(1), 8(2), 9(2), 10(2), 11(1), 12(3), 13(2), 21(2), 22(4), 23(2); XXI, 1(1), 2(1), 3(2), 4(1), 11(1), 13(2), XXIII, 8(1). Come si vede capitoli importantissimi, come il capitolo XI e il XIX, o, come il capitolo XXII, presumibilmente interessanti per il Genovesi, non sono stati punto annotati. Giustamente il Venturi scrive: "Potremmo conoscere più compiutamente il pensiero di Genovesi sull'Esprit des lois negli anni cinquanta, se ci fosse possibile datare esattamente le numerose postille che egli scrisse su un esemplare oggi perduto di quest'opera, pubblicate postume [...]. Quando son datate, queste note risultano scritte nel decennio seguente [...]. È evidente un elemento rousseauiano e repubblicano che non esisteva ancora nel Genovesi dell'epoca di Intieri. Echi tuttavia delle reazioni sue e dei suoi amici di Massa Equana ritroviamo nell'accusa di "romanzo", rivolta alle idee di Montesquieu..." (F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., p. 566 n. 2). [127] Lo Spirito delle Leggi... con le note di A. Genovesi, Milano, 1838, pp. V-VI. [128] Lo Spirito delle Leggi... con le note di A. Genovesi, IIa edizione napoletana, Monitore delle Due Sicilie, Napoli, 1819. [129] Cfr. M. BERENGO, La crisi dell'arte della stampa veneziana alla fine del XVIII secolo, in Studi in onore di Armando Sapori, Firenze, 1957, p. 1323, n. 7. [130] "Gazzetta letteraria", Milano, Galeazzi, 1773, p. 219. [131] "L'Europa Letteraria", t. I, p. II, febbraio 1773; cfr. pure t. II, p. I, marzo 1773. [132] La "mano maestra" qualche volta si rendeva colpevole di goffaggini come questa: XXI, 21:
XI, 6: "Aussi le gouvernement a-t-il besoin, pour se maintenir, de moyens aussi
violens que le gouvernement des Turcs; témoin les Inquisiteurs
d'Etat [à Venise], et le tronc où tout délateur peut,
à tous les momens, jetter avec un billet son accusation. Ainsi,
à Venise, le grand conseil a la legislation, le prégady,
l'exécution, les guaranties, le pouvoir de juger. Mais le mal est
queces tribunaux différens sont formés par des magistrats
du méme corps: ce qui ne fait guère qu'une même puissance". Traduzione veneta: "Quindi in Venezia il governo, per conservarsi abbisogna di ripieghi
violenti come quelli dei Turchi... Quindi in Venezia il Maggior Consiglio
ha la legislazione, il Pregadi l'esecuzione; le Quarantie la facoltà
di giudicare. Questi differenti Tribunali però sono formati da
Magistrati del corpo medesimo, loché viene a formare una medesima
potestà". [133] "Mercurio d'Italia storico-letterario", Venezia, 1797, semestre III, p. 251; semestre IV, p. 121. [134] Sulla versione del Guasco s'è già detto. La traduzione del Vasco fu eseguita in "castello" per occupare il tempo nel 1768. Si arresta al capitolo 19 del libro XXVIII. Porta per titolo: Lo Spirito del presidente di Montesquieu sopra le leggi, ossia sopra il rapporto etc. Gli squarci commentati sono stati pubblicati dalla Rota Ghibaudi (F.D. VASCO, Opere, cit., pp. 193-404). Più lungo discorso merita l'Almici. Faceva parte del gruppo bresciano attorno al Mazzucchelli, al quale vanno le simpatie della Berselli (pp. 124-125). Contro il Berengo, che aveva con molta esattezza affermato che tale gruppo "in un primo tempo ancorato alla tradizione erudita muratoriana, giunge poi attraverso un graduale consenso verso la mentalità illuministico-riformatrice dominante nella Lombardia austriaca", la Berselli afferna che il gruppo suddetto iniziò la sua evoluzione verso posizioni illuministiche "assai prima" dei lombardi. Ma è vero? Certamente l'opera erudita del Mazzucchelli non meritava il giudizio sprezzante del "galantuomo" Lami. "A conto del Mazzucchelli, che volete voi - scriveva al Brunacci il 27 aprile 1748 - andare a cercare il metodo, e l'esame sottile delle cose, mentre non mi pare che ve ne sia punto? Mi pare un credulo infilzatore"; e faceva capire che lo giudicava per tutti i rispetti un balordo: "ma vedo non avere neppure discernimento nelle corrispondenze. Se voi vedeste qua quei che carteggian seco!" (Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 512, f. 143). Ma qui si giudica il suo atteggiamento verso le nuove idee. Abbiamo un test ottimo: l'opera dei Beccaria. Esso vale a segnare la differenza d'atteggiamenti tra il conte e i suoi amici. Il Calogierà ritardò l'uscita del volume XIII della sua Nuova Raccolta per ospitare una confutazione di Callimaco Limi (non Lisi): Osservazioni critiche sopra il libro intitolato "Dei delitti e delle pene" dove il Limi [= CamiIlo Almici] sosteneva - per non dir altro - la ragionevolezza, in certi casi, della tortura (Nuova Raccolta di opuscoli, XIII, Venezia, 1765, p. XXXI). Il Calogierà era sdegnato contro il libro: "Si vuole erigersi da certi liberi pensanti in Riformatori delle Leggi e della Morale del Mondo, credendo che la loro testa sia arrivata a pensar meglio di tutti i grand'uomini passati, e che loro soli soli pensino bene, e tutto il restante del Mondo passato e presente no, e Iddio volesse, che non andassero più avanti..." (Ibid., p. XII). Incomprensione totale, dunque. Ma tra le pagine del Calogierà e quelle dell'Almici, Zaccheria Gamuzoti Melloni - cioè il Mazzucchelli - aveva inserito un estratto del libro che concludeva con un giudizio di sostanziale consenso: "È succoso, e sovente metafisico e sottile. Sua scorta è il Montesquieu. Ha la sua parte di paralogismi, e alcune massime, e principi perniciosi e falsi. Talvolta pensa bene, e produce ottime riflessioni" (Ibid., p. XII). (Cfr. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a c. di F. VENTURI, Torino, 1965, pp. 191, 192, 195, 196, 215). Non mancano però, come si vede, le riserve. Quanto al Chiaramonti, si sa che discorrendo dell'educazione del giovane Filippo Mazzucchelli si augurava che "non s'innamorasse degli oltramontani" e coltivasse invece ("i greci, i latini, e gli italiani i quali furono sempre i maestri di tutto l'oltremonte" (cit. da BERENGO, 181). Ma Filippo seguì, com'è noto, la strada opposta, fino a cospirare per la Rivoluzione: a lui, più che a suo padre, morto nel 1768, alludeva il Berengo (cfr. pure G. VACCARINO, I patrioti "anarchistes" e l'idea dell'unità d'Italia (1796-1799), Torino, 1955, passim). Un giudizio meditato sopra il Chiaramonti si potrà tuttavia dare solo dopo aver esaminato l'imponente suo epistolario conservato presso la Biblioteca Comunale di Trento (cod. 920-949). Tra i corrispondenti figurano Camillo e Giovan Battista Almici; ma purtroppo non sono ancòra riuscito a vederlo. [135] Ossia Friedrich August, principe di Braunschweig-Wolfenbüttel-Öls, nipote ex matre di Federico II, noto come traduttore in tedesco di opere teatrali francesi (M. HOLZMANN - H. BOHATTA, Deutsches Anonymen-Lexicon (1501-1850), III, Weimar 1905, p. 159, N. 5232; Allg. Deutsche Biogr., VI, Leipzig, 1879, pp. 505-507). Riteneva evidentemente di far cosa grata all'illustre zio traducendo un libro che il re prussiano aveva attentamente meditato (cfr. Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence. Avec commentaire & notes de Fréderic-le-Grand, ed. J. CHARVET, Paris, 1870; M. POSNER, Die Montesquieu-Noten Friedrichs II, in "Hist. Zeitschrift", LXVII, 1882, pp. 193-288). L'interesse di Federico per Montesquieu era profondo: le Lettres Persanes furono probabilmente il modello stilistico della sua Relation de Phihihu, émissaire de l'empereur de la Chine en Europe. Traduit du chinois, Cologne 1760 (cfr. W. MANGOLD, Nachahmungen Montesquieus und Bossuets von Friedrich dem Grossen, in "Archiv für das Studium der neueren Sprachen u. Literaturen", CII,1899, pp. 331-338). Vedi pure la n. 112 del precedente capitolo. [136] Considerazioni sopra le cagioni della grandezza dei Romani e della loro decadenza [col Dialogo di Silla ed Eucrate] tradotte dal francese in italiano, Londra, 2 voll. in -12°. [137] "Giornale de' Letterati", Pisa, t. XCIV, 1794, p. 166. [138] Ibid., p. 175. [139] "Memorie per servire alla storia letteraria e civile", I, Venezia, 1793, pp. 6-7. [140] Sul modenese Vicini cfr. A.G. SPINELLI, Chi era l'abbé J.B.V. nelle "Memorie" del Goldoni?, Modena, 1901. Il giudizio del Baretti si legge nella "Frusta Letteraria", n. XXIV. [141] Un letterato della cerchia del Niccolini (cfr. le lettere unite al manoscritto di questa versione presso la Biblioteca Estense, Modena). [142] "Giornale de' Letterati", Pisa, t. XCIV, 1794, p. 167. [143] Per i suoi rapporti con Alfieri, Cesarotti, Fantoni, il generale Miollis cfr. Sette lettere di S.F. e due sonetti inediti, Pisa, 1879; O. DE MONTEL, Sulla vita e sulle opere di S.F., Firenze, 1882; E. LEVI-MALVANO, S.F. e le sue elegie, in Miscellanea di studi in onore di G. Mazzoni, Firenze, 1907, vol. I, pp. 217-233. [144] Sul Mallio cfr. D. SPADONI, Un poeta cospiratore confidente, Macerata, 1902. Il Mallio fece uscire tra il 1790 e il 1798 gli Annali di Roma. [145] Su tale versione cfr. l'opuscolo di G. MAZZONI, Per nozze Perroni-Chiarini, Padova, 1892. [146] G. BOCALOSI, Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano, IIa edizione, Milano, Anno I, pp. 24-26; MONTESQUIEU, Esprit des Lois, XI, 6; ID., Lettres Persanes, LXXX. [147] Il Montesquieu s'era ispirato direttamente all'Addison, che parlando del Banco di San Giorgio aveva scritto: "L'Administration de cette banque est entre les mains des principaux citoyens, qui l'ont a vie, ce qui leur donne une grande autorité dans l'Etat, et un grand pouvoir sur la populace. On regarde cette banque comme le plus grand fardeau des Génois; et ses directeurs ont été representés comme une seconde espèce de Sénat, qui rompt l'uniformité du gouvernement; et mine en quelque façon, la constitution fondamentale de la République. Néanmoins il est très vrai que le peuple ne tire pas peu d'avantage de cet établissement, qui partage le pouvoir entre plus de membres de la République, et donne encore quelque figure aux communes: de sorte qu'il tient en bride les Nobles, et fait que le Sénat de Génes a plus de moderation envers ses sujets que celui de Venise" (J. ADDISON, Remarques sur Divers Endroits d'ltalie, Paris, 1722, pp. 11-12). Nelle edizioni 1748 e 1749 dell'Esprit des Lois il Montesquieu aveva scritto che il Banco era diretto "par le peuple". In séguito alle pressioni di Lomellini e Pallavicini, nell'edizione 1750 corresse "par les principaux du peuple" e modificò ancora la frase nell'edizione 1757: "qui est administrée [la banque] en grande partie par les principaux du peuple" (MONTESQUIEU, Esprit des Loix, ed. J. BRETHE DE LA GRESSAYE, vol. I, p. 245). Il Dupin sin dal 1749 aveva ripreso il Montesquieu su questo punto: "Cependant, suivant le rapport de plusieurs des principaux nobles de cette République, qui sont actuellement à Paris, et dont quelques uns ont été dans les Magistratures de la Banque, le peuple n'à aucune part ni aucune influence dans le gouvernement de la Banque..." (Observations sur un livre intitulé De l'Esprit des Loix... [par Cl. Dupin], s.l., s.d. [ma 1749]). Il Dodds non fa fiducia al Dupin: "Les assertions de Dupin ne me semblent pas être bien fondées: qui sont les nobles Génois qui étoient à ce moment à Paris, et pourquoi ne nous dit-il pas leurs noms?" (M. DODDS, Les récits de voyages source de l'Esprit des Lois de Montesquieu, Paris, 1929, pp. 33-34). La obiezione del Dodds è ingenua. In realtà il Dupin poté aver avuto notizia delle rimostranze presentate al Montesquieu dai due genovesi (che forse frequentavano il salotto di Madame Dupin). D'altro lato, a Parigi, soprattutto in quel momento, i genovesi non mancavano: si ricordi che i più ricchi nobili della Repubblica "trop opulents pour s'accoutumer aux dangers", erano fuggiti in Francia nel 1746 (D'ARGENSON, Journal et Mémoires, ed. RATHERY, Paris, IV, 1862, p. 446). L'osservazione del Dupin venne, come è noto, ripetuta dal Voltaire. Il Dodds ha torto di accusarlo di mala fede, facendo notare che il Montesquieu aveva scritto "par les principaux du peuple" e non "par le peuple". Voltaire si era evidentemente servito di una delle prime edizioni. Chi aveva ragione: Montesquieu o Voltaire-Dupin? Stando alla relazione presentata dalla Commissione legislativa della Repubblica democratica nel 1797, erano nel vero questi ultimi: il governo del Banco era stato "usurpato dall'aristocrazia, come quello della Repubblica"; i membri dei governo erano "sempre stati i principali interessati, e perpetui amministratoti della banca" (S. ROTTA, Idee di riforma nella Genova settecentesca, cit., p. 272, n. 101). [148] L. BÉRARD, L'"Esprit des Lois" devant la Congregation de l'Index, in "Revue des deux mondes", aoút 1949, pp. 608-633. Cfr. pure C.J. BEYER, Montesquieu et la censure réligieuse de l'"Esprit des Lois", in "Revue des Sciences Humaines", 1953, pp. 105-132. [149] L. BÉRARD, cit, pp. 617 e segg.; E. DAMMIG, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano, 1945, p. 78, n. 5. Cfr. ora M. ROSA, Cattolicesimo e "lumi": la condanna romana dell'"Esprit des Lois", in Riformatori e ribelli nel '700 religioso italiano, Bari, Laterza, 1969, pp. 87-118. La conclusione del Rosa (che, tra l'altro, ha ritrovato e pubblicato il parere dell'Emaldi) è ineccepibile: la condanna del Montesquieu segna una "svolta" nel rapporto tra cattolicesimo e "lumi". [150] Conférences du IIe centenaire de l'"Esprit des Lois", Delmas, Bordeaux, 1949, pp. 279-285. [151] L. BÉRARD, cit., p. 623. [152] S. ROTTA, Una lettera inedita di Domenico Passionei al Voltaire, in "La Rassegna della Letteratura Italiana", LXIII, 1959, pp. 264-274; A. CARACCIOLO, Domenico Passionei. Tra Roma e la Repubblica delle Lettere, Roma, 1968. Cfr. la mia "scheda" in "Il pensiero politico", I, 1968, pp. 138-139. [153] Un giudizio altrettanto limitativo dà il Vecchi: "Uomo di nessuna capacità logica e di intelligenza limitata, aveva però il pregio [?] di una sentimentalità morbida e diffusa, che riduceva a forme di esclusivismo e di gelosie nelle sue amicizie... Riprese, anche se per poco, il carteggio col Muratori, per ostentare i suoi successi letterario-amorosi". E cita la lettera del 7 marzo 1722. Ma la lettera è visimilmente datata da Parigi (non da Roma) e vi si parla di una tragedia (il Cesare) che il Passionei non risulta abbia mai scritto. In breve: l'autore di quella lettera non è "il futuro archimandrita dei giansenisti" (come al Vecchi piace esprimersi) ma Antonio Conti (A. VECCHI, Correnti religiose, cit. pp. 432-433). [154] Bibliothèque de l'Arsenal, Paris, Ms. 3212, f. 101. [155] E. DAMMIG, cit., p. 60, n. 3. [156] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds français, 17.711, f.64. [157] Vicennalia Brixiensia eminentissimi cardinalis bibliothecarii A.M. Quirini celebrata in Academia Gottingensi, Gottingen, 1748. [158] Decas Epistolarum IV, ep. V, p. 36. [159] D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale italiana, Bari, Laterza, 1960, p. 16. [160] Utilizzo qui le lettere del Querini a Fortunato Tamburini e al Muratori pubblicate da G. CASTAGNA, Miscellanea Queriniana, Brescia, 1961, pp. 39-184. [161] Ibid., p. 57. [162] Ibid., p. 89. [163] Ibid., p. 83. [164] Ibid., p. 48. [165] Benedetto XIV a Querini, Roma, 30 novembre 1748 (L. FRESCO, Lettere inedite di Benedetto XIV al cardinale Angelo Maria Querini (1740-1750), in "Nuovo Archivio Veneto", LXXV, 1909, pp. 5-93; LXXVI, 1909, pp. 279-300; LXXVII, 1910, pp. 159-215; Lettera CXLII). [166] Benedetto XIV a Querini, Castel Gandolfo, 20 maggio 1745 (L. FRESCO, Lettere inedite, cit., Lettera LXXXIII). [167] Benedetto XIV a Querini, Roma, 17 agosto 1748 (L. FRESCO, Lettere inedite, cit., Lettera CXXXV). [168] La France Littéraire, ou Dictionnaire des Auteurs François vivans, corrigé & augmenté par M. Formey, Berlin, 1757, p. 256. Con il Formey il Pérard aveva tradotto nel 1738 uno dei due sermoni pronunciati dal Reinbeck alla presenza del re di Prussia il primo e il secondo giorno del natale 1737 (Sermons sur le Mystère de la Naissance de J. C. prononcez..., par M. J.G. REINBECK... traduits par un Anonyme, & par Messrs S. Formey & J. Perard Ministres de l'Eglise Françoise dediez à M. I. Lange..., A Berlin & à Leipzig, 1738). Questi due sermoni erano, a parere di un anonimo che simpatizzava con gli Aletofili ("sans être sur la liste de vos Alethophiles je n'en suis pas moins de leurs sentimens") una prova convincente "que les veritez revelées ne repugnent jamais aux principes de la raison, pourvu qu'on sache le secret de bien arranger, de bien employer ces principes" (Sermons, cit., p. 26). Il Reinbeck con il Wolff era, tra gli Aletofili, una figura di primo piano: "M. Wolff est le chef de cette société, et M. Reinbeck en étoit le primipilaire, c'est-à-dire, comme vous savez, le premier capitaine de légion" (J. DESCHAMPS, Cours abrégé de philosopbie wolffienne, en forme de lettres, Amsterdam & Leipzig, t. II, pars I, 1747, p. 8). L'espressione era tolta dalla medaglia celebrativa che il conte di Manteuffel (che nel 1736 aveva fondato la società) aveva fatto coniare alla morte del Reinbeck (21 agosto 1741) per onorare quel teologo luterano "si savant, si judicieux, si impartial, & si estimable". Joachim Lange, al quale era dedicata la traduzione dei due sermoni, era un personaggio pericoloso: professore di teologia a Halle, qualche anno prima aveva accusato il Wolff di spargere errori egualmente pregiudizievoli alla religione e al governo civile, provocando un pubblico esame della filosofia wolffiana ad opera di una commissione di quattro membri (tra i quali era il Reinbeck) che aveva però assolto il filosofo dalle imputazioni (Recueil de Nouvelles pièces philosophiques concernant le different renouvellé entre Messieurs J. Lange... & Ch. Wolf, s.l., 17372, p. 6). Su gli Aletofili, Reinbeck etc., cfr. F. VENTURI, Sapere aude, in "Rivista Storica Italiana", LXXI, 1959, pp. 121-124. Al Pérard toccarono, da parte dell'editore dei sermoni reibeckiani, le più calde lodi: "...M.r J. Perard, appellé depuis peu, au pastorat de l'Eglise françoise de Gramtzau; un des plus beaux genies que nous ayons, & qui s'est acquis par son eloquence & par son savoir, l'applaudissement du Public, & l'estime des Personnes les plus distinguées" (Sermons, cit., p. 23). Nel 1735 e il 1736 aveva fatto un viaggio a Parigi che lo aveva messo "en liaison intime avec ce que cette ville renfermoit alors de plus illustre: les Peres de Montfaucon, Martène, Niceron de Tournemine, Mrs. de Boze, Rollin Gibert, de Fontenelle, de Mairan, de Maupertuis, Clairaut, de Voltaire, l'abbé Pluche et plusieurs autres m'honorerent de leur amitié". Benché non avesse allora che ventidue anni molti di costoro aprirono con lui un commercio epistolare che durava ancora ("et quelques uns d'entre eux veulent bien entretenir avec moi un commerce qui reunit pour moi l'utile et l'agréable"). In particolare, aveva stretto amicizia con il Voltaire ("...Voltaire, mon bon & ancien ami"; Bibliotèque Nationale de Paris, Fonds italiens, 512, ff. 74-75). Nel momento che scriveva al cardinale, redigeva con il Formey dal 1746 la Nouvelle Bibliothèque Germanique. [169] J. Pérard a Querini, Stettin, 16 gennaio 1748 (Bibliothèque Nationale de Paris, Fonds italiens, 512, f. 70). [170] J. Pérard a Querini, Stettin, 16 gennaio 1748 (Bibliothèque Nationale de Paris, Fonds italiens, 512, f. 72). [171] J. Pérard a Querini, Stettin, 16 gennaio e 22 novembre 1748 (Bibliothèque Nationale de Paris, Fonds italiens, 512, ff. 72 e 83). [172] A. Lavizari a Querini, 25 luglio 1752 (Bibliotèque Nationale de Paris, Fonds italiens, 512, f. 415). [173] R. SHACKLETON, Montesquieu's Correspondence. Additions and Corrections, cit., p. 340. [174] VOLTAIRE, Oeuvres complètes, t. XXXV, Paris, 1869, p. 402. [175] R. SHACKLETON, cit., p. 338; III, 1383-1384. Il nome di Querini è legato a quella polemica, che ebbe Brescia per epicentro, intorno ai saggi di filosofia morale del Maupertuis (tutte le scritture in Raccolta di trattati di diversi autori concernenti alla Religione naturale e alta Morale filosofia de' Cristiani, e degli Stoici, Venezia, 1756-1757, 2 voll.). L'avvio era stato dato da una confutazione dello Zanotti: ad essa aveva replicato nel 1754 il padre Casto Innocente Ansaldi con le Vindiciae maupertuisianae (cfr. "Bibliothèque impartiale, pour les mois de janvier et Février MDCCLVI", t. XIII, p. I, art. IX, pp. 135-141: il padre Ansaldi ha trattato la controversia "avec un peu trop d'étendue; la precision admirable de l'illustre Auteur qu'il defend, étoit un modèle qu'il n'auroit pas dú perdre de vuë", p. 137) appoggiato inizialmente dal cardinale; però, nel dicembre 1754 alla vigilia della morte "più d'una volta - scrive il suo segretario, abate Avogadro allo stesso Ansaldi il 29 maggio 1755 - l'E.mo ritornò col discorso a raggionar meco sopra la medesima controversia, facendo la parte di Difensore del Libro del Sig.r D.r Zanotti" (Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds ittaliens, 512, f. 352). La discussione era in apparenza una discussione sullo stoicismo; in realtà involgeva questioni gravissime, veramente di fondo: la possibilità di una religione naturale. Il cardinale parrebbe che credesse in tale possibilità, poiché aveva sottoposto al giudizio dello Zanotti il trattato manoscritto del Reimarus Praecipua capita Religionis Naturalis X. Dissertationibus perspicue exposita & vindicata con l'intenzione di "produrlo alla luce quanto prima", premettendovi però una Parenesi indirizzata al suo autore, "pregandolo di riflettere che la sua impugnazione dell'ateismo o libertinismo non saprebbero essere veramente proficue alla Religione, se non accompagnandosi con la dottrina di una Chiesa indefettibile e infallibile ne' suoi dogmi". Aveva indubbiamente scelto bene il suo interlocutore (Appendice e diceocrisia concernenti alla Religione naturale... del Sig. Can. G. Guerrieri, Venezia, 1757, p. XXIII). Nella disputa era inevitabile che ricorresse il nome del Montesquieu "il più grande Encomiatore degli Stoici - scriveva l'Ansadiallo Schiara - che abbia veduto il Secol nostro", Prefazione a Parere del Padre Tommaso Schiara O.P. sopra il libro intitolato "Vindiciae Maupertuisiane" (Venezia, 1756, p. X) e cita dalla Défense l'affermazione: "Les Stoïciens étoient des Athées...". E già nelle Vindiciae aveva asserito: "È un capriccio il voler calcolare geometricamente le azioni; e niuno ancora è giunto a ragguagliare le nozioni geometriche alle morali, e questo appunto è stato creduto il maggior errore, in cui inciampasse il Montesquieu, il quale ha voluto calcolare molti uffizi della Società secondo il vario clima, e governo delle diverse Nazioni; e quindi da alcuni quel suo libro dello Spirito delle leggi fu detto un granaio non più di peregrine cose che d'errori" (Vindiciae Maupertuisianae, tr. it., Venezia, 1756, p. XX); più avanti nota che contro il "fallacissimo sofisma" di Bayle si oppose "nuovamente" il Montesquieu considerando la religione "principio impeditivo del male" (pp. XCIX-C). Ancora nel 1778, nelle Riflessioni sopra i mezzi di perfezionare la filosofia morale (l'Ansaldi era divenuto professore emerito dell'Università di Torino), lamenta che un Locke e un Montesquieu abbiano ricavato o confermato le tesi loro "sulla fede dei venturieri"; "la Filosofia ne è oggi ancor sconsolata" (p. 120, n. 12). Ma più avanti accetta l'influenza delle cause fisiche: "Ogni morale operazione è certamente al fisico appoggiata" (e cita le Persanes; pp. 186-187). Su tutto l'episodio cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., pp. 398-403. [176] MONTESQUIEU, De l'Esprit des Lois, ed. J. BRETHE DE LA GRESSAYE, I, Paris, 1950, p. LXXX. Altri punti della vicenda rimangono ancora oscuri: da chi fosse partita, per esempio, la denuncia (Ibid., LXXVI). Il domenicano T.A. Picchini (non Luigi) va poi scagionato dall'accusa di aver avuto "tanta parte" nella condanna dell'Esprit des Lois (BERSELLI, cit., p. 14 nota): al contrario, fu lui che, su preghiera del Passionei, fece differire della Congregazione dell'Indice la discussione sull'opera (E. DAMMIG, cit., p. 183). [177] Intorno al Lami giornalista si possono leggere utili indicazioni nel saggio di M. ROSA, Atteggiamenti culturali e religiosi di Giovanni Lami nelle "Novelle Letterarie", in "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", II serie, XXV, 1956, fasc. III-IV. Sullo storico: E. COCHRANE, Giovanni Lami e la storia ecclesiastica ai tempi di Benedetto XIV, in "Archivio Storico Italiano", LXXIII, 1965, Disp. I, pp. 48-73. [178] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 512, f. 147. [179] H.-I. MARROU, De la connaissance historique, Paris, 1955, pp. 138-139. ì[180] Le Journal de Gibbon à Lausanne, ed. G. BONNARD, Lausanne, 1945, p. 64. Lo conobbe poi di persona l'anno seguente, 1764, a Firenze: "Sa figure est assez singulière - annotò -, et l'on dit que son caractère l'est encore plus" (Gibbon's Journey from Geneva to Rome, ed. by G. BONARD, London, 1961, p. 122). [181] "Bibliothèque Raisonnée des Ouvrages des Savans de l'Europe", XXII, 1739, p. 267. [182] Ibid., p. 277. [183] Ibid., p. 271. [184] Gli errori proliferano. Cfr. per esempio B. MOLONEY, Florence and England. Essays on cultural relations in the second half of the Eighteenth Century, Firenze, 1969, p. 135: "First published in 1754 etc.". [185] Il testo della lettera del Montesquieu al Bertolini pubblicato dal Guasco presenta qualche differenza dal testo reso poi noto dal Bertolini stesso in limine all'Analyse. Il testo del Guasco reca: "Je finis la lecture des deux morceaux de votre Préface"; il testo di Bertolini: "J'ai fini la lecture des deux morceaux de votre Préface" (l'edizione Masson che stampa: "de deux morceaux" va, in ogni caso, corretta). La differenza più rilevante (oltre ad altre di poco conto: "tant de beautés, si elles n'y étoient point" [Guasco]; "tant de beauté, si elle n'y étoit pas" [Bertolini]) è nella data. Il Guasco non datava, è vero, la lettera; ma, pubblicandola di seguito a una a lui indirizzata del 5 dicembre 1754, nella quale il Montesquieu diceva "je vous adresse la lettre [per il Bertolini] pour la lui faire tenir" gli editori a buon diritto la stamparono con quella stessa data. La lettera pubblicata invece dal Bertolini reca la data: à Paris, ce 31 décembre 1754. In quei giorni il Montesquieu effettivamente lasciato La Brede per Parigi, dove morì meno di due mesi dopo (III, 1531). Poiché il Bertolini non poteva sapere con esattezza gli spostamenti del Presidente (era a Bordeaux ancòra il 25 dicembre) e poiché, d'altra parte, non aveva alcun interesse a mentire, inclinerei per l'autenticità di questo testo, rendendomi però ben conto che mal s'accorda con la frase della lettera al Guasco. A meno di non supporre che il Montesquieu, affaccendato dalla partenza, promise di inviare, ma non inviò al Guasco la lettera per l'amico toscano. [186] La Berselli cita una versione italiana di Emanuele Perger delle Ouvrages posthumes, stampata in Napoli nel 1798. Il Perger tradusse anche l'Analyse del Bertolini? [187] MONTESQUIEU, Oeuvres complètes, ed. LABOULAYE, Paris, 1879, vol. III, pp. 3-62. [188] Analyse raisonnée de l'Esprit des Lois, A Pise, Chez Jacques Grazioli, 1784, p. 7. La lettera algarottiana è erroneamente datata: Livorno, 15 aprile 1765 (l'Algarotti era morto un anno prima). Propongo come data probabile 1755, perché a quella data l'Algarotti era a Livorno e perché nella lettera algarottiana si accenna alla lettera del Montesquieu ("Io mi sarei arrischiato a lodare lo stile francese dell'Opera sua, se fatto non lo avesse M.r de Montesquieu medesimo"). A questa data, la pubblicazione dell'edizione commentata dal BertoIini sembrava ancora sicura ("Mi par mill'anni di vederlo..."). [189] Ibid., p. 125. [190] Ibid., p. 124. [191] Ibid., p. 124. [192] Curava l'invio degli articoli al "Journal étranger" ("de tous les journaux d'alors le plus piquant sans contredit"); E. HATIN, Bibliographie historique et critique de la presse périodique française, Paris, 1866, p. 48 A: era diretto da Prévost, Grimm, Toussaint, Fréron, Deleyre e infine da Arnaud e Suard, nelle mani dei quali morì nel settembre 1762) A.F. Adami, uno dei più importanti redattori del "Magazzino Toscano" e, tra l'altro, grande ammiratore del Montesquieu (cfr. Poesie del cav. A.F. Adami..., Firenze, 1755, pp. 55, 109-112). Cfr. M. MIRRI, Profilo di S. Bertolini, cit., p. 445. [193] Analyse, cit., p. 124. [194] Ibid., p. 14; su la discussione che portò a questa definizione cfr. Esprit des Lois, ed. J. BRETHE DE LA GRESSAYE, I, pp. 3-7, Bisogna notare però che il Montesquieu poneva più direttamente l'equazione: patriottismo = amore dell'eguaglianza. [195] Analyse, cit., p. 34. Solo aggiungeva una nota nella quale spiegava: "Cet Ecrit fut composé en 1754, tems d'une paix générale en Europe", (Ibid., n. 1). [196] Ibid., p. 32 e nota. [197] Ibid., p. 66. [198] Ibid., pp. 10-11. [199] F. SCLOPIS, Recherches, cit., p. 253. [200] D. CABEN, Montesquieu: A Bibliography, New York, 1947, p. 19. Va aggiunto che dal sommario del Bertolini erano lasciati fuori i capitoli su le leggi civili della monarchia francese - "matières difficiles, épineuses & qui demandent des connoissances locales & sans nombre" - e quello su le leggi "par rapport à la religion" (Analyse, cit., p. 13 n.). [201] Analyse, cit., p. 122: "À [...] la peinture que je viens de tracer [...] il est aisé de voir, que dans ce livre de l'Esprit des Lois regnent la précision, la justesse, un ordre merveilleux, ordre peut-être caché aux yeux de ceux qui ne sauroient marcher de conséquence en conséquence etc". Solo in un caso - il XXVII (le leggi romane su le successioni che è costituito da un solo capitolo) - il Bertolini si concedeva un intervento che modificava l'ordine stabilito dal Montesquieu: esso trovava "naturellement" il suo posto subito dopo il capitolo cinque del libro V (Comment les loix établisent l'égalité dans la démocratie): le leggi romane, malgrado "les révolutions des Empires, feront toujours à plusieurs égards le modèle de toute législation sensée" (pp. 18-19). [202] E. CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la Constitution française au XVIIIe siècle, Paris, 1927, pp. 151-153. [203] Una lunga citazione da Montesquieu su i rimedi per ripopolare le province spopolate e malsane ("distribuer des terres à toutes les familles qui n'ont rien, leur procurer les moyens de les défricher & de les cultiver") richiama alla mente il problema che stava più a cuore al Bertolini funzionario: la bonifica della maremma senese. La creazione della piccola proprietà contadina sarà in effetti l'obiettivo principale delle riforme da lui proposte: "sans la propriété, qui est, pour ainsi dire, la mère nourrice de l'agriculture, tout est perdu" (Analyse, cit., pp. 110-114). Così quando scrive: "Notre Auteur est charmé de reconnoître... l'excellence des principes du Gouvernement Monarchique & ses avantages sur les autres especès de Gouvernemens" (Ibid., pp. 19-20), tradisce una preferenza personale. Analogamente, l'apprezzamento sul principio della divisione dei poteri rivela l'ambizione bertoliana a una politica "scientifica" ("Il ne faudroit que ces justes réflexions de notre Auteur sur cette distribution des differens pouvoirs, pour prouver que les affaires politiques bien approfondies se réduisent, comme les autres sciences, à des combinaisons, à pour ainsi dire, à des calculs très-exactes"; Ibid., pp. 38-39). Il "buon senso" non era stato in passato che la comoda maschera di un potere arbitrario e aveva generato una legislazione assurda e contraddittoria ("ces torrens d'erreurs"). Il potere sovrano doveva - ecco il succo del discorso bertoliniano - associarsi i "talens" (Ibid., p. 39). La "grande verité" infine - "que le Prince ne peut pas plus fixer la valeur des marchandises qu'ordonner que le rapport, par exemple d'un à dix, soit égal à celui d'un à vingt" - era (si vede bene) una grande verità per lui (Ibid., p. 86). [204] Il Montesquieu possedeva due copie di Oeuvres del cavalier William Temple (Catalogue de la bibliothèque de Montesquieu, cit., NN. 2355, bis-2355 ter.). Il Bertolini era lettore attento di opere inglesi: fu lui che rivelò nel 1765 allo scozzese Boswell la History of Scotland del Robertson uscita nella traduzione francese l'anno prima (Boswell on the Grand Tour, ed. by F. BRADY-F. POTTLE, Melbourne-London-Toronto, 1955, pp. 142-143). [205] M. MIRRI, S. Bertolini, cit., pp. 451-452, 459-461. [206] G.F. PAGNINI, Saggio sopra il giusto pregio delle cose, Milano, 1803, pp. 160, 190, 249, 261, 265, 267, 279-280, 285, 298). Tra gli economisti citati dalla Berselli non figura il Paoletti, il cui omaggio al gran Montesquieu, "padre della scienza politica" è di qualche significato, provenendo da un sostenitore della "più perfetta libertà di commercio" (F. PAOLETTI, I veri mezzi di render felici le società, Milano, [1772], p. 133). Cfr. M. MIRRI, F. Paoletti, agronomi, "georgofilo", riformatore nella Toscana del Settecento, Firenze, 1967. Del resto il Montesquieu non era soltanto lettura di giuristi e di economisti: il Perelli, un matematico, "aveva profondamente meditato quello che grandi autori come un Locke, un Montesquieu, un Chesterfield, hanno scritto sopra la metafisica, la politica e la morale" (A. FABRONI, Elogio di T. Perelli, in Elogi di alcuni illustri italiani, Pisa, 1784, p. 77). [207] Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a c. di F. VENTURI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, p. 946. [208] Non si sa molto dell'avvocato Giovacchino Domenico Ceri (egli parlava oscuramente "...de' venti, e delle tempeste che agitavano la mia vita"; p. IX, n. I), se non che si sentiva l'animo del legislatore filosofo: "Non non ho né mente né tempo bastante per conoscere dalla sua radice le piaghe tutte, che col lasso del tempo, per connivenza incolpabile di circostanze politiche hanno deformato l'aspetto dell'Italiana legislazione, e Giurisprudenza in pregiudizio sommo dell'equità, e della Giustizia" (Ibid.). Pur con tutti suoi limiti, si illudeva egualmente d'aver segnato le linee generali - "alcuni generali Teoremi" - e della riforma e dei mezzi più opportuni per attuarla. L'accensione idealistica scoppia fin dalla solennissima dedica dell'opera a Pasquale Paoli, "l'eroe del XVIII secolo", che "i diritti inviolabili dell'umanità ha grandiosamente espresso". Il Ceri scarta i rimedi parziali: la migliore legislazione è senz'altro la più semplice e la meno confusa. Solo una legislazione del genere può assicurare ai cittadini la certezza del diritto. Dopo l'insegnamento di tanti giureconsulti filosofi, la riforma della legislazione non poteva più rimandarsi. I sovrani dovevano senza più indugio "tagliare il male alla radice": "abbattere quindi tutto il vecchio sistema legislativo per sostituirvi nuovi codici brevi, chiari, soprattutto analoghi alla natura dei singoli popoli" (p. 27). L'influenza dei "mirabili teoremi" del "Platone de' nostri secoli l'incomparabile Montesquieu" è chiarissima (p. 51). E altrove accenna alla necessità di "adattare all'opportunità" gli stessi "infallibili teoremi" di Bacone, Wolff, Montesquieu "precettori nostri solenni, paragonabili invero per la sublimità, ed estensione di loro vastissime idee a' Cesari conquistatoti dell'Universo" (pp. 75, 173). L'insuccesso del Codice Fredericiano era stato causato, secondo il Ceri, dall'errore di aver seguito troppo le linee astratte consuete ai sistemi dei giusnaturalisti tedeschi senza tener conto della guida e del controllo dell'esperienza storica (p. 35). La volontà di riforma si alleava in lui al bisogno di storicità, di concretezza. Egli voleva infatti trovare nella storia italiana le vie ideali da percorrere per ridurre la legislazione e la giurisprudenza dei vari stati a miglior ordine e miglior sistema; e progettava un nuovo codice, armonico e uniforme, scritto in lingua italiana, usabile da tutti gli stati della penisola uniti spiritualmente da una identica cultura e da una identica civiltà. Cercava dunque il "sistema intrinseco della legislazione italiana" e lo trovava nel diritto comune "parzialmente [...] convertito in sugo e sostanza" del diritto municipale (p. 9). Le varie leggi degli stati italiani si erano succedute, nella varietà delle circostanze storiche, "a guisa di tanti anelli" di una "indissolubile catena": il correre del tempo e la volontà dei popoli "avevano operato progressivamente ed in modo spontaneo l'innesto del diritto municipale nel diritto comune" (p. 52). Per tale unità della civiltà giuridica italiana egli riteneva possibile l'adozione di un codice uniforme per tutti gli stati italiani. Il significato rivoluzionario dell'opera del Ceri - nonostante il suo programma di utilizzare in gran parte gli istituti giuridici tradizionali - sta nel fatto ch'essa rappresentava (l'osservazione è del PIANO-MORTARI, cit., pp. 355-364) "la maniera concreta ed efficace di rendere attuabile e possibile il processo di trasformazione del regime giuridico esistente". Il suo debito verso il relativismo montesquiano - che gli aveva insegnato a cercare le connessioni tra gli ordinamenti giuridici e le cause storico-ambientali - è certamente cospicuo. Del Ceri si perdono successivamente le tracce, salvo a ritrovarlo nel 1788 favorevole alle riforme ricciane: "Il Dottor Ceri - scriveva, l'8 marzo 1788, Zanobi Banchieri al fratello - ha fatto una dissertazione su di ciò [la distribuzione del patrimonio ecclesiastico ai vescovi] che non gli permettono di leggere ai suoi scolari ... " (E. CODIGNOLA, Il giansenismo toscano, nel carteggio di F. De Vecchi, Firenze, 1944, vol. II, p. 190, n. 1). [209] Archivio di Stato, Firenze, Carte Gianni, F. 49, n. 15 cit. da F. VENTURI, Riformatori, cit., p. 1065. Nell'atmosfera creata da quelle discussioni, anche giusnaturalisti come il Lampredi abbandonavano l'astrattismo pufendorfiano-wolffiano e, dietro il Montesquieu, asserivano la necessità per il legislatore di studiare la realtà storica: "Exinde patet unicuique Civitatis Rectori onus impositum ut proprias constituat leges, quae Populi conditionibus, moribus, Religioni Accentar. Opportune Montesquieu... Attamen nescio cui fato tribuendum sit, ut adhuc apud multos valeant vetustissimae leges de Populo latae, cujus Majestas, lingua, mores, Religio penitus interciderunt" (IOANNIS M.AE LAMPREDI, Juris publici Universalis sive Juris naturae et gentium Theoremata, Liburni, 1777, pars I., t. II, p. 258, n. 1). Il richiamo alla concretezza storica si concludeva in una condanna del diritto romano, inadeguato alla nuova situazione storica, motivo sempre più frequente nella pubblicistica del tempo, accanto a quello della incompatibilità delle norme romane con i principi della ragione. Non basta. Per ricostruire concretamente l'influenza del Montesquieu sopra la cultura toscana, bisognava studiare il movimento d'opinione per la riforma degli ordinamenti penali, che darà i suoi risultati nel Codice Leopoldino del 1786: "opus videlicet, quod non Itali modo - scriveva nel 1791 il Cremani -, sed et Germani, Britanni, aliique non hominis proprium, sed veluti a coelo ad nos delapsum mirare non desinunt..." (A. CREMANI, De jure criminali, libri tres, ed. altera, Maceratae, I, p. XLIII). Adulazione, certo. Ma anche ragionata convinzione. Quel codice "mole quidem exiguus" era un capolavoro giuridico e politico: "mirumque in modum praesentibus moribus, et conditionibus Etruscae gentis aptatus", valeva un'intera biblioteca, certamente assai più dei dieci volumi della Bibliothèque du législateur del Brissot de Warville: "communisque omnium utilitatis ubertate Bibliothecas certe complurium Philosophorum superat, longissime vero eam, quam [...] decem voluminibus distinctam curaverat J. P. Brissot de Warville, indigestam mehercle, ne quid eloquar asperius" (cit., p. XXXIII). Il Cremani non corse certo mai con le avanguardie: nel 1774 aveva difeso l'equità e la sapienza delle leggi romane contro i detrattori del Corpus (A. CREMANI SENENSIS, De Officii Legumlatoris & Juris-consulti Specimen, Liburni, 1774). Ma aveva cultura moderna: "Si conosce che l'Autore - aveva notato un recensore - ...ha profondamente meditato Locke e Montesquieu" ("Continuazione del Nuovo Giornale de' Letterati d'Italia", t. IX, Modena, 1776, p. 44). L'anno dopo, passato a Pavia, preludendo alla cattedra di giurisprudenza criminale che terrà fino al 1796, quando, per fuggire la rivoluzione riparò in Toscana, tenterà di studiare i nessi tra legislazione criminale e governo politico (cfr. "Effemeridi Letterarie di Roma", t. VI, 1776, p. 60): De varia Jurisprudentia Criminali apud diversas Gentes, eiusque causis in Regio Ticinensi Gimnasio, Pavia, 1776. A lui il giovane Romagnosi dedicherà la sua prima opera importante, la Genesi del diritto penale (Pavia, 1791), ricevendone contrariamente a quel che si dice obiezioni molto serie: "La pena di morte giammai può esser giusta e necessaria nemmeno nel caso da lei indicato - gli scriveva il 7 maggio 1789 - dell'omicidio, perché se il diritto penale è il diritto di difesa, che competeva a ciascuno nello stato di natura, e riguarda nello stato civile il delitto futuro, che quello già passato, può questo danno futuro impedirsi con modi più dolci ... " (A. CORRADI, Memorie e documenti per la storia dell'Università di Pavia, III, Pavia, 1878, p. 95). Il suo è un tipico riformismo che si rifiuta alle estreme conclusioni politiche di molti suoi contemporanei, che lo accusarono infatti di essere "nimis devotum Principum constitutionibus et servilem" e infine "minus liberum" (De jure criminali, cit., p. XVIII). Ma il Cremani rifiutava quest'ultima accusa ("non quia ita sit - precisava sed quia ad ipsorum non scripserim lIbidinem, eorumque temeritatem, vel imprudentiam secutus non fuerim...", p. XIX). La sua opera di criminalista (cfr. G. BRICHETTI, L.Cremani criminalista, in "Riv. Pen.", LXXXIX, 1919) si muove tutta nel solco aperto dal Beccaria e dal Filangierti (il quale gli si professava a sua volta debitore: "Queste materie [le materie criminali] maneggiate dalle mani maestre, come son quelle del Professor Cremani - gli scriveva il 7 settembre 1781 - acquistano quello splendore, che si richiede per renderle utili al genere umano..." (Archivio di Stato, Firenze, Acquisti e Doni, F. 231, ins. 5, c. 15); e l'anno dopo, il 28 novembre 1782, gli si dichiarava "un Amico, che vi stimava prima di conoscervi, e che vi ama, e vi stima molto maggiormente dopo avervi conosciuto" (Ibid., c. 17): [devo la segnalazione e la trascrizione delle lettera citata alla cortesia del professor Gaetano Arfè che vivamente ringrazio]; le responsive del Cremani si trovano tra le carte Filangieri, nel Museo Filangieri di Napoli): difenderà anzi sempre la vitalità e l'alta ispirazione della scuola italiana. È il filone che stende la propria influenza sino al Carmignani (Elementa jurisprudentiae criminalis, 1808). [210] C. A. PILATI, Voyages, in Illuministi italiani, III, a c. di F. VENTURI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, p. 625. [211] Cfr. S. ROTTA, Giuseppe Maria Galanti e Voltaire, in "Rassegna della Letteratura Italiana", LXVI, 1962, p. 113 e segg. [212] E. J. F. BARBIER, Journal historique et anecdotique du règne de Louis XV, Paris, 1847-1856, février 1757; sulla morte di Montesquieu cfr. ora R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 398-399. [213] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 1548, f. 5. L'espressione è del Bodoni. [214] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 1545, f. 366. [215] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 1545, f. 377. [216] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 1545, f. 377. [217] G.M. GALANTI, Napoli e suoi contorni con un'Appendice, Napoli, 1803, pp. 13-14. [218] Bibliothèque Nationale, Paris, Fonds italiens, 1545, ff. 325-326. [219] S. DE' RICCI, Memorie, cit., vol. I, p. 47. [220] A. ADEMOLLO, Corilla Olimpica, Firenze, 1887, pp. 150, 158, 161, 214-240. [221] E. BERTANA, Vittorio Alfieri, Torino, 19042, pp. 296-297. [222] F. VENTURI, recensione di E. PISCITELLI, Le riforme di Pio VI e gli scrittori economici romani (Milano, 1958), in "Rivista Storica Italiana", LXXI, 1959, pp. 135-142; ID., Illuministi italiani, VII, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. 585-717. Nella Dissertazione del 1750 il nome del Montesquieu non appare (per calcolo prudenziale?). Cfr. G. BELLONI, Scritture inedite e dissertazione "Del commercio", a c. di A. CARACCIOLO, Roma, 1965, p. 24. In ogni caso, è da escludere che egli avesse "sempre tenuto presente non solo l'Esprit des Lois ma le Considerations sur les richesses d'Espagne" (p. 73), perché quest'ultimo scritto rimase inedito fino al 1910. [223] F. M. RENAZZI, Storia dell'Università degli Studi di Roma, IV, Roma, 1806, p. 256. [224] Ph. M. RENAZZI, De ordine seu forma Judiciorum Criminalium Diatriba, Romae, 1777. [225] Ibid., pp. 6 n. 1, 52 n. 2, 55, 56, 67 n. 1, 78. [226] Ibid., pp. 70, 80. [227] F. M. RENAZZI, Storia, cit., vol. IV, p. 256. [228] Ibid., vol. IV, p. 253. [229] Tutte le opere del Duni sono state ripubblicate nel 1854 da Achille Gennarelli. [230] E. DUNI, Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma, Roma, 1763, vol. II, p. 423. [231] M. ASCOLI, Saggi vichiani, I, La filosofia giuridica di E. Duni, Roma, 1928, p. 5, n. 4. [232] E. DUNI, Saggio di giurisprudenza universale, Roma, 1768, dedicato al Tanucci: "Debbo ancora io confessare a V. E. il mio peccato di aver preso ben mille volte le di lui [di Vico] opere per le mani, e mille d'esserne fuggito per non angustiarmi il talento. Ma poi, o stato fosse, come dissi, la occasione della mia professione, od il sorprendente piacimento, che m'ingombrava ogni volta mi riusciva di penetrare ne' più intimi di lui sentimenti, o l'uno e l'altro insieme, fecero sì che bandito dagli occhi miei ogni altro libro mi determinassi, malgrado ogni naturale avversione, a soffrire l'amaro, fino a tanto che convertendosi questo in sangue mi ringiovanisse la mente, col contento di potermi in buona fede gloriare di avere appreso qualcosa di vero". [233] "Journal Encyclopédique", 1 avril 1784, t. III, p. I., pp. 177-178; P. Frisi a G. Ristori, 2 settembre 1783 con preghiera di inviare al marchese F. Visconti "il resto dei fogli di quest'anno e di Bologna e di Modena" (R. COCCONI, Un periodico enciclopedico bolognese del secolo XVIII, in "Rassegna Storica del Risorgimento", I, 1914, p. 871). Varrebbe la pena di ritrovarli. [234] E. COCCONI, cit., p. 871. [235] "Novelle Letterarie", 1792, coll. 442-443. [236] S. PIVANO, Albori costituzionali d'Italia, Torino, 1913, pp. 436-438. [237] R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., pp. 276-277. [238] G. COMPAGNONI, Memorie autobiografiche, a c. di A. OTTOLINI, Milano, 1927, pp. 120-123. Sull'atteggiamento cautamente filo-rivoluzionario delle Notizie, cfr. R. ZAPPERI, Burke, cit., pp. 7-9, 11-13; Giornali veneziani del Settecento, a c. di M. BERENGO, Milano, 1962, pp. LIX-LXI. [239] Un'intelligente analisi di quest'opera in M. PETROCCHI, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia, 1950, pp. 123-124. Su l'atteggiamento politico del P. cfr. M. BERENGO, La società veneta alla fine del ‘700, Firenze, 1956, pp. 196-201. [240] J. GODECHOT, Les commissaires aux armées sous le Directoire, Paris, 1941, vol. I, p. 538. [241] "Mercurio d'Italia", 1796, vol. XI, p. 273. [242] G. COMPAGNONI, Elementi di diritto costituzionale democratico ossia principi di giuspubblico universale, Venezia, 1797, p. 37. [243] Ibid., p. 72, n. a. [244] Ibid., p. 223. [245] Ibid., p. 167 n. a. Cfr. A. MORELLI, L'insegnamento del diritto costituzionale e l'Università di Ferrara al tempo della Repubblica Cisalpina, in "Atti dei Regio Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", LXXIV, pp. 661-699. [246] Biografia degli italiani viventi, Lugano, 1818, pp. 174-175. [247] D. CANTIMORI, Utopisti e riformatori italiani, Firenze, 1943, p. 48. Sul Tocci cfr. ora F. VENTURI, La personalità e l'utopia di A. Tocci, in "Rivista Storica Italiana", LXXIX, 1967, pp. 1129-1143, e la mia "scheda" in "Il pensiero politico", I, 1968, pp. 140-142. [248] D. CANTIMORI, cit., p. 31. [249] F. M. DE FRANCESCHINIS, Delle leggi politiche, Bologna, 1787. [250] I. TEOTOCHI ALBRIZZI, Ritratti, Brescia, 1807, pp. 73-75. [251] "Rivista Europea", IV-V, aprile-maggio 1842. [252] F. M. DE FRANCESCHINIS, Introduzione allo studio della legislazione dedotta dai principj dell'ordine, Padova, 1825-1827, pp. XXV-XXVI. [253] Ibid., vol. II, p. 8. Su di lui cfr. G. BOFFITO, Bibliografia barnabitica, II, Firenze, Olschki, 1933, pp. 63-71; sull'Introduzione cfr. G.D. ROMAGNOSI, Opuscoli su vari argomenti di diritto filosofico, Prato, 18352, pp. 19-27. [254] Il Presidente Barbot (1695-1771), il noto amico di Montesquieu (R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., passim). [255] La data non è indicata nel manoscritto, ma si può facilmente congetturate dalle tante allusioni del testo: a) alla vittoria accademica del Guasco riportata nell'aprile del 1746; b) alla vittoria piemontese ad Asti del 7 marzo 1746; c) al soggiorno del Guasco a La Brède, che terminò al più tardi nell'agosto del 1746. [256] Corretto d'altra mano; prima si leggeva: de tout. Nell'aprile del 1746 il Guasco aveva riportato il primo premio dell'Académie des Inscriptions per la sua dissertazione Sur l'état des sciences et des arts en France sous le règne de Charles VI et de Chattes VII (stampata in O. GUASCO, Dissertations historiques, I, Tournay, 1754 e nuovamente nella Collection des meilleures dissertations, notices et traités particuliers relatifs à l'histoire de France, XV, Paris, 1826). [257] A questa Histoire, progettata dal Guasco nel 1746 per compiacere i suoi amici di Bordeaux, il Montesquieu teneva moltissimo. Nel dicembre di quell'anno, gli raccomanda vivamente di finirla ("vous l'avez promise à notre Académie": Nagel III, 1077). Anni dopo, il 4 ottobre 1752, nuovamente sollecita: "Je vois que le pauvre Clément V retombera dans l'oubli... L'histoire de mon pays y perdra aussi bien que la république des lettres" (III, 1441). L'Histoire è nuovamente menzionata nella lettera pseudo-montesquiana del gennaio 1755 (III, 1533). Non era ancora terminata nel 1767; né mai lo sarà. Il primo libro era stato letto nel 1749 a una seduta dell'Académie des Inscriptions. Non si ritrova tra i manoscritti veronesi. [258] Corretto d'altra mano. Prima si leggeva: "Nous attendons avec empressement la lecture de quelques echantillons de cet ouvrage à l'Accademie". [259] La lettera (l'unica del Guasco al Montesquieu che si conosca), non è datata, ma è verosimilmente la risposta a quella del Montesquieu del 19 ottobre 1747, della quale il Guasco riprende anche certe espressioni ("vous tenez le fil des règnes précedens"; III, 1097). Ma una risposta non immediata: nella sua lettera il Montesquieu aveva consigliato il Guasco, per essere associato all'Académie des Inscriptions, di inviare una dissertazione sul soggetto di quell'anno. Con la lettera in questione il Guasco invia la dissertazione terminata alla revisione dell'illustre amico. La dissertazione, tuttora inedita, si trova tra le carte veronesi (Ms. 328). Lo Shackleton la trova piena d'interesse, non fosse che per il fatto che il Guasco vi aveva "très bien apprécié le talent de François Villon" (R. SHACKLETON, L'Abbé de Guasco, cit., p. 4). Ma cfr. pure O. GUASCO, Dissertations historiques, Tournay, 1756, vol. I, p. 197. [260] Su quest'opera perduta del Montesquieu (composta tra il 1739 o 1740) se ne sa quel poco che lo stesso Guasco racconta (III, 1097). Nicolas Fréret era segretario perpetuo dell'Académie des Inscriptions. [261] La corrispondenza di Helvétius è malnota: "Peu de lettres [...] d'Helvétius, surtout avant 1755" (F. WEIL, Une lettre inédite d'Helvétius, in "Studi Francesi", X, 1960, p. 48). Il Guasco lo aveva conosciuto probabilmente a Parigi, grazie a Montesquieu, tra il luglio 1749 e il gennaio 1750, oppure, sempre a Parigi e sempre grazie a Montesquieu, poco dopo il ritorno dal suo viaggio in Inghilterra (marzo-ottobre 1750; III, 1289, 1336). E, come si vede, era rimasto con lui in rapporto epistolare. [262] Il matrimonio di Helvétius fu celebrato il 17 agosto 1751. [263] Le stesse cose scriveva a una misteriosa contessa alla vigilia del matrimonio: "Enfin puisqu'il faut trancher le mot, je suis le philosophe marié. Si vous scaviez combien cet aveu me coute et combien je suis honteux vous excuseriez cette sotise. Car il me reste encore assez de Raison pour sentir que le mariage est une folie" (F. WEIL, Une lettre, cit., p. 49). [264] Nell'aprile del 1751, il Guasco, che aveva ricevuto intanto il canonicato di Tournai, era a Bruxelles ("fait des visites à toute la ville de Bruxelles"; III, 1378); ma pensava sempre al suo viaggio a Torino, progettato nell'inverno precedente per ottenervi dal re l'investitura dei feudi di famiglia (III, 1344, 1405). Fece il suo ingresso a Torino nell'ottobre (III, 1394). Casanova (che dice di aver conosciuto Guasco a Parigi in quest'anno, "chez Giuliette", "médiateur" degli amori passeggeri dell'ambasciatore d'Austria conte di Kaunitz e del conte Zinzendorf) s'inganna forse sulle date (G. CASANOVA, Histoire de ma vie, ed. intégrale, Wiesbaden-Paris, 1962, III, 159; XII, 31). Tale incontro, se avvenne, non poté avvenire che l'anno dopo. Nel marzo del 1752 il Guasco era ancora in Italia (III, 1426), ma contava di ritornare in Francia per il settembre od ottobre (III, 1430). Anticipò invece il viaggio: nel luglio era a Parigi (III, 1434) e vi si fermò fino all'ottobre, ma già sul punto di andarsene (con l'aiuto del Kaunitz?) a Vienna (III, 1438-9), dove infatti giunse alla fine di dicembre (III, 1451). Rivide in occasione di questo soggiorno parigino Helvétius e la sua bella moglie, oppure più tardi, durante i tre mesi interi (cfr. n. XIV) che l'abate consumò nella capitale francese tra la fine del 1754 e i primi giorni del 1755? Certo è che nella lettera seguente Madame Helvétius lo manda a salutare. [265] Era opera di P.-J. Boudier de Villemert. Ebbe tra il 1758 e il 1759 almeno quattro edizioni. Ristampata nel 1774 con il titolo: L'ami des femmes, ou la philosophie du beau sexe. Nel 1753 l'autore si era già fatto conoscere con un'opera dal titolo: Andrométrie, ou Examen philosophique de l'homme. Nel 1788 pubblicherà la Morale du sexe. Malgrado questi titoli appetitosi, l'autore non era philosophe. Nel 1774 aveva composto un'opera dal titolo programmatico: L'Irreligion dévoilée et demontrée contraire à la saine philosophie. [266] Helvétius, De l'Esprit, nouvelle édition, Paris, Durand, 1758, pp. 201-202 (Discours IV, chapitre 4: De l'esprit fin, de l'esprit fort): "Aussi le Lord Chesterfield dans une lettre adressée à Montesquieu l'abbé de Guasco, dit, en parlant de l'auteur de l'Esprit des Loix: "C'est dommage que M. le président de Montesquieu, retenu par la crainte du ministère, n'ait pas eu le courage de tout dire. On sent bien, en gros, ce qu'il pense sur certains sujets; mais il ne s'exprime point assez nettement & assez fortement: on eût bien mieux su ce qu'il pensoit, s'il eût composé à Londres, & qu'il fût né Anglois". Helvétius aveva introdotto la citazione dopo queste parole: "On est toujours fort dans un état libre, où l'homme conçoit les plus hautes pensées, et peut les exprimer aussi vivement qu'il les conçoit. Il n'est pas ainsi des états monarchiques: dans ces pays, l'intérêt de certains corps, celui de quelques particuliers puissants, et plus souvent encore une fausse et petite politique, s'oppose aux élans du génie, Quiconque, dans ces gouvernemens, s'élève jusqu'aux grandes idées est souvent forcé de les taire, ou du moins contraint d'en énerver la force par le louche, l'énigmatique, et la foiblesse de l'expression. Aussi etc." (cfr. R. KOEBNER, The Authenticity of the Letters on the "Esprit des lois" attributed to Helvétius, in "Bulletin of the Institute of Historical Research", XXIV, 1951, pp. 19-43). Chesterfield, conosciuto da Montesquieu all'Aja nel 1729, alla vigilia del passaggio in Inghilterra, rimase tutta la vita un suo grande ammiratore: lesse e rilesse attentamente l'Esprit des Lois (nel 1750, al tempo del viaggio inglese del Guasco, la stava rileggendo per la terza volta; III, 1289), ammirato tra l'altro di trovarvi una descrizione così esatta della costituzione inglese ("Milord Chesterfield m'a dit - gli scriveva nel giugno del 1749 Domville - qu'il la [explication] trouve fort juste"; III, 1235). [267] Il Guasco era allora a Vienna. Nell'abbozzo autobiografico racconta anzi qualche particolare sulla penetrazione dell'Esprit in Austria: "Un'altra occupazione letteraria onde pregiavasi O. Guasco nel suo lungo soggiorno in Vienna si era di promuovere la contezza, ed il gusto de' buoni libri presso le persone con le quali più famigliarmente passava il suo tempo, ed ebbe la soddisfazione di vedere di giorno in giorno crescere questa utile e lodevole curiosità, eziandio in parecchie Donne di condizione la più distinta; onde non si cessasse di dargli commissione di far loro venire dei buoni libri di Francia in che ebbe l'onore di servire la sovrana medesima. S'ingelosì il barone di *** zelantissimo capo della censura dei libri, e Bibliotecario Imperiale [...] non credette far troppo nell'esporre a Sua Maestà l'Imperatore il pericolo di queste commissioni [...]. Non fu questa la sola prova che O. Guasco ebbe della scrupolosa esattezza del capo della censura nell'esercizio della sua carica; conciosiache avendogli domandato in tempo [...] se permettesse la censura l'ingresso della nuova edizione delle opere di Montesquieu escita alla luce in tre tomi in 4° di cui vorrebbe far venire una copia regalatagli dell'edizione, ricevette in risposta che non incontrarebbonsi difficoltà quando la raccoltina non comprendesse le Lettere Persiane, ma dicendogli O. Guasco che ciò ignorava, riprese l'amico censore che potea scrivere che venisse il plico a lui diretto e che se contenesse la prefata opera proibita dalla censura egli prenderebbe quell'edizione per la Biblioteca Imperiale con rimborsargliene il prezzo: scrisse egli in conseguenza al suo corrispondente in Parigi di spedire la commissione, e siccome era allora uscito alla stampa il libro intitolato de l'Esprit del Sr. Elvezio avvisò il libraro far cosa opportuna di unirvi una copia del medesimo non dubitando essere l'una, e l'altra opera destinate all'Imperial libreria, mentre ordinavanse la direzzione all'Imperial Bibliotecario. Gionto che fu il plico alla Dogana di Vienna egli mandò a ritirarlo ma trovandosi oltre l'opere di Montesquieu convenute il libro dell'Esprit di cui non erasegli parlato giudicò volergli fare una sorpresa, onde squarciati dall'opera di Montesquieu tutti i fogli delle Lettere Persiane, mandò al commettente l'opera così mutilata lagnandosi per viglietto d'aver abusato della sua parola con fargli venire la cattiva opera dell'Elvezio, la quale in pena rimarrebbe confiscata a favore dell'Imperial libreria, come fu inflessibilmente eseguito senza voler ascoltare le ragioni che giustificavano il commettente ed il libraro. Il libro poi di Montesquieu sì mal acconcio portato avendo O. Guasco a vedere al Gran Cancelliere di Corte con esporgli la ragione rispose che non doveva esser di sì fatto procedere sorpreso, poiché il severo censore non agiva più cortesemente verso di lui" (Biblioteca Civica, Verona, Ms. 280). Malgrado la severità del censore tuttavia, a quanto pare, il Guasco era riuscito ugualmente a procurarsi copia del libro, se poteva alla fine del 1758 (l'opera era uscita in agosto) inviare all'autore delle osservazioni pertinenti. Degli scrupoli del "jeune seigneur" che esercitava la funzione di censore dei libri a Vienna e che avevano ostacolato la diffusione dell'Esprit des Lois in Austria si era lamentato anche l'abate V.-J. Duval nel giugno 1750 (III, 1544-1545). [268] L'ospite "seccatore" è il cardinale Passionei. Cfr. O. Guasco a F. Venuti, Roma, 22 dicembre 1753 (Biblioteca Estense, Modena, Autografoteca Campori, Guasco, n. 222; R. SHACKLETON, Montesquieu, cit., p, 192). Racconta nella Vita: "ma la sua società giornagliera era con il Cardinal Passionei con il quale andava ogni dopo pranzo a diporto e passava regolarmente la prima sera fino alle due della notte in cui ritirandosi S. Eminenza dicevagli esser l'ora d'andare a visitare le Basiliche, così per dileggio qualificando le visite da farsi alle Matrone romane, le quali a quell'ora apron la conversazione". In varie di queste serate il cardinale gli permise di leggere il suo famoso voto contro il Bellarmino. Non solo: "Lo invitò nel suo delizioso romitorio di Camaldoli e lo aggregò al ristretto numero de' suoi frati sotto il titolo di Fra Ottaviano" (Biblioteca Civica, Verona, Ms. 280, pp. n.n.). A questi ritiri a Camaldoli allude il Venuti. Montesquieu al contrario lo invidiava o fingeva di invidiarlo (che è ben il Guasco il destinatario della lettera 703 del 21 febbraio 1754, malgrado il parere contrario dei più recenti editori): "Je voudrois bien y être [a Roma], malgré tous les Index du monde. J'y ai passé, pendant huit mois, le temps le plus heureux de ma vie [...] & encore le cardinal Passionei n'y étoit-il pas. Je vous prie de lui présenter bien mes respects" (III, 1496). Il Guasco era giunto a Roma "sullo spirare di novembre" del 1753, con le commendatizie di Firmian per Passionei (Ms. cit.). Vi si era fermato a lungo, fino agli ultimi di agosto dell'anno successivo (Ibid.). Nel maggio si era però portato a Napoli (cfr. ultra, n. 270). Nel settembre è a Verona presso il Maffei, che lo raccomanda allo Zanotti il 27 di quel mese (identificazione mia) come "soggetto di gran merito e di molta letteratura" (S. MAFFEI, Epistolario, cit., p. 1385). E a Bologna il Guasco si arrestò, per sua stessa testimonianza, "lungamente". Nel racconto autobiografico, la visita a Verona e a Bologna precede però il viaggio a Roma. Da Roma egli avrebbe raggiunto Firenze, Ferrara, Brescia, Bergamo e Torino partendo in ottobre "senza più fermarsi fino a Lione"; quindi a Fontainebleau con la corte in villeggiatura. Infine a Parigi, dove sarebbe rimasto tre mesi, intervenendo a qualcuna delle sedute ebdomadarie dell'Académie des Inscriptions, dove lesse quella dissertazione sul praetor peregrinus, che già aveva letto innanzi a un'accademia romana (O. GUASCO, Dissertations historiques, Tournay, 1756, I, pp. 261-301). Era in effetti a Parigi alla fine di novembre del 1754 (III, 1522), e forse riuscì alla fine dell'anno o nei primissimi giorni del nuovo a incontrarsi un'ultima volta con Montesquieu (III, 1532), prima di riprendere il viaggio verso Tournai, dove sembra che fosse alla fine di gennaio del 1755 (III, 1534). Nelle memorie autobiografiche H. G. afferma anzi che Montesquieu "alloggiato il volle a casa sua, mal grado il discredito, in cui aveva tentato di metterlo appresso di lui la sola nemica che abbia mai avuto", cioè Madame Geoffrin (Ms. cit.). Ma se così fosse mal si spiegherebbe il biglietto 736 (III, 1532). Per quale motivo il Guasco ha sovvertito l'ordine dei suoi spostamenti italiani e allungato il suo soggiorno parigino da sì e no due mesi a tre? E' vano cercare per ora spiegazioni. Ma se si tiene presente che quest'ultimo soggiorno nella capitale gli fu tutt'altro che propizio, una ragione deve pur esserci. Devo aggiungere che nell'abbozzo autobiografico (steso dopo le note alle Lettres) la Geoffrin viene presentata come colei che "diede corpo" alla "chimera", ma non come la principale responsabile di quelle voci calunniose: "riescigli al fine di sapere essere il colpo partito da Roma e cagionato dalla gelosia di aver veduto questo forestiere senza preciso titolo sì ben trattato, e sì distinto dal sommo Pontefice per tema che potesse avere qualche credito in Francia; al qual fine cercato erasi nel medesimo tempo di metterlo male nello spirito del nuovo Imbasciatore, e del Cardinale di Tencin, i quali avendo poco interesse d'esaminare il fondamento dell'attribuzione prevenuti ne avevano i loro corrispondenti in Parigi, a ritenerlo per forestiere sospetto" (Ms. cit.). Una manovra gesuitica contro il protetto di Passionei e di Portocarrero? La fiche di polizia rinvenuta dallo Shackleton fa giustizia di questo sospetto: porta la data del 1° settembre 1750 e fa anche i nomi dei delatori: "on a su des abbés de La Fare et de Saint-Hilaire qu'il se mêlait de plus d'un métier, et qu'il était toujours chez les etrangers et chez les ambassadeurs" (R. SHACKLETON, L'abbé de Guasco, cit., p. 3). [269] Nell'accademia romana di storia profana (una delle quattro create sotto il pontificato di Benedetto XIV) il Guasco lesse la sua memoria sul praetor peregrinus, che poi rilesse alla fine del 1754 a Parigi in una tornata dell'Académie des Inscriptions (pubblicata in O. GUASCO, Dissertations historiques, Tournay, 1756, I, pp. 261-301). Il pontefice gli scrisse anche nel 1756 un breve, il testo del quale purtroppo non ci è pervenuto. [270] Il Guasco visitò Napoli e dintorni nel maggio 1754 (O. GUASCO, De l'usage des statues chez les Anciens, Bruxelles, 1768, p. XI). Passionei lo aveva raccomandato al Fogliani (Autobiografia, cit.). Frequentò il principe di San Severo (sul quale cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., p. 538-544, 563); Giovanni Maria della Torre (l'amico di Celestino Galiani), la Ardinghelli: il fiore dell'intelligenza scientifica napoletana Vi rimase per prendere i bagni termali fino all'estate inoltrata, rientrando a Roma in luglio o in agosto. [271] Il Guasco fece ritorno in Italia nell'agosto 1763 con l'idea di portarsi in Pisa. Ma si fermò a Verona presso la sorella. Nel 1764 fece un viaggio a Torino in compagnia del fratello generale e soltanto dopo quella gita giunse in Toscana. Lo Shackleton non è esatto quando scrive: "Vers le 1761, il se retira en Italie, s'établissant à Verone chez sa soeur" (R. SHACKLETON, L'abbé de Guasco, cit., p. 1). Ha dimenticato oltretutto il suo passaggio in Toscana, a Firenze, e la sua opera tra i Georgofili. [272] Alessandro Borgia e, probabilmente, F.M. Feroni. [273] LORD. CHESTERFIELD, Letters, ed. DOBRéE, IV, London, 1932, pp. 1622 e 1675 (lettere del 19 novembre 1750 e del 4 febbraio 1751). Giudicava il Guasco un "Montesquieu's complaisant", ma si serviva di lui. A lui indirizza forse nel 1751 (una lettera di tale anno è registrata nel ms. veronese) quella lettera su Montesquieu di cui ho detto prima (cfr. supra, n. 13). Su Chesterfield (1694-1777) cfr. S. SHELLABARGER, Lord Chesterfield and his World, Boston, 1951. [274] Receveur Generai des
Finances Membre de l'Academie de Peinture.
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