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Salvatore Rotta

Maturazione e contraddizioni della cultura europea nell'Illuminismo [*]

S. Rotta, "Maturazione e contraddizioni della cultura europea nell'Illuminismo", in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
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1. Geografia e cronologia del movimento illuminista
2. Lo sviluppo europeo del movimento dei lumi
3. L'espansione dei Lumi fuori Europa

4. La Francia e i suoi grandi protagonisti
5. Si impone una nuova figura: il philosophe
6. L'immagine del progresso e il senso della storia

7. La ragione e la politica
8. Come moralizzare il potere?
9. L'economia contro la politica
10. La tentazione dell'anarchia
11. Rousseau: società o solitudine

1. Geografia e cronologia del movimento illuminista

[127] È d'uso corrente parlare di siècle des lumières, di secolo dei lumi, di secolo dell'Aufklärung; e identificare senz'altro questo secolo con il diciottesimo. Gli storici non hanno fatto in questo che conformarsi all'uso del tempo. Il secolo XVIII è il primo nella storia del mondo a nominare se stesso, ad attribuirsi un posto privilegiato nel corso temporale del mondo, ad assegnarsi una missione.
In breve: il Settecento valorizzò all'estremo se stesso come momento della irruzione della "luce", come momento della presa di coscienza da parte dell'uomo del senso della propria avventura sulla terra e della sua assunzione di responsabilità nella realizzazione del piano della storia. Poco importa se si trattava soltanto di accelerare - è questa l'opinione di Condorcet - un processo ormai inevitabile e incontrastabile.
Ma tale periodizzazione, a guardar bene, non soddisfa. Quando cominciano in effetti i lumi, quando cioè si registrano non già le prime manifestazioni della nuova mentalità, della nuova cultura, ma quando quest'ultima si organizza in un discorso coerente e soprattutto quando diventa la cultura dominante del secolo ? E fino a quando lo rimane ? Perché, va da sé, l'illuminismo non è che un aspetto, sia pure per un determinato periodo il più saliente, della vita intellettuale di un secolo straordinariamente ricco e creativo. Molti settori della società e della cultura dell'epoca gli restano estranei, quando addirittura non si mettono in aperto contrasto con esso. La dittatura della ragione suscita, inevitabilmente, movimenti di resistenza o di reazione. La "lotta contro la ragion" [128] e può esplodere a volte in forme violente. Si pensi soltanto allo Sturm und Drang (1770). Assumere come data di partenza certi eventi della storia politica è rischioso. J. M. Goulemot e M. Launay, per esempio, sono categorici: il secolo dei lumi comincia nel 1688 con la "gloriosa rivoluzione" che crea in Inghilterra un clima liberale, premessa all'affermazione dei lumi, e si chiude con la rivoluzione francese. A parte il fatto che un clima liberale non si creò mai in Francia, il paese dove il movimento filosofico-politico dei lumi divenne più impetuoso, è corretto delimitare cronologicamente una corrente d'idee con due avvenimenti politici, accaduti per giunta in due paesi diversi ? Il 1688 non rappresenta gran cosa per la Francia e il 1789 non è in Inghilterra un evento traumatico come in Francia. Né più soddisfacente è prendere come data di partenza il 1715, l'anno di morte di Luigi XIV. Se per la Francia, per la Spagna, per l'Italia questa data segna importanti cambiamenti nell'ordine politico, altrettanto non si può dire per l'Inghilterra, dove la morte della regina Anna (1714) e il passaggio della corona sul capo degli Hannover sono accadimenti molto meno eccitanti. Certo, le migliorate relazioni tra Francia e Inghilterra facilitano gli scambi intellettuali tra i due paesi; e più dall'Inghilterra verso la Francia che in senso contrario. Ma bisogna subito aggiungere che già da trent'anni la propaganda degli ugonotti del Refuge andava versando nella cultura francese una massa ingente d'informazioni sul paese vicino; e che quindi il 1715 non rappresenta, neppure da questo punto di vista, una svolta. Ma soprattutto il 1715 non significa nulla né dal punto di vista politico né da quello di storia della cultura per i paesi dell'Europa centrale, orientale e sudorientale. Fa eccezione, nell'Europa settentrionale, la Svezia, dove la conclusione tragica della grande avventura di Carlo XII dà il via di lì a poco, nel 1720, a un interessante esperimento di governo parlamentare. Ma il tempo della libertà (Frihetstid), destinato a durare fino alla restaurazione dell'autorità monarchica a opera di Gustavo III nel 1772, non è accompagnato da un dibattito filosofico-politico di particolare ampiezza e di rilevanza europea. I lumi entreranno sì in Svezia ma ad opera degli ambienti di corte e in particolare del "despota" Gustavo.
Il tentativo di circoscrivere un movimento culturale in un determinato intervallo di tempo, lo stesso per tutti i paesi, assumendo per giunta come date estreme quelle della storia politica, ha i suoi inconvenienti. Se è vero infatti che l'illuminismo è la prima corrente d'idee a carattere paneuropeo, i suoi tempi di diffusione sono diversi da paese a paese; e possono anche, in certi casi, travalicare la data fatale dei [129] 1789. La scoperta dei lumi europei, l'adozione entusiastica del modello dell'Europa illuminata da parte degli intellettuali romeni (e dei boiari) dei principati di Moldavia e di Valacchia e di quelli del grande principato di Transilvania (più direttamente influenzato dal giuseppismo) avviene nell'ultimo quarto del secolo (I. Lungu, A. Marino). La volontà d'integrarsi all'Occidente, e di avanzare risolutamente sulla sua strada riguadagnando il tempo perduto, cresce e si fa febbrile nei primi decenni dei nuovo secolo, fino - si può dire - al 1848. Il "vento del secolo", dissipatore delle nebbie del passato - per usare l'immagine di uno di questi intellettuali, Constantin Conachi - cominciò dunque a soffiare tardi nei paesi romeni; ma continuò a soffiare quando in Occidente aveva cessato da un pezzo. Nessun dubbio sul carattere illuministico del movimento: le idee-forza sono le stesse dei lumi occidentali di molti decenni prima (educazione popolare, promozione della scienza e della conoscenza in generale etc.) iscritti però in un contesto accesamente "patriottico" tipico dei lumi orientali (Grecia, Polonia).
Se non si limita la geografia dell'illuminismo ai soli tre paesi (Francia, Inghilterra, Germania) nei quali quel plesso di idee, atteggiamenti morali e politici primamente cristallizzò; se si cerca d'inglobare, com'è doveroso, nello spazio dei lumi i paesi dell'est e del sud-est europeo (per non parlare del mondo coloniale) i décalages, le sfasature saltano agli occhi. Né c'è da stupirsene, dato il diverso livello di sviluppo al quale quei paesi si trovavano. Non può esservi illuminismo infatti se non là dove esiste una numerosa classe intellettuale, forte e cosciente della propria forza. Come vedremo, l'illuminismo è per l'essenziale l'espressione ideologica di questa volontà di affermazione.
Vanamente si è cercato di accorciare le distanze tra le due grandi aree culturali europee - l'occidentale e l'orientale - facendo un uso generoso della nozione di Frühaufklärung, di illuminismo - come dire - aurorale. Utilizzando questa discutibile categoria storiografica, Eduard Winter ha scoperto manifestazioni illuministiche nell'Austria della fine del secolo XVII; e altre, più consistenti, nel secondo decennio del XVIII. Altri hanno presentato come precorrimenti dei lumi certe iniziative di Pietro il Grande o i progetti di riforma accarezzati dal polacco Andreas Zaluski (L. Kurdibacha). Altri ancora, non trovando materia più solida da mordere, hanno interrogato le letture fatte da qualche membro dell'aristocrazia: indizi anch'esse del formarsi di un nuovo orientamento intellettuale. Franz Rakoszi e il suo segretario, Klement Mikes, hanno così potuto essere salutati come inauguratori dei lumi in Transilvania [130] (B. Zolnay). Esagerazioni, senza dubbio; che valgono tutt'al più a mostrare una qualche omogeneità di fondo dello spazio mentale europeo (R. Munteanu). E' evidente il punto debole di queste volonterose ricerche: si scambiano per illuminismo manifestazioni isolate di non conformismo d'indipendenza intellettuale, rimaste e talvolta destinate a rimanere, in quanto riflessioni private, senza eco. Mentre é essenziale dell'illuminismo la volontà di proselitismo, l'appello all'opinione pubblica. Tutto sommato, è preferibile continuare a servirsi, per designare l'epoca che va pressappoco dal 1680 al 1715, del concetto di "crisi della coscienza europea" usato circa mezzo secolo fa da Paul Hazard. E' in quegli anni inquieti, travagliati, avventurosi che avvengono, dove avvengono, le grandi trasformazioni psicologiche che sono la premessa indispensabile al maturare della coscienza illuministica. Il passaggio da un secolo che amava sopra ogni altra cosa l'ordine, la gerarchia, la disciplina, i dogmi che regolano fermamente la vita, al secolo che detestava costrizioni, autorità, dogmi appare assai meno brusco. L'importante è che quella enorme fermentazione di fine secolo conservi un suo proprio, autonomo valore; che ogni teleologismo venga tenuto lontano. Tutto il contrario di quel che fanno coloro che negli atteggiamenti e nelle speculazioni di un Leibniz, di uno Spinoza, di un Bayle, di un Fénelon vanno cercando soltanto i presagi, i precorrimenti dei lumi.

2. Lo sviluppo europeo del movimento dei lumi

A studiare la storia interna dei lumi si è costretti a prendere atto dello sviluppo ineguale che il movimento ebbe nelle diverse culture nazionali e del fatto che esso non coprì in nessuno dei paesi nei quali si manifestò (e furono, prima o poi, tutti i paesi d'Europa e qualcuno fuori d'Europa) l'intero arco del secolo. Dovunque il movimento illuministico non durò mai più di qualche decennio (R. Munteanu). Anche in Francia, il foyer stesso del movimento, il tempo forte delle lumières, gli anni nei quali la filosofia prese orgogliosamente su di sé il compito di rifare il mondo, non oltrepassò il quarto di secolo. Tra il 1770 e il 1776 il parti philosophique, costretto a misurarsi con una crisi di proporzioni mai viste che scosse in profondo l'intera società e civiltà europee, perdette la fiducia in se stesso, il suo slancio, si divise intimamente, ripiegò (F. Diaz, F. Venturi). Nei leaders stessi s'insinuò il dubbio sugli obiettivi maggiori della lotta. Diderot, da promotore della civiltà scientifico-tecnica [131] che era stato quale direttore dell'Encyclopédie, ne diventò avversario. L'industrie dell'uomo - annotava nel 1774 - era forse andata troppo oltre: bisognava mettere un termine al processo di civilisation, ritardare i progressi del figlio di Prometeo, fissandolo in uno stato mediano, " mezzo civile, mezzo selvaggio". A conti fatti, Rousseau - il fratello-nemico - non aveva avuto torto a dubitare che il "nostro meraviglioso stato politico" assicurasse la felicità dei suoi membri. Colui che aveva fatto della lotta contro la natura il principio stesso della società, ora, messo di fronte agli orrori del lavoro industriale, si rammaricava che l'uomo in questa lotta avesse voluto non vincere, ma stravincere. E cercava tra cultura e natura una mediazione difficile se non impossibile.
Le delimitazioni spaziali comportano dunque precise delimitazioni temporali. Datare all'interno di ciascuna cultura nazionale l'inizio del movimento illuministico non è poi così difficile, dato che l'adozione della nuova mentalità è sempre l'atto di una scelta cosciente e si accompagna a un forte impegno politico. Non si diventa illuministi per impregnazione, per contagio, per vaghe affinità emotive: l'illuminista è un intellettuale che ha fatto una netta scelta di campo e si adopera a far trionfare il programma del gruppo. Gli obiettivi immediati di questa lotta mutano via via con il passare degli anni e il variare delle situazioni. Ma il suo contenuto resta lo stesso: creare spazi sempre più grandi di libertà per l'individuo. La rivendicazione del diritto di ciascuno di opinare liberamente e di esercitare la critica va unita alla richiesta di rispetto, di "tolleranza", verso le manifestazioni di dissenso; quella di libertà nell'operare economico alla battaglia per l'abolizione dei vincoli inceppanti l'esercizio di questa libertà. Non tutto l'illuminismo, s'intende, può raccogliersi sotto l'insegna del liberalismo, dell'individualismo, dei pluralismo. Accanto all'esigenza di libertà serpeggia, specialmente nelle Lumières francesi, quella, altrettanto forte, dell'uguaglianza: uguaglianza di fronte alla legge (l'unificazione del soggetto del diritto sarà uno dei contributi fondamentali dell'illuminismo alla cultura giuridica, l'idea direttrice delle codificazioni moderne); uguaglianza tra i soggetti degli scambi; uguaglianza infine, ma più raramente, nelle condizioni; e un'aspirazione, anch'essa abbastanza viva, alla fraternità tra gli uomini, a una società fusionale, unanime, omogenea: aspirazione, quest'ultima, che si ritrova all'origine di alcuni progetti "democratici", in genere a connotazione totalitaria, dell'epoca (Morelly, Rousseau). In tutti i casi, si tratta di un'opzione per la felicità - una delle parole chiave del lessico dei lumi - sulla terra contro le promesse di felicità in un altro mondo. [132] Religione dell'uomo, l'illuminismo muove guerra alle religioni storiche: mistificazioni interessate delle caste sacerdotali, narcotici.
A misura che crescono gli adepti dei lumi o i governi adottano misure in armonia con i loro desideri il paese, il secolo "s'illuminano". Il governo spagnolo adotta nel 1768 certe misure che riducono il potere dell'inquisizione ed espelle i gesuiti ? Per Voltaire non vi sono dubbi: "un nouveau siècle se forme chez les Ibériens". La grande metafora della luce, di origine religiosa, allude ormai a contenuti profani, ben presto antireligiosi. Il vocabolario dell'epoca identifica sempre più "luce" con conoscenza, intelligenza, perspicacia, finalmente con le "belles connaissances de l'esprit", con la ragione, facoltà insieme critica e costruttiva. In altre parole: la "luce" è il passaggio dell'umanità dalla barbarie alla civiltà, dalla cattività alla libertà. L'epopea di questo passaggio, della lunga marcia di avvicinamento della specie umana alla perfezione assoluta, è narrata con la dovuta commozione da Condorcet nel Tableau historique des progrès de l'esprit humain (1794): "Tutto ci dice che siamo vicini all'epoca di una delle grandi rivoluzioni della specie umana ... Lo stato attuale dei lumi ci garantisce che essa sarà felice".
Sono evidenti i postulati culturali sui quali si fondano la grande speranza degli illuministi e il loro progetto d'intervento nella storia. Il primo postulato concerne la natura stessa dell'uomo. Buffon lo aveva enunciato con molta chiarezza nella Histoire naturelle de l'homme (1749). La riflessione, il linguaggio, la facoltà d'inventare e di perfezionare aprono una "distanza infinita" tra l'uomo e le altre specie animali. L'uomo è, in altri termini, il solo essere vivente che elabora, trasmette, riceve cultura; è la sola tra le specie animali che può costituire l'oggetto di un'educazione della specie, di un'acculturazione.
Il secondo postulato è di ordine storico. La filosofia illuministica oppone - lo sappiamo - i lumi all'oscurità dei secoli anteriori, la conoscenza all'ignoranza, la civiltà alla barbarie. L'essenza culturale dell'uomo si attualizza soltanto nel corso di uno sviluppo che giunge a maturità appunto nel secolo dei lumi. Kant esprime con la solita chiarezza il postulato dei philosophes: " L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità" (Was ist Aufklärung, 1784). Gli uomini sono diventati, o si avviano a diventare, storicamente adulti, uomini compiuti.
Dai primi due deriva il terzo postulato: la fiducia nell'efficacia della pedagogia. La liberazione dell'uomo, l'attuazione delle sue virtualità presuppone la sua uscita dall'infanzia, dagli erramenti dell'infanzia individuale e storica, e la sostituzione dei sapere all'ignoranza. Monumento [133] di questo ottimismo pedagogico: l'Encyclopédie. Non a torto Voltaire chiamava D'Alembert e Diderot "ministri dell'istruzione del genere umano". Per dir tutto in una frase: i philosophes proclamano la maturità della storia e la loro propria maturità a guidare l'uomo verso la perfetta realizzazione di se stesso. La missione dei dotti è in tal modo fondata; e giustificata la loro autopromozione a elementi di punta del processo storico. L'unico a contestare radicalmente questi articoli di fede dei membri dell'intelligencija è stato Rousseau, che manifestò una totale sfiducia nel potere delle idee a cambiare la storia e rifiutò agli intellettuali - questi corruttori - qualunque ruolo positivo nella società. Per queste sue negazioni Rousseau è un anti-illuminista (G. Lapassade).

Movimento filosofico-politico, l'illuminismo acquista dunque nei diversi contesti nazionali una valenza politica diversa. Né va dimenticata la posizione sociale del soggetto che proferisce il discorso illuministico. In Francia, i lumi sono una filosofia di contestazione, di protesta, di rivolta, ricca a ogni modo di una carica dirompente nei confronti dell'ordine stabilito. I suoi rappresentanti più in vista non sono uomini di potere. Nei grandi stati emergenti dell'Europa dell'est - Prussia e Russia - nell'Austria stessa i lumi sono un movimento intellettuale che collabora efficacemente con l'autorità alla realizzazione dei suoi obiettivi di modernizzazione, di efficienza, di potenza. I suoi maggiori esponenti sono o gli stessi sovrani (Federico II e Caterina II ) o i loro collaboratori più stretti. Esso appare dunque l'ideologia operativa dei detentori dei potere politico o degli alti funzionari applicati a riformare o a meglio organizzare le strutture dello stato assolutistico e accentratore. I "lumi" e la "ragione" s'identificano in questi paesi con le ragioni dell'assolutismo; e lungi dal contestare il potere si adoperano a incrementarlo, a rafforzarlo (G. Tarello). La razionalizzazione del diritto non significa come in Francia creazione di un nuovo ordinamento giuridico conforme al dettato della ragione ma, giusta la tradizione leibniziana e wolffiana, riorganizzazione formale nel senso di una maggiore chiarezza dell'ordinamento esistente. L'espressione più illustre di questa tendenza è il codice prussiano (Allgemeines Landrecht) entrato in vigore nel 1794.
In Spagna e in Italia i lumi sono l'espressione di un gruppo di uomini i quali, convinti del ritardo storico dei rispettivi paesi, si mettono seriamente alla ricerca dei rimedi appropriati, meditando sugli insegnamenti delle società più avanzate. Tipico rappresentante di questa tendenza è, a partire dal 1753, Antonio Genovesi . Un decennio più tardi, il [134] gruppo lombardo del "Caffè" (1764-1766) - Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo e gli altri - metterà anch'esso tutto il suo studio a promuovere in Italia "la trasposizione di quel bene che dalle forestiere nazioni si potrebbe ricavare". In Spagna la manifestazione più tipica della i1ustraci6n fu la creazione di una fitta rete di Societades de Amigos del Pais, di società economiche, che grazie all'energia del primo fiscale del Consiglio di Castiglia, Pedro Rodriguez de Campomanes, ricopri a partire dal 1775 tutto il paese. E prima di lui il padre benedettino Benito Feijóo aveva dato l'esempio, procedendo quietamente dal suo convento di Oviedo alla demolizione, con le armi apprestategli dalla nuova scienza europea, di un'infinità di pregiudizi popolari (Teatro critico, 1726-1739; Cartas eruditas, 1742-1760). Se in Spagna la dinastia borbonica, soprattutto con Carlo III (1759-1788), favorì la formazione di un'opinione illuminata in appoggio alla sua politica di riforme, nulla di simile si ebbe in Portogallo, dove la dura volontà del marchese di Pombal poco spazio lasciò ai riformatori, tranne che nel campo dell'istruzione che egli volle laica, libera dall'influenza della chiesa. Se certi atti della politica di Pombal, come la cacciata dei gesuiti nel 1759, diedero al Portogallo per qualche momento l'apparenza di paese d'avanguardia, si trattò di un equivoco, artificialmente alimentato dai philosophes, che però sulla persona del ministro non si facevano illusioni. Nessuno in effetti nel suo secolo fu più lontano di lui dal nuovo stile di governo, nessuno più indifferente a un'alleanza con la filosofia, nessuno più illiberale.
In Polonia, paese minacciato, il problema della libertà fece tutt'uno con quello della difesa dell'integrità e dell'identità nazionali: l'illuminismo si tinse sempre più di patriottismo. L'eroe polacco dei lumi sarà Tadeusz Kosciuszko, l'animatore nel 1794 della resistenza antirussa. Ma verso il risveglio del sentimento nazionale polacco gli illuministi francesi, troppo corrivi a prendere per buone le intenzioni dichiarate dagli "illuminati" spartitori e per partito preso anticattolico, non mostrarono che indifferenza o incomprensione. Il tema patriottico lanciato nel 1754 dall'abate Coyer non fu raccolto che da Rousseau, un pensatore in aperta rottura con le coteries parigine. Voltaire escludeva l'idea di patria dal numero delle idee illuminate. Sicché nulla fecero per sostenere gli sforzi compiuti da Stanislao Augusto Poniatowski per sottrarsi alle brutali ingerenze dei potenti vicini. Non a torto costui si sentì tradito nella sua fede illuministica (J. Fabre, F. Diaz). Sul modo di riformare quell'infelice stato non lesinarono - è vero - i consigli: tra il ‘70 e il ‘72 il fisiocratico [135] Baudeau, Mably, Rousseau si occuparono del caso. Ma molto più utile riuscì al re-filosofo lo scritto composto anni prima, nel 1749, da Stanislao Leszczynski, che della Polonia era stato re due volte, nel 1704 e nel 1733, prima di diventare duca di Lorena e modello di principotto illuminato: La voix libre du citoyen. Non per nulla aveva tentato una felice combinazione delle esigenze della ragione con quelle del cristianesimo e proprio per questo l'opera aveva ottenuto in Polonia un successo grandissimo (Rostworowski).
Nel Regno Unito, esauritasi verso il 1730 la grande ondata deistica, un movimento illuministico vero e proprio non si produsse. Il secolo XVIII, fino alla crisi americana, fu in Inghilterra, dice Viner, "l'età dell'autocompiacimento sociale, politico, economico e morale; della soddisfazione dello status quo, almeno dentro i limiti della convinzione che i costi di un mutamento sostanziale avrebbero ecceduto i benefici connessi all'abolizione ovvero all'attenuazione dei mali allora prevalenti". Sino alla fine del secolo, fino cioè a Bentham e ai "Radical Reformers", non vi fu una figura importante che caldeggiasse sia pure con moderazione la necessità di grandi riforme politiche. Ammettiamolo pure. Ma a patto di riconoscere che tra le ragioni dell'assenza in Inghilterra di un movimento di contestazione sociale organizzato e ideologicamente agguerrito quale fu in Francia il parti philosophique c'erano i caratteri particolari della vita politica inglese: lotta dura, difesa a viso scoperto di interessi oligarchici, contrasto tra i gruppi di potere su questioni precise di natura pratica. Importanti certo, perché la tutela della sicurezza delle persone (safety) e degli averi (property) sono cose serissime. Ma senza messianismi, senza aspettarsi troppo dall'esito di quelle lotte. Non certo la rigenerazione dell'uomo. Si pensi per contrasto a Rousseau: "J'avais vu que tout tenait radicalement à la politique" (Confessions, IX). Tutto: cioè la felicità stessa dell'uomo.
L'Inghilterra del Settecento impiega le sue migliori energie intellettuali per rifiutare ogni unione di politica e religione, di questioni pratiche e di questioni ultime. Si pensi a Shaftesbury e alla sua Lettera sull'entusiasmo (1709). Si pensi a Locke. La giurisdizione dei magistrati "non deve né può provvedere alla salvezza delle anime". L'autorità politica deve limitarsi a tutelare quei "bona civilia" per la conservazione e promozione dei quali lo stato è stato istituito dagli uomini (Epistola de tolerantia, 1689). Lo stesso deismo e la ricerca di un cristianesimo secondo ragione rientrano perfettamente, a guardar bene, in un progetto inteso a ridurre le potenzialità eversive di un individualismo religioso incontrollabile. L'anglicanesimo ufficiale ben [136] lungi dal contrastare queste tendenze, le aveva fatte proprie. Si mostrava anzi pronto a far causa comune contro ogni risorgenza di mentalità l'ostilità duratura verso il "risveglio" promosso con successo da John Wesley nel mondo inglese e in quello americano.
Per farla breve: in Inghilterra, società pluralistica (partiti, stampa politica, libera opinione religiosa), la conflittualità politica raggiunse nel ‘700 un massimo di estensione (tutte le scelte, tutte le soluzioni erano teoricamente possibili) e un minimo d'intensità. A volte una grande intensità, ma limitata. Gli intellettuali intervenivano sì nella lotta, ma come tecnici, come esperti o semplicemente come abili argomentatori a sostegno di questa o quella ben definita soluzione delle difficoltà del momento. Ormai l'intellettuale era divenuto, nel regime dell'opinione pubblica, un alleato indispensabile per vincere la corsa al potere o per mantenersi in esso. Il rovescio del riconosciuto potere sociale dell'intellettuale come opinion leader era - si sa - il clientelismo, l'esistenza di un rapporto di dipendenza dello scrittore da un membro influente dell'élite o meglio dell'oligarchia al potere. Raramente accadeva, ma era accaduto, che gli intellettuali venissero chiamati ad assumere dirette responsabilità di governo: Addison era divenuto segretario di stato; Newton, direttore della Zecca; Prior, plenipotenziario a Parigi.
Voltaire non nascondeva la sua invidia nei confronti di quei colleghi più fortunati; e salutava l'ingresso degli hommes de lettres nella vita pubblica come un fenomeno tra i più promettenti di quella società che egli trovava per tanti altri aspetti ammirevole (Lettres philosophiques, 1734). L'importante a ogni modo è, dal nostro punto di vista, che le condizioni stesse nelle quali si svolgeva in Inghilterra la lotta per il potere evitavano il suo camuffamento in uno scontro tra valori supremi, o piuttosto tra valori e disvalori; e di conseguenza la polarizzazione del campo ideologico. In altre parole, che la lotta politica assumesse le caratteristiche di un duello tra forze del bene (della "luce") e forze del male. Il risultato di questa polarizzazione è, da una parte, l'estrema semplificazione e banalizzazione delle parole d'ordine (si lotta per la ragione, per la giustizia, per la pubblica felicità etc.) consecutiva alla necessità di raccogliere il maggior numero possibile di adesioni, e quindi l'impoverimento del dibattito ideale. Dall'altra, questa polarizzazione crea un clima di tensione che rende impossibile qualunque compromesso, qualunque possibilità di accordo tra gli interessi e le forze in conflitto: in breve, una situazione di guerra civile. Ed è proprio quello che accadde in Francia.
[137] Vietata la critica all'operato del governo; vietata la discussione su materie di stato, anche in circoli privati ed esclusivi quale fu tra il 1724 e il 1731 il Club de l'Entresol; vietata la controversia religiosa (i capi giansenisti obbligati al silenzio o all'esilio, i seguaci ridotti alla resistenza clandestina, fomentata abilmente dalle Nouvelles ecclésiastiques); rifiutata da parte delle oscure cricche di corte la collaborazione degli intellettuali, anche dei più volonterosi (com'erano senza dubbio i fisiocratici) i philosophes francesi si costituirono censori morali non solo della conduzione degli affari pubblici ma, allungando sempre più il tiro, della società presente. La lotta politica si svolge in Francia, specialmente dopo il congedo di Turgot (1776), in un'atmosfera d'apocalisse, di fine della civiltà.
Turgot, Helvétius, Diderot parlano di decadenza irrimediabile del loro paese, di guerra civile latente, inevitabile. Diderot in particolare, partito da richieste assai moderate (libertà di stampa, codificazione, governo rappresentativo, apertura delle carriere al merito) insiste sempre più nei suoi ultimi anni, nel 1778 e nel 1780, sulla necessità, per rigenerare il paese corrotto, dechiré in maniera irreparabile, di un "bagno di sangue": "Una nazione non si rigenera che in un bagno di sangue" (Réfutation d'Helvétius, 1778; Histoire de Raynal, 1780, VI, 22). E poiché aveva, da brillante allievo dei gesuiti, buona cultura classica ricorse alla mitologia per rendere più elegante quel suo sogno truculento: "È l'immagine del vecchio Esone al quale Medea restituì la giovinezza soltanto tagliandolo a pezzi e facendolo bollire".
Naturalmente, la necessità dei philosophes di dare grandezza,morale ai loro interventi politici, di parlare in nome di principi generalissimi, rende sempre attuali le loro produzioni ideologiche.
La battaglia per la riabilitazione di Calas, per la correzione cioè di un errore giudiziario, fu per Voltaire l'occasione di comporre un Traité sur la tolérance (1763); e perciò quella battaglia diventa ai nostri occhi uno degli alti fatti, un momento forte nella storia del mondo moderno. Laddove quella di Swift contro la deposizione di alcuni vescovi che avevano rifiutato di riconoscere Guglielmo nuovo capo della chiesa anglicana resta una pagina di storia locale. E così per tutti gli altri pamphlets, e sono numerosissimi, usciti dalla penna, oltre che di Swift, di Defoe, di Addison, di Steele. C'è voluta tutta la pazienza di J. Béranger per permetterci di afferrarne il preciso significato mettendoli in relazione con i delicatissimi problemi della società inglese uscita dalla "gloriosa rivoluzione" e ancora alla ricerca di uno stabile equilibrio politico.
Del resto, anche a voler essere esigenti, bisogna ammettere che [138] l'Inghilterra ebbe, essa pure, i suoi filosofi, o piuttosto teologi, del progresso, i predicatori di una rigenerazione della società dalle fondamenta: Turnbull, Hartley, Priestley, Price, Paley. Per non parlare dell'agitatore più celebre: Tom Paine, al quale dobbiamo, tra l'altro, una felice definizione dell'epoca sua: The Age of Reason (1795-1796). Ma l'opera, bisogna aggiungere, vale soltanto per il suo titolo e per la sua influenza. Attacco di violenza inaudita, in nome del deismo, alla Bibbia come "imbroglio di stato", contribuì con la sua lunga fortuna a introdurre il libero pensiero presso la classe operaia inglese (E. P. Thompson). Ma soprattutto nella seconda metà del secolo cominciò ad essere attivo quel gruppo di uomini ( Wallace, Robertson, Ferguson, Millar, Smith ) che si è convenuto chiamare "Illuministi scozzesi", i quali meritano grandissima attenzione per il vigore intellettuale e per la ricchezza dei contributi all'analisi dei fenomeni sociali: tutti uomini in rapporto stretto con l'illuminismo continentale e largamente debitori nei suoi confronti. La lezione di Montesquieu si fondeva in loro con quella del grande compatriota David Hume, un filosofo "inquietante" certo, ma anche un acuto analista del mondo sociale e politico: un uomo, a ogni modo, assai caro alla coterie filosofica parigina di d'Holbach e di Diderot. Il fatto che essi fossero ideologicamente meno impegnati degli illuministi francesi (dico ideologicamente: politicamente Millar fu, per esempio, tutt'altro che un conservatore) non toglie nulla alla natura tipicamente illuministica del loro progetto: fondare una scienza dell'uomo in società. L'agitazione e la progettazione affannosa del futuro è soltanto un aspetto dei lumi. Un altro, ed essenziale, è l'ambizione di una comprensione esatta e fine dei processi di trasformazione in corso e dei loro possibili esiti nel futuro. Alla "storia filosofica" degli scozzesi - Hume, Ferguson, Smith - si dichiarava riconoscente Edward Gibbon nel corso della costruzione della sua grande opera, il capolavoro della storiografia illuministica: The Decline and Fall of the Roman Empire (Decadenza e caduta dell'impero romano) (1776-1787).
I paesi dell'impero germanico esigono un discorso più complesso, più sfumato. In questa importante area dello spazio europeo un illuminismo c'è stato e si è anche dato un nome: l'Aufklärung. Si tratta di coglierne con qualche precisione le caratteristiche, i tratti differenziali. Il dato esterno di maggior peso è senza dubbio in Germania la frammentazione politica estrema: le entità politiche sovrane erano oltre duecentocinquanta. Questo pluricentrismo ha nociuto o giovato alla vita intellettuale? La risposta degli storici non è unanime. Più persuasivi sembrano comunque [139] gli argomenti di coloro i quali, ammettendo senza difficoltà che la disunione politica ha ritardato lo sviluppo dell'economia, escludono però che essa abbia avuto effetti negativi sulla vita intellettuale. Il fervore tutto nuovo delle menti tedesche, la ricchezza e la qualità eccezionalmente alta dei risultati ne sono eloquentissima prova. Certamente gli autocrati tedeschi, specialmente negli stati di minima estensione territoriale, erano in grado d'intervenire, e pesantemente, sull'attività intellettuale. Ma non erano, per lo stesso motivo, in grado di controllarla. In un paese dalle tante patrie era facile sfuggire alla persecuzione e alla censura del proprio principe. Christian Wolff, professore presso l'università di Halle dal 1706, ne era stato brutalmente espulso nel 1721, a causa di certo suo discorso accademico sulla morale dei cinesi, per ordine di Federico Guglielmo I. Ma tutte le altre trentatré università tedesche si disputarono l'onore di accogliere colui che era già considerato a buon diritto il precettore, il maître à penser, della Germania e che tale rimarrà fino alla morte (1754). Aveva pubblicato proprio l'anno avanti i Vernüftige Gedanken (Pensieri razionali su Dio, il mondo, l'anima umana e tutte le cose in generale, comunicati agli amanti della verità): il manifesto programmatico dell'illuminismo tedesco fino a Kant incluso (Merker).
Nel 1778 Lessing dovette inchinarsi al divieto fattogli dal suo "protettore", Carlo I di Braunschweig, di sospendere la pubblicazione, intrapresa nel 1774, dei Frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel, cioè di parti di quell'Apologie oder Schutzschrift für die vernünftigen Vercher Gottes (Apologia o difesa degli adoratori razionali di Dio) composta da Samuel Reimarus (1694-1768): il prodotto intellettuale più vigoroso nel campo della critica religiosa del razionalismo teologico, del neologismo come lo si chiamava in Germania (sarà la matrice della grande critica biblica dell'Ottocento tedesco, a cominciare da D. F. Strauss). Lessing dovette dunque consegnare nelle mani del principe quanto restava da pubblicare dell'opera e sospendere la polemica che aveva aperto col pastore amburghese Melchior Goeze, il prototipo dei bibliolatri. Atto di autorità che contribui a rendergli odioso il già amaro soggiorno di Wolfenbiittel. Ma poté pubblicare a Berlino, presso il libraio-editore Voss, nel 1780, qualche mese prima della morte, sia pure anonima, l'espressione più matura del suo pensiero religioso: Die Erzierung des Menschengeschlechts (L'educazione del genere umano).
Non è tutto. Non c'era corte, per quanto piccola, che non mettesse il suo prestigio nel mantenere al proprio servizio un nutrito organico di funzionari, ai quali si aggiungevano nei paesi protestanti gli insegnanti [140] e i ministri del culto. Una larga frazione del Bürgertum tedesco possedeva insomma un livello di cultura di molto superiore a quello delle borghesie degli altri paesi. Mancava però un'opinione pubblica. Non che scarseggiassero i mezzi d'informazione: il numero dei periodici andava anzi crescendo ogni giorno. Ma erano, a parte le pubblicazioni scientifiche, tutti Moralische Wochenschriften (Settimanali morali), pubblicazioni moralistiche sul genere dello Spectator e del Tatler di Addison e di Steele.
Tra il 1720 e il 1770 ne uscirono 110 circa, la più parte in città che non erano sede della corte (W. Martens). Anche il più permissivo tra i principi tedeschi, Federico II, ribadì nel 1784 con un editto il divieto ai privati di formulare giudizi critici sull'operato dei sovrani e dei loro consiglieri nonché di divulgare per mezzo della stampa notizie su tale operato: "Un privato - sono le sue stesse parole - è del tutto incapace di simili giudizi, poiché gli mancherà una conoscenza completa delle circostanze e dei motivi". Ma in quegli anni la borghesia intellettuale tedesca si era fatta più ardita. In quello stesso 1784, un funzionario di Federico, Kant, professore a Königsberg, pubblicava sulla Berlinische Monatschrift la sua Beantwortung (Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo ?). Accettava sì la limitazione dell' "uso privato" della ragione, vale a dire il dovere dei membri subalterni della "macchina governativa" di non esprimere liberi giudizi nell'esercizio del loro ufficio. Ma rivendicava nello stesso tempo il diritto anzi il dovere di quegli stessi uomini, in quanto membri della comunità nazionale o della società universale del genere umano, di pensare liberamente e di comunicare al pubblico le loro proposte di riforma in materia religiosa o politica. Il processo di rischiaramento (Aufklärung) sarebbe stato altrimenti irrimediabilmente compromesso.
Esclusa dalla sfera del potere e delle decisioni politiche; tenuta a sprezzante distanza dalla raffinata nobiltà di corte, dalle maniere ostentatamente francesizzanti, la classe media colta della Germania finì per identificare se stessa con i valori di cultura dei quali si sentiva detentrice e per disprezzare, e quasi rigettare, quei modi "civili". È ancora una volta Kant a esprimere con chiarezza, a rendere netto il contrasto (che prefigurava o meglio conteneva in sé come germe un contrasto tra "nazioni") tra "civiltà" e "cultura", tra Zivilisiertheit e Kultur: tra la cortesia esteriore, ingannevole e la virtù autentica. "Siamo - scriveva nel 1784 nelle Ideen zu einer Geschichte in weltbürgerlicber Absicht (Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico) - civili fino alla noia per esercitare le forme e le convenienze sociali". Il vero progresso [141] morale è opera della cultura: l'idea stessa di moralità ne è l'essenza. Kant non si riferiva in maniera esclusiva alla Germania; si moveva anzi, come il titolo stesso del suo scritto dice, in una prospettiva "cosmopolitica". Ma universalizzava senza saperlo uno stato d'animo, una situazione psicologica tipica del Bildungsbürgertum tedesco. Per effetto del muro che divideva classe media colta esprimentesi in lingua tedesca, formata da "servitori del principe" e da membri della funzione pubblica in senso latissimo, e società aristocratica esprimentesi in lingua francese, una diversità sociale si andava trasformando in un'opposizione, ricca di significati politici, tra due forme di vita. Da una parte un gruppo sociale che non "fa" niente e mette al centro della coscienza di sé un comportamento "distinto" e preoccupato di mantenere le distanze sociali; dall'altra, un gruppo che trae la propria autogiustificazione, e presto il sentimento della propria superiorità morale, innanzi tutto dalle sue "realizzazioni" intellettuali, scientifiche e artistiche (Elias). Bloccata in se stessa da una situazione sociale più rigida, la borghesia intellettuale tedesca è stata spinta a coltivare con maggiore intensità di quella francese o inglese, con esclusività, a volte con furore (si pensi all'asprezza della polemica antiaristocratica dello Hainbund di Gottinga) i propri valori specifici, distintivi, sentiti come supremi valori umani: la propria virtù, la Bildung.
L'Aufklärung tedesca è di conseguenza più "borghese" di quanto non siano le lumières francesi, che tra i propri rappresentanti più in vista annoverarono molti nobili (W. Krauss). Ma non si tratta, si badi bene, della borghesia conquérante, di quella degli affari e dei traffici, ma di quella particolare borghesia formata da funzionari, da pedagoghi e da ecclesiastici che costituiva la parte più avanzata del Bürgertum tedesco. Il tono pedantesco, l'alto livello tecnico, il peso preponderante delle questioni teologiche e della critica filologica dei testi sacri che contraddistinguono l'Aufklärung dalle Lumières derivano soprattutto dalla particolare collocazione sociale dei suoi maggiori esponenti. Non di tutti però. Bisogna distinguere gli Aufklärer delle scuole e delle accademie da quelli più liberi: Mendelssohn, Nicolai, Knigge e il maggiore di tutti: Lessing. Al pensiero più ardito corrisponde anche la scelta di forme più agili per l'agitazione delle idee.E' nota la predilezione di Lessing per il teatro.
Ma l'Aufklärung ha pagato caro la sua purezza sociale e la sua connotazione fortemente antinobiliare: non riuscì a distruggere l'ordine antico. Soltanto attraendo a sé le élites del potere, soltanto generando in loro il dubbio e la discordia, associandosele anzi strettamente all'opera di [142] rifondazione della società su nuove basi, in altre parole nella ricerca di un nuovo principio di legittimità al diritto di comandare, le Lumières conseguirono alla lunga i risultati politici che tutti sanno. Non si riscontra nei paesi dell'Impero il fenomeno notato in Francia da Duclos sin dal 1750: l'aprirsi della société, dei gens du monde ai gens de lettres. Il centro d'irradiazione delle Lumières in Francia è Parigi, se non addirittura Versailles (si pensi a Quesnay). I philosophes sono accolti a corte e festeggiati nei salotti aristocratici. I primi focolai dell'Aufklärung sono Lipsia, Amburgo, Zurigo, città mercantili, ben lontane dal mondo delle corti. E anche più tardi, dopo il 1760, quando ormai l'esistenza di quel potente movimento d'idee era innegabile, il terreno più favorevole allo sviluppo e all'affermazione della nuova cultura critica restano le libere città imperiali: Francoforte, Norimberga, Amburgo, Brema, i cantoni svizzeri di lingua tedesca: Berna, Basilea, Zurigo; infine le nuove università, principalmente quella di Gottinga (fondata nel 1734) nel territorio dell'elettorato di Hannover, apertissimo per motivi facilmente intuibili all'influenza della cultura inglese (W. Krauss, L. Marino). Se qualche principe assoluto accetta di farsi illuminato e ricerca quindi la collaborazione di tecnici dell'amministrazione (giuristi e cultori di scienze camerali) - mettiamo il vescovo Joseph Emmerich, elettore di Magonza, questa perfetta incarnazione del Sarastro mozartiano - il mondo dell'aristocrazia, della "società", resta ben chiuso ai giovani borghesi anche più talentosi.
Tra i dolori del giovane Werther c'è anche, e bruciante, quello di sentirsi escluso o malaccolto dalla società aristocratica: "Quel che soprattutto detesto sono le odiose condizioni borghesi" (1774). Naturalmente, cercava un compenso alle sue frustrazioni sociali nell'abbandono alle esaltazioni del cuore. Werther-Goethe sarà più fortunato. Creato nel 1776 dal giovane duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimar-Eisenach consigliere segreto di legazione, quindi nel 1779 ministro, nel 1782 sarà fatto nobile. Ma il suo caso è raro, per non dire unico. E Weimar era un piccolo e povero stato. In genere, gl'intellettuali tedeschi, esclusi o non assimilati dalla società, vivevano in una situazione esasperata d'isolamento.
In questo caso, la frammentazione politica del paese agì in senso negativo, impedendo loro di costituirsi in libere società private, in circoli, in gruppi di pressione. Rari i centri di aggregazione: il loro mezzo essenziale di comunicazione restò il libro, la parola scritta.
Ma non bisogna trascurare la massoneria, strumento essenziale in Francia di amalgama tra aristocrazia, intelligencija e borghesia degli affari. [143] E si sa con quanto entusiasmo gli intellettuali tedeschi accorressero nelle sue file: Hamann, Jacobi, Herder, Lichtenberg, Mendelssohn, Bode, Campe, Reimarus, Goethe. I primi tre Dialoghi tra Ernst und Falk (1777) dimostrano quali speranze Lessing, deluso dal cristianesimo, nutrisse allorché nel 1771, proprio all'aprirsi per lui del periodo dell'azione, chiese con insistenza di essere ammesso in una loggia di Amburgo (H. Schneider). Campo d'intervento dei massoni: il mondo; obiettivo supremo: limitare le conseguenze dolorose dei contrasti, delle scissioni, delle differenze (tra stati, tra ceti, tra religioni) che lo stato di società porta inevitabilmente con sé. Aveva sperato d'incontrare in loggia uomini saggi, uomini di élites, desiderosi di sfuggire ai pregiudizi del loro popolo e a quelli della religione nella quale erano nati, e che tendessero con tutte le loro forze ad affrettare l'avvento dell' "uguaglianza" morale tra gli uomini in attesa "di poterla infine diffusamente respirare nella umana società". Conobbe invece esseri interessati, amanti di riti noiosi, privi soprattutto di grande audacia intellettuale. Ernst si sentiva tradito: invece che alla terra promessa era stato guidato in "sterili deserti", cinti non di fiamme ma di fumo (IV Dialogo). Qui non interessa il pensiero di Lessing sulla società e sullo stato. Si voleva soltanto sottolineare il fatto che l'intelligenciia tedesca, entrando in gran numero nelle file della massoneria, cercasse per prima cosa il superamento delle distanze tra classi nobiliari e i vari strati della classe media. Fondata, per usare una formula lessinghiana, sul "sentimento collettivo di spiriti simpatizzanti" essa era in effetti una nuova forma di socievolezza, di commercio tra gli uomini, la "realizzazione ludica di una società del merito", della virtù (D. Roche). Questo programma minimo non fu realizzato dalla massoneria tedesca. Lacerata da contrasti interni, s'inoltrerà sempre più sulla via dell'esoterismo e della rigenerazione mistica oppure si avventurerà disgraziatamente sul terreno dell'azione politica (Illuminati di Baviera). L'Aufklärung rimarrà espressione dell'intelligencija pura, titolare dell'esercizio della ragione senza altri limiti se non quelli che la "critica", intesa come definizione rigorosa del suo campo di validità, fisserà al suo esercizio (Kant).

3. L'espansione dei Lumi fuori Europa

Ma l'Europa, e sia pure l'Europa in piena eruzione intellettuale del secolo XVIII, non è che una frazione del pianeta, e anche la più piccola [144] (voce "Europe" dell'Encyclopédie). Tutt'intorno a essa c'è un grande universo di terre e di popoli del quale essa va appunto ora terminando l'esplorazione o la sottomissione. I grandi viaggi nel Pacifico alla scoperta del continente australe intrapresi dalla Francia e dall'Inghilterra all'indomani della conclusione della guerra dei sette anni, tra il 1764 e il 1776, da Bougainville- un philosophe - e da Cook, per dire solo dei maggiori, sono tra le imprese memorabili del secolo. Si parla di dilatatio Europae su scala mondiale, di nascita di un'economia-mondo (Braudel, Chaunu, Wallerstein). Il problema della gestione di questo impero mondiale, di quest'egemonia planetaria non è l'ultimo problema a tormentare seriamente la coscienza degli illuministi.
La Histoire philosophique et critique des établissements des Européens dans le deux Indes (Storia filosofica e critica dei possedimenti europei nelle due Indie) di Raynal (1770,1774, 1780) è l'ultima grande impresa collettiva dei philosophes parigini.Alla sua stesura posero mano Jussieu, Pechméja, Deleyre e soprattutto Diderot. Da manuale del colonialismo europeo che doveva essere secondo il primo progetto, si trasformò, per l'apporto soprattutto di Diderot, in una grande requisitoria contro lo sfruttamento dei popoli coloniali, contro la tratta e la schiavitù dei negri. Anche se lasciava aperte le prospettive di un colonialismo più umano, è la denuncia documentata delle violenze commesse dagli Europei, è l'appello alla rivolta che colpì di più i suoi innumerevoli lettori, specialmente fuori d'Europa. La rivolta negra scoppiata a Santo Domingo nel 1791 deve qualcosa alla lettura di Raynal da parte del suo capo, Toussaint Louverture.
Certo è che l'illuminismo - ideologia universalistica - si diffuse fuori d'Europa. Ed acquistò, nei diversi contesti storici, connotazioni particolari. Nell'America spagnola, soprattutto in Venezuela, la penetrazione a gran fiotti di scritti illuministici francesi (in particolare della Histoire di Raynal) cominciò ad alimentare tra i creoli nell'ultimo quarto del secolo desideri e propositi d'indipendenza. L'avventuroso Francisco de Miranda, più tardi Simón Bolivar sono imbevuti di idee dei lumi europei. Il progetto di costituzione federale elaborato da quest'ultimo è ricalcato, tranne che nello stile, su Montesquieu. Ed è anche di marca illuministica europea la pedagogia autoritaria che il Libertador, tutto preso dal desiderio di far maturare il più rapidamente possibile la coscienza politica dei popoli emancipati, mise al primo punto del suo programma. Di anticolonialismo si colora pure, com'è ovvio, il movimento illuministico nelle colonie inglesi dell'America settentrionale. Basti pensare all'uomo più rappresentativo di quel largo movimento di idee, destinato [145] a tradursi ben presto in forte volontà politica: Benjamin Franklin. L'insurrezione del 1776 porrà in primo piano nuovi problemi, tutti gravissimi: il diritto all'insurrezione armata e all'uso della forza nella soluzione delle controversie politiche, prima; poi quello, che tanto eccitò le coscienze europee, della organizzazione della libertà, della costruzione di uno stato libero. Speranze d'indipendenza l'illuminismo europeo, messo abilmente in moto dalla propaganda di Caterina II che cercava coperture ideali alla sua politica mediterranea, seppe risvegliare anche in Grecia a partire dagli anni ‘70. Un ammiratore di Voltaire (ma non era il solo) fu la figura di punta dell'illuminismo neoellenico, D. Catargi (C. Th. Dimaras). Non è un caso: Voltaire, da quel turcofilo che era stato fino allora, si era convertito all'idea della necessità di distruggere l'impero ottomano e di restituire alla Grecia la sua grandezza antica. Andava eccitando fervorosamente le potenze europee a coalizzarsi contro la Sublime Porta (Le tocsin des rois, 1770). Coperto dal nome di Jean Plokof chiamava alle armi: "Aux armes, prenez du fer et marchez" (Traduction du poème de Jean Plokof, 1770). Venturi ha rievocato di recente l'esplosione di entusiasmo filellenico che scosse la cultura europea di quegli anni. Il giovane Iperione di Hölderlin va a combattere al fianco dei patrioti greci insorti contro i turchi (Hyperion, 1797).
Quanto ai turchi, si andava dicendo da più parti che anche tra loro i lumi europei stessero filtrando. Lady Montagu, che a Costantinopoli aveva vissuto, assicurava che i più degli efendi, i letterati di laggiù, non credevano nell'ispirazione divina di Maometto più di quanto credessero nell'infallibilità del papa; facevano anzi aperta professione di deismo. Continuavano ad obbedire alla loro religione per pura convenienza politica. Ahmed bey, visitato da lei a Belgrado, conosceva le opere di Toland. Jusup, il vecchio turco incontrato a Costantinopoli da Casanova nel 1745, era un perfetto "philosophe". In effetti, c'erano nel paese alcuni partigiani dell'europeizzazione. Costoro riuscirono, negli anni 1720-1730, a introdurre dall'amica Francia qualche novità tecnica o qualche nuova moda. Ma furono ben presto sconfitti dall'opposizione fanatica dei potenti ‘ulamã', i dottori della fede. La prima tipografia turca, aperta nel 1728, fu chiusa nel 1742, dopo aver stampato in tutto diciassette opere. Questo gruppetto di governanti illuminati, tra i quali c'era il gran visir Rãghib Paša (1757-1765), che avrebbe voluto veder tradotta in turco La philosophie de Newton di Voltaire, rimase impotente fino al 1789, fino alla rivoluzione francese che coincise con l'ascesa sul trono di Selim III, il primo dei grandi sultani riformatori. I "lumi" in Turchia [146] significavano dunque principalmente occidentalizzazione, adozione di scienze e tecniche occidentali sotto l'incombente minaccia russa; ma non andavano disgiunti da un atteggiamento critico nei confronti dell'ortodossia islamica.
Pura imitazione di scienze e tecniche occidentali essi furono invece nel Giappone shogunale. È tuttavia un fatto degno di nota che, accanto ai confuciani, fermi sostenitori della superiorità della cultura cinese, e ai difensori della cultura autoctona facessero la loro apparizione poco dopo il 1770 i sostenitori di una più o meno cauta apertura alla cultura occidentale della quale si riconosceva ormai la superiorità in certi campi (astronomia, medicina, botanica). Il capofila di questo movimento di scoperta dell'Europa, il modello stesso dei partigiani del rangaku, fu Honda Toshiaki (1744-1821), un cultore di scienze politiche che lasciò un gran numero di scritti (Prospettive di sviluppo, Vie d'acqua e di navigazione ecc.) conosciuti e apprezzati in vita da un limitatissimo numero di persone e riscoperti nel 1888-1889. Ad affrettare il processo di apertura all'Europa agì potentemente il timore di un'immanente invasione russa. L'idea, che diventerà dominante in epoca Meiji, di rafforzare il paese sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista economico per fronteggiare con successo il nemico russo, germogliò dunque la prima volta alla fine del secolo XVIII (Donald Keene). Ma per trovare spunti di critica sociale, e perfino progetti di azione politica sovvertitrice, bisogna rivolgersi alla Scuola del Sapere Nazionale (kokugaku), almeno a quelli tra i suoi seguaci che sostenevano la necessità di una restaurazione dell'autorità dell'imperatore. Tipico il caso di Yamagata Daini (1725-1767). Gli europeizzanti si limitarono a predicare lo sviluppo e la razionale utilizzazione delle risorse del paese (R. N. Bellah).

4. La Francia e i suoi grandi protagonisti

Le Lumières in Francia coincidono con l'enorme aumento di prestigio sociale dei gens de lettres. La société si apre loro volentieri; i gens du monde prendono a frequentarli con diletto. Lo stesso Rousseau fu ricercatissimo da parte dei "grandi", che verso quell'uomo intrattabile mostrarono fino all'ultimo una compiacenza da non credersi. Ma c'è di più. I nobili entrano in folla nella République des lettres, si mostrano posseduti da una vera e propria fureur d'écrire (Bluche). Le innumerevoli accademie reclutano largamente nella nobiltà: molto più largamente, tra l'altro, [147] che nella borghesia mercantile (Roche). Tra i philosophes non sono pochi i membri delle grandi famiglie: Maupertuis, Helvétius, il marchese d'Argens, La Condamine, il cav. de Jaucourt, il marchese di Chastellux, Fontenelle, de Sade, i Mirabeau, Condorcet, Buffon, Mably, Condillac ... E non pochi quelli della robe: Montesquieu, de Brosses, La Chalotais, Turgot, Le Mercier de La Rivière ... Perché mai una frazione importante della nobiltà francese avesse adottato con entusiasmo un'ideologia autodistruttiva è problema che andrebbe discusso con tutta l'attenzione che merita. Per dirla in poche parole: pare certa, nella seconda metà del secolo, la volontà della nobiltà liberale di trasformare il proprio ordine in un'élite, di "diventare la classe pilota del regno, la grande concentrazione di tutti i talenti, l'accademia del merito" (Chaussinand Nogaret). Una cosa è, a ogni modo, evidente: la partecipazione massiccia della nobiltà alla creazione letteraria e all'attività scientifica contribuì la sua parte alla valorizzazione sociale della figura del clerc.
La Correspondance Littéraire, philosophique et critique, un periodico manoscritto d'informazione a uso soprattutto dei principi tedeschi (la duchessa di Sachsen-Gotha, i principi di Hesse-Darmstadt, il margravio di Anspach, la regina di Svezia etc.) creato da Raynal nel 1747, passato nel 1753 nelle più abili mani di Grimm e dalle sue in quelle del collaboratore e segretario, lo zurighese Meister, che lo tenne in vita fino al 1813, ci permette di seguire da vicino questa fulminea ascesa dello "scrittore" nella Francia settecentesca e il contemporaneo imporsi dell'intellettuale" francese in Europa (S. Fiette).
L'Europa francese dei lumi nasce infatti in questi anni. La prima metà del secolo era stata, per la cultura francese, un'età d'incubazione, di assimilazione disordinata e avida delle novità intellettuali venute un po' da ogni parte, ma soprattutto dal paese rivale: dall'Inghilterra, quel paese turbolento che non solo aveva saputo raggiungere con la rivoluzione del 1688 la stabilità politica ma aveva nettamente sopravanzato la Francia in campo economico, tecnologico, filosofico, scientifico, collocandosi in primo piano sulla scena europea. Basti citare qui i nomi di Newton e di Locke, i due numi tutelari dei lumi. A una società francese che "si decompone", a un paese dove la libertà è stata vinta, Montesquieu nelle Lettres Persanes (1721) contrappone l'Inghilterra dove "si vede la libertà uscire continuamente dal fuoco della discordia e della sedizione". Ma questo elogio dell'Inghilterra è soltanto un "abile contrappunto" alle sue riflessioni sulla monarchia francese. J. M. Goulemot ha ben dimostrato come quest'opera incantevole e ambigua, questa [148] straordinaria autocritica della Francia, si leghi in profondità a quella che egli ha chiamato la "storiografia dei duchi", di quegli oppositori cioè all'assolutismo di Luigi XIV (Fénelon, Saint-Simon) che aprono intorno al 1690 in Francia il discorso politico sull'istituto monarchico. Il vero rovesciamento dell'immagine "classica" dell'Inghilterra si ha soltanto verso il 1730. Ed è l'irrequieto Prévost nel libro X dei suoi Mémoires d'un homme de qualité (1731) il primo a fare di quel paese una "isola felice". Tre anni dopo, nel 1734, Voltaire partirà dall'immagine tutta positiva del mondo inglese per inaugurare un discorso "liberale" sulla storia. In quello stesso anno 1734 è opinione comune che Montesquieu componesse il meritatamente celebre capitolo VI del libro XI dell'Esprit des lois: ancora una interpretazione "liberale" del mondo inglese, ma di segno opposto rispetto a quella di Voltaire (Sur la constitution d'Angleterre).
L'importante non è, per ora, seguire l'articolarsi dei discorso politico nella Francia dei lumi. Il fatto che ci preme sottolineare è un altro, che cioè la cultura francese, all'indomani della pace di Aquisgrana (1748) conquista per merito dei suoi scrittori l'egemonia in Europa. Escono in questi anni le sue opere maggiori: nel 1743 il Traité de la dynamique di D'Alembert; nel 1746 l'Essai sur l'origine des connaissances humaines di Condillac; nel 1748 l'Esprit des lois di Montesquieu; nel 1749 l'Histoire naturelle de l'homme di Buffon; nel 1750 il primo, nel 1755 il secondo Discours di Rousseau (De l'inégalité parmi les hommes); nel 1751 il Siècle de Louis XIV di Voltaire e cinque anni dopo l'Essai sur les moeurs; a partire dal 1745 Diderot e D'Alembert cominciano a organizzare l'Encyclopédie. La meditazione sul mondo inglese, l'assimilazione della sua cultura non era stata estranea a questa esplosione delle Lumières. Non si dimentichi che l'Encyclopédie avrebbe dovuto essere nel primo progetto la versione francese della Cyclopedia di Efraiin Chambers, uscita in Inghilterra circa vent'anni prima (1728), e che Diderot fu scelto a dirigere l'impresa perché già esperto in traduzioni dall'inglese; tra l'altro, a partire dal 1743, del Dizionario di medicina di James. Nel Prospetto dell'Encyclopédie, un foglio divulgato a uso dei sottoscrittori (1020 nel 1749 salirono a 4.000 nel 1757), si faceva menzione come a fonte al Lexicon Technicum (1704) di John Harris, segretario della Royal Society: un'opera di alto livello che aveva avuto tra i collaboratori lo stesso Newton. Fu però merito di Diderot se l'Encyclopédie, raccogliendo in un unico fuoco come un grande specchio ustorio i raggi scintillanti un po' dovunque in Europa, li restituì tutt'intorno con forza [149] centuplicata. Di tanti "tizzoni. sparsi", così disse, aveva formato un "braciere ardente". Nelle sue mani quell'inventario ragionato, sistematico di tutte le conoscenze divenne una machine de guerre puntata contro l'ordine tradizionale: "il faut tout remuer". Era il prodotto, come disse D'Alembert nella dedica al ministro d'Argenson del primo volume (1751), della "nazione illuminata dei gens de lettres, soprattutto della nazione libera e disinteressata dei philosophes". Nessun "vile interesse" - ribadirà da parte sua Diderot - legava tra loro i collaboratori: soltanto la sollecitudine del destino delle generazioni future, "l'interesse generale del genere umano". Si sentivano investiti del futuro della civiltà. Salvando le conoscenze dei secoli passati da una rivoluzione annientatrice, mettendo soprattutto in comune i risultati di tanti sforzi dispersi, si aiutava l'uomo a realizzare le virtualità sconosciute del suo essere. Sappiamo forse di che cosa "la specie umana sarebbe capace, se non fosse arrestata nel suo progresso?". Quanto poi il Dictionnaire valesse come sussidio tecnico è un altro discorso. Ferdinando Galiani e Francesco Griselini dissero già allora, su quell'illustre centone, cose giustissime.
Parigi, centro di quella enorme fermentazione intellettuale, divenne la capitale dei lumi europei. A essa guardavano con curiosità e rispetto quegli stessi principi tedeschi, già imbevuti delle maniere di Versailles, i quali non avevano per la cultura del loro paese che disinteresse o disprezzo. Dal 1766 al 1782, in particolare tra il 1766 e il 1771, da quando sovrani e principi ereditari si mettono a viaggiare l'Europa, la visita a Parigi è diventata obbligatoria. E tutti, a cominciare dal principe di Braunschweig-Wolfenbüttel, che apre la serie, si fanno un dovere di visitare i philosophes. Il tormentatore di Lessing va a riverire Diderot a casa sua. Tanti riguardi da parte di così illustri visitatori li ripagano delle persecuzioni inflitte loro dalla censura francese. Tanto più che quei filantropi si offrono come protettori: accettano la dedica delle opere proibite o addirittura promettono di stamparle nei propri stati; li gratificano, quando possono, di pensioni. Nel 1754 Federico ne concede a D'Alembert una di 1200 lire. Poca cosa, se confrontata con l'entità dei doni elargiti a Diderot da Caterina II nel 1765. Ognuna di queste munificenze regali era un'occasione eccellente per sottolineare il diverso trattamento che essi ricevevano in patria. All'affermazione del prestigio sociale dello scrittore in Francia ha molto contribuito lo snobismo delle corti, come allora si diceva, del nord. In alcuni casi - Federico II e Caterina II - la politica di lusinghe era un abile calcolo da parte di sovrani, che avevano intuito l'importanza di mantenere in Francia un [150] partito autorevole di amici, che contribuissero a mettere dalla loro parte l'opinione europea, se non a modificare la politica del proprio governo. E non sbagliarono nella scelta. Diderot, che pure tra gli ammiratori francesi di Federico era uno dei più tiepidi, ancora nel 1770 lo presentava come illuminato protettore della libertà di molti stati tedeschi minacciati dall'aggressione austro-russa (Raynal, Hist. 1770, III, 82). L'anno successivo lo chiamò tiranno, ma per divergenze ideologiche: perché non aveva accettato la linea d'Holbach espressa nell'Essai sur les préjugés (1770): "dopo aver bestemmiato la verità, predicato l'errore, calunniato la natura umana, fatto l'apologia dei preti", aveva fatto quella dei guerrieri: poco ci mancava che facesse l'elogio dei finanzieri (Pages contre un tyran, 1771). Ma questo sfogo tenne ben segreto. La verità era si fatta per l'uomo, e l'uomo per la verità; ma Diderot non era disposto a testimoniare per essa sino al martirio. Più ragionevole, più disincantato, Voltaire ammetteva che Federico, pur sempre un re, aveva i suoi pregiudizi; e che bisognava perdonarglieli. Quale sovrano non si sarebbe irritato constatando che i philosophes non erano più monarchici? Se il campo dei filoprussiani conobbe col passar degli anni qualche defezione, e proprio quando si doveva ammirare in Federico non più il guerriero ma il riformatore, l'astro di Caterina non tramontò mai. Proprio il caso della Russia mostra anzi quale potere l'intellettuale avesse acquistato sull'opinione.
I geografi, e già nel secolo XVII (Mercator, Ortelius, Blaeu), non avevano esitato a incorporare nello spazio europeo i Balcani e la Russia sino all'Ob. Ma storici, pubblicisti, politici non li avevano seguiti: fino al ‘700 avevano continuato a negare che impero turco e impero russo fossero Stati europei. Troppo diversi erano i sistemi politici e il regime della proprietà. In pieno Settecento Montesquieu opponeva ancora, in certe sue riflessioni private, l'Europa centro-occidentale - terra di libertà per il perfetto equilibrio di forze che si era andato creando tra i suoi Stati - all'Asia, terra votata alla servitù, perché, a causa della configurazione stessa dei continente, un equilibrio del genere era impossibile ("Il faut que l'un soit conquis, et l'autre conquérant... " ). La Russia in questo testo non è nominata. Ma è evidente che l'ingresso dell'impero più grande della terra tra gli stati europei minacciava di distruggere quel rapporto di "fort à fort" che era la garanzia della libertà d'Europa. Sulla questione essenziale - se la Russia fosse cioè una nazione europea (l'impero ottomano rimaneva fuori discussione: era il modello stesso del despotismo asiatico) -, non diversamente da [151] altri suoi contemporanei, Montesquieu. non aveva però dubbi. Spiegava anzi in maniera ingegnosa il successo dell'opera riformatrice di Pietro il Grande: lo zar non aveva fatto altro che cancellare quattro secoli di barbarie tatara, restituendo alla Russia il suo vero volto, quello di popolo europeo (Lortholary). Non era stato difficile dare "i costumi e le maniere d'Europa a una nazione d'Europa". Se egli avesse meno disprezzato i suoi sudditi, avrebbe potuto evitare i metodi violenti, brutali, tirannici che invece aveva impiegato (Lois, XIX, 14). In ogni modo, era un fatto innegabile che il paese avesse compiuto rapidi e reali progressi sulla strada dell'occidentalizzazione. A Pietro - l'eroe "civilizzatore - andava" invece tutta l'ammirazione di Voltaire. Lui solo, con la sua rude energia, era riuscito a "civiliser" il suo popolo e a fare dell' "impero più arretrato dell'Europa e dell'Asia" una nazione moderna. Tra il 1760 e il 1785 la russofilia di molti philosophes esplode senza ritegno. "Ammiro Caterina, l'amo à la folie", dichiara Voltaire all'inizio del suo regno. La promozione della Russia, l'integrazione a pieno titolo all'Europa di un paese giudicato barbaro appena cinquant'anni prima, è in effetti uno degli eventi più sorprendenti della storia intellettuale del secolo (S. von Mohrenschildt, Lortholary). Diderot, Marmontel, Grimm, Galiani, Voltaire guardano ad esso addirittura come alla nazione-guida: "gli Sciti diventano i nostri maestri in tutto", sentenzia Voltaire, il capofila del partito. Non negava che Caterina fosse implicata nell'assassinio del marito, lo zar Pietro III; ma non dava troppo peso a quell'episodio: "bagatelles", "démélés de famille", faccende private. Cinque anni dopo, nel 1767, l'esercito russo invadeva la Polonia. Voltaire approvò incondizionatamente un intervento che mirava soltanto ad introdurre in quell'infelice paese la tolleranza, ossia a proteggere ortodossi, protestanti, ebrei dalle persecuzioni cattoliche. E derideva i confederati di Bar, quei bigotti, quei fanatici che rifiutavano tale insigne beneficio e si alleavano addirittura col turco.
Diderot, grande sedentario, si lasciò indurre a riverire "Semiramide" a Pietroburgo nel 1773-74, proprio quando la tragedia polacca era in atto. Dai lunghi incontri informali con l'imperatrice - una delle icones symbolicae dei lumi - ritrasse un senso inebriante di libertà: "Son costretto a confessare a me stesso che avevo l'animo da schiavo nel cosiddetto paese degli uomini liberi e che mi son ritrovato l'anima d'un uomo libero nel cosiddetto paese degli schiavi". Invitava i compatrioti a fare altrettanto: "Venite a trascorrere soltanto un mese a Pietroburgo". Era il luogo ideale per una prise de conscience: "Venite a liberarvi da una [152] lunga costrizione che vi ha degradati; sentirete allora che uomini siete". Nei paesi occidentali la libertà era agonizzante o morta affatto. La Francia di Luigi XV non era che una nazione di schiavi che aveva perduto per giunta la coscienza della propria schiavitù; l'Inghilterra, dopo aver sperimentato la corruzione del sistema parlamentare, stava forse per imboccare la via del terrore; la Prussia gemeva sotto un tiranno. Non restava che la Russia: quella società ancora informe poteva diventare la sede di un grande esperimento, il terreno favorevole alla "coltura" di una umanità nuova (A. Strugnell).

5. Si impone una nuova figura: il philosophe

Quanto diverso il ruolo nella società di questi philosophes - rispettati, accarezzati, consultati dai supremi detentori del potere - dal tradizionale homme de lettres. Il passaggio dall'una all'altra figura sociale si coglie bene in un testo celebre: Le Philosophe di Du Marsais. Pubblicato la prima volta nel 1743, sarà ripubblicato con ritocchi sull'Encyclopédie (1765) e di nuovo assieme alle Lois de Minos di Voltaire (1772) (Dieckmann). Il philosophe è ancora "un honnête bomme che agisce in tutto par raison e che unisce a un esprit de réflexion et de justesse, i costumi e le qualità sociali". Autocontrollo dell'emotività, degli impulsi spontanei; inventario della situazione; ponderazione attenta degli effetti sociali dei propri atti, razionalizzazione del proprio comportamento nel mondo. Questo tipo umano non rassomiglia come a un fratello a quello prodotto dal gioco serissimo (come aveva detto La Bruyèré) della vita di corte, descritto impareggiabilmente da Elias, tolta beninteso la necessità della "maschera"? Questa somiglianza aiuta a spiegare l'adozione entusiastica del modello "filosofico" da parte dei gens du monde. Di questo tipo di filosofo. Perché il tipo di homme de lettres che s'impone alla svolta del secolo vuol essere ben altro. In breve: un apostolo della "pubblica felicità". Già il philosophe di Du Marsais si sentiva pieno di idee sul bene pubblico e su "tutto ciò che si chiama umanità", dato che la "società civile" era - così diceva - "la sola divinità che egli riconoscesse sulla terra": un uomo utile. Ecco la novità costituita dall'apparizione del philosophe: un uomo capace di fornire idee all'azione politica, di guidarla, di additarle i valori da realizzare. Reinhard Bendix ha caratterizzato assai bene questo gruppo: "Si trattava di persone sensibili al destino dei proprio paese, informati su quello che accadeva altrove e capaci di [153] elaborare teorie che facevano presa su un numero di lettori sempre più grande; competenti in molti campi, non erano specialisti in nessuno". Il loro rapporto col potere era complesso. Da una parte, in quanto gruppo "disinteressato", erano in grado, o così credevano, di trovare le soluzioni d'interesse pubblico, veramente nazionale, dei problemi; dall'altra, riservavano a se stessi il compito di distruggere le superstizioni, di preparare cioè l'opinione pubblica ad accettare le riforme più ardite: "È una gran fortuna - scriveva Voltaire nel 1750 - per il principe e per lo stato, che vi siano molti filosofi che stampino questi principi nella testa della gente" (La voix du sage et du peuple). E tutto questo senz'ombra di machiavellismo. Non parlavano forse in nome della ragione e dell'interesse comune? Se non avessero avuto la mente ottenebrata dai "pregiudizi", se avessero saputo interrogare la propria ragione tutti i cittadini avrebbero fatto spontaneamente quelle stesse scelte. In attesa d'illuminarli, di farne degli esseri pensanti, essi, le avanguardie, parlavano in loro nome. E intanto intensificavano la lotta contro le superstizioni, cercavano anche di coinvolgervi lo stesso sovrano, mostrandogli la necessità, l'urgenza politica di quella lotta: "I filosofi rendono un servizio al principe distruggendo la superstizione, che è sempre la nemica dei principi". La loro utilità pubblica era evidente: prevenivano la "rivolta dei cuori", la più pericolosa, "perché la virtù si esaspera fino all'atrocità". Diderot, che scriveva queste parole, si rivolgeva ai sovrani con tono perentorio: "Laissez écrire". Senza la filosofia non si governa, né bene né male. Per essere obbediti da tutti con intima convinzione occorre che i cittadini abbiano l' "illusione" (l'espressione è sua) della libertà. Occorre organizzare il consenso. A tal fine, "se i governi non vogliono assoldare dei pensatori, che forse diverrebbero sospetti o corrotti perché mercenari, che essi permettano almeno agli spiriti superiori di vegliare in qualche modo sul bene pubblico". Diderot si sente uno di questi: "Ogni scrittore di genio è magistrato nato della sua patria". Ha il dovere di illuminarla e ne ha il diritto: "Il suo diritto è il suo talento". La sua posizione sociale non ha rilevanza: " Cittadino oscuro o ragguardevole, quali che siano il suo rango o la sua nascita, il suo spirito, sempre nobile, prende i suoi titoli dai suoi lumi". Egli parla a tutti e per tutti: "Il suo tribunale è l'intera nazione; il suo giudice è il pubblico, non il despota che non lo ascolta o il ministro che non vuole ascoltarlo" (Pensées détachées, 57-58).
Nel 1761, nella Lettre premessa all'edizione postuma delle Recherches sur les origines du despotisme oriental di N.-A. Boulanger, [154] d'Holbach insisterà sulla necessità di fare addirittura della filosofia una "scienza di stato". Soltanto la ragione perseguitata era in grado ormai di salvare la società dalla "sciagura dell'anarchia", di ricondurla all'ordine. Perché l'anarchia era allora alle porte. La gioventù era sbandata, in rivolta contro tutto e tutti: "una moltitudine innumerevole di giovani semicolti, poiché non crede più come i suoi padri che le leggi siano state dettate o scritte nelle tenebrose caverne del monte Ida, s'immagina che non vi sia più legge: ecco il mostro che spaventa con qualche ragione la nostra polizia". I filosofi sapevano come spegnere quei focolai d'insubordinazione e di contestazione. Bastava che si mobilitassero e si organizzassero. La polizia invece di perseguitarli doveva considerarli alleati. I mezzi lumi precipitano nel nichilismo; la luce spiegata della ragione fa rinascere la volontà di ordine. Nel giro di dieci anni la funzione del "filosofo" era diventata indispensabile. Convinto di saper cavalcare la tigre della ribellione, nel decennio successivo il clan di d'Holbach intensificò fino al parossismo la polemica contro la religione: quello stesso cristianesimo, fatto colpevole un tempo di tutte le nequizie per il suo carattere tirannico è ora denigrato perché moribondo e perciò divenuto freno inefficace della società. I pamphlets anticristiani cucinati nella "grande boulangerie" - in genere raffazzonature di vecchi testi deistici inglesi - non si contano. Tra questi spicca l'Essai sur les préjugés (di Du Marsais ?, di d'Holbach ?) che fu il manifesto filosofico degli anni ‘70. La certezza dell'inevitabilità, della fatalità dell'incendio generale che consumerà tutti i pregiudizi (religiosi) - "la verità, come il sole, non può retrogradare" - si mescola all'esortazione pressante ad anticipare con la propria azione il grande evento liberatore. Ma anche in questo caso non pare che i philosophes ambissero a un potere diretto, all'assunzione di responsabilità politiche. Si accontentavano di un potere indiretto, di essere cioè filosofi di stato, gli ideologi dell'ordine nuovo, persone quasi sacre. Non aveva detto forse d'Holbach nella Lettre del 1761 che bisognava "quasi divinizzare" la ragione, invece di umiliarla e avvilirla? In concreto, sarebbero stati gli elaboratori di quella legislazione filosofica che avrebbe dovuto costringere i cittadini alle azioni che procurano, assieme al bene pubblico, il massimo bene per il massimo numero di persone (G. Tarello).

6. L'immagine del progresso e il senso della storia

La piena valorizzazione dell'intellettuale come agente di progresso [155] si ebbe naturalmente non appena si cominciò a parlare di progresso; e non soltanto di progresso scientifico, che era già a quel tempo idea corrente, almeno a partire da Francis Bacon , ma di progresso politico, sociale, morale. I primi ad aprire il fuoco furono i cartesiani: quella ristretta compagnia che si riuniva verso il 1690 in una casupola di faubourg Saint-Jacques attorno al Varignon, della quale facevano parte, tra gli altri, Fontenelle, l'abate di Saint Pierre, l'abate Vertot, l'abate Terrasson. Il primo gruppetto omogeneo di philosophes. Ed è proprio la fiducia nel progresso dello spirito umano in tutti i campi, comprese le lettere e le arti, il primo articolo del loro credo filosofico (F. Deloffre). Se Fontenelle si astenne dall'occuparsi di politica, non se ne astenne invece l'abate di Saint-Pierre. La sua notorietà è legata a quel Progetto di pace perpetua del quale ebbe la prima idea nel 1708 e che non cessò tutta la vita di "perfezionare" (la sua parola preferita). La politica era divenuta lo scopo della sua vita. "La politica - diceva - è il sublime della ragione". Che cosa di più degno della ragione che "conoscere e poter dimostrare agli altri i migliori mezzi di diminuire i mali e di aumentare i beni degli uomini"? Era anzi, la politica, la regina delle scienze: "La politica è preferibile a ciascuna delle altre scienze, come il tutto è preferibile a una delle sue parti". A patto, beninteso, che fosse scienza, o che almeno potesse diventarlo. Cosa che egli riteneva indubitabile e che, secondo lui, sarebbe stata agevolata dall'istituzione di Accademie pubbliche di politica e di etica, dalla frequenza insomma degli scambi intellettuali. Saint-Pierre amava le città grandi, sempre più grandi, proprio perché molto si riprometteva dalla concentrazione di molti uomini, in particolare di molti uomini pensanti. I perfezionamenti della ragione non sono dovuti soltanto a sforzi solitari, ma sono eminentemente un fenomeno sociale, il risultato della moltiplicazione degli scambi (J. Dagen). Abbattuti gli ostacoli, in primo luogo la guerra, create le condizioni favorevoli, si poteva prevedere uno sviluppo illimitato dalla ragione. Ma se il raggiungimento della seconda tappa nello sviluppo della ragione - il passaggio dalla ragione speculativa alla ragione pratica - non era lontano, quello della tappa finale - il passaggio dalla ragion pratica alla pratica della ragione - era più problematico: c'erano di mezzo le passioni. Tuttavia il buon abate non disperava che gli uomini riuscissero un giorno a identificare felicità e virtù (che per lui significava soprattutto bienfaisance), fini personali e fini razionali. Intanto si prodigava senza risparmio a formulare progetti su progetti d'invenzioni utili all'uomo. Nella sua ingenuità, il "perfezionismo" di Saint-Pierre metteva in piena luce la carica di utopismo che [156] racchiudeva in sé la ragione scientifica seicentesca. Tanto per lui quanto per Terrasson (La Philosophie applicable à tous les objets de l'esprit et de la raison è del 1754, ma fu scritta nel 1750) tutto il progresso umano è sospeso alla nascita della moderna geometria; e i suoi limiti coincidono con i limiti della geometrizzazione dell'universo umano. Inutile entrare nei particolari. Basta qui soltanto ricordare che l'opera uscì per le cure di D'Alembert, grande ammiratore del tentativo compiuto dal vecchio cartesiano; e che da D'Alembert alla "matematica sociale" di Condorcet il passo è breve. Per non dire della pretesa di quest'ultimo di creare con l'aiuto delle matematiche una scienza preditiva dei destini dell'uomo (Esquisse 1794).
Tutt'altra aria si respira, a ogni modo, nella seconda orazione pronunziata nel 1750 da Turgot in Sorbona, anche se si tratta dello scritto di un adolescente precoce: Tableau historique des progrès successifs de l'esprit humain. I tentativi fin lì compiuti di assimilare l'ordine umano all'ordine naturale sono da lui rigettati. Di fronte all'ordine naturale sempre identico a se stesso, l'ordine umano apparve a Turgot il campo di un'innovazione continua, di una perfettibilità indefinita. In un certo senso per lui, che aveva orrore dell'immobilità, progresso significava nient'altro che innovazione, esperimento della novità, indipendentemente dal valore delle innovazioni (F. E. Manuel). L'importante era liberarsi dal peso morto del passato, rimodellare continuamente le forme della vita. Agente dinamico, motore del progresso era il "genio", il portatore di novità. Tutto il problema divenne per lui quello di trovare l'organizzazione sociale e politica che meno ostacolasse l'opera dei geni o piuttosto quella che sapesse giovarsene di più o addirittura moltiplicarne il numero. La funzione centrale dell'intellettuale nella storia, la critica e l'innovazione, era a ogni modo dimostrata. E Turgot poteva prevedere che, se le condizioni ottimali si fossero avverate, ci sarebbero state età creative; nel caso opposto, età di ristagno e di conservazione. Ma circa il futuro non voleva dire di più. Nota piccante: il mobilista Diderot non ha la sua stessa fiducia nel "genio" come fattore di progresso, anzi ne diffida. L'entusiasmo porta agli eccessi: rischia di guastare gli acquisti anteriori, d'interrompere "il movimento insensibile e naturale" (art. Génie).
Una valorizzazione dell'intellettuale in senso forte, cioè dell'uomo di scienza, riuscì naturalmente il Discours préliminaire premesso da D'Alembert al primo volume dell'Encyclopédie, a giustificazione di quella monumentale opera di divulgazione e di sistemazione: vi narrava la storia [157] dei progressi compiuti dall'umanità in campo scientifico. Tra l'altro, teneva ben distinte storia delle idee e storia dei fatti politico-sociali: quest'ultima "non è spesso che la storia delle nostre disgrazie e dei nostri delitti". Alle vicende politiche, oltre che alla grande viscosità sociale sono spesso imputabili i ritardi, le stagnazioni, le ricadute nella barbarie. Un pericolo, quest'ultimo, sempre imminente: "la barbarie dura dei secoli, sembra che sia il nostro elemento; la ragione e il buon gusto non fanno che passare". La vigilanza doverosa degli hommes de lettres forse non poteva del tutto impedire le rivoluzioni annientatrici. Sfiducia o timore verso il futuro che è anche più netta nel suo collega Diderot: "tutto porta in sé un germe di distruzione". Il successo presente della ragione non garantisce il suo sviluppo illimitato, non libera dall'angoscia. Entrambi sono ancora prigionieri degli schemi ciclici del discorso classico sulla storia, non sono ancora ben attestati nella nuova concezione "cumulativa" del processo storico (Guilemot). L'Encyclopédie non si presenta forse anche come una grande operazione di salvataggio dell'intero patrimonio culturale dell'umanità da una catastrofe di dimensioni planetarie ? Fiero a ogni modo delle conquiste intellettuali degli ultimi tre secoli, D'Alembert non aveva dubbi sul dovere degli scienziati europei di partecipare in giro tanta ricchezza, anche se fosse un dono amaro. L'alternativa era l'ignoranza. E se è dubbio che la scienza renda felici, neppure l'ignoranza, che è impotenza, può riuscirci. Diderot impreca: "Maledetto sia chi non vede che le scienze e le arti hanno fatto progressi incredibili, e che questi stessi progressi hanno prodotto una mitezza di carattere nemica di ogni azione barbara". Più elegantemente, D'Alembert aveva lasciato la questione in sospeso. Ma andava per parte sua caldeggiando l'applicazione della scienza a migliorare le condizioni di vita degli uomini. Solo la filosofia "pratica" meritava ai suoi occhi di portare quel nome (Discours, 1753). Era l'equivalente di quella filosofia tutta "reale", le benemerenze storiche della quale Antonio Genovesi in quello stesso anno 1753 andava magnificando con tutta la forza della sua eloquenza nel Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze.
Voltaire compose egli pure ultrasettantenne, nel 1765, una Philosophie de l'histoire: la prima opera, tra l'altro, con questo titolo. Ma non contiene una teoria del progresso. È al contrario un'opera deprimente. Il presidente Hénault, lettore acuto, vi trovò soltanto "solitudine" e "disperazione". Voltaire aveva dato in essa libero corso al suo pessimismo "L'uomo nasce per l'errore". La storia: una fantasmagoria di assurdità, di orrori, di aberrazioni. Lo spirito umano sembra non partorire [158] altro che mostri. J. Dagen ha detto bene: "In Voltaire c'è del Flaubert di La tentation de Saint-Antoine". È dunque per rappresentare questo pandemonio che egli aveva progettato nel 1746 una Histoire de l'esprit humain che diventerà nel 1756 l'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations ? Non doveva essere piuttosto una storia della formazione della civilisation occidentale? Anche se la parola non era ancora nata (a crearla sarà, pare, Mirabeau nel 1757) l'idea di Voltaire è chiara: suo intento era mostrare "per quali gradi si è giunti dalla rozzezza barbara dei tempi feudali alla politesse della nostra". Un progetto molto simile a quello portato a termine vent'anni dopo, nel 1767, da Adam Ferguson: An Essay on the History of the Civil Society. Se l'Essai sur les Moeurs riuscì opera diversa fu perché la struttura mentale, l'architettura del pensiero, la concezione dell'universo e dell'uomo di Voltaire erano diverse. Soltanto dopo aver preso coscienza della struttura dissimmetrica dell'universo voltairiano, dove ordine e disordine coesistono, ma dove solo quest'ultimo è visibile, e l'altro - la legge di Dio - è nascosto, inaccessibile alle povere forze della ragione dell'uomo, quest'essere effimero, possiamo cominciare a capire Voltaire (J. Molino).
Rifiutato il sistema, la grande catena degli esseri, il mondo gli si presenta come un universo discontinuo, bucato, senz'ordine apparente: una inquietante collezione di singolarità. Il mondo della natura e, beninteso, il mondo degli uomini. Con quanta passione, con quale puntiglio Voltaire raccoglie notizie sulla varietà dei costumi umani, sulle particolarità di un fatto, di un personaggio. Questo gusto e mania dei particolari in uno che diceva di puntare all'essenziale, alle "strutture", si spiegano. Voltaire spera di trovare tra i fatti un legame che gli sfugge. Non riesce a ricostruire la loro catena causale. La tentazione di dichiararsi vinto, di godersi con barbara gioia quello spettacolo incoerente, privo di senso, lo ha assalito più di una volta. Soprattutto nei Contes. Ma non conosce Voltaire chi si limita a insistere su questo aspetto della sua personalità. Se egli tanto si immerge nel disordine è perché desidera trovare l'ordine, o almeno mettere in tutto quel disordine un po' d'ordine. Le grandi epoche di civiltà, quelle nelle quali l'uomo, vincendo la propria inerzia naturale, tende con energia alla realizzazione di tutte le virtualità della sua specie, sono poche (quattro in tutto) e lontane tra loro nel tempo, senza rapporto l'una con l'altra. A quelle riuscite eccezionali succedono la stanchezza, il ripiegamento, il ritorno alla barbarie. Eppure. scorrendo la storia degli ultimi nove secoli, piena tutta di convulsioni dolorose, di révolutions, è costretto ad ammettere che [159] l'Europa aveva fatto in quei secoli innegabili progressi: era più popolata, più civile, più ricca, più illuminata di quanto fosse mai stata. Merito dei suo dinamismo, cioè delle sue passioni? Queste non avevano prodotto che disastri. Merito piuttosto della laboriosità, della tenacia, dell'industrie degli uomini. Le guerre civili avevano a lungo desolato la Germania, la Francia, l'Inghilterra. L'attuale floridezza di quelle nazioni provava che l'industriosità aveva finito per trionfare sul furore. In altre parole: la società civile, quando è vigorosa, si riprende facilmente dai disastri delle guerre, causate dalle ambizioni dei "grandi" o dall'insensato odio teologico: "Quando una nazione conosce le arti, quando non è soggiogata e strappata alla propria terra dagli stranieri, ripara facilmente le sue rovine, e si riprende sempre". È la lezione di Candide (1759): bisogna lavorare. Tutti devono contribuire a sollevare l'uomo dalla sua miseria, tutti devono rendersi utili: "Quale grado di perfezione non avrebbe raggiunto l'agricoltura, quanti soccorsi ed agi non avrebbero diffuso nella vita civile le arti che trasformano i suoi prodotti, se non fosse stato sepolto nei chiostri un numero prodigioso di uomini e donne inutili?" (Essai, cap. CXCVII).
Da quel lungo viaggio nella storia del mondo degli ultimi nove secoli Voltaire aveva riportato un'altra certezza consolante: l'unità fondamentale del genere umano: "risulta da questo quadro che tutto ciò che riguarda intimamente la natura umana si rassomiglia da un capo all'altro dell'universo". La differenza, l'irrazionalità è soltanto nei costumi. Nel pulviscolo caotico dei fatti aveva ritrovato, se non l'ordine, un "amore dell'ordine" che animava "segretamente", inconsciamente, il genere umano e che lo aveva finora salvato dall'autodistruzione. Mossa da quest'istinto naturale l'umanità aveva disciplinato la guerra, creato il "codice delle nazioni", e riveriva in ogni parte del mondo la legge e i ministri della legge. In virtù di esso i figli rispettavano dovunque i padri ed ereditavano da loro; in ogni paese era tutelata la famiglia; e dappertutto si poneva un freno al governo arbitrario: con la legge, con gli usi, con i costumi. Il despotismo asiatico era un'invenzione di Montesquieu: un regime impossibile.
Voltaire aveva dunque universalizzato le esigenze della borghesia ? È la formula di Meinecke. In realtà, aveva cercato d'individuare quelle che a lui parevano, dopo lungo studio, le esigenze fondamentali della società civile per la sua conservazione e per il suo sviluppo. Quel programma avrebbe potuto in effetti essere quello di una borghesia che avesse voluto identificarsi con l'umanità stessa: una borghesia possibile, [160] non una borghesia reale. La borghesia potrà, una volta nata, servirsi di quelle rivendicazioni umanitarie a copertura dei suoi interessi, ossia come ideologia. Ma Voltaire parla in nome del "popolo" che pena e lavora. Tipico il suo atteggiamento nei confronti della guerra. La guerra è sempre per lui quella dei padroni, dei "maîtres". Tanto di guadagnato per il popolo se riesce a tenersi lontano dai suoi flagelli. Perciò Voltaire giudica positivamente la creazione degli eserciti di mestiere, per se stessa un " male deplorevolissimo": perché risparmia le popolazioni operose dal prender parte a conflitti che non li riguardano: "In quale stato di floridezza non sarebbe l'Europa senza le guerre continue che l'inquietano per lievissimi interessi e spesso futili capricci?". I fornitori degli eserciti non erano i destinatari di questo discorso; tanto meno la borghesia patriottica. Se poi si tiene presente l'atteggiamento anticolonialistico deciso assunto da Voltaire, esce fuori dal conto la grande borghesia mercantile. Resta il mondo artigiano, al quale Voltaire guarda con indubbia simpatia. Vogliamo chiamarlo borghesia manifatturiera? Sarebbe una bella forzatura. No: Voltaire non parla in nome di una classe, ma di tutti i settori della società che lavorano e creano ricchezza: ricchezza materiale o prodotti raffinati dello spirito. Se si batte contro i privilegi aristocratici e contro le restrizioni della libertà di espressione è perché lì giudica ostacoli artificiali a quelli che la sua vasta inchiesta storica ha dimostrato essere i veri fattori di progresso: ragione e industriosità. La richiesta di una legislazione che assicuri la "preminenza della società economica" (Tarello) e la libertà d'opinione è fondata sulla convinzione dell'esistenza di un amore naturale dell'ordine che garantisce la coesione profonda dell'operare degli uomini. All'intellettuale, all'uomo cioè che aveva fatto dell'intelligenza il proprio lavoro, il còmpito di "illuminare", non soltanto lottando contro i pregiudizi, che tra i tanti flagelli degli uomini non erano certo il minore, ma mostrando agli uomini i rimedi per rendere meno infelice, più sopportabile la loro esistenza. Era questo il modo di "consolarli" che la filosofia militante del secolo e in particolare lui, Voltaire, il più grande di tutta la schiera, aveva scelto,ma assumendo su di sé il rischio di migliorare con la ragione - una ragione ancora giovane ("ce siècle est l'aurore de la raison") - un mondo forse assurdo.

7. La ragione e la politica

Tutti ormai guardavano alla metà del secolo all'intellettuale come [161] all'uomo che poteva risolvere la crisi presente e riassestare su nuove basi la società. Perfino Rousseau, e proprio in quella sua celebre diatriba contro la cultura con la quale aveva fatto nel 1750 la sua irruzione nel mondo letterario, finiva per chiedere che gli " scienziati della prima sfera" venissero accolti a corte come consiglieri: "Che essi vi ottengano la sola ricompensa degna di loro, quella di contribuire con il loro credito alla felicità dei popoli ai quali avranno insegnato la saggezza". Sarebbe stato un evento memorabile: "Soltanto allora si vedrà quanto possano la virtù, la scienza e l'autorità animate da una nobile emulazione e operanti di concerto alla felicità del genere umano".
Persuaso di essere l'agente primo del progresso umano, il lettré pretendeva al riconoscimento pieno del suo ruolo essenziale da parte della società. Il solo fatto che troppi "grandi", troppi uomini illustri solo per nascita, considerassero ancora la qualità di homme de lettres un titolo insufficiente di nobiltà bastava a D'Alembert per qualificare "barbara" la società francese. E la Cina per converso veniva giudicata civilissima perché i letterati reggevano lo Stato. Scopritore di verità utili o promotore dello spirito critico - per Voltaire era una cosa e l'altra - il letterato era un uomo in anticipo sul proprio tempo. La persecuzione stessa della quale era fatto oggetto era un riconoscimento pubblico dei suoi meriti. Un discorso sull'eminente dignità dell'homme de lettres è il Discours sur la société des gens de lettres et des grands pubblicato da D'Alembert nel 1753. Il mezzo più sicuro per farsi rispettare era per essi - vi diceva - "vivere uniti (se è loro possibile) e quasi rinserrati (renfermés) tra loro". Soltanto formando una società a parte, una società ben compatta, "essi riusciranno senza fatica a dar legge al resto della nazione nelle materie di gusto e di filosofia". Immaginava insomma una aristocrazia del pensiero, un "ordine" ben distinto da quello della nobiltà di sangue. La conquista dell'Académie française, che era per così dire il senato della repubblica dei dotti, era il primo passo verso questa corporativizzazione. Quando nel 1772 D'Alembert ne fu creato segretario perpetuo, l'evento fu celebrato come una vittoria della filosofia. E per certi aspetti lo era stata. I "cappelli", cioè i philosophes, avevano trionfato sui "berretti", cioè sui devoti, nella conquista dei posti vacanti. Tuttavia la libertà d'espressione, soppressa nel 1770 al tempo dell'affare Thomas, non era stata ripristinata. I discorsi dei confrères continuavano ad essere censurati dal cancelliere. Per riottenere quella preziosa libertà i philosophes furono tutti d'accordo sul ricorso all'arbitrato reale. Poiché l'Accademia era posta sotto l'immediata protezione del sovrano, toccava a lui mettere al passo ministri e "organi [162] intermedi", e restituire al corpo il privilegio concessogli all'atto della sua costituzione. Era un'occasione per mostrarsi davvero principe illuminato. Il re non si mosse. Il sistema delle elezioni favorì in ogni modo la dittatura "filosofica" di D'Alembert (che si appoggiava sul salotto di M.lle de Lespinasse, destinata a durare dodici anni, fino alla morte del filosofo (1784). Un solo uomo alzò la voce a protestare e a reclamare elezioni pubbliche, il solito Linguet: "L'Accademia essendo un'istituzione nazionale, sono i suffragi della nazione che bisogna consultare nelle scelte che la perpetuano".
Nessuno più convinto di Voltaire della necessità dell'unione per far trionfare l'illuminato uomo di lettere. Ma proprio mentre andava caldeggiando e raccomandando l'azione comune, si rendeva conto con maggiore acuità degli altri della sua debolezza: l'isolamento sociale. La gran disgrazia dell'uomo di lettere è ordinariamente l'essere senza legami: "ne tenir à rien". E spiegava: un borghese che acquista una carica entra a far parte di una corporazione: "se gli si fa ingiustizia, trova subito dei difensori". Il letterato è invece "sans secours". Rassomiglia al pesce volante: "se appena si alza gli uccelli lo divorano; se si immerge, lo mangiano i pesci" (Dictionnaire phi1osophique, 1765).
Il guaio fu che il pesce volante non si accontentò di occupare seggi accademici ma volle far politica: senza averne il gusto, anzi detestandola (era il regno degli "interessi", delle passioni, della disarmonia), senza assumersene le responsabilità. Anni prima, nel 1750, intervenendo a favore di una determinata politica fiscale, proprio Voltaire aveva argomentato in questo modo: "I filosofi, non avendo alcun interesse particolare, non possono parlare che in favore della ragione e dell'interesse pubblico" (La voix du sage et du peuple, 1750). La certezza morale di avere accesso all'universale e di poter, partendo da questo, universalizzare il particolare: ecco la radice di tante superbe illusioni, dell'arroganza, e anche dell'infelicità profonda (fu Hegel a notarlo) dell'illuminista entrato in politica. L'uomo che pensa, avendo messo a tacere le passioni, pretese di parlare non già a nome proprio, ma si qualificò volentieri, come Diderot, "organo passivo della ragione". Autoproclamatosi portavoce e ministro dell'universale ragione, investito perciò di un'autorità incontestabile e incontrastabile, assolutizzò i propri progetti politici nascondendone appunto la loro essenziale politicità. E credette in tal modo, per il solo fatto di muoversi nella sfera delle pure esigenze morali, di aver garantito il proprio operare contro i rischi d'inefficacia o peggio di perversione propri di ogni impresa politica.
[163] Forti dell'appoggio dell'opinione pubblica, il cui impero, a sentire Rulhière (1787) si era manifestato in Francia la prima volta al tempo della grande lotta del 1750 (ed è forse questo l'evento al quale fa di continuo allusione Voltaire quando parla della "felice rivoluzione degli spiriti" avvenuta alla svolta del secolo) gli hommes de lettres esercitanti il loro magistero filosofico si sentono detentori di un potere legittimo ed enorme. Si paragonano per bocca di Malesherbes (1775) agli oratori di Grecia e di Roma riuniti in assemblea (soltanto, questa volta, grazie alla stampa, assemblea era la nazione intera). Sentono che il tempo lavora per loro: prima o poi - scrive Louis Sébastien Mercier (l'autore di quell'opera di science fiction politica che è L'an 2440, 1770) - questi fabbricatori dell'opinione pubblica "dirigeranno le idee nazionali. le volontà particolari sono nelle loro mani" (1778). Il pubblico, deplorerà Guizot 1808, aveva fatto degli scrittori "il primo stato della società". Ormai essi, convinti di formare un gruppo a sé, cercano, in una società di ordini, uno spazio, una collocazione sociale precisa. Anche perché il loro numero era inverosimilmente cresciuto. Non abbiamo dati numerici precisi. Ma l'impressione dei contemporanei è unanime: tutti parlano di una vera e propria inflazione della professione letteraria. Dove avessero compiuto la loro prima formazione tutti questi aspiranti al mestiere letterario non si riesce a capire: non nelle università, che, in Francia come altrove, vedono diminuire le immatricolazioni (malgrado che il possesso dei gradi accademici fosse indispensabile per accedere ai grandi benefici - arcivescovati, vescovati, prebende teologali, penitenzierie - e per esercitare determinate professioni: medici, ufficiali di giustizia); non nei collegi religiosi, calati di numero dopo l'espulsione dei gesuiti nel 1763, e che nel corso del secolo avevano perduto, anziché guadagnato, allievi (Dainville); non nelle grandes écoles, che preparavano tecnici di alto livello.
Comunque sia: a Parigi, nel faubourg Saint-Germain, brulica tutta una turba di giovani intellettuali di provincia, di déracinés - veri e propri proletari della "repubblica delle lettere" - alla ricerca di un inserimento nella società o più semplicemente di un impiego. I più si adattano a vivere componendo libelli calunniosi, opere pornografiche, scritti di ogni genere o facendo magari le spie della polizia in attesa di formare i "quadri" del movimento rivoluzionario (R. Darnton, E. Di Rienzo). Diderot, che era partito egli pure da un ambiente del genere, ci ha lasciato, di questa canaille intellettuale un ritratto indimenticabile: Le Neveu de Rameau. L'esistenza di questa massa di scontenti costituirà per [164] gli hommes en place più intelligenti un problema. Nel 1775 il barone di Breteuil, riflettendo sulla "maniera di render utili i gens de lettres" proporrà il loro assorbimento nella burocrazia statale. Sono questi uomini che facendo proprio il discorso illuministico, che era stato nell'essenziale un grande discorso problematico sull'uomo, sul mondo, sulla libertà, lo riducono a uno stock limitato di idee, di formule, di parole d'ordine (libertà, uguaglianza, felicità, progresso, fraternità, governo della legge). Lo degradano insomma a ideologia; ne fanno per l'esattezza una ideologia rivoluzionaria. Certo c'è ben poca somiglianza tra questi uomini dalle certezze incrollabili, tra questi terribili dogmatici e, mettiamo, un Voltaire che, facendo il proprio bilancio intellettuale, scriveva: "mi sono trovato possessore di quattro o cinque verità, tirate fuori da un centinaio di errori, e carico di un'immensità di dubbi". Ma sono stati proprio gli illuministi, esercitando come avevano instancabilmente fatto la loro giurisdizione morale sul mondo politico, a provocare quella crisi di autorità che rese, se non inevitabile, almeno possibile la frattura rivoluzionaria. Rousseau almeno aveva presagito l'imminenza di un'epoca tempestosa: "sento arrivare la crisi e l'epoca delle rivoluzioni" (Émile,1762, cap. IV). Negli stessi anni Voltaire si cullava invece nella prospettiva di lendemains qui chantent: di una grande, pacifica rivoluzione nella mentalità collettiva, dans les esprits, che avrebbe visto il suo compimento verso il 1785: "je vois venir de loin ces temps, ces jours sereins, / Où la philosophie, éclairant les humains, / Doit les conduire en paix aux pieds du commun maître" (Epître CXI, 1765). Invidiava soltanto le generazioni più giovani della sua: "Mi fa rabbia il dover morire prima di aver visto gli inizi dell'epoca felice della quale voi godrete". E ancora: "i giovani sono proprio fortunati: vedranno delle belle cose" (1764). Il marchese di Chastellux, dopo aver scorso tutti i secoli dell'avventura umana per misurarne il grado di felicità, così apostrofava i contemporanei, soprattutto le generazioni appena nate: "Voi che vivete, e soprattutto voi che cominciate a vivere nel secolo diciottesimo, rallegratevi" (De la félicité publique, ou considérations sur le sort des hommes dans les différentes époques de l'histoire, 1772).

A merito dei philosophes va tuttavia ascritto il tentativo - il primo della storia - d'immettere, se vogliamo d'iniettare a forza e in dosi eroiche, nella lotta politica valori che non fossero di origine religiosa; di aver anzi mirato alla creazione di un'autorità laica in concorrenza con le chiese tradizionali: la comunità degli esseri pensanti, degli scrittori. Facendosi [165] forti di tutto il prestigio della ragione, gli hommes de lettres cercarono di sostituire una politica sollecita del bene pubblico, della pace e delle arti della pace, della collaborazione internazionale alla trista politica della forza; reagirono in nome della giustizia offesa contro le prevaricazioni del potere pubblico o del potere religioso, contro lo spirito di persecuzione e di esclusione. In quest'opera di denuncia e di opposizione essi furono a volte magnifici. Ma quando, senza misurare le proprie ambizioni, vollero mischiarsi con la politica delle corti, e dovettero di conseguenza sposare questa o quella causa, ne uscirono diminuiti. Per quanto s'illudessero (e i principi li lasciarono in quell'illusione) di essere una potenza pari a quella dei sovrani - si pensi al tono dei rapporti epistolari di D'Alembert o Voltaire con Federico II - prima o poi i philosophes dovettero ammettere di essere stati strumentalizzati: "Voialtri re - confessa Voltaire a Federico nel 1775 - siete come gli dèi d'Omero, che fanno servire gli uomini ai loro disegni senza che questi poveri diavoli se ne rendano conto". Alludeva ai casi di Polonia, che furono per la filosofia un gran brutto incidente. Sembra che i philosophes, che non avevano capito molto della situazione di quel paese, avessero avuto in tutta la faccenda un solo scopo: screditare una volta di più la politica estera francese, umiliare i Welches. Vecchio gioco, che riusciva quasi sempre. Come spesso hanno fatto gli intellettuali progressisti venuti dopo di loro, i philosophes troppo facilmente credevano e facevano credere che i valori atrocemente calpestati in Francia si erano già realizzati altrove. Criticissimi nei confronti del proprio paese, dove nulla andava per il verso giusto, dimissionavano ogni spirito critico o davano prova di straordinaria indulgenza quando si trattava di giudicare un paese remoto. Sono evidenti i rischi di queste mitizzazioni, tanto più sorprendenti in chi si era fatto un punto d'onore di combattere il pensiero mitico in tutte le sue forme.
L'atteggiamento di sistematica denigrazione dei poteri pubblici in Francia conduceva i cittadini alla disaffezione verso il proprio governo, alla crisi dell'autorità, alla spaccatura del paese. Già lo si è detto. Il fatto che qui si voleva sottolineare è un altro: che ciò facendo gli intellettuali innescarono un processo che non furono in grado di controllare e dal quale rischiarono di essere travolti. La rivoluzione spinse molti nobili e molti borghesi a imputare loro la responsabilità morale dei recenti avvenimenti; e a contestare il loro prestigio e le loro pretese. Non solo. Molti membri dell'intellettualità laica si unirono al coro, e denunziarono i misfatti, gli effetti devastatori dell'intelligenza, impiegando [166] nello screditarla tutto il prestigio che avevano acquistato in virtù proprio della crescita sociale della corporazione. Ma ben presto, passato quel primo momento di reazione, l'homme de lettres, il protagonista di quel grande trasferimento di potere avvenuto nella seconda metà del secolo XVIII dalle chiese tradizionali a un'autorità laica, riprese e anzi ampliò la sua influenza. Il secolo XVIII aveva celebrato e consacrato nello scrittore il filosofo e il pubblicista, il portatore di chiarezze umane; il secolo XIX ai suoi esordi gli aveva contrapposto il poeta, il portatore del mistero e dell'ineffabile, il testimone della supremazia del divino. Una concezione spiritualistica più larga fuse i due tipi. Figura dominante divenne il Poeta-Pensatore, "un ispirato portatore di lumi moderni e insieme di mistero, mostrante agli uomini, accompagnandoli nella loro marcia, uno scopo distante e puro" (P. Bénichou). L'età romantica in Francia non soltanto restituì alla corporazione pensante la funzione di guida spirituale della società che l'Illuminismo le aveva conferito in concorrenza con la vecchia chiesa; ma gliela restituì accresciuta del nuovo prestigio derivante dalla frequentazione delle regioni divine, della vita profonda del cosmo.

8. Come moralizzare il potere?

Ma è tempo di guardare più da vicino alle strutture teoriche del discorso politico dei lumi. Il problema centrale è quello del potere, del contenimento del potere. È questo a ogni modo il problema centrale di Montesquieu, il più famoso forse tra i pensatori politici dei lumi, ma non il più influente. La sua domanda è: come esorcizzare la natura demoniaca del potere ? È nota la risposta: per mettere l'individuo al riparo dagli abusi di potere non c'è altro modo che contrapporre potere a potere, moltiplicare i centri di potere, creando tutta una serie di delicati equilibri: "per evitare che si abusi del potere è necessario che, grazie alla disposizione delle cose, il potere fermi il potere". In altre parole: l'organizzazione costituzionale che impedisce gli abusi di potere a danno della libertà individuale non è quella che attribuisce una sfera di libertà al singolo limitando di conseguenza l'invadenza della legge (l'unico diritto di libertà del singolo consiste non nel "fare ciò che si vuole", ma nell'obbedire alla legge: "la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono"); è piuttosto quella che garantisce una relativa impotenza degli organi costituzionali. Una costituzione del genere [167] non è soltanto teoricamente possibile, ma si è anche storicamente realizzata: è la costituzione dell'Inghilterra, uno stato che "ha per fine la libertà". In esso il cittadino è liberato dalla paura di essere turbato nel pacifico godimento della vita e dei possessi a opera di altri cittadini: "La libertà politica per un cittadino è quella tranquillità di spirito che proviene dall'opinione della propria sicurezza; e perché si abbia tale sicurezza occorre che il governo sia tale che un cittadino non possa aver paura di un altro cittadino". In concreto, la libertà identificata con la sicurezza del cittadini "dipende principalmente dalla bontà delle leggi criminali".
Per mostrare come funziona una costituzione nella quale "il potere arresta il potere", Montesquieu è obbligato a individuare, a distinguere i poteri. Essi sono per lui sempre e soltanto tre: il potere legislativo, il potere esecutivo, il potere giudiziario. Per evitare gli abusi di potere e consentire la libertà occorre che la costituzione collochi i tre poteri presso organi separati. Dove uno solo di questi poteri è indipendente, lo stato è "moderato"; dove i tre poteri sono demandati a tre organi diversi lo stato è "libero"; dove sono concentrati e confusi in un solo corpo o in una sola persona esso è dispotico, la peggiore di tutte le forme politiche, se pure di forma si può parlare. Neppure basta che i tre poteri siano separati: occorre che l'organo depositario del più importante tra loro - il legislativo - sia frenato al suo interno da svariati contrappesi o interventi paralizzanti.
Di particolare interesse perché destinata a importanti sviluppi nella posteriore ideologia giuspolitica è la concezione del "tremendo" potere di giudicare, che Montesquieu voleva affidato non già a un corpo permanente di magistrati ma a giudici popolari e occasionali, ossia a non specialisti della legge. Di necessità fu costretto a insistere sull'esigenza di chiarezza e di certezza: "Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi debbono esserlo a tal punto da non essere mai altro che il testo preciso della legge". Se le leggi "fossero l'opinione personale di un giudice si vivrebbe nella società senza sapere con precisione quali impegni vi si contraggono". La libertà intesa come sicurezza psicologica dell'individuo si realizza attraverso la certezza del diritto (G. Tarello). Realista, Montesquieu si era limitato a fissare i limiti legali, entro i quali il cittadino può, se vuole, esercitare la propria libertà. È il massimo limite al quale può giungere per lui la moralizzazione della politica. Per lo stesso motivo - mettere i cittadini al sicuro dai grands coups d'autorité - egli esaltò all'estremo il commercio, il doux commerce, ossia la ricchezza mobiliare, [168] inafferrabile (A. O. Hirschman). L'essenziale era che la società civile venisse protetta dall'invadenza del potere politico. Di fronte al pericolo di una regolazione arbitraria di essa, Montesquieu opta per uno stato inefficiente, paralitico. L'idea che il fine dell'organizzazione politica fosse la positivizzazione e la tutela di ben precisati diritti naturali individuali e inviolabili, e che la loro violazione bastasse a illegittimare il potere; tanto meno quella di un controllo costituzionale diffuso di natura strettamente giurisdizionale mediante il ricorso al giudice da parte del soggetto leso, o che si crede leso, nei suoi diritti costituzionalmente garantiti (justiciabiIity) gli rimasero estranee. Queste idee, centrali nella costituzionalizzazione delle colonie inglesi d'America a partire dal 1776 (ossia nelle Dichiarazioni dei diritti e nelle Costituzioni che i tredici stati insorti contro il dominio inglese provvidero a darsi per assumere rispettabilità sul piano internazionale), derivavano piuttosto da Locke e dalle interpretazioni liberali delle teorizzazioni di William Blackstone (G. Tarello). L'influenza di Montesquieu si farà sentire nell'America inglese più tardi, nel 1787, quando si trattò di elaborare una costituzione federale. Pur adottando il sistema di checks and balances (controlli e equilibri) ossia la separazione dei poteri come schema di organizzazione del potere centrale, il problema dei costituenti americani sarà però quello di rimediare al rischio dell'inefficienza che il modello montesquiviano comportava (The Federalist, 1787-1788).
La diffidenza verso il potere statale nasceva in Montesquieu direttamente dal suo pessimismo circa le possibilità della ragione di controllare e moderare le passioni, in particolare il gusto di dominio, la sete di potere: tanto più inestinguibile in quanto assimilata da lui al piacere: "è un'esperienza eterna che ogni uomo che ha potere è portato ad abusarne, e si spinge fino a tanto che non incontra dei limiti. Chi lo direbbe? la virtù stessa ha bisogno di limiti". La convinzione di aver scoperto meccanismi naturali che assicurano, senza l'intervento della ragione, il miglior funzionamento della società rese alcuni pensatori dopo di lui più ottimisti. Bastava lasciar fare alla natura, che aveva pensato a tutto: "Tutto è calcolato, tutto è pesato, tutto è previsto - scrive Morelly - nel meraviglioso automa della società, i suoi ingranaggi, i suoi contrappesi, le sue molle, i suoi effetti; se vi si nota contrarietà di forze è vacillazione senza scosse o equilibrio senza violenza: tutto vi è spinto, tutto vi è portato verso un solo scopo comune" (Code de la nature, 1755). È il gioco stesso degli istinti, degli impulsi individuali alla felicità e al piacere, a ottenere così meravigliosi effetti: "Questa macchina, in una [169] parola, benché composta di parti intelligenti, opera in generale indipendentemente dalla loro ragione in molti casi particolari; le decisioni di questa guida sono predeterminate e la lasciano soltanto spettatrice di ciò che il sentimento produce".
Da tutti quanti la pensavano così - Morelly, Mably, Hèlvétius, d'Holbach - ci si potrebbe legittimamente aspettare che reclamassero una drastica riduzione dell'attività normativa dello stato per lasciar libero il campo alle "buone" forze naturali. Adottarono invece l'atteggiamento esattamente contrario. Tutti chiesero pesantissimi interventi legislativi volti a determinate i comportamenti degli uomini e costringerli ad adeguarsi alle leggi naturali, realizzando così la propria e l'altrui felicità nonché quella dell'intero corpo politico. Contraddizione, certo, dalla quale si tolsero almeno a parole con la teoria dell'illimitata plasticità dell'uomo. I meccanismi naturali, per effetto di questa modificabilità, erano stati deviati, l'uomo era stato corrotto: o per l'introduzione dell'"innaturale" principio di proprietà (Morelly, Mably) o per la repressione degli impulsi a opera della morale religiosa (Helvétius, d'Holbach). Occorre dunque riattivare in lui il potere della natura, rieducarlo. La legislazione diventa pedagogia sociale; governare, l'arte di formare l'uomo. Il pensiero dei materialisti Helvétius e d'Holbach raggiunge su questo punto il pensiero di Rousseau: il "legislatore" del Contrat social è appunto uno di cotesti grandi manipolatori di coscienze. Tanto più energico in quanto per l'artificialista Rousseau non si tratta di ripristinare dei meccanismi naturali momentaneamente inceppati, ma nientemeno di annientare la natura - "changer pour ainsi dire la nature humaine" -, di trasmutare in altre parole gli uomini, per natura solitari, in membri di un corpo politico: "di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto, in parte di un più grande tutto dal quale questo individuo riceva in qualche modo la sua vita e il suo essere; di alterare la costituzione dell'uomo per rafforzarla; di sostituire un'esistenza parziale e morale all'esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuto dalla natura" (Contrat Social, II, 7).
Il primo passo verso una seria riflessione politica è per Helvétius - il caposcuola degli utilitaristi (De l'esprit, 1758; De l'homme, 1773) - il riconoscimento che l'uomo è mosso soltanto dalle passioni. Non resta che servirsene, contrapponendo le une alle altre. L'unica motivazione delle azioni umane è "il sentimento dell'amore di sé": l'egoismo. È questa la "misura dell'azione degli uomini". Ed è su questa passione fondamentale, madre di tutte le altre, che bisogna cercare di far leva per far [170] funzionare bene la società. L'arte politica è l'arte di comporre gli interessi fra loro. Se questa composizione, questa armonizzazione non riesce si ha la corruzione politica, l'anarchia. Ma come assicurare questa convergenza? Per Helvétius è il compito della legislazione che assorbe in sé anche la morale. Assicurare la convergenza degli interessi equivale a rendere gli uomini virtuosi. Il legislatore deve scoprire "il mezzo di necessitare gli uomini alla probità, costringendo le passioni a dar frutti di virtù e di saggezza": deve cioè escogitare un sistema di pene e di ricompense che realizzi quella convergenza degli interessi individuali che assicuri la più grande felicità per il maggior numero. La politica si risolve dunque in legislazione, in una forte emissione di norme; il potere si riduce a quello necessario all'esecuzione delle leggi. Beccaria, nel suo trattato De' delitti e delle pene (1764) - l'opera maggiore dell'illuminismo lombardo - non la pensava molto diversamente. Da Helvétius prese le mosse Bentham per elaborare la sua teoria della identificazione artificiale degli interessi quale è espressa nei Principi della morale e della legislazione (1789). E da Helvétius tolse molti principi Gaetano Filangieri per la sua Scienza della legislazione (1780-1791). Sulla stessa linea di Helvétius si era mosso in Francia d'Holbach (Système de la nature, 1770; Politique naturelle, 1773; Système social, 1773). La novità di d'Holbach è che traduce in linguaggio utilitaristico le formulazioni proprie dei giusnaturalismo e giuscontrattualismo garantista: i vantaggi assicurati della società politica consistono nella tutela a opera della legge dei diritti individuali di libertà, proprietà e sicurezza. Ma in linea con Rousseau questi diritti o piuttosto vantaggi "non sono un prius rispetto alla legislazione, bensì il risultato della legislazione stessa" (G. Tarello). Dominata da cima a fondo dalla preoccupazione della felicità, l'ideologia della legge di Helvétius e di d'Holbach rivela un'alta potenzialità eversiva nella polemica contro gli ostacoli che le istituzioni esistenti e le mentalità dominanti oppongono alla realizzazione di quei fini.
Ma sono evidenti, a guardar bene, anche le sue potenzialità totalitarie: "la stessa idea di un sistema autonomo dal quale sia stato eliminato ogni male e ogni infelicità è totalitario" (J. L. Talmon). La supposizione che un tale sistema è realizzabile, e anzi inevitabile, "è un invito per un regime a proclamare che esso realizza questa perfezione, a esigere dai cittadini riconoscimento e sottomissione e a condannare l'opposizione come vizio o perversione". Chi se non un pazzo o un perverso potrà in effetti rifiutare un regime che realizza perfettamente l'ordine naturale?

9. L'economia contro la politica

[171] Di ordine naturale parlarono a sazietà gli "economisti" o, come loro piacque denominarsi dopo il 1767, i "fisiocratici". Ne fecero anzi la nozione centrale sia della loro concezione economica sia della loro concezione politica. E poiché come economisti mirarono a incrementare la produzione della ricchezza nello Stato, come politici ricercarono esclusivamente gli strumenti giuridico-istituzionali atti a favorire la produzione della ricchezza. Per ricchezza secondo natura essi intendevano i prodotti del suolo: i prodotti agricoli e quelli minerari; e per produzione di ricchezza, lo sfruttamento della terra, fatta già oggetto di appropriazione privata (proprietà, si badi, individuale e piena). Per analizzare la ricchezza prodotta nello Stato essi divisero la popolazione in classi a seconda della loro posizione nel processo produttivo: classe proprietaria, classe produttiva, classe sterile. Divisione "naturale", della quale si scorgono a prima vista le potenzialità eversive dell'assetto sociale e istituzionale d'ancien régime. La legislazione intesa a favorire la produzione della ricchezza dovrà infatti rimuovere gli ostacoli giuridici che impediscono l'instaurarsi di relazioni naturali tra queste classi. Più in generale il rapporto tra economia e politica viene rovesciato: il fine essenziale delle società politiche è la tutela dell'ordine proprietario. Il concetto stesso della politica viene praticamente soppresso attraverso la sua razionalizzazione assoluta. Mirabeau scrive: "gli uomini sono governati dalle cose". Proprio per non poter più usare i concetti di politica e di economia politica, Dupont de Nemours aveva creato il termine "fisiocrazia", governo della natura delle cose. Le leggi positive non sono per Quesnay, il fondatore della sètta, che "semplici commenti" delle leggi, naturali e primitive iscritte nell'ordine fisico del inondo: "senza questa base dell'ordine fisico non c'è niente di solido, tutto è confuso o arbitrario nell'ordine della società: da questa confusione sono derivate tutte le costituzioni irregolari e stravaganti dei governi". Le leggi naturali dell'ordine della società "sono le leggi fisiche stesse della riproduzione perpetua dei beni necessari al nutrimento, alla conservazione e alla comodità degli uomini". Ridurre l'ordine delle società politiche all'ordine fisico equivale a ridurle a un ordine assoluto, immutabile "dal quale non possiamo allontanarci senza nostro danno". La Cina, che già aveva tentato l'immaginazione dei philosophes (era governata da letterati; la religione confuciana era semplicemente una morale; un'aristocrazia del sangue vi era sconosciuta affatto) diviene ora, per opera di Quesnay (che si onora [172] del titolo di "Confucio d'Europa" che i suoi devoti gli attribuiscono) un mito, ma per altre ragioni: per l'incredibile durata di quell'impero che sembrava ignorare l'erosione del tempo e per la forma despotica del suo governo. Lo scritto Despotisme de la Chineè uno dei testi fondamentali del gruppo.
Fissare le linee di quest'ordine immutabile fu l'assunto grandioso di Le Mercier de la Rivière: L'ordre naturel et essentiel des sociétés politiques (1767). Diderot, che aveva divorato quel libro, ne parlava con ammirazione incondizionata: "È lui che ha scoperto il segreto, il segreto eterno e immutabile, della sicurezza, della durata, della felicità eterna degli imperi". A guarirlo da quell'infatuazione riuscirà appena due anni dopo Ferdinando Galiani con i suoi Dialogues sur le commerce des blés. Ma quel primo moto di entusiasmo resta; ed è pur sempre una spia della sua mentalità, delle sue attese.
I fisiocratici professarono non una ma due dottrine dell'armonia: furono per il laissez-faire e sostennero l'armonia degli interessi, cioè quella particolare concezione che afferma che l'interesse pubblico scaturisce dalla libera ricerca da parte di ciascuno del proprio particolare interesse. Su quale base fondarono le loro certezze? Essi rispondevano con bella sicurezza: l'evidenza. Quei princIpi avevano sempre guidato l'umanità, almeno da quando questa si era organizzata in società civile. Nelle società "nascenti", nelle società barbare infatti quell'ordine non viene rispettato. Ed è per questo che non riescono a progredire. Lasciamo perdere questa prima contraddizione. Più grave è l'altra: come mai questi princIpi, evidenti a tutti, restano sconosciuti ai politici? Perché costoro sono menti tortuose? Non è una risposta. Limitiamoci comunque a prendere atto senza discutere di queste postulazioni della sètta. Sono le conseguenze che essi ne traggono a interessarci di più. Il problema, il primo problema per i fisiocratici, sarà dunque come legar le mani ai politici. In altre parole, trovare la forma di governo che faccia governare le cose, non gli uomini. Sarà la democrazia? Neppure per sogno: "Ogni buon governo - sentenzia Mirabeau - consiste nel ridurre al minimo gli affari pubblici". E la democrazia "fa di ogni cosa un affare pubblico". Sarà la monarchia temperata alla Montesquieu e alla Mably ? Neppure. Quesnay era perentorio: il "sistema delle controforze" era un'"opinione funesta" (Maximes fondamentales du gouvernement économique d'un royaume agricole). Una macchina troppo complicata, difficile da montare e da far funzionare. L'ordine naturale non può manifestarsi se il governo non è una macchina semplice. Restava il despotismo. Ma quale? Quello arbitrario? Quesnay [173] descrive con i colori più foschi i danni provocati da questa forma di governo. Occorreva si il despotismo, ma quello "personale e legale": un sistema che legasse il principe con il vincolo dell'interesse agli interessi della nazione.
Perciò i fisiocratici lo vollero comproprietario delle ricchezze del regno; e poiché ancòra temevano che questo vincolo non fosse forte abbastanza, affidarono ai tribunali il controllo della sua opera legislativa affinché non si allontanasse dal "giusto" ordine delle cose. Nel caso che tale conformità non vi fosse stata i magistrati non avrebbero dovuto applicare le leggi prevaricanti (M. Einaudi). Non è tutto. Visto che il potere null'altro deve fare che conformarsi all'ordine razionale; visto che il dibattito politico è un potente fattore di disturbo al libero manifestarsi dei meccanismi naturali, la scelta del despota a garante e guardiano di un ordine naturale al quale gli uomini non sono ancora abbastanza affezionati ha la funzione d'impedire il risveglio della politica, sempre pronta a scatenarsi (P. Rosanvallon). Per questo stesso motivo, i fisiocratici caldeggiano un'istruzione pubblica, un'istruzione impartita dallo Stato: per fornire ai giovani le conoscenze tecniche necessarie a migliorare lo sfruttamento delle risorse naturali, per ben imprimere negli animi delle generazioni nuove i principi fondamentali della sètta. Una sorta di "medicazione intellettuale", diceva Tocqueville. Ma è pur sempre un fatto positivo che essi, con un vigore sconosciuto agli altri uomini dei lumi, ponessero in primo piano il problema educativo come problema fondamentale dello Stato (M. Albertone).
La separazione tra società giuridico-politica e nazione economica fondata sul sistema dei bisogni e regolata dal libero scambio sarà praticata con la maggiore chiarezza da Adam Smith (La ricchezza delle nazioni, 1776). Vero cemento della società è il legame economico che unisce gli uomini come produttori di merci per il mercato. La distinzione fondamentale non è più tra società naturale e società civile, ma quella tra società e governo. Alla nozione di contratto Smith ha sostituito quella di mercato: un mercato che coincide perciò con la società intera. Si può parlare, a proposito di Smith, di "mercato generalizzato" (P. Rosanvallon). Perciò egli non è soltanto un economista, ma anche un sociologo. Il mercato, che accorda mirabilmente interesse e giustizia, garantisce il dinamismo della società, il suo sviluppo. E questo perché lo scambio non è più concepito come un gioco a somma zero, ma come transazione vantaggiosa per entrambe le parti.
In questo modo, nel cuore stesso del pensiero dei lumi, la ricerca dell'ordine migliore della società civile - l'ordine che assicurasse il suo [174] illimitato sviluppo - ha messo capo al primato dell'economico. Indipendentemente dalle concrete manifestazioni di capitalismo, per risolvere soprattutto problemi di ordine politico, è nata l'ideologia economicistica (L. Dumont, A. O. Hirschman). Nella formazione di questa ideologia non va trascurato il contributo dato dalla scuola storica scozzese: Adam Ferguson (An Essay on the History of Civil Society, 1767); William Robertson (The History of Scotland, 1759; History of the Reign of the Emperor Charles V, 1769; History of America, 1777-1794); John Millar (Observations concerning the Distinction of Ranks, 1771; An Historical View of the English Govemment, 1787) nonché James Steuart, che era sì scozzese, ma avendo trascorso la vita in esilio di quel gruppo non si considera parte (Inquiry into the Principles of Political Economy, 1767). Tutti sono convinti della dipendenza del politico e del sociale dall'economico. Per Steuart, che legava strettamente le forme politiche al sistema di produzione, la monarchia era una forma superata proprio per il fatto che, costretta a promuovere commercio e industria per tener bassa la nobiltà, allentava i legami di dipendenza economica, e quindi di subordinazione politica, di quei gruppi. B. Mandeville (La favola delle api, 1714-1729) pensava ancora che la divisione sociale del lavoro, condizione indispensabile per aumentare la produttività, avesse bisogno di un grande organizzatore che distribuisse i compiti e controllasse l'insieme del processo: il re e il suo consiglio "devono aver l'occhio a tutto e tutto guidare". E lo stesso pensava ancora Ferguson nella sua History (1767). Smith ha rotto con questa tradizione: "La divisione del lavoro non deve essere considerata in origine come effetto di una saggezza umana che abbia previsto e che abbia avuto per fine l'opulenza generale che ne è il risultato; essa è la conseguenza necessaria, benché lenta e graduale, di una certa inclinazione naturale a tutti gli uomini, i quali non hanno in vista mire di utilità così larga: è l'inclinazione che li porta a trafficare a barattare, a scambiare una cosa per l'altra". È dunque la propensione allo scambio che produce la socializzazione, non il contrario.
Ma qual è dunque il compito del potere politico? Per i fisiocratici, lo sappiamo, essendo le leggi "belle e fatte" dalla natura, il governo deve "sparire" di fronte ad esse. L'autorità sovrana "non deve ledere (empiéter sur) l'ordine naturale della società" (Quesnay). Ma non doveva però, per il fondatore della scuola, restarsene inattivo. Come ogni buon giardiniere, senza toccare la scorza, doveva togliere il muschio che soffocava l'albero. Ma i suoi discepoli si dichiareranno per un laissez-faire assoluto, per "una concorrenza libera e immensa". L'amministrazione, per [175] Le Mercier, è cosa facile: basta "non vietare nulla"; e punire, beninteso, i malfattori, i violatori della proprietà. Turgot, alla vigilia del suo ministero (1774-1776), si dichiara egli pure rassegnato a "lasciar andare le cose proprio come vanno da sé, per opera dei soli interessi degli uomini animati ed equilibrati (balancés) dalla libera concorrenza". Come si sarebbe potuto, con l'aritmetica politica, controllare tutti i meccanismi di un'economia divenuta ormai troppo complessa? La posizione di Smith è più articolata di quanto si creda. Il dilemma per lui non è più dirigismo o libertà: intervenire o lasciar andare le cose per il loro verso. Lo Stato liberale non può restarsene inattivo, deve anzi dispiegare una grande attività. Deve costruire infatti un mercato perfetto. Deve difendere la società nazionale dall'aggressione esterna; deve proteggere ciascun membro della società dall'oppressione di qualunque altro membro; deve costruire tutte quelle opere e finanziare tutte quelle istituzioni che la mano privata non avrebbe nessun interesse a creare. La realizzazione di una società di mercato è inseparabile come si vede dallo Stato di diritto o comunque dall'uguaglianza di fronte alla legge; ed è inseparabile dalla creazione, oltreché di opere d'interesse pubblico che facilitino gli scambi (strade, ponti, canali ecc.), di scuole, e di scuole popolari, per lottare "contro il veleno del fanatismo e della superstizione", per creare uomini ragionevoli. L'uomo illuminato è il membro ideale, il migliore garante della società di mercato.

10. La tentazione dell'anarchia

La distinzione tra società e governo se spinta alle sue estreme conseguenze conduceva all'anarchismo. E furono proprio gli illuministi inglesi a compiere il passo decisivo: Tom Paine e William Godwin. Già nel Common sense (1776), questo straordinario opuscoletto che servì più di ogni altro a dare un largo contenuto umano alla lotta d'indipendenza delle colonie inglesi d'America, si leggevano frasi inquietanti: "la società e il governo non sono soltanto realtà differenti, essi hanno origini differenti". Infatti "La società è il prodotto dei nostri bisogni, il governo quello delle nostre debolezze". Il governo è nel migliore dei casi un male necessario; la società "è in tutti i casi una benedizione". Tra i migliori governi annoverava il repubblicano perché meno invadente, meno oppressivo; "più un governo si avvicina alla forma repubblicana, meno il sovrano ha qualcosa da fare". Il governo, come istanza [176] separata di regolazione del sociale, non ha più senso per Paine, visto che la società provvede benissimo a se stessa senza quella tutela. Ma è soprattutto nella seconda parte di I diritti dell'uomo, uscita nel 1792 con dedica a Lafayette, che Paine esprimeva con maggiore chiarezza il suo punto di vista. Il primo capitolo (Società e civiltà) è tutto una condanna dei governi: "La più gran parte dell'ordine che regna nell'umanità non è opera del governo". Il merito va alla società, alla "costituzione naturale" dell'uomo: "Esisteva prima di ogni governo e continuerà ad esistere anche se il governo formalmente sparisse". Il principio dello scambio basta a garantire la coesione della società: "La dipendenza mutua e l'interesse reciproco che gli uomini provano creano questa grande catena che unisce la società". Conclusione: "la società realizza da sé quasi tutto ciò che è attribuito al governo". La lotta per abbattere i vecchi governi fondati sulla violenza e sul terrore mira a sostituire ad essi un' "associazione generale". "A partire dal momento nel quale il governo formale è abolito, la società comincia a funzionare". Al posto del governo subentra un'associazione nazionale "funzionante sui principi della società". Paine, come si vede, "identifica la democrazia con la società di mercato" (P. Rosanvallon). La lotta politica per l'affermazione dei "diritti" dell'uomo mette capo al superamento della politica per realizzare finalmente il governo della legge naturale. La fine della politica è il principio della società armoniosa.
A rendere più netto, a liberare da ogni ambiguità il pensiero di Paine, provvede di lì a poco Godwin (Enquiry concerning political justice, 1793), che opta risolutamente per una società senza governo, ponendo a fondamento della sua costruzione teorica il principio della identità degli interessi. L'utilitarismo, come ha dimostrato Élie Halévy, ha pervaso a tal punto l'ambiente intellettuale inglese che esso può servire sia la causa democratica sia quella controrivoluzionaria. Godwin ne fa il fondamento della sua teoria anarchica, e polemizza in tutto il suo libro contro la teoria dei diritti dell'uomo. Riconoscere che l'uomo ha dei diritti equivale a supporlo capace d'ingiustizia. In realtà, gli uomini non possono che conformarsi alla "voce immutabile della natura e della ragione". Obbedendo alla ragione l'uomo non fa che obbedire a se stesso. È tale conformità che i governi politici, qualunque sia la forma dello Stato, non garantiscono; e perciò sono rifiutati come un male assoluto: "L'esercizio universale del giudizio privato è una dottrina talmente bella che i veri uomini politici proveranno certamente un infinito disgusto alla sola idea di ammetterne la possibilità". La polemica contro i governi [177] si estende naturalmente ai partiti e in genere alle associazioni politiche, che interferiscono intollerabilmente nell'esercizio del "giudizio privato", dividono le intelligenze, suscitano lo spirito di contesa e di disputa. Godwin avversa i giacobini per il loro autoritarismo; avversa i radicali perché vogliono abolire la politica ricorrendo alla lotta politica. Al funzionamento di una società giusta, che sarà una società "semplice", bastano la "sincerità positiva" e il "controllo pubblico", il controllo degli altri: "Il controllo di ciascuno sulla condotta dei suoi vicini costituirà una censura assolutamente irresistibile". L'uomo vivrà sotto lo sguardo di tutti. La legge positiva e il governo, in breve la politica, saranno sostituiti dal controllo occhiuto dell'opinione pubblica, dell' "occhio del giudizio pubblico". Ogni distinzione tra privato e pubblico cadrà. Gli uomini, divenuti trasparenti gli uni agli altri, trafitti dallo sguardo degli altri e trafiggenti gli altri con il loro sguardo, diverranno - diciamo noi - dei tormentati e dei tormentatori. Prospettiva, bisogna dire, che non doveva sorridere neppure a lui che, da quell'individualista che era, non amava la confusione e tanto meno la fusione con gli altri, "il contatto prolungato, la pesante pressione continua della massa umana" (J. Jaurès). L'uomo deve sì partecipare alla vita in comune, ma questa partecipazione dev'essere libera: all'individuo deve sempre essere concesso di ritirarsi quando vuole nella solitudine interiore. Godwin non voleva né pasti in comune, né, se era possibile, lavoro in comune. Lavorare con gli altri era una servitù intollerabile. Giudicava favorevolmente la meccanizzazione perché liberava, o poteva liberare, dalla necessità della cooperazione: perché prometteva, secondo lui, di ristabilire il lavoro individuale. E avversava la teoria roussoiana del contratto sociale, perché creava un legame oscuro, mistico delle volontà. Tutti gli individui devono certo partecipare alle deliberazioni della comunità, ma con la riserva che ciascuno possa o no aderire alla decisione comune. Se l'unanimità non si forma, la minoranza può sì piegarsi alla volontà della maggioranza, ma per prudenza, non per obbligo contrattuale.

11. Rousseau: società o solitudine

Solitudine, società: i poli stessi della riflessione di Rousseau. Aveva esordito nel 1750 denunziando, in un discorsetto accademico, lo stato infelice dell'umanità civilizzata. Il progresso scientifico e artistico avviato dal Rinascimento non si era tradotto in progresso dei rapporti umani. [178] C'era stato anzi deterioramento: le coscienze non comunicavano più tra loro; l'uomo, allontanatosi da se stesso, viveva in un mondo di finzioni, di apparenze. Protesta contro la civiltà che non aveva in sé niente di originale, ma che assumeva un grande significato in quel momento. Proprio quando i suoi amici philosophes si dichiaravano più ottimisti sulla possibilità di conciliare civiltà scientifico-tecnica, prosperità economica e progressi della coscienza, lumières, Rousseau metteva in dubbio quella possibilità. Si spiega perciò la larga risonanza europea di quel Discorso. Ormai la strada di Rousseau era tracciata: sarà un contestatore delle certezze dell'epoca e della società del suo tempo.
Di ben altra ampiezza è il secondo Discorso (Discours sur l'inégalité, 1755). Esso è un serio tentativo di approfondire quella sua prima presa di posizione, di diagnosticare con maggior precisione i mali dell'uomo moderno. Alla radice di tanta inguaribile infelicità c'era l'assoluta contrarietà dell'ordine sociale con la natura. Come si era prodotto, e quando, quel divorzio disastroso? Risalendo a ritroso il corso del tempo (ancora una filosofia della storia, ma a rovescio) Rousseau cercò di ritrovare l'uomo avanti la costituzione della società, quell'ipotetico uomo della natura che doveva servirgli a definire la natura dell'uomo. La scoperta di Rousseau è rivoluzionaria: la natura dell'uomo è la sua libertà, il potere di trascendere l'ordine della natura, di farsi, di costruire se stesso. In una parola, la sua "perfettibilità". Per effetto di questa libertà in sé (come la chiamerà Hegel), di questa libertà senza scopo, l'uomo non ha un destino, bensì una storia (R. Polin). La filosofia della storia costruita da Rousseau sarà una filosofia della contingenza, una filosofia della libertà dell'uomo che si fa uomo con tutti i rischi di disordine, di corruzione, d'infelicità che tale libertà comporta. La storia di questo processo di trasformazione sarà una storia congetturale nel senso di Kant, fedele continuatore di Rousseau: "una storia dello sviluppo della libertà a partire dalle disposizioni primitive inerenti alla natura dell'uomo" (Congetture sull'origine della storia, 1786).
Ripercorriamone, con l'aiuto di Raymond Polin, le tappe. Il primo stadio è lo stato di natura: è lo stadio della solitudine nell'abbondanza. L'uomo è semplicemente un animale al quale la terra offre tutto ciò di cui ha bisogno. Niente lavoro; niente riflessione. Nessuna idea dell'avvenire, nessuna curiosità, nessun timore. L'idea stessa della morte è sconosciuta. L'uomo, tutto pieno del sentimento della sua esistenza attuale, in rapporto immediato con la natura, è felice. Questa solitudine assoluta, non interrotta dagli incontri fortuiti e dai gesti dell'amore, sottolinea la [179] radicale insocievolezza dell'uomo naturale. L'uomo avrebbe perseverato eternamente in questo stato di perpetuo presente senza il "concorso fortuito di molte cause esterne". Ma l'intervento del "caso" non ha ancora una dimensione cosmica. Si tratta per ora soltanto di piccoli avvenimenti che turbano l'armonia uomo-natura. L'insorgere delle prime difficoltà mettono in moto le facoltà potenziali dell'uomo. L'uomo cessa d'essere un animale puramente passivo: comincia a prendere delle iniziative, a produrre i primi rudimenti, i primi artifici della cultura (il fuoco, l'arco, le frecce ecc.). Si formano in lui le prime idee semplici, le prime lumières. Egli scopre di avere dei simili e forma con loro le prime associazioni, ma associazioni libere, provvisorie, senza obblighi o impegni di sorta. La coesistenza con esseri dopotutto simili a sé, per quanto ancòra indipendenti gli uni dagli altri: questa è la grande invenzione della seconda età dell'uomo. La storia dell'uomo, della produzione dell'uomo da parte dell'uomo, è cominciata. Essa decolla nell'età successiva: la terza. È quella dell' "infanzia del mondo". Si produce la prima rivoluzione; una rivoluzione sociale: nascono le famiglie. La formazione di questi piccoli gruppi stabili, fondati sulla libertà e sui reciproci legami affettivi, favorisce la sedentarizzazione e incita a "una sorta di proprietà". La prima appropriazione è di un oggetto artificiale, fabbricato con fatica, dunque raro: la capanna. La pretesa all'uso esclusivo di questo bene provoca le prime liti, i primi conflitti. Ma la situazione resta ancora quella d'innocenza e di aiuto reciproco. La distinzione dei sessi comporta una qualche divisione dei còmpiti sociali. Non è ancora la disuguaglianza, ma ne è la matrice. Nascono i primi bisogni artificiali. Tuttavia gli uomini continuano a godere di libertà, sazietà, innocenza, solitudine, uguaglianza.
La tappa successiva - la quarta - è quella della "giovinezza del mondo". Questa volta entrano in scena, a precipitare il processo di socializzazione dell'uomo, le "rivoluzioni del globo": le grandi inondazioni, i terremoti. Il distacco di grandi porzioni dei continenti isola gruppi di famiglie, lì spinge a formare "nazioni particolari". Ma ancora l'uomo non lavora. Caccia e combattimenti vengono vissuti alla maniera di giochi; la fabbricazione che ciascuno fa delle proprie armi o dei propri utensili è più attività d'artista che lavoro vero e proprio. Questo stadio è quello al quale si sono fermati i "selvaggi" conosciuti dagli esploratori. È una condizione intermedia: "equidistante dalla stupidità dei bruti e dai lumi funesti dell'uomo civile", un juste milieu "tra l'indolenza dello stadio primitivo e la petulante attività dell'amor proprio". Gli uomini [180] vivono liberi, sani, buoni e felici quanto possono esserlo per loro natura". Un "commercio indipendente" li unisce tra loro senza sottometterli gli uni agli altri, rispettando la loro libertà e la loro solitudine. È a questo stadio di socievolezza festosa che va l'ammirazione di Rousseau, non allo stato di natura: non è un primitivista (G. Boas).
Questo stadio sarebbe durato in eterno ("il genere umano era fatto per rimanervi") se un "funeste hazard" non l'avesse costretto a inventare forme più strette di collaborazione, il lavoro in comune. Perché lavorare da soli non è ancora lavorare. Non si lavora, dirà Hegel, che sotto la costrizione di altri. Una collaborazione di questo tipo esige un'organizzazione, una divisione, una ripartizione dei còmpiti e una ripartizione d'autorità. La libertà e l'uguaglianza sono gravemente compromesse. La proprietà viene istituzionalizzata. Nasce il diritto. Il lavoro collettivo scatena un processo infernale: "scomparsa l'eguaglianza, venne introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario; e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti che dovettero essere innaffiate dal sudore degli uomini e nelle quali si videro presto la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con i raccolti". Tutto è derivato dall'invenzione della metallurgia e dell'agricoltura, e prima dell'una e poi dell'altra. Per questo Rousseau chiama quest'età età del ferro: perché fu la rivelazione, a séguito di qualche eruzione vulcanica, del "fatale segreto" della lavorazione del ferro che rese il lavoro, il "lavoro penoso", necessario. La necessità di assicurare il nutrimento agli operai costrinse in seguito il genere umano ad applicarsi alla coltivazione della terra: "sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e perduto il genere umano". Da questo momento tutte le servitù, tutte le miserie sono possibili. Il più orribile stato di guerra è infatti la conseguenza dell'accelerarsi del processo d'inégalité. Le passioni nate dall'amor proprio, la ricerca della considerazione e del prestigio, la gelosia soprattutto, divorano gli uomini alienati da se stessi: "il selvaggio vive in se stesso; l'uomo socievole sempre fuori di sé, non sa vivere che nell'opinione degli altri; è per così dire dal loro solo giudizio che trae la propria esistenza". Dominio e servitù sono ormai i modelli delle relazioni interumane. È lo stato descritto da Hobbes, ma con una differenza: lo stato di guerra è non già caratteristico dello stato naturale, ma di quello di "società nascente".
Con la settima età si entra ormai nei tempi storici. È l'età della formazione delle società per contratto e della loro dissoluzione. Il quadro che ne fa Rousseau è tutt'altro che consolante: ci fa assistere al [181] progressivo avvilimento dell'uomo. Immancabilmente, il potere legittimo, quello conferito per contratto di governo, si trasforma in autorità despotica e riporta l'umanità al punto di partenza: l'orribile stato di guerra. Non brilla agli occhi di Rousseau nessuna speranza di veder spezzarsi questo ciclo infernale di "corte e violente rivoluzioni" che finiscono sempre nel sangue? La storia metterà sempre capo al caos ? Non ci si può attendere che il potere umano di perfezionamento non sia esaurito e riesca ad inventare figure nuove di convivenza politica? In un suo zibaldone in effetti Rousseau formula la speranza che l' "arte perfezionata" possa "rimediare ai mali che l'arte esordiente ha fatto alla natura". Ma sarà Kant a sviluppare questi temi roussoiani; l'idea di un progresso razionale che restituisca agli uomini tutto ciò che una razionalità imperfetta ha fatto loro perdere, la prospettiva di una riconciliazione con la natura a opera di un avanzamento della cultura (J. Starobinski). Rousseau lasciò invece cadere quegli spunti; né li tradusse in imperativi di riforma o di azione politica. Il destino catastrofico delle grandi monarchie policées gli sembrava irreparabilmente segnato. Tutto quello che egli giudicò possibile fu impedire la corruzione delle piccole repubbliche; cercare rifugio, in margine al mondo, in piccole comunità virtuose di "anime belle"; educare un individuo in modo da renderlo capace di resistere al male. Saranno rispettivamente i temi delle grandi opere uscite tutte a breve distanza l'una dall'altra, tra il 1761 e il 1762: il Contrat social, la Nouvelle Héloïse, l'Émile.

Di una cosa Rousseau si dichiara sempre certissimo: per essere felici bisogna far a meno degli altri. Esorta M.me d'Houdetot a bastare a se stessa: "Raccoglietevi, cercate la solitudine: ecco il segreto" (Lettres morales, VI). La felicità è il premio di uno sforzo solitario. Anzi: la felicità nella solitudine è la sua forma più perfetta. Egli stesso vi aspira appassionatamente. E alla preservazione di questa essenziale solitudine cerca come può di orientare la sua politica. Se la libertà naturale implica la separazione dagli altri, l'indipendenza; la creazione di legami di dipendenza da altre persone implica la perdita di ogni autonomia, la degradazione dell'uomo. Ed è proprio quello che è storicamente accaduto. La fine della solitudine, l'istituzione di una vita sociale ha segnato la fine della libertà, dell'uguaglianza e in fondo della felicità. Ma non subito. Le "società nascenti" in quell'età felice che fu la giovinezza del mondo dimostrano che l'uomo può vivere in società continuando a essere libero. Soltanto quando la penuria indusse gli uomini a inventare il lavoro in [182] comune e la divisione sociale dei compiti, a istituire meccanismi di comando e di costrizione, la società divenne un inferno. Naturalmente solitario, l'uomo non è infatti insocievole. L'insocievolezza implica antagonismi, incompatibilità, rivalità, lotta di tutti contro tutti. Se non è socievole per natura, l'uomo possiede tuttavia la virtualità della vita associata: possiede la pietà e la capacità di un uso intelligente della libertà naturale nei confronti degli altri. La società in sé non è un male. È anzi un bene: essa sola permette all'uomo di sviluppare la propria ragione e la coscienza morale, di perfezionare se stesso. Cattive sono le forme nelle quali si è compiuta la sua socializzazione. Impossibile ritornare, a ogni modo, al punto di partenza, allo stato di natura. Su questo punto Rousseau è fermissimo: "La nature humaine ne retrograde pas". Ormai ci si deve muovere all'interno delle società storicamente date, immaginando se mai una forma di associazione politica diversa da quelle che l'umanità ha con tanto dolore sperimentato e tuttora sperimenta: quell'unica forma di società che permetta all'uomo di ritrovare, trasposte su un piano giuridico e morale, le condizioni di una nuova solitudine, intesa come indipendenza morale (R. Polin), Sulle possibilità concrete di istituire uno Stato del contratto egli è però pessimista. Non si possono dare leggi ai popoli corrotti o avviliti sotto la tirannide, e divenuti ormai incorreggibili. Soltanto uomini virtuosi possono godere della libertà civile. Perché "sono gli uomini che fanno lo Stato". Per fare un uomo dabbene non basta farne il cittadino di uno Stato le cui leggi siano buone (idea di Helvétius e, più tardi, di Hegel). Il Contrat social sarà perciò soltanto la definizione dei migliori rapporti possibili tra il cittadino e lo Stato, tali che siano conformi alla natura dell'uomo, alla sua libertà. Rousseau si limita a presentare la soluzione teorica del problema: "Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti altrettanto libero quanto era prima" (I, 6). A far passare quel modello nei fatti sarebbe stata necessaria l'opera rigeneratrice del "legislatore", personalità carismatica, che Rousseau invocava con tutta la forza del suo desiderio.
Al fondo del pensiero del Contrat è la convinzione che sola fonte di corruzione è la dipendenza dagli uomini. Un essere può restare libero solo nella solitudine o nel rapporto con altri esseri ugualmente liberi. La soluzione del Contrat è che "ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno". L'obbedienza all'intero corpo politico non è dello stesso genere dell'obbedienza a una persona. Tanto più che nella nuova forma [183] associativa, istitutiva di un impegno reciproco tra il cittadino e il "pubblico", contratta per così dire con se stesso. Se obbedisce in quanto membro dello Stato, ordina in quanto membro del Sovrano e per conseguenza è a se stesso che comanda ed è a se stesso che obbedisce. Non obbedisce ad un uomo: obbedisce alla legge.
Una volta ammessa la necessità di una vita in comune e di un'organizzazione politica, non si può negare che la soluzione di Rousseau almeno nelle intenzioni sia la più democratica che si possa immaginare, facendo di ciascuno nello Stato il sovrano di se stesso. Ma non la più liberale: ai singoli non viene offerta nessuna garanzia contro lo Stato, il problema stesso delle garanzie viene negato. E anche come democrazia lascia a desiderare: è una democrazia guidata (L. G. Crocker). La sovranità del popolo è, in realtà, la sovranità della ragione; la volontà generale, l'universale in atto. Agire contro l'interesse del corpo sociale definito dalla legge, atto della volontà generale, è contrastare alla ragione. Il deviante va punito: "bisogna costringerlo a essere libero". La sfera privata, sempre che sussista, è limitata alla ricerca personale della felicità. In questo modo i membri ideali della comunità saranno gli uomini in grado di conciliare in sé società e solitudine: compiere cioè le loro funzioni di cittadini e insieme realizzare le aspirazioni profonde del proprio essere.

Ma all'autore questo equilibrio fu negato. La sua passione assoluta per la giustizia e per la verità lo portò a isolarsi totalmente dal mondo. Alla battaglia degli intellettuali per cause che erano pur sempre le sue, anche se per lui non erano abbastanza radicali, finì per preferire l'indifferenza. "È tempo - scrive a Mirabeau nel 1767 - di esser saggio o almeno tranquillo". Meglio ritirarsi dal mondo e abbandonarlo alla sua follia. Un impegno tanto ardente contro l'ingiustizia e la menzogna finisce in una totale sfiducia. La sua stessa speculazione politica gli sembra ormai priva di senso: tempo sprecato. Si era posto un problema: "trovare una forma di governo che mettesse le leggi al di sopra degli uomini". Ora confessava ingenuamente di non aver trovato la soluzione e che anzi tale soluzione non si poteva trovare. Il proprio fallimento lo spingeva all'estremo opposto: bisognava mettere di colpo l'uomo al di sopra delle leggi più che si poteva. Il "despotismo legale" dei fisiocratici era una mezza misura: meglio, molto meglio il despotismo arbitrario, il più arbitrario che si potesse immaginare: "vorrei che il despota potesse essere dio". Uomo del tutto o nulla, non vedeva un compromesso sopportabile "tra la più austera democrazia e l'hobbismo più perfetto". Ma inutile ormai tormentarsi sui problemi politici. La saggezza sarà raggiungibile soltanto liberandosi totalmente dal mondo e dalla presenza degli altri, abbandonandosi senza riserve all'estasi naturale, al sentimento puro dell'esistere nel quale ogni pensiero è abolito (Réveries d'un promeneur solitaire). È la rinuncia non soltanto alla soluzione nel mondo e attraverso il mondo - la soluzione cercata dai phiIosophes - ma anche alla mediazione filosofica. La presenza al mondo di Rousseau si fa silenziosa, il suo sforzo di comprensione del mondo mette capo al nihilismo totale (G. Lapassade). A poco a poco entra nella follia, consacrando così definitivamente la propria unicità. La solitudine si è dimostrata insuperabile.
Qual è l'eredità politica di Rousseau ? Difficile dirlo. Si può scegliere: la concezione dello "Stato di diritto" (unico Stato legittimo è quello nel quale vi sono leggi); la concezione della legge come superatrice di ogni contrasto; la democrazia festosa della Lettre à D'Alembert; la città armoniosa del Contrat social; la politica come luogo di superamento della scissione, dell'infelicità dell'uomo moderno; e via specificando. Per noi egli resta l'uomo della domanda, della domanda inappagabile; non della risposta. Per questo lato della sua personalità, se vogliamo per il suo fallimento, egli è davvero rivoluzionario.
Allargando ancora lo sguardo si vede che l'eredità ideologica dei lumi è, dato lo spettro delle soluzioni proposte, larghissima. A quest'eredità s'ispirarono nell' ‘800 sia le scuole liberali sia i promotori di una società industriale e tecnocratica (Saint-Simon, Comte) sia gli oppositori di quella società (Marx, gli anarchici). A noi qui basta chiederci: quanti dei miti d'oggi non possono vantare un'ascendenza settecentesca? Dall'idea dell'estinzione del politico e della città armoniosa unificata trasparente della cultura politica marxista all'altra, opposta, di riduzione di tutte le dimensioni della vita alla politica: l' "illusione politica" come dice J. Ellul. Non sarà necessario, per avviare una critica seria del presente, rivisitare i primi inventori di quei miti?


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[*] Pubblicato originariamente in Storia d'Italia e d'Europa, comunità e popoli, a cura di Massimo Guidetti, vol. V: J. R. Armogathe, P. Biscottini, G. Dellacasa, M. Guidetti, G. Livet, A. Perez de La borda, P. P. Poggio, P. Repetto, S. Rotta, A. Troschel, Dall'Ancien régime all'età napoleonica, Milano, Jaca Book, 1981, pp. 127-185. La paginazione dell'edizione originale è riportata tra parentesi quadre e in grassetto.