1. Geografia e cronologia del movimento
illuminista
2. Lo sviluppo europeo del movimento dei
lumi
3. L'espansione dei Lumi fuori Europa
4. La Francia e i suoi grandi protagonisti
5. Si impone una nuova figura: il philosophe
6. L'immagine del progresso e il senso della
storia
7. La ragione e la politica
8. Come moralizzare il potere?
9. L'economia contro la politica
10. La tentazione dell'anarchia
11. Rousseau: società o solitudine
[127] È d'uso corrente parlare di siècle des
lumières, di secolo dei lumi, di secolo dell'Aufklärung;
e identificare senz'altro questo secolo con il diciottesimo. Gli storici
non hanno fatto in questo che conformarsi all'uso del tempo. Il secolo
XVIII è il primo nella storia del mondo a nominare se stesso, ad
attribuirsi un posto privilegiato nel corso temporale del mondo, ad assegnarsi
una missione.
In breve: il Settecento valorizzò all'estremo se stesso come momento
della irruzione della "luce", come momento della presa di coscienza da
parte dell'uomo del senso della propria avventura sulla terra e della
sua assunzione di responsabilità nella realizzazione del piano
della storia. Poco importa se si trattava soltanto di accelerare - è
questa l'opinione di Condorcet - un processo ormai inevitabile e incontrastabile.
Ma tale periodizzazione, a guardar bene, non soddisfa. Quando cominciano
in effetti i lumi, quando cioè si registrano non già le
prime manifestazioni della nuova mentalità, della nuova cultura,
ma quando quest'ultima si organizza in un discorso coerente e soprattutto
quando diventa la cultura dominante del secolo ? E fino a quando lo rimane
? Perché, va da sé, l'illuminismo non è che un aspetto,
sia pure per un determinato periodo il più saliente, della vita
intellettuale di un secolo straordinariamente ricco e creativo. Molti
settori della società e della cultura dell'epoca gli restano estranei,
quando addirittura non si mettono in aperto contrasto con esso. La dittatura
della ragione suscita, inevitabilmente, movimenti di resistenza o di reazione.
La "lotta contro la ragion" [128] e può esplodere
a volte in forme violente. Si pensi soltanto allo Sturm und Drang
(1770). Assumere come data di partenza certi eventi della storia politica
è rischioso. J. M. Goulemot e M. Launay, per esempio, sono categorici:
il secolo dei lumi comincia nel 1688 con la "gloriosa rivoluzione" che
crea in Inghilterra un clima liberale, premessa all'affermazione dei lumi,
e si chiude con la rivoluzione francese. A parte il fatto che un clima
liberale non si creò mai in Francia, il paese dove il movimento
filosofico-politico dei lumi divenne più impetuoso, è corretto
delimitare cronologicamente una corrente d'idee con due avvenimenti politici,
accaduti per giunta in due paesi diversi ? Il 1688 non rappresenta gran
cosa per la Francia e il 1789 non è in Inghilterra un evento traumatico
come in Francia. Né più soddisfacente è prendere
come data di partenza il 1715, l'anno di morte di Luigi XIV. Se per la
Francia, per la Spagna, per l'Italia questa data segna importanti cambiamenti
nell'ordine politico, altrettanto non si può dire per l'Inghilterra,
dove la morte della regina Anna (1714) e il passaggio della corona sul
capo degli Hannover sono accadimenti molto meno eccitanti. Certo, le migliorate
relazioni tra Francia e Inghilterra facilitano gli scambi intellettuali
tra i due paesi; e più dall'Inghilterra verso la Francia che in
senso contrario. Ma bisogna subito aggiungere che già da trent'anni
la propaganda degli ugonotti del Refuge andava versando nella cultura
francese una massa ingente d'informazioni sul paese vicino; e che quindi
il 1715 non rappresenta, neppure da questo punto di vista, una svolta.
Ma soprattutto il 1715 non significa nulla né dal punto di vista
politico né da quello di storia della cultura per i paesi dell'Europa
centrale, orientale e sudorientale. Fa eccezione, nell'Europa settentrionale,
la Svezia, dove la conclusione tragica della grande avventura di Carlo
XII dà il via di lì a poco, nel 1720, a un interessante
esperimento di governo parlamentare. Ma il tempo della libertà
(Frihetstid), destinato a durare fino alla restaurazione dell'autorità
monarchica a opera di Gustavo III nel 1772, non è accompagnato
da un dibattito filosofico-politico di particolare ampiezza e di rilevanza
europea. I lumi entreranno sì in Svezia ma ad opera degli ambienti
di corte e in particolare del "despota" Gustavo.
Il tentativo di circoscrivere un movimento culturale in un determinato
intervallo di tempo, lo stesso per tutti i paesi, assumendo per giunta
come date estreme quelle della storia politica, ha i suoi inconvenienti.
Se è vero infatti che l'illuminismo è la prima corrente
d'idee a carattere paneuropeo, i suoi tempi di diffusione sono diversi
da paese a paese; e possono anche, in certi casi, travalicare la data
fatale dei [129] 1789. La scoperta dei lumi europei, l'adozione
entusiastica del modello dell'Europa illuminata da parte degli intellettuali
romeni (e dei boiari) dei principati di Moldavia e di Valacchia e di quelli
del grande principato di Transilvania (più direttamente influenzato
dal giuseppismo) avviene nell'ultimo quarto del secolo (I. Lungu, A. Marino).
La volontà d'integrarsi all'Occidente, e di avanzare risolutamente
sulla sua strada riguadagnando il tempo perduto, cresce e si fa febbrile
nei primi decenni dei nuovo secolo, fino - si può dire - al 1848.
Il "vento del secolo", dissipatore delle nebbie del passato - per usare
l'immagine di uno di questi intellettuali, Constantin Conachi - cominciò
dunque a soffiare tardi nei paesi romeni; ma continuò a soffiare
quando in Occidente aveva cessato da un pezzo. Nessun dubbio sul carattere
illuministico del movimento: le idee-forza sono le stesse dei lumi occidentali
di molti decenni prima (educazione popolare, promozione della scienza
e della conoscenza in generale etc.) iscritti però in un contesto
accesamente "patriottico" tipico dei lumi orientali (Grecia, Polonia).
Se non si limita la geografia dell'illuminismo ai soli tre paesi (Francia,
Inghilterra, Germania) nei quali quel plesso di idee, atteggiamenti morali
e politici primamente cristallizzò; se si cerca d'inglobare, com'è
doveroso, nello spazio dei lumi i paesi dell'est e del sud-est europeo
(per non parlare del mondo coloniale) i décalages, le sfasature
saltano agli occhi. Né c'è da stupirsene, dato il diverso
livello di sviluppo al quale quei paesi si trovavano. Non può esservi
illuminismo infatti se non là dove esiste una numerosa classe intellettuale,
forte e cosciente della propria forza. Come vedremo, l'illuminismo è
per l'essenziale l'espressione ideologica di questa volontà di
affermazione.
Vanamente si è cercato di accorciare le distanze tra le due grandi
aree culturali europee - l'occidentale e l'orientale - facendo un uso
generoso della nozione di Frühaufklärung, di illuminismo
- come dire - aurorale. Utilizzando questa discutibile categoria storiografica,
Eduard Winter ha scoperto manifestazioni illuministiche nell'Austria della
fine del secolo XVII; e altre, più consistenti, nel secondo decennio
del XVIII. Altri hanno presentato come precorrimenti dei lumi certe iniziative
di Pietro il Grande o i progetti di riforma accarezzati dal polacco Andreas
Zaluski (L. Kurdibacha). Altri ancora, non trovando materia più
solida da mordere, hanno interrogato le letture fatte da qualche membro
dell'aristocrazia: indizi anch'esse del formarsi di un nuovo orientamento
intellettuale. Franz Rakoszi e il suo segretario, Klement Mikes, hanno
così potuto essere salutati come inauguratori dei lumi in Transilvania
[130] (B. Zolnay). Esagerazioni, senza dubbio; che valgono tutt'al
più a mostrare una qualche omogeneità di fondo dello spazio
mentale europeo (R. Munteanu). E' evidente il punto debole di queste volonterose
ricerche: si scambiano per illuminismo manifestazioni isolate di non conformismo
d'indipendenza intellettuale, rimaste e talvolta destinate a rimanere,
in quanto riflessioni private, senza eco. Mentre é essenziale dell'illuminismo
la volontà di proselitismo, l'appello all'opinione pubblica. Tutto
sommato, è preferibile continuare a servirsi, per designare l'epoca
che va pressappoco dal 1680 al 1715, del concetto di "crisi della coscienza
europea" usato circa mezzo secolo fa da Paul Hazard. E' in quegli anni
inquieti, travagliati, avventurosi che avvengono, dove avvengono, le grandi
trasformazioni psicologiche che sono la premessa indispensabile al maturare
della coscienza illuministica. Il passaggio da un secolo che amava sopra
ogni altra cosa l'ordine, la gerarchia, la disciplina, i dogmi che regolano
fermamente la vita, al secolo che detestava costrizioni, autorità,
dogmi appare assai meno brusco. L'importante è che quella enorme
fermentazione di fine secolo conservi un suo proprio, autonomo valore;
che ogni teleologismo venga tenuto lontano. Tutto il contrario di quel
che fanno coloro che negli atteggiamenti e nelle speculazioni di un Leibniz,
di uno Spinoza, di un Bayle, di un Fénelon vanno cercando soltanto
i presagi, i precorrimenti dei lumi.
A studiare la storia interna dei lumi si è costretti a prendere
atto dello sviluppo ineguale che il movimento ebbe nelle diverse culture
nazionali e del fatto che esso non coprì in nessuno dei paesi nei
quali si manifestò (e furono, prima o poi, tutti i paesi d'Europa
e qualcuno fuori d'Europa) l'intero arco del secolo. Dovunque il movimento
illuministico non durò mai più di qualche decennio (R. Munteanu).
Anche in Francia, il foyer stesso del movimento, il tempo forte
delle lumières, gli anni nei quali la filosofia prese orgogliosamente
su di sé il compito di rifare il mondo, non oltrepassò il
quarto di secolo. Tra il 1770 e il 1776 il parti philosophique,
costretto a misurarsi con una crisi di proporzioni mai viste che scosse
in profondo l'intera società e civiltà europee, perdette
la fiducia in se stesso, il suo slancio, si divise intimamente, ripiegò
(F. Diaz, F. Venturi). Nei leaders stessi s'insinuò il dubbio
sugli obiettivi maggiori della lotta. Diderot, da promotore della civiltà
scientifico-tecnica [131] che era stato quale direttore dell'Encyclopédie,
ne diventò avversario. L'industrie dell'uomo - annotava
nel 1774 - era forse andata troppo oltre: bisognava mettere un termine
al processo di civilisation, ritardare i progressi del figlio di
Prometeo, fissandolo in uno stato mediano, " mezzo civile, mezzo selvaggio".
A conti fatti, Rousseau - il fratello-nemico - non aveva avuto torto a
dubitare che il "nostro meraviglioso stato politico" assicurasse la felicità
dei suoi membri. Colui che aveva fatto della lotta contro la natura il
principio stesso della società, ora, messo di fronte agli orrori
del lavoro industriale, si rammaricava che l'uomo in questa lotta avesse
voluto non vincere, ma stravincere. E cercava tra cultura e natura una
mediazione difficile se non impossibile.
Le delimitazioni spaziali comportano dunque precise delimitazioni temporali.
Datare all'interno di ciascuna cultura nazionale l'inizio del movimento
illuministico non è poi così difficile, dato che l'adozione
della nuova mentalità è sempre l'atto di una scelta cosciente
e si accompagna a un forte impegno politico. Non si diventa illuministi
per impregnazione, per contagio, per vaghe affinità emotive: l'illuminista
è un intellettuale che ha fatto una netta scelta di campo e si
adopera a far trionfare il programma del gruppo. Gli obiettivi immediati
di questa lotta mutano via via con il passare degli anni e il variare
delle situazioni. Ma il suo contenuto resta lo stesso: creare spazi sempre
più grandi di libertà per l'individuo. La rivendicazione
del diritto di ciascuno di opinare liberamente e di esercitare la critica
va unita alla richiesta di rispetto, di "tolleranza", verso le manifestazioni
di dissenso; quella di libertà nell'operare economico alla battaglia
per l'abolizione dei vincoli inceppanti l'esercizio di questa libertà.
Non tutto l'illuminismo, s'intende, può raccogliersi sotto l'insegna
del liberalismo, dell'individualismo, dei pluralismo. Accanto all'esigenza
di libertà serpeggia, specialmente nelle Lumières
francesi, quella, altrettanto forte, dell'uguaglianza: uguaglianza di
fronte alla legge (l'unificazione del soggetto del diritto sarà
uno dei contributi fondamentali dell'illuminismo alla cultura giuridica,
l'idea direttrice delle codificazioni moderne); uguaglianza tra i soggetti
degli scambi; uguaglianza infine, ma più raramente, nelle condizioni;
e un'aspirazione, anch'essa abbastanza viva, alla fraternità tra
gli uomini, a una società fusionale, unanime, omogenea: aspirazione,
quest'ultima, che si ritrova all'origine di alcuni progetti "democratici",
in genere a connotazione totalitaria, dell'epoca (Morelly, Rousseau).
In tutti i casi, si tratta di un'opzione per la felicità - una
delle parole chiave del lessico dei lumi - sulla terra contro le promesse
di felicità in un altro mondo. [132] Religione dell'uomo,
l'illuminismo muove guerra alle religioni storiche: mistificazioni interessate
delle caste sacerdotali, narcotici.
A misura che crescono gli adepti dei lumi o i governi adottano misure
in armonia con i loro desideri il paese, il secolo "s'illuminano". Il
governo spagnolo adotta nel 1768 certe misure che riducono il potere dell'inquisizione
ed espelle i gesuiti ? Per Voltaire non vi sono dubbi: "un nouveau siècle
se forme chez les Ibériens". La grande metafora della luce, di
origine religiosa, allude ormai a contenuti profani, ben presto antireligiosi.
Il vocabolario dell'epoca identifica sempre più "luce" con conoscenza,
intelligenza, perspicacia, finalmente con le "belles connaissances de
l'esprit", con la ragione, facoltà insieme critica e costruttiva.
In altre parole: la "luce" è il passaggio dell'umanità dalla
barbarie alla civiltà, dalla cattività alla libertà.
L'epopea di questo passaggio, della lunga marcia di avvicinamento della
specie umana alla perfezione assoluta, è narrata con la dovuta
commozione da Condorcet nel Tableau historique des progrès de
l'esprit humain (1794): "Tutto ci dice che siamo vicini all'epoca
di una delle grandi rivoluzioni della specie umana ... Lo stato attuale
dei lumi ci garantisce che essa sarà felice".
Sono evidenti i postulati culturali sui quali si fondano la grande speranza
degli illuministi e il loro progetto d'intervento nella storia. Il primo
postulato concerne la natura stessa dell'uomo. Buffon lo aveva enunciato
con molta chiarezza nella Histoire naturelle de l'homme (1749).
La riflessione, il linguaggio, la facoltà d'inventare e di perfezionare
aprono una "distanza infinita" tra l'uomo e le altre specie animali. L'uomo
è, in altri termini, il solo essere vivente che elabora, trasmette,
riceve cultura; è la sola tra le specie animali che può
costituire l'oggetto di un'educazione della specie, di un'acculturazione.
Il secondo postulato è di ordine storico. La filosofia illuministica
oppone - lo sappiamo - i lumi all'oscurità dei secoli anteriori,
la conoscenza all'ignoranza, la civiltà alla barbarie. L'essenza
culturale dell'uomo si attualizza soltanto nel corso di uno sviluppo che
giunge a maturità appunto nel secolo dei lumi. Kant esprime con
la solita chiarezza il postulato dei philosophes: " L'illuminismo
è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità" (Was ist
Aufklärung, 1784). Gli uomini sono diventati, o si avviano a
diventare, storicamente adulti, uomini compiuti.
Dai primi due deriva il terzo postulato: la fiducia nell'efficacia della
pedagogia. La liberazione dell'uomo, l'attuazione delle sue virtualità
presuppone la sua uscita dall'infanzia, dagli erramenti dell'infanzia
individuale e storica, e la sostituzione dei sapere all'ignoranza. Monumento
[133] di questo ottimismo pedagogico: l'Encyclopédie.
Non a torto Voltaire chiamava D'Alembert e Diderot "ministri dell'istruzione
del genere umano". Per dir tutto in una frase: i philosophes proclamano
la maturità della storia e la loro propria maturità a guidare
l'uomo verso la perfetta realizzazione di se stesso. La missione dei dotti
è in tal modo fondata; e giustificata la loro autopromozione a
elementi di punta del processo storico. L'unico a contestare radicalmente
questi articoli di fede dei membri dell'intelligencija è
stato Rousseau, che manifestò una totale sfiducia nel potere delle
idee a cambiare la storia e rifiutò agli intellettuali - questi
corruttori - qualunque ruolo positivo nella società. Per queste
sue negazioni Rousseau è un anti-illuminista (G. Lapassade).
Movimento filosofico-politico, l'illuminismo acquista dunque nei diversi
contesti nazionali una valenza politica diversa. Né va dimenticata
la posizione sociale del soggetto che proferisce il discorso illuministico.
In Francia, i lumi sono una filosofia di contestazione, di protesta, di
rivolta, ricca a ogni modo di una carica dirompente nei confronti dell'ordine
stabilito. I suoi rappresentanti più in vista non sono uomini di
potere. Nei grandi stati emergenti dell'Europa dell'est - Prussia e Russia
- nell'Austria stessa i lumi sono un movimento intellettuale che collabora
efficacemente con l'autorità alla realizzazione dei suoi obiettivi
di modernizzazione, di efficienza, di potenza. I suoi maggiori esponenti
sono o gli stessi sovrani (Federico II e Caterina II ) o i loro collaboratori
più stretti. Esso appare dunque l'ideologia operativa dei detentori
dei potere politico o degli alti funzionari applicati a riformare o a
meglio organizzare le strutture dello stato assolutistico e accentratore.
I "lumi" e la "ragione" s'identificano in questi paesi con le ragioni
dell'assolutismo; e lungi dal contestare il potere si adoperano a incrementarlo,
a rafforzarlo (G. Tarello). La razionalizzazione del diritto non significa
come in Francia creazione di un nuovo ordinamento giuridico conforme al
dettato della ragione ma, giusta la tradizione leibniziana e wolffiana,
riorganizzazione formale nel senso di una maggiore chiarezza dell'ordinamento
esistente. L'espressione più illustre di questa tendenza è
il codice prussiano (Allgemeines Landrecht) entrato in vigore nel
1794.
In Spagna e in Italia i lumi sono l'espressione di un gruppo di uomini
i quali, convinti del ritardo storico dei rispettivi paesi, si mettono
seriamente alla ricerca dei rimedi appropriati, meditando sugli insegnamenti
delle società più avanzate. Tipico rappresentante di questa
tendenza è, a partire dal 1753, Antonio Genovesi . Un decennio
più tardi, il [134] gruppo lombardo del "Caffè" (1764-1766)
- Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo e gli altri
- metterà anch'esso tutto il suo studio a promuovere in Italia
"la trasposizione di quel bene che dalle forestiere nazioni si potrebbe
ricavare". In Spagna la manifestazione più tipica della i1ustraci6n
fu la creazione di una fitta rete di Societades de Amigos del Pais,
di società economiche, che grazie all'energia del primo fiscale
del Consiglio di Castiglia, Pedro Rodriguez de Campomanes, ricopri a partire
dal 1775 tutto il paese. E prima di lui il padre benedettino Benito Feijóo
aveva dato l'esempio, procedendo quietamente dal suo convento di Oviedo
alla demolizione, con le armi apprestategli dalla nuova scienza europea,
di un'infinità di pregiudizi popolari (Teatro critico, 1726-1739;
Cartas eruditas, 1742-1760). Se in Spagna la dinastia borbonica,
soprattutto con Carlo III (1759-1788), favorì la formazione di
un'opinione illuminata in appoggio alla sua politica di riforme, nulla
di simile si ebbe in Portogallo, dove la dura volontà del marchese
di Pombal poco spazio lasciò ai riformatori, tranne che nel campo
dell'istruzione che egli volle laica, libera dall'influenza della chiesa.
Se certi atti della politica di Pombal, come la cacciata dei gesuiti nel
1759, diedero al Portogallo per qualche momento l'apparenza di paese d'avanguardia,
si trattò di un equivoco, artificialmente alimentato dai philosophes,
che però sulla persona del ministro non si facevano illusioni.
Nessuno in effetti nel suo secolo fu più lontano di lui dal nuovo
stile di governo, nessuno più indifferente a un'alleanza con la
filosofia, nessuno più illiberale.
In Polonia, paese minacciato, il problema della libertà fece tutt'uno
con quello della difesa dell'integrità e dell'identità nazionali:
l'illuminismo si tinse sempre più di patriottismo. L'eroe polacco
dei lumi sarà Tadeusz Kosciuszko, l'animatore nel 1794 della resistenza
antirussa. Ma verso il risveglio del sentimento nazionale polacco gli
illuministi francesi, troppo corrivi a prendere per buone le intenzioni
dichiarate dagli "illuminati" spartitori e per partito preso anticattolico,
non mostrarono che indifferenza o incomprensione. Il tema patriottico
lanciato nel 1754 dall'abate Coyer non fu raccolto che da Rousseau, un
pensatore in aperta rottura con le coteries parigine. Voltaire
escludeva l'idea di patria dal numero delle idee illuminate. Sicché
nulla fecero per sostenere gli sforzi compiuti da Stanislao Augusto Poniatowski
per sottrarsi alle brutali ingerenze dei potenti vicini. Non a torto costui
si sentì tradito nella sua fede illuministica (J. Fabre, F. Diaz).
Sul modo di riformare quell'infelice stato non lesinarono - è vero
- i consigli: tra il ‘70 e il ‘72 il fisiocratico [135]
Baudeau, Mably, Rousseau si occuparono del caso. Ma molto più utile
riuscì al re-filosofo lo scritto composto anni prima, nel 1749,
da Stanislao Leszczynski, che della Polonia era stato re due volte, nel
1704 e nel 1733, prima di diventare duca di Lorena e modello di principotto
illuminato: La voix libre du citoyen. Non per nulla aveva tentato
una felice combinazione delle esigenze della ragione con quelle del cristianesimo
e proprio per questo l'opera aveva ottenuto in Polonia un successo grandissimo
(Rostworowski).
Nel Regno Unito, esauritasi verso il 1730 la grande ondata deistica, un
movimento illuministico vero e proprio non si produsse. Il secolo XVIII,
fino alla crisi americana, fu in Inghilterra, dice Viner, "l'età
dell'autocompiacimento sociale, politico, economico e morale; della soddisfazione
dello status quo, almeno dentro i limiti della convinzione che i costi
di un mutamento sostanziale avrebbero ecceduto i benefici connessi all'abolizione
ovvero all'attenuazione dei mali allora prevalenti". Sino alla fine del
secolo, fino cioè a Bentham e ai "Radical Reformers", non vi fu
una figura importante che caldeggiasse sia pure con moderazione la necessità
di grandi riforme politiche. Ammettiamolo pure. Ma a patto di riconoscere
che tra le ragioni dell'assenza in Inghilterra di un movimento di contestazione
sociale organizzato e ideologicamente agguerrito quale fu in Francia il
parti philosophique c'erano i caratteri particolari della
vita politica inglese: lotta dura, difesa a viso scoperto di interessi
oligarchici, contrasto tra i gruppi di potere su questioni precise di
natura pratica. Importanti certo, perché la tutela della sicurezza
delle persone (safety) e degli averi (property) sono cose
serissime. Ma senza messianismi, senza aspettarsi troppo dall'esito di
quelle lotte. Non certo la rigenerazione dell'uomo. Si pensi per contrasto
a Rousseau: "J'avais vu que tout tenait radicalement à la politique"
(Confessions, IX). Tutto: cioè la felicità stessa
dell'uomo.
L'Inghilterra del Settecento impiega le sue migliori energie intellettuali
per rifiutare ogni unione di politica e religione, di questioni pratiche
e di questioni ultime. Si pensi a Shaftesbury e alla sua Lettera sull'entusiasmo
(1709). Si pensi a Locke. La giurisdizione dei magistrati "non deve né
può provvedere alla salvezza delle anime". L'autorità politica
deve limitarsi a tutelare quei "bona civilia" per la conservazione e promozione
dei quali lo stato è stato istituito dagli uomini (Epistola
de tolerantia, 1689). Lo stesso deismo e la ricerca di un cristianesimo
secondo ragione rientrano perfettamente, a guardar bene, in un progetto
inteso a ridurre le potenzialità eversive di un individualismo
religioso incontrollabile. L'anglicanesimo ufficiale ben [136]
lungi dal contrastare queste tendenze, le aveva fatte proprie. Si mostrava
anzi pronto a far causa comune contro ogni risorgenza di mentalità
l'ostilità duratura verso il "risveglio" promosso con successo
da John Wesley nel mondo inglese e in quello americano.
Per farla breve: in Inghilterra, società pluralistica (partiti,
stampa politica, libera opinione religiosa), la conflittualità
politica raggiunse nel ‘700 un massimo di estensione (tutte le scelte,
tutte le soluzioni erano teoricamente possibili) e un minimo d'intensità.
A volte una grande intensità, ma limitata. Gli intellettuali intervenivano
sì nella lotta, ma come tecnici, come esperti o semplicemente come
abili argomentatori a sostegno di questa o quella ben definita soluzione
delle difficoltà del momento. Ormai l'intellettuale era divenuto,
nel regime dell'opinione pubblica, un alleato indispensabile per vincere
la corsa al potere o per mantenersi in esso. Il rovescio del riconosciuto
potere sociale dell'intellettuale come opinion leader era - si
sa - il clientelismo, l'esistenza di un rapporto di dipendenza dello scrittore
da un membro influente dell'élite o meglio dell'oligarchia
al potere. Raramente accadeva, ma era accaduto, che gli intellettuali
venissero chiamati ad assumere dirette responsabilità di governo:
Addison era divenuto segretario di stato; Newton, direttore della Zecca;
Prior, plenipotenziario a Parigi.
Voltaire non nascondeva la sua invidia nei confronti di quei colleghi
più fortunati; e salutava l'ingresso degli hommes de lettres
nella vita pubblica come un fenomeno tra i più promettenti di quella
società che egli trovava per tanti altri aspetti ammirevole (Lettres
philosophiques, 1734). L'importante a ogni modo è, dal nostro
punto di vista, che le condizioni stesse nelle quali si svolgeva in Inghilterra
la lotta per il potere evitavano il suo camuffamento in uno scontro tra
valori supremi, o piuttosto tra valori e disvalori; e di conseguenza la
polarizzazione del campo ideologico. In altre parole, che la lotta politica
assumesse le caratteristiche di un duello tra forze del bene (della "luce")
e forze del male. Il risultato di questa polarizzazione è, da una
parte, l'estrema semplificazione e banalizzazione delle parole d'ordine
(si lotta per la ragione, per la giustizia, per la pubblica felicità
etc.) consecutiva alla necessità di raccogliere il maggior numero
possibile di adesioni, e quindi l'impoverimento del dibattito ideale.
Dall'altra, questa polarizzazione crea un clima di tensione che rende
impossibile qualunque compromesso, qualunque possibilità di accordo
tra gli interessi e le forze in conflitto: in breve, una situazione di
guerra civile. Ed è proprio quello che accadde in Francia.
[137] Vietata la critica all'operato del governo; vietata la discussione
su materie di stato, anche in circoli privati ed esclusivi quale fu tra
il 1724 e il 1731 il Club de l'Entresol; vietata la controversia religiosa
(i capi giansenisti obbligati al silenzio o all'esilio, i seguaci ridotti
alla resistenza clandestina, fomentata abilmente dalle Nouvelles ecclésiastiques);
rifiutata da parte delle oscure cricche di corte la collaborazione degli
intellettuali, anche dei più volonterosi (com'erano senza dubbio
i fisiocratici) i philosophes francesi si costituirono censori
morali non solo della conduzione degli affari pubblici ma, allungando
sempre più il tiro, della società presente. La lotta politica
si svolge in Francia, specialmente dopo il congedo di Turgot (1776), in
un'atmosfera d'apocalisse, di fine della civiltà.
Turgot, Helvétius, Diderot parlano di decadenza irrimediabile del
loro paese, di guerra civile latente, inevitabile. Diderot in particolare,
partito da richieste assai moderate (libertà di stampa, codificazione,
governo rappresentativo, apertura delle carriere al merito) insiste sempre
più nei suoi ultimi anni, nel 1778 e nel 1780, sulla necessità,
per rigenerare il paese corrotto, dechiré in maniera irreparabile,
di un "bagno di sangue": "Una nazione non si rigenera che in un bagno
di sangue" (Réfutation d'Helvétius, 1778; Histoire
de Raynal, 1780, VI, 22). E poiché aveva, da brillante allievo
dei gesuiti, buona cultura classica ricorse alla mitologia per rendere
più elegante quel suo sogno truculento: "È l'immagine del
vecchio Esone al quale Medea restituì la giovinezza soltanto tagliandolo
a pezzi e facendolo bollire".
Naturalmente, la necessità dei philosophes di dare grandezza,morale
ai loro interventi politici, di parlare in nome di principi generalissimi,
rende sempre attuali le loro produzioni ideologiche.
La battaglia per la riabilitazione di Calas, per la correzione cioè
di un errore giudiziario, fu per Voltaire l'occasione di comporre un Traité
sur la tolérance (1763); e perciò quella battaglia diventa
ai nostri occhi uno degli alti fatti, un momento forte nella storia del
mondo moderno. Laddove quella di Swift contro la deposizione di alcuni
vescovi che avevano rifiutato di riconoscere Guglielmo nuovo capo della
chiesa anglicana resta una pagina di storia locale. E così per
tutti gli altri pamphlets, e sono numerosissimi, usciti dalla penna,
oltre che di Swift, di Defoe, di Addison, di Steele. C'è voluta
tutta la pazienza di J. Béranger per permetterci di afferrarne
il preciso significato mettendoli in relazione con i delicatissimi problemi
della società inglese uscita dalla "gloriosa rivoluzione" e ancora
alla ricerca di uno stabile equilibrio politico.
Del resto, anche a voler essere esigenti, bisogna ammettere che [138]
l'Inghilterra ebbe, essa pure, i suoi filosofi, o piuttosto teologi, del
progresso, i predicatori di una rigenerazione della società dalle
fondamenta: Turnbull, Hartley, Priestley, Price, Paley. Per non parlare
dell'agitatore più celebre: Tom Paine, al quale dobbiamo, tra l'altro,
una felice definizione dell'epoca sua: The Age of Reason (1795-1796).
Ma l'opera, bisogna aggiungere, vale soltanto per il suo titolo e per
la sua influenza. Attacco di violenza inaudita, in nome del deismo, alla
Bibbia come "imbroglio di stato", contribuì con la sua lunga fortuna
a introdurre il libero pensiero presso la classe operaia inglese (E. P.
Thompson). Ma soprattutto nella seconda metà del secolo cominciò
ad essere attivo quel gruppo di uomini ( Wallace, Robertson, Ferguson,
Millar, Smith ) che si è convenuto chiamare "Illuministi scozzesi",
i quali meritano grandissima attenzione per il vigore intellettuale e
per la ricchezza dei contributi all'analisi dei fenomeni sociali: tutti
uomini in rapporto stretto con l'illuminismo continentale e largamente
debitori nei suoi confronti. La lezione di Montesquieu si fondeva in loro
con quella del grande compatriota David Hume, un filosofo "inquietante"
certo, ma anche un acuto analista del mondo sociale e politico: un uomo,
a ogni modo, assai caro alla coterie filosofica parigina di d'Holbach
e di Diderot. Il fatto che essi fossero ideologicamente meno impegnati
degli illuministi francesi (dico ideologicamente: politicamente Millar
fu, per esempio, tutt'altro che un conservatore) non toglie nulla alla
natura tipicamente illuministica del loro progetto: fondare una scienza
dell'uomo in società. L'agitazione e la progettazione affannosa
del futuro è soltanto un aspetto dei lumi. Un altro, ed essenziale,
è l'ambizione di una comprensione esatta e fine dei processi di
trasformazione in corso e dei loro possibili esiti nel futuro. Alla "storia
filosofica" degli scozzesi - Hume, Ferguson, Smith - si dichiarava riconoscente
Edward Gibbon nel corso della costruzione della sua grande opera, il capolavoro
della storiografia illuministica: The Decline and Fall of the Roman
Empire (Decadenza e caduta dell'impero romano) (1776-1787).
I paesi dell'impero germanico esigono un discorso più complesso,
più sfumato. In questa importante area dello spazio europeo un
illuminismo c'è stato e si è anche dato un nome: l'Aufklärung.
Si tratta di coglierne con qualche precisione le caratteristiche, i tratti
differenziali. Il dato esterno di maggior peso è senza dubbio in
Germania la frammentazione politica estrema: le entità politiche
sovrane erano oltre duecentocinquanta. Questo pluricentrismo ha nociuto
o giovato alla vita intellettuale? La risposta degli storici non è
unanime. Più persuasivi sembrano comunque [139] gli argomenti
di coloro i quali, ammettendo senza difficoltà che la disunione
politica ha ritardato lo sviluppo dell'economia, escludono però
che essa abbia avuto effetti negativi sulla vita intellettuale. Il fervore
tutto nuovo delle menti tedesche, la ricchezza e la qualità eccezionalmente
alta dei risultati ne sono eloquentissima prova. Certamente gli autocrati
tedeschi, specialmente negli stati di minima estensione territoriale,
erano in grado d'intervenire, e pesantemente, sull'attività intellettuale.
Ma non erano, per lo stesso motivo, in grado di controllarla. In un paese
dalle tante patrie era facile sfuggire alla persecuzione e alla censura
del proprio principe. Christian Wolff, professore presso l'università
di Halle dal 1706, ne era stato brutalmente espulso nel 1721, a causa
di certo suo discorso accademico sulla morale dei cinesi, per ordine di
Federico Guglielmo I. Ma tutte le altre trentatré università
tedesche si disputarono l'onore di accogliere colui che era già
considerato a buon diritto il precettore, il maître à
penser, della Germania e che tale rimarrà fino alla morte (1754).
Aveva pubblicato proprio l'anno avanti i Vernüftige Gedanken
(Pensieri razionali su Dio, il mondo, l'anima umana e tutte le cose in
generale, comunicati agli amanti della verità): il manifesto programmatico
dell'illuminismo tedesco fino a Kant incluso (Merker).
Nel 1778 Lessing dovette inchinarsi al divieto fattogli dal suo "protettore",
Carlo I di Braunschweig, di sospendere la pubblicazione, intrapresa nel
1774, dei Frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel, cioè
di parti di quell'Apologie oder Schutzschrift für die vernünftigen
Vercher Gottes (Apologia o difesa degli adoratori razionali di Dio)
composta da Samuel Reimarus (1694-1768): il prodotto intellettuale più
vigoroso nel campo della critica religiosa del razionalismo teologico,
del neologismo come lo si chiamava in Germania (sarà la matrice
della grande critica biblica dell'Ottocento tedesco, a cominciare da D.
F. Strauss). Lessing dovette dunque consegnare nelle mani del principe
quanto restava da pubblicare dell'opera e sospendere la polemica che aveva
aperto col pastore amburghese Melchior Goeze, il prototipo dei bibliolatri.
Atto di autorità che contribui a rendergli odioso il già
amaro soggiorno di Wolfenbiittel. Ma poté pubblicare a Berlino,
presso il libraio-editore Voss, nel 1780, qualche mese prima della morte,
sia pure anonima, l'espressione più matura del suo pensiero religioso:
Die Erzierung des Menschengeschlechts (L'educazione del genere
umano).
Non è tutto. Non c'era corte, per quanto piccola, che non mettesse
il suo prestigio nel mantenere al proprio servizio un nutrito organico
di funzionari, ai quali si aggiungevano nei paesi protestanti gli insegnanti
[140] e i ministri del culto. Una larga frazione del Bürgertum
tedesco possedeva insomma un livello di cultura di molto superiore a quello
delle borghesie degli altri paesi. Mancava però un'opinione pubblica.
Non che scarseggiassero i mezzi d'informazione: il numero dei periodici
andava anzi crescendo ogni giorno. Ma erano, a parte le pubblicazioni
scientifiche, tutti Moralische Wochenschriften (Settimanali morali),
pubblicazioni moralistiche sul genere dello Spectator e del Tatler
di Addison e di Steele.
Tra il 1720 e il 1770 ne uscirono 110 circa, la più parte in città
che non erano sede della corte (W. Martens). Anche il più permissivo
tra i principi tedeschi, Federico II, ribadì nel 1784 con un editto
il divieto ai privati di formulare giudizi critici sull'operato dei sovrani
e dei loro consiglieri nonché di divulgare per mezzo della stampa
notizie su tale operato: "Un privato - sono le sue stesse parole - è
del tutto incapace di simili giudizi, poiché gli mancherà
una conoscenza completa delle circostanze e dei motivi". Ma in quegli
anni la borghesia intellettuale tedesca si era fatta più ardita.
In quello stesso 1784, un funzionario di Federico, Kant, professore a
Königsberg, pubblicava sulla Berlinische Monatschrift la sua
Beantwortung (Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo
?). Accettava sì la limitazione dell' "uso privato" della ragione,
vale a dire il dovere dei membri subalterni della "macchina governativa"
di non esprimere liberi giudizi nell'esercizio del loro ufficio. Ma rivendicava
nello stesso tempo il diritto anzi il dovere di quegli stessi uomini,
in quanto membri della comunità nazionale o della società
universale del genere umano, di pensare liberamente e di comunicare al
pubblico le loro proposte di riforma in materia religiosa o politica.
Il processo di rischiaramento (Aufklärung) sarebbe stato altrimenti
irrimediabilmente compromesso.
Esclusa dalla sfera del potere e delle decisioni politiche; tenuta a sprezzante
distanza dalla raffinata nobiltà di corte, dalle maniere ostentatamente
francesizzanti, la classe media colta della Germania finì per identificare
se stessa con i valori di cultura dei quali si sentiva detentrice e per
disprezzare, e quasi rigettare, quei modi "civili". È ancora una
volta Kant a esprimere con chiarezza, a rendere netto il contrasto (che
prefigurava o meglio conteneva in sé come germe un contrasto tra
"nazioni") tra "civiltà" e "cultura", tra Zivilisiertheit
e Kultur: tra la cortesia esteriore, ingannevole e la virtù
autentica. "Siamo - scriveva nel 1784 nelle Ideen zu einer Geschichte
in weltbürgerlicber Absicht (Idee di una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico) - civili fino alla noia per esercitare le
forme e le convenienze sociali". Il vero progresso [141] morale
è opera della cultura: l'idea stessa di moralità ne è
l'essenza. Kant non si riferiva in maniera esclusiva alla Germania; si
moveva anzi, come il titolo stesso del suo scritto dice, in una prospettiva
"cosmopolitica". Ma universalizzava senza saperlo uno stato d'animo, una
situazione psicologica tipica del Bildungsbürgertum tedesco.
Per effetto del muro che divideva classe media colta esprimentesi in lingua
tedesca, formata da "servitori del principe" e da membri della funzione
pubblica in senso latissimo, e società aristocratica esprimentesi
in lingua francese, una diversità sociale si andava trasformando
in un'opposizione, ricca di significati politici, tra due forme di vita.
Da una parte un gruppo sociale che non "fa" niente e mette al centro della
coscienza di sé un comportamento "distinto" e preoccupato di mantenere
le distanze sociali; dall'altra, un gruppo che trae la propria autogiustificazione,
e presto il sentimento della propria superiorità morale, innanzi
tutto dalle sue "realizzazioni" intellettuali, scientifiche e artistiche
(Elias). Bloccata in se stessa da una situazione sociale più rigida,
la borghesia intellettuale tedesca è stata spinta a coltivare con
maggiore intensità di quella francese o inglese, con esclusività,
a volte con furore (si pensi all'asprezza della polemica antiaristocratica
dello Hainbund di Gottinga) i propri valori specifici, distintivi,
sentiti come supremi valori umani: la propria virtù, la Bildung.
L'Aufklärung tedesca è di conseguenza più "borghese"
di quanto non siano le lumières francesi, che tra i propri
rappresentanti più in vista annoverarono molti nobili (W. Krauss).
Ma non si tratta, si badi bene, della borghesia conquérante,
di quella degli affari e dei traffici, ma di quella particolare borghesia
formata da funzionari, da pedagoghi e da ecclesiastici che costituiva
la parte più avanzata del Bürgertum tedesco. Il tono
pedantesco, l'alto livello tecnico, il peso preponderante delle questioni
teologiche e della critica filologica dei testi sacri che contraddistinguono
l'Aufklärung dalle Lumières derivano soprattutto
dalla particolare collocazione sociale dei suoi maggiori esponenti. Non
di tutti però. Bisogna distinguere gli Aufklärer delle
scuole e delle accademie da quelli più liberi: Mendelssohn, Nicolai,
Knigge e il maggiore di tutti: Lessing. Al pensiero più ardito
corrisponde anche la scelta di forme più agili per l'agitazione
delle idee.E' nota la predilezione di Lessing per il teatro.
Ma l'Aufklärung ha pagato caro la sua purezza sociale e la
sua connotazione fortemente antinobiliare: non riuscì a distruggere
l'ordine antico. Soltanto attraendo a sé le élites
del potere, soltanto generando in loro il dubbio e la discordia, associandosele
anzi strettamente all'opera di [142] rifondazione della società
su nuove basi, in altre parole nella ricerca di un nuovo principio di
legittimità al diritto di comandare, le Lumières
conseguirono alla lunga i risultati politici che tutti sanno. Non si riscontra
nei paesi dell'Impero il fenomeno notato in Francia da Duclos sin dal
1750: l'aprirsi della société, dei gens du monde
ai gens de lettres. Il centro d'irradiazione delle Lumières
in Francia è Parigi, se non addirittura Versailles (si pensi a
Quesnay). I philosophes sono accolti a corte e festeggiati nei
salotti aristocratici. I primi focolai dell'Aufklärung sono
Lipsia, Amburgo, Zurigo, città mercantili, ben lontane dal mondo
delle corti. E anche più tardi, dopo il 1760, quando ormai l'esistenza
di quel potente movimento d'idee era innegabile, il terreno più
favorevole allo sviluppo e all'affermazione della nuova cultura critica
restano le libere città imperiali: Francoforte, Norimberga, Amburgo,
Brema, i cantoni svizzeri di lingua tedesca: Berna, Basilea, Zurigo; infine
le nuove università, principalmente quella di Gottinga (fondata
nel 1734) nel territorio dell'elettorato di Hannover, apertissimo per
motivi facilmente intuibili all'influenza della cultura inglese (W. Krauss,
L. Marino). Se qualche principe assoluto accetta di farsi illuminato e
ricerca quindi la collaborazione di tecnici dell'amministrazione (giuristi
e cultori di scienze camerali) - mettiamo il vescovo Joseph Emmerich,
elettore di Magonza, questa perfetta incarnazione del Sarastro mozartiano
- il mondo dell'aristocrazia, della "società", resta ben chiuso
ai giovani borghesi anche più talentosi.
Tra i dolori del giovane Werther c'è anche, e bruciante, quello
di sentirsi escluso o malaccolto dalla società aristocratica: "Quel
che soprattutto detesto sono le odiose condizioni borghesi" (1774). Naturalmente,
cercava un compenso alle sue frustrazioni sociali nell'abbandono alle
esaltazioni del cuore. Werther-Goethe sarà più fortunato.
Creato nel 1776 dal giovane duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimar-Eisenach
consigliere segreto di legazione, quindi nel 1779 ministro, nel 1782 sarà
fatto nobile. Ma il suo caso è raro, per non dire unico. E Weimar
era un piccolo e povero stato. In genere, gl'intellettuali tedeschi, esclusi
o non assimilati dalla società, vivevano in una situazione esasperata
d'isolamento.
In questo caso, la frammentazione politica del paese agì in senso
negativo, impedendo loro di costituirsi in libere società private,
in circoli, in gruppi di pressione. Rari i centri di aggregazione: il
loro mezzo essenziale di comunicazione restò il libro, la parola
scritta.
Ma non bisogna trascurare la massoneria, strumento essenziale in Francia
di amalgama tra aristocrazia, intelligencija e borghesia degli
affari. [143] E si sa con quanto entusiasmo gli intellettuali tedeschi
accorressero nelle sue file: Hamann, Jacobi, Herder, Lichtenberg, Mendelssohn,
Bode, Campe, Reimarus, Goethe. I primi tre Dialoghi tra Ernst
und Falk (1777) dimostrano quali speranze Lessing, deluso dal cristianesimo,
nutrisse allorché nel 1771, proprio all'aprirsi per lui del periodo
dell'azione, chiese con insistenza di essere ammesso in una loggia di
Amburgo (H. Schneider). Campo d'intervento dei massoni: il mondo; obiettivo
supremo: limitare le conseguenze dolorose dei contrasti, delle scissioni,
delle differenze (tra stati, tra ceti, tra religioni) che lo stato di
società porta inevitabilmente con sé. Aveva sperato d'incontrare
in loggia uomini saggi, uomini di élites, desiderosi di
sfuggire ai pregiudizi del loro popolo e a quelli della religione nella
quale erano nati, e che tendessero con tutte le loro forze ad affrettare
l'avvento dell' "uguaglianza" morale tra gli uomini in attesa "di poterla
infine diffusamente respirare nella umana società". Conobbe invece
esseri interessati, amanti di riti noiosi, privi soprattutto di grande
audacia intellettuale. Ernst si sentiva tradito: invece che alla terra
promessa era stato guidato in "sterili deserti", cinti non di fiamme ma
di fumo (IV Dialogo). Qui non interessa il pensiero di Lessing sulla società
e sullo stato. Si voleva soltanto sottolineare il fatto che l'intelligenciia
tedesca, entrando in gran numero nelle file della massoneria, cercasse
per prima cosa il superamento delle distanze tra classi nobiliari e i
vari strati della classe media. Fondata, per usare una formula lessinghiana,
sul "sentimento collettivo di spiriti simpatizzanti" essa era in effetti
una nuova forma di socievolezza, di commercio tra gli uomini, la "realizzazione
ludica di una società del merito", della virtù (D. Roche).
Questo programma minimo non fu realizzato dalla massoneria tedesca. Lacerata
da contrasti interni, s'inoltrerà sempre più sulla via dell'esoterismo
e della rigenerazione mistica oppure si avventurerà disgraziatamente
sul terreno dell'azione politica (Illuminati di Baviera). L'Aufklärung
rimarrà espressione dell'intelligencija pura, titolare dell'esercizio
della ragione senza altri limiti se non quelli che la "critica", intesa
come definizione rigorosa del suo campo di validità, fisserà
al suo esercizio (Kant).
Ma l'Europa, e sia pure l'Europa in piena eruzione intellettuale del
secolo XVIII, non è che una frazione del pianeta, e anche la più
piccola [144] (voce "Europe" dell'Encyclopédie).
Tutt'intorno a essa c'è un grande universo di terre e di popoli
del quale essa va appunto ora terminando l'esplorazione o la sottomissione.
I grandi viaggi nel Pacifico alla scoperta del continente australe intrapresi
dalla Francia e dall'Inghilterra all'indomani della conclusione della
guerra dei sette anni, tra il 1764 e il 1776, da Bougainville- un philosophe
- e da Cook, per dire solo dei maggiori, sono tra le imprese memorabili
del secolo. Si parla di dilatatio Europae su scala mondiale, di
nascita di un'economia-mondo (Braudel, Chaunu, Wallerstein). Il problema
della gestione di questo impero mondiale, di quest'egemonia planetaria
non è l'ultimo problema a tormentare seriamente la coscienza degli
illuministi.
La Histoire philosophique et critique des établissements des
Européens dans le deux Indes (Storia filosofica e critica dei
possedimenti europei nelle due Indie) di Raynal (1770,1774, 1780) è
l'ultima grande impresa collettiva dei philosophes parigini.Alla
sua stesura posero mano Jussieu, Pechméja, Deleyre e soprattutto
Diderot. Da manuale del colonialismo europeo che doveva essere secondo
il primo progetto, si trasformò, per l'apporto soprattutto di Diderot,
in una grande requisitoria contro lo sfruttamento dei popoli coloniali,
contro la tratta e la schiavitù dei negri. Anche se lasciava aperte
le prospettive di un colonialismo più umano, è la denuncia
documentata delle violenze commesse dagli Europei, è l'appello
alla rivolta che colpì di più i suoi innumerevoli lettori,
specialmente fuori d'Europa. La rivolta negra scoppiata a Santo Domingo
nel 1791 deve qualcosa alla lettura di Raynal da parte del suo capo, Toussaint
Louverture.
Certo è che l'illuminismo - ideologia universalistica - si diffuse
fuori d'Europa. Ed acquistò, nei diversi contesti storici, connotazioni
particolari. Nell'America spagnola, soprattutto in Venezuela, la penetrazione
a gran fiotti di scritti illuministici francesi (in particolare della
Histoire di Raynal) cominciò ad alimentare tra i creoli
nell'ultimo quarto del secolo desideri e propositi d'indipendenza. L'avventuroso
Francisco de Miranda, più tardi Simón Bolivar sono imbevuti
di idee dei lumi europei. Il progetto di costituzione federale elaborato
da quest'ultimo è ricalcato, tranne che nello stile, su Montesquieu.
Ed è anche di marca illuministica europea la pedagogia autoritaria
che il Libertador, tutto preso dal desiderio di far maturare il più
rapidamente possibile la coscienza politica dei popoli emancipati, mise
al primo punto del suo programma. Di anticolonialismo si colora pure,
com'è ovvio, il movimento illuministico nelle colonie inglesi dell'America
settentrionale. Basti pensare all'uomo più rappresentativo di quel
largo movimento di idee, destinato [145] a tradursi ben presto
in forte volontà politica: Benjamin Franklin. L'insurrezione del
1776 porrà in primo piano nuovi problemi, tutti gravissimi: il
diritto all'insurrezione armata e all'uso della forza nella soluzione
delle controversie politiche, prima; poi quello, che tanto eccitò
le coscienze europee, della organizzazione della libertà, della
costruzione di uno stato libero. Speranze d'indipendenza l'illuminismo
europeo, messo abilmente in moto dalla propaganda di Caterina II che cercava
coperture ideali alla sua politica mediterranea, seppe risvegliare anche
in Grecia a partire dagli anni ‘70. Un ammiratore di Voltaire (ma
non era il solo) fu la figura di punta dell'illuminismo neoellenico, D.
Catargi (C. Th. Dimaras). Non è un caso: Voltaire, da quel turcofilo
che era stato fino allora, si era convertito all'idea della necessità
di distruggere l'impero ottomano e di restituire alla Grecia la sua grandezza
antica. Andava eccitando fervorosamente le potenze europee a coalizzarsi
contro la Sublime Porta (Le tocsin des rois, 1770). Coperto dal
nome di Jean Plokof chiamava alle armi: "Aux armes, prenez du fer et marchez"
(Traduction du poème de Jean Plokof, 1770). Venturi ha rievocato
di recente l'esplosione di entusiasmo filellenico che scosse la cultura
europea di quegli anni. Il giovane Iperione di Hölderlin va a combattere
al fianco dei patrioti greci insorti contro i turchi (Hyperion,
1797).
Quanto ai turchi, si andava dicendo da più parti che anche tra
loro i lumi europei stessero filtrando. Lady Montagu, che a Costantinopoli
aveva vissuto, assicurava che i più degli efendi, i letterati
di laggiù, non credevano nell'ispirazione divina di Maometto più
di quanto credessero nell'infallibilità del papa; facevano anzi
aperta professione di deismo. Continuavano ad obbedire alla loro religione
per pura convenienza politica. Ahmed bey, visitato da lei a Belgrado,
conosceva le opere di Toland. Jusup, il vecchio turco incontrato a Costantinopoli
da Casanova nel 1745, era un perfetto "philosophe". In effetti, c'erano
nel paese alcuni partigiani dell'europeizzazione. Costoro riuscirono,
negli anni 1720-1730, a introdurre dall'amica Francia qualche novità
tecnica o qualche nuova moda. Ma furono ben presto sconfitti dall'opposizione
fanatica dei potenti ‘ulamã', i dottori della fede. La prima
tipografia turca, aperta nel 1728, fu chiusa nel 1742, dopo aver stampato
in tutto diciassette opere. Questo gruppetto di governanti illuminati,
tra i quali c'era il gran visir Rãghib Paša (1757-1765), che
avrebbe voluto veder tradotta in turco La philosophie de Newton
di Voltaire, rimase impotente fino al 1789, fino alla rivoluzione francese
che coincise con l'ascesa sul trono di Selim III, il primo dei grandi
sultani riformatori. I "lumi" in Turchia [146] significavano dunque
principalmente occidentalizzazione, adozione di scienze e tecniche occidentali
sotto l'incombente minaccia russa; ma non andavano disgiunti da un atteggiamento
critico nei confronti dell'ortodossia islamica.
Pura imitazione di scienze e tecniche occidentali essi furono invece nel
Giappone shogunale. È tuttavia un fatto degno di nota che, accanto
ai confuciani, fermi sostenitori della superiorità della cultura
cinese, e ai difensori della cultura autoctona facessero la loro apparizione
poco dopo il 1770 i sostenitori di una più o meno cauta apertura
alla cultura occidentale della quale si riconosceva ormai la superiorità
in certi campi (astronomia, medicina, botanica). Il capofila di questo
movimento di scoperta dell'Europa, il modello stesso dei partigiani del
rangaku, fu Honda Toshiaki (1744-1821), un cultore di scienze politiche
che lasciò un gran numero di scritti (Prospettive di sviluppo,
Vie d'acqua e di navigazione ecc.) conosciuti e apprezzati in vita
da un limitatissimo numero di persone e riscoperti nel 1888-1889. Ad affrettare
il processo di apertura all'Europa agì potentemente il timore di
un'immanente invasione russa. L'idea, che diventerà dominante in
epoca Meiji, di rafforzare il paese sia dal punto di vista militare sia
dal punto di vista economico per fronteggiare con successo il nemico russo,
germogliò dunque la prima volta alla fine del secolo XVIII (Donald
Keene). Ma per trovare spunti di critica sociale, e perfino progetti di
azione politica sovvertitrice, bisogna rivolgersi alla Scuola del Sapere
Nazionale (kokugaku), almeno a quelli tra i suoi seguaci che sostenevano
la necessità di una restaurazione dell'autorità dell'imperatore.
Tipico il caso di Yamagata Daini (1725-1767). Gli europeizzanti si limitarono
a predicare lo sviluppo e la razionale utilizzazione delle risorse del
paese (R. N. Bellah).
Le Lumières in Francia coincidono con l'enorme aumento
di prestigio sociale dei gens de lettres. La société
si apre loro volentieri; i gens du monde prendono a frequentarli
con diletto. Lo stesso Rousseau fu ricercatissimo da parte dei "grandi",
che verso quell'uomo intrattabile mostrarono fino all'ultimo una compiacenza
da non credersi. Ma c'è di più. I nobili entrano in folla
nella République des lettres, si mostrano posseduti da
una vera e propria fureur d'écrire (Bluche). Le innumerevoli
accademie reclutano largamente nella nobiltà: molto più
largamente, tra l'altro, [147] che nella borghesia mercantile
(Roche). Tra i philosophes non sono pochi i membri delle grandi
famiglie: Maupertuis, Helvétius, il marchese d'Argens, La Condamine,
il cav. de Jaucourt, il marchese di Chastellux, Fontenelle, de Sade,
i Mirabeau, Condorcet, Buffon, Mably, Condillac ... E non pochi quelli
della robe: Montesquieu, de Brosses, La Chalotais, Turgot, Le
Mercier de La Rivière ... Perché mai una frazione importante
della nobiltà francese avesse adottato con entusiasmo un'ideologia
autodistruttiva è problema che andrebbe discusso con tutta l'attenzione
che merita. Per dirla in poche parole: pare certa, nella seconda metà
del secolo, la volontà della nobiltà liberale di trasformare
il proprio ordine in un'élite, di "diventare la classe
pilota del regno, la grande concentrazione di tutti i talenti, l'accademia
del merito" (Chaussinand Nogaret). Una cosa è, a ogni modo, evidente:
la partecipazione massiccia della nobiltà alla creazione letteraria
e all'attività scientifica contribuì la sua parte alla
valorizzazione sociale della figura del clerc.
La Correspondance Littéraire, philosophique et critique,
un periodico manoscritto d'informazione a uso soprattutto dei principi
tedeschi (la duchessa di Sachsen-Gotha, i principi di Hesse-Darmstadt,
il margravio di Anspach, la regina di Svezia etc.) creato da Raynal
nel 1747, passato nel 1753 nelle più abili mani di Grimm e dalle
sue in quelle del collaboratore e segretario, lo zurighese Meister,
che lo tenne in vita fino al 1813, ci permette di seguire da vicino
questa fulminea ascesa dello "scrittore" nella Francia settecentesca
e il contemporaneo imporsi dell'intellettuale" francese in Europa (S.
Fiette).
L'Europa francese dei lumi nasce infatti in questi anni. La prima metà
del secolo era stata, per la cultura francese, un'età d'incubazione,
di assimilazione disordinata e avida delle novità intellettuali
venute un po' da ogni parte, ma soprattutto dal paese rivale: dall'Inghilterra,
quel paese turbolento che non solo aveva saputo raggiungere con la rivoluzione
del 1688 la stabilità politica ma aveva nettamente sopravanzato
la Francia in campo economico, tecnologico, filosofico, scientifico,
collocandosi in primo piano sulla scena europea. Basti citare qui i
nomi di Newton e di Locke, i due numi tutelari dei lumi. A una società
francese che "si decompone", a un paese dove la libertà è
stata vinta, Montesquieu nelle Lettres Persanes (1721) contrappone
l'Inghilterra dove "si vede la libertà uscire continuamente dal
fuoco della discordia e della sedizione". Ma questo elogio dell'Inghilterra
è soltanto un "abile contrappunto" alle sue riflessioni sulla
monarchia francese. J. M. Goulemot ha ben dimostrato come quest'opera
incantevole e ambigua, questa [148] straordinaria autocritica
della Francia, si leghi in profondità a quella che egli ha chiamato
la "storiografia dei duchi", di quegli oppositori cioè all'assolutismo
di Luigi XIV (Fénelon, Saint-Simon) che aprono intorno al 1690
in Francia il discorso politico sull'istituto monarchico. Il vero rovesciamento
dell'immagine "classica" dell'Inghilterra si ha soltanto verso il 1730.
Ed è l'irrequieto Prévost nel libro X dei suoi Mémoires
d'un homme de qualité (1731) il primo a fare di quel paese
una "isola felice". Tre anni dopo, nel 1734, Voltaire partirà
dall'immagine tutta positiva del mondo inglese per inaugurare un discorso
"liberale" sulla storia. In quello stesso anno 1734 è opinione
comune che Montesquieu componesse il meritatamente celebre capitolo
VI del libro XI dell'Esprit des lois: ancora una interpretazione
"liberale" del mondo inglese, ma di segno opposto rispetto a quella
di Voltaire (Sur la constitution d'Angleterre).
L'importante non è, per ora, seguire l'articolarsi dei discorso
politico nella Francia dei lumi. Il fatto che ci preme sottolineare
è un altro, che cioè la cultura francese, all'indomani
della pace di Aquisgrana (1748) conquista per merito dei suoi scrittori
l'egemonia in Europa. Escono in questi anni le sue opere maggiori: nel
1743 il Traité de la dynamique di D'Alembert; nel 1746
l'Essai sur l'origine des connaissances humaines di Condillac;
nel 1748 l'Esprit des lois di Montesquieu; nel 1749 l'Histoire
naturelle de l'homme di Buffon; nel 1750 il primo, nel 1755 il secondo
Discours di Rousseau (De l'inégalité parmi les
hommes); nel 1751 il Siècle de Louis XIV di Voltaire
e cinque anni dopo l'Essai sur les moeurs; a partire dal 1745
Diderot e D'Alembert cominciano a organizzare l'Encyclopédie.
La meditazione sul mondo inglese, l'assimilazione della sua cultura
non era stata estranea a questa esplosione delle Lumières.
Non si dimentichi che l'Encyclopédie avrebbe dovuto essere
nel primo progetto la versione francese della Cyclopedia di Efraiin
Chambers, uscita in Inghilterra circa vent'anni prima (1728), e che
Diderot fu scelto a dirigere l'impresa perché già esperto
in traduzioni dall'inglese; tra l'altro, a partire dal 1743, del Dizionario
di medicina di James. Nel Prospetto dell'Encyclopédie,
un foglio divulgato a uso dei sottoscrittori (1020 nel 1749 salirono
a 4.000 nel 1757), si faceva menzione come a fonte al Lexicon Technicum
(1704) di John Harris, segretario della Royal Society: un'opera di alto
livello che aveva avuto tra i collaboratori lo stesso Newton. Fu però
merito di Diderot se l'Encyclopédie, raccogliendo in un
unico fuoco come un grande specchio ustorio i raggi scintillanti un
po' dovunque in Europa, li restituì tutt'intorno con forza [149]
centuplicata. Di tanti "tizzoni. sparsi", così disse, aveva formato
un "braciere ardente". Nelle sue mani quell'inventario ragionato, sistematico
di tutte le conoscenze divenne una machine de guerre puntata
contro l'ordine tradizionale: "il faut tout remuer". Era il prodotto,
come disse D'Alembert nella dedica al ministro d'Argenson del primo
volume (1751), della "nazione illuminata dei gens de lettres,
soprattutto della nazione libera e disinteressata dei philosophes".
Nessun "vile interesse" - ribadirà da parte sua Diderot - legava
tra loro i collaboratori: soltanto la sollecitudine del destino delle
generazioni future, "l'interesse generale del genere umano". Si sentivano
investiti del futuro della civiltà. Salvando le conoscenze dei
secoli passati da una rivoluzione annientatrice, mettendo soprattutto
in comune i risultati di tanti sforzi dispersi, si aiutava l'uomo a
realizzare le virtualità sconosciute del suo essere. Sappiamo
forse di che cosa "la specie umana sarebbe capace, se non fosse arrestata
nel suo progresso?". Quanto poi il Dictionnaire valesse come
sussidio tecnico è un altro discorso. Ferdinando Galiani e Francesco
Griselini dissero già allora, su quell'illustre centone, cose
giustissime.
Parigi, centro di quella enorme fermentazione intellettuale, divenne
la capitale dei lumi europei. A essa guardavano con curiosità
e rispetto quegli stessi principi tedeschi, già imbevuti delle
maniere di Versailles, i quali non avevano per la cultura del loro paese
che disinteresse o disprezzo. Dal 1766 al 1782, in particolare tra il
1766 e il 1771, da quando sovrani e principi ereditari si mettono a
viaggiare l'Europa, la visita a Parigi è diventata obbligatoria.
E tutti, a cominciare dal principe di Braunschweig-Wolfenbüttel,
che apre la serie, si fanno un dovere di visitare i philosophes.
Il tormentatore di Lessing va a riverire Diderot a casa sua. Tanti riguardi
da parte di così illustri visitatori li ripagano delle persecuzioni
inflitte loro dalla censura francese. Tanto più che quei filantropi
si offrono come protettori: accettano la dedica delle opere proibite
o addirittura promettono di stamparle nei propri stati; li gratificano,
quando possono, di pensioni. Nel 1754 Federico ne concede a D'Alembert
una di 1200 lire. Poca cosa, se confrontata con l'entità dei
doni elargiti a Diderot da Caterina II nel 1765. Ognuna di queste munificenze
regali era un'occasione eccellente per sottolineare il diverso trattamento
che essi ricevevano in patria. All'affermazione del prestigio sociale
dello scrittore in Francia ha molto contribuito lo snobismo delle corti,
come allora si diceva, del nord. In alcuni casi - Federico II e Caterina
II - la politica di lusinghe era un abile calcolo da parte di sovrani,
che avevano intuito l'importanza di mantenere in Francia un [150]
partito autorevole di amici, che contribuissero a mettere dalla loro
parte l'opinione europea, se non a modificare la politica del proprio
governo. E non sbagliarono nella scelta. Diderot, che pure tra gli ammiratori
francesi di Federico era uno dei più tiepidi, ancora nel 1770
lo presentava come illuminato protettore della libertà di molti
stati tedeschi minacciati dall'aggressione austro-russa (Raynal, Hist.
1770, III, 82). L'anno successivo lo chiamò tiranno, ma per divergenze
ideologiche: perché non aveva accettato la linea d'Holbach espressa
nell'Essai sur les préjugés (1770): "dopo aver
bestemmiato la verità, predicato l'errore, calunniato la natura
umana, fatto l'apologia dei preti", aveva fatto quella dei guerrieri:
poco ci mancava che facesse l'elogio dei finanzieri (Pages contre
un tyran, 1771). Ma questo sfogo tenne ben segreto. La verità
era si fatta per l'uomo, e l'uomo per la verità; ma Diderot non
era disposto a testimoniare per essa sino al martirio. Più ragionevole,
più disincantato, Voltaire ammetteva che Federico, pur sempre
un re, aveva i suoi pregiudizi; e che bisognava perdonarglieli. Quale
sovrano non si sarebbe irritato constatando che i philosophes
non erano più monarchici? Se il campo dei filoprussiani conobbe
col passar degli anni qualche defezione, e proprio quando si doveva
ammirare in Federico non più il guerriero ma il riformatore,
l'astro di Caterina non tramontò mai. Proprio il caso della Russia
mostra anzi quale potere l'intellettuale avesse acquistato sull'opinione.
I geografi, e già nel secolo XVII (Mercator, Ortelius, Blaeu),
non avevano esitato a incorporare nello spazio europeo i Balcani e la
Russia sino all'Ob. Ma storici, pubblicisti, politici non li avevano
seguiti: fino al ‘700 avevano continuato a negare che impero turco
e impero russo fossero Stati europei. Troppo diversi erano i sistemi
politici e il regime della proprietà. In pieno Settecento Montesquieu
opponeva ancora, in certe sue riflessioni private, l'Europa centro-occidentale
- terra di libertà per il perfetto equilibrio di forze che si
era andato creando tra i suoi Stati - all'Asia, terra votata alla servitù,
perché, a causa della configurazione stessa dei continente, un
equilibrio del genere era impossibile ("Il faut que l'un soit conquis,
et l'autre conquérant... " ). La Russia in questo testo non è
nominata. Ma è evidente che l'ingresso dell'impero più
grande della terra tra gli stati europei minacciava di distruggere quel
rapporto di "fort à fort" che era la garanzia della libertà
d'Europa. Sulla questione essenziale - se la Russia fosse cioè
una nazione europea (l'impero ottomano rimaneva fuori discussione: era
il modello stesso del despotismo asiatico) -, non diversamente da [151]
altri suoi contemporanei, Montesquieu. non aveva però dubbi.
Spiegava anzi in maniera ingegnosa il successo dell'opera riformatrice
di Pietro il Grande: lo zar non aveva fatto altro che cancellare quattro
secoli di barbarie tatara, restituendo alla Russia il suo vero volto,
quello di popolo europeo (Lortholary). Non era stato difficile dare
"i costumi e le maniere d'Europa a una nazione d'Europa". Se egli avesse
meno disprezzato i suoi sudditi, avrebbe potuto evitare i metodi violenti,
brutali, tirannici che invece aveva impiegato (Lois, XIX, 14).
In ogni modo, era un fatto innegabile che il paese avesse compiuto rapidi
e reali progressi sulla strada dell'occidentalizzazione. A Pietro -
l'eroe "civilizzatore - andava" invece tutta l'ammirazione di Voltaire.
Lui solo, con la sua rude energia, era riuscito a "civiliser" il suo
popolo e a fare dell' "impero più arretrato dell'Europa e dell'Asia"
una nazione moderna. Tra il 1760 e il 1785 la russofilia di molti philosophes
esplode senza ritegno. "Ammiro Caterina, l'amo à la folie",
dichiara Voltaire all'inizio del suo regno. La promozione della Russia,
l'integrazione a pieno titolo all'Europa di un paese giudicato barbaro
appena cinquant'anni prima, è in effetti uno degli eventi più
sorprendenti della storia intellettuale del secolo (S. von Mohrenschildt,
Lortholary). Diderot, Marmontel, Grimm, Galiani, Voltaire guardano ad
esso addirittura come alla nazione-guida: "gli Sciti diventano i nostri
maestri in tutto", sentenzia Voltaire, il capofila del partito. Non
negava che Caterina fosse implicata nell'assassinio del marito, lo zar
Pietro III; ma non dava troppo peso a quell'episodio: "bagatelles",
"démélés de famille", faccende private. Cinque
anni dopo, nel 1767, l'esercito russo invadeva la Polonia. Voltaire
approvò incondizionatamente un intervento che mirava soltanto
ad introdurre in quell'infelice paese la tolleranza, ossia a proteggere
ortodossi, protestanti, ebrei dalle persecuzioni cattoliche. E derideva
i confederati di Bar, quei bigotti, quei fanatici che rifiutavano tale
insigne beneficio e si alleavano addirittura col turco.
Diderot, grande sedentario, si lasciò indurre a riverire "Semiramide"
a Pietroburgo nel 1773-74, proprio quando la tragedia polacca era in
atto. Dai lunghi incontri informali con l'imperatrice - una delle icones
symbolicae dei lumi - ritrasse un senso inebriante di libertà:
"Son costretto a confessare a me stesso che avevo l'animo da schiavo
nel cosiddetto paese degli uomini liberi e che mi son ritrovato l'anima
d'un uomo libero nel cosiddetto paese degli schiavi". Invitava i compatrioti
a fare altrettanto: "Venite a trascorrere soltanto un mese a Pietroburgo".
Era il luogo ideale per una prise de conscience: "Venite a liberarvi
da una [152] lunga costrizione che vi ha degradati; sentirete
allora che uomini siete". Nei paesi occidentali la libertà era
agonizzante o morta affatto. La Francia di Luigi XV non era che una
nazione di schiavi che aveva perduto per giunta la coscienza della propria
schiavitù; l'Inghilterra, dopo aver sperimentato la corruzione
del sistema parlamentare, stava forse per imboccare la via del terrore;
la Prussia gemeva sotto un tiranno. Non restava che la Russia: quella
società ancora informe poteva diventare la sede di un grande
esperimento, il terreno favorevole alla "coltura" di una umanità
nuova (A. Strugnell).
Quanto diverso il ruolo nella società di questi philosophes
- rispettati, accarezzati, consultati dai supremi detentori del potere
- dal tradizionale homme de lettres. Il passaggio dall'una all'altra
figura sociale si coglie bene in un testo celebre: Le Philosophe
di Du Marsais. Pubblicato la prima volta nel 1743, sarà ripubblicato
con ritocchi sull'Encyclopédie (1765) e di nuovo assieme
alle Lois de Minos di Voltaire (1772) (Dieckmann). Il philosophe
è ancora "un honnête bomme che agisce in tutto par raison
e che unisce a un esprit de réflexion et de justesse,
i costumi e le qualità sociali". Autocontrollo dell'emotività,
degli impulsi spontanei; inventario della situazione; ponderazione attenta
degli effetti sociali dei propri atti, razionalizzazione del proprio
comportamento nel mondo. Questo tipo umano non rassomiglia come a un
fratello a quello prodotto dal gioco serissimo (come aveva detto La
Bruyèré) della vita di corte, descritto impareggiabilmente
da Elias, tolta beninteso la necessità della "maschera"? Questa
somiglianza aiuta a spiegare l'adozione entusiastica del modello "filosofico"
da parte dei gens du monde. Di questo tipo di filosofo. Perché
il tipo di homme de lettres che s'impone alla svolta del secolo
vuol essere ben altro. In breve: un apostolo della "pubblica felicità".
Già il philosophe di Du Marsais si sentiva pieno di idee
sul bene pubblico e su "tutto ciò che si chiama umanità",
dato che la "società civile" era - così diceva - "la sola
divinità che egli riconoscesse sulla terra": un uomo utile. Ecco
la novità costituita dall'apparizione del philosophe:
un uomo capace di fornire idee all'azione politica, di guidarla, di
additarle i valori da realizzare. Reinhard Bendix ha caratterizzato
assai bene questo gruppo: "Si trattava di persone sensibili al destino
dei proprio paese, informati su quello che accadeva altrove e capaci
di [153] elaborare teorie che facevano presa su un numero di
lettori sempre più grande; competenti in molti campi, non erano
specialisti in nessuno". Il loro rapporto col potere era complesso.
Da una parte, in quanto gruppo "disinteressato", erano in grado, o così
credevano, di trovare le soluzioni d'interesse pubblico, veramente nazionale,
dei problemi; dall'altra, riservavano a se stessi il compito di distruggere
le superstizioni, di preparare cioè l'opinione pubblica ad accettare
le riforme più ardite: "È una gran fortuna - scriveva
Voltaire nel 1750 - per il principe e per lo stato, che vi siano molti
filosofi che stampino questi principi nella testa della gente" (La
voix du sage et du peuple). E tutto questo senz'ombra di machiavellismo.
Non parlavano forse in nome della ragione e dell'interesse comune? Se
non avessero avuto la mente ottenebrata dai "pregiudizi", se avessero
saputo interrogare la propria ragione tutti i cittadini avrebbero fatto
spontaneamente quelle stesse scelte. In attesa d'illuminarli, di farne
degli esseri pensanti, essi, le avanguardie, parlavano in loro nome.
E intanto intensificavano la lotta contro le superstizioni, cercavano
anche di coinvolgervi lo stesso sovrano, mostrandogli la necessità,
l'urgenza politica di quella lotta: "I filosofi rendono un servizio
al principe distruggendo la superstizione, che è sempre la nemica
dei principi". La loro utilità pubblica era evidente: prevenivano
la "rivolta dei cuori", la più pericolosa, "perché la
virtù si esaspera fino all'atrocità". Diderot, che scriveva
queste parole, si rivolgeva ai sovrani con tono perentorio: "Laissez
écrire". Senza la filosofia non si governa, né bene né
male. Per essere obbediti da tutti con intima convinzione occorre che
i cittadini abbiano l' "illusione" (l'espressione è sua) della
libertà. Occorre organizzare il consenso. A tal fine, "se i governi
non vogliono assoldare dei pensatori, che forse diverrebbero sospetti
o corrotti perché mercenari, che essi permettano almeno agli
spiriti superiori di vegliare in qualche modo sul bene pubblico". Diderot
si sente uno di questi: "Ogni scrittore di genio è magistrato
nato della sua patria". Ha il dovere di illuminarla e ne ha il diritto:
"Il suo diritto è il suo talento". La sua posizione sociale non
ha rilevanza: " Cittadino oscuro o ragguardevole, quali che siano il
suo rango o la sua nascita, il suo spirito, sempre nobile, prende i
suoi titoli dai suoi lumi". Egli parla a tutti e per tutti: "Il suo
tribunale è l'intera nazione; il suo giudice è il pubblico,
non il despota che non lo ascolta o il ministro che non vuole ascoltarlo"
(Pensées détachées, 57-58).
Nel 1761, nella Lettre premessa all'edizione postuma delle Recherches
sur les origines du despotisme oriental di N.-A. Boulanger, [154]
d'Holbach insisterà sulla necessità di fare addirittura
della filosofia una "scienza di stato". Soltanto la ragione perseguitata
era in grado ormai di salvare la società dalla "sciagura dell'anarchia",
di ricondurla all'ordine. Perché l'anarchia era allora alle porte.
La gioventù era sbandata, in rivolta contro tutto e tutti: "una
moltitudine innumerevole di giovani semicolti, poiché non crede
più come i suoi padri che le leggi siano state dettate o scritte
nelle tenebrose caverne del monte Ida, s'immagina che non vi sia più
legge: ecco il mostro che spaventa con qualche ragione la nostra polizia".
I filosofi sapevano come spegnere quei focolai d'insubordinazione e
di contestazione. Bastava che si mobilitassero e si organizzassero.
La polizia invece di perseguitarli doveva considerarli alleati. I mezzi
lumi precipitano nel nichilismo; la luce spiegata della ragione fa rinascere
la volontà di ordine. Nel giro di dieci anni la funzione del
"filosofo" era diventata indispensabile. Convinto di saper cavalcare
la tigre della ribellione, nel decennio successivo il clan di d'Holbach
intensificò fino al parossismo la polemica contro la religione:
quello stesso cristianesimo, fatto colpevole un tempo di tutte le nequizie
per il suo carattere tirannico è ora denigrato perché
moribondo e perciò divenuto freno inefficace della società.
I pamphlets anticristiani cucinati nella "grande boulangerie"
- in genere raffazzonature di vecchi testi deistici inglesi - non si
contano. Tra questi spicca l'Essai sur les préjugés
(di Du Marsais ?, di d'Holbach ?) che fu il manifesto filosofico degli
anni ‘70. La certezza dell'inevitabilità, della fatalità
dell'incendio generale che consumerà tutti i pregiudizi (religiosi)
- "la verità, come il sole, non può retrogradare" - si
mescola all'esortazione pressante ad anticipare con la propria azione
il grande evento liberatore. Ma anche in questo caso non pare che i
philosophes ambissero a un potere diretto, all'assunzione di
responsabilità politiche. Si accontentavano di un potere indiretto,
di essere cioè filosofi di stato, gli ideologi dell'ordine nuovo,
persone quasi sacre. Non aveva detto forse d'Holbach nella Lettre
del 1761 che bisognava "quasi divinizzare" la ragione, invece di umiliarla
e avvilirla? In concreto, sarebbero stati gli elaboratori di quella
legislazione filosofica che avrebbe dovuto costringere i cittadini alle
azioni che procurano, assieme al bene pubblico, il massimo bene per
il massimo numero di persone (G. Tarello).
La piena valorizzazione dell'intellettuale come agente di progresso
[155] si ebbe naturalmente non appena si cominciò a parlare
di progresso; e non soltanto di progresso scientifico, che era già
a quel tempo idea corrente, almeno a partire da Francis Bacon , ma di
progresso politico, sociale, morale. I primi ad aprire il fuoco furono
i cartesiani: quella ristretta compagnia che si riuniva verso il 1690
in una casupola di faubourg Saint-Jacques attorno
al Varignon, della quale facevano parte, tra gli altri, Fontenelle,
l'abate di Saint Pierre, l'abate Vertot, l'abate Terrasson. Il primo
gruppetto omogeneo di philosophes. Ed è proprio la fiducia
nel progresso dello spirito umano in tutti i campi, comprese le lettere
e le arti, il primo articolo del loro credo filosofico (F. Deloffre).
Se Fontenelle si astenne dall'occuparsi di politica, non se ne astenne
invece l'abate di Saint-Pierre. La sua notorietà è legata
a quel Progetto di pace perpetua del quale ebbe la prima idea
nel 1708 e che non cessò tutta la vita di "perfezionare" (la
sua parola preferita). La politica era divenuta lo scopo della sua vita.
"La politica - diceva - è il sublime della ragione". Che cosa
di più degno della ragione che "conoscere e poter dimostrare
agli altri i migliori mezzi di diminuire i mali e di aumentare i beni
degli uomini"? Era anzi, la politica, la regina delle scienze: "La politica
è preferibile a ciascuna delle altre scienze, come il tutto è
preferibile a una delle sue parti". A patto, beninteso, che fosse scienza,
o che almeno potesse diventarlo. Cosa che egli riteneva indubitabile
e che, secondo lui, sarebbe stata agevolata dall'istituzione di Accademie
pubbliche di politica e di etica, dalla frequenza insomma degli scambi
intellettuali. Saint-Pierre amava le città grandi, sempre più
grandi, proprio perché molto si riprometteva dalla concentrazione
di molti uomini, in particolare di molti uomini pensanti. I perfezionamenti
della ragione non sono dovuti soltanto a sforzi solitari, ma sono eminentemente
un fenomeno sociale, il risultato della moltiplicazione degli scambi
(J. Dagen). Abbattuti gli ostacoli, in primo luogo la guerra, create
le condizioni favorevoli, si poteva prevedere uno sviluppo illimitato
dalla ragione. Ma se il raggiungimento della seconda tappa nello sviluppo
della ragione - il passaggio dalla ragione speculativa alla ragione
pratica - non era lontano, quello della tappa finale - il passaggio
dalla ragion pratica alla pratica della ragione - era più problematico:
c'erano di mezzo le passioni. Tuttavia il buon abate non disperava che
gli uomini riuscissero un giorno a identificare felicità e virtù
(che per lui significava soprattutto bienfaisance), fini personali
e fini razionali. Intanto si prodigava senza risparmio a formulare progetti
su progetti d'invenzioni utili all'uomo. Nella sua ingenuità,
il "perfezionismo" di Saint-Pierre metteva in piena luce la carica di
utopismo che [156] racchiudeva in sé la ragione scientifica
seicentesca. Tanto per lui quanto per Terrasson (La Philosophie applicable
à tous les objets de l'esprit et de la raison è del
1754, ma fu scritta nel 1750) tutto il progresso umano è sospeso
alla nascita della moderna geometria; e i suoi limiti coincidono con
i limiti della geometrizzazione dell'universo umano. Inutile entrare
nei particolari. Basta qui soltanto ricordare che l'opera uscì
per le cure di D'Alembert, grande ammiratore del tentativo compiuto
dal vecchio cartesiano; e che da D'Alembert alla "matematica sociale"
di Condorcet il passo è breve. Per non dire della pretesa di
quest'ultimo di creare con l'aiuto delle matematiche una scienza preditiva
dei destini dell'uomo (Esquisse 1794).
Tutt'altra aria si respira, a ogni modo, nella seconda orazione pronunziata
nel 1750 da Turgot in Sorbona, anche se si tratta dello scritto di un
adolescente precoce: Tableau historique des progrès successifs
de l'esprit humain. I tentativi fin lì compiuti di assimilare
l'ordine umano all'ordine naturale sono da lui rigettati. Di fronte
all'ordine naturale sempre identico a se stesso, l'ordine umano apparve
a Turgot il campo di un'innovazione continua, di una perfettibilità
indefinita. In un certo senso per lui, che aveva orrore dell'immobilità,
progresso significava nient'altro che innovazione, esperimento della
novità, indipendentemente dal valore delle innovazioni (F. E.
Manuel). L'importante era liberarsi dal peso morto del passato, rimodellare
continuamente le forme della vita. Agente dinamico, motore del progresso
era il "genio", il portatore di novità. Tutto il problema divenne
per lui quello di trovare l'organizzazione sociale e politica che meno
ostacolasse l'opera dei geni o piuttosto quella che sapesse giovarsene
di più o addirittura moltiplicarne il numero. La funzione centrale
dell'intellettuale nella storia, la critica e l'innovazione, era a ogni
modo dimostrata. E Turgot poteva prevedere che, se le condizioni ottimali
si fossero avverate, ci sarebbero state età creative; nel caso
opposto, età di ristagno e di conservazione. Ma circa il futuro
non voleva dire di più. Nota piccante: il mobilista Diderot non
ha la sua stessa fiducia nel "genio" come fattore di progresso, anzi
ne diffida. L'entusiasmo porta agli eccessi: rischia di guastare gli
acquisti anteriori, d'interrompere "il movimento insensibile e naturale"
(art. Génie).
Una valorizzazione dell'intellettuale in senso forte, cioè dell'uomo
di scienza, riuscì naturalmente il Discours préliminaire
premesso da D'Alembert al primo volume dell'Encyclopédie,
a giustificazione di quella monumentale opera di divulgazione e di sistemazione:
vi narrava la storia [157] dei progressi compiuti dall'umanità
in campo scientifico. Tra l'altro, teneva ben distinte storia delle
idee e storia dei fatti politico-sociali: quest'ultima "non è
spesso che la storia delle nostre disgrazie e dei nostri delitti". Alle
vicende politiche, oltre che alla grande viscosità sociale sono
spesso imputabili i ritardi, le stagnazioni, le ricadute nella barbarie.
Un pericolo, quest'ultimo, sempre imminente: "la barbarie dura dei secoli,
sembra che sia il nostro elemento; la ragione e il buon gusto non fanno
che passare". La vigilanza doverosa degli hommes de lettres
forse non poteva del tutto impedire le rivoluzioni annientatrici. Sfiducia
o timore verso il futuro che è anche più netta nel suo
collega Diderot: "tutto porta in sé un germe di distruzione".
Il successo presente della ragione non garantisce il suo sviluppo illimitato,
non libera dall'angoscia. Entrambi sono ancora prigionieri degli schemi
ciclici del discorso classico sulla storia, non sono ancora ben attestati
nella nuova concezione "cumulativa" del processo storico (Guilemot).
L'Encyclopédie non si presenta forse anche come una grande
operazione di salvataggio dell'intero patrimonio culturale dell'umanità
da una catastrofe di dimensioni planetarie ? Fiero a ogni modo delle
conquiste intellettuali degli ultimi tre secoli, D'Alembert non aveva
dubbi sul dovere degli scienziati europei di partecipare in giro tanta
ricchezza, anche se fosse un dono amaro. L'alternativa era l'ignoranza.
E se è dubbio che la scienza renda felici, neppure l'ignoranza,
che è impotenza, può riuscirci. Diderot impreca: "Maledetto
sia chi non vede che le scienze e le arti hanno fatto progressi incredibili,
e che questi stessi progressi hanno prodotto una mitezza di carattere
nemica di ogni azione barbara". Più elegantemente, D'Alembert
aveva lasciato la questione in sospeso. Ma andava per parte sua caldeggiando
l'applicazione della scienza a migliorare le condizioni di vita degli
uomini. Solo la filosofia "pratica" meritava ai suoi occhi di portare
quel nome (Discours, 1753). Era l'equivalente di quella filosofia
tutta "reale", le benemerenze storiche della quale Antonio Genovesi
in quello stesso anno 1753 andava magnificando con tutta la forza della
sua eloquenza nel Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle
scienze.
Voltaire compose egli pure ultrasettantenne, nel 1765, una Philosophie
de l'histoire: la prima opera, tra l'altro, con questo titolo. Ma
non contiene una teoria del progresso. È al contrario un'opera
deprimente. Il presidente Hénault, lettore acuto, vi trovò
soltanto "solitudine" e "disperazione". Voltaire aveva dato in essa
libero corso al suo pessimismo "L'uomo nasce per l'errore". La storia:
una fantasmagoria di assurdità, di orrori, di aberrazioni. Lo
spirito umano sembra non partorire [158] altro che mostri. J.
Dagen ha detto bene: "In Voltaire c'è del Flaubert di La tentation
de Saint-Antoine". È dunque per rappresentare questo pandemonio
che egli aveva progettato nel 1746 una Histoire de l'esprit humain
che diventerà nel 1756 l'Essai sur les moeurs et l'esprit
des nations ? Non doveva essere piuttosto una storia della formazione
della civilisation occidentale? Anche se la parola non era ancora
nata (a crearla sarà, pare, Mirabeau nel 1757) l'idea di Voltaire
è chiara: suo intento era mostrare "per quali gradi si è
giunti dalla rozzezza barbara dei tempi feudali alla politesse
della nostra". Un progetto molto simile a quello portato a termine vent'anni
dopo, nel 1767, da Adam Ferguson: An Essay on the History of the
Civil Society. Se l'Essai sur les Moeurs riuscì opera
diversa fu perché la struttura mentale, l'architettura del pensiero,
la concezione dell'universo e dell'uomo di Voltaire erano diverse. Soltanto
dopo aver preso coscienza della struttura dissimmetrica dell'universo
voltairiano, dove ordine e disordine coesistono, ma dove solo quest'ultimo
è visibile, e l'altro - la legge di Dio - è nascosto,
inaccessibile alle povere forze della ragione dell'uomo, quest'essere
effimero, possiamo cominciare a capire Voltaire (J. Molino).
Rifiutato il sistema, la grande catena degli esseri, il mondo gli si
presenta come un universo discontinuo, bucato, senz'ordine apparente:
una inquietante collezione di singolarità. Il mondo della natura
e, beninteso, il mondo degli uomini. Con quanta passione, con quale
puntiglio Voltaire raccoglie notizie sulla varietà dei costumi
umani, sulle particolarità di un fatto, di un personaggio. Questo
gusto e mania dei particolari in uno che diceva di puntare all'essenziale,
alle "strutture", si spiegano. Voltaire spera di trovare tra i fatti
un legame che gli sfugge. Non riesce a ricostruire la loro catena causale.
La tentazione di dichiararsi vinto, di godersi con barbara gioia quello
spettacolo incoerente, privo di senso, lo ha assalito più di
una volta. Soprattutto nei Contes. Ma non conosce Voltaire chi
si limita a insistere su questo aspetto della sua personalità.
Se egli tanto si immerge nel disordine è perché desidera
trovare l'ordine, o almeno mettere in tutto quel disordine un po' d'ordine.
Le grandi epoche di civiltà, quelle nelle quali l'uomo, vincendo
la propria inerzia naturale, tende con energia alla realizzazione di
tutte le virtualità della sua specie, sono poche (quattro in
tutto) e lontane tra loro nel tempo, senza rapporto l'una con l'altra.
A quelle riuscite eccezionali succedono la stanchezza, il ripiegamento,
il ritorno alla barbarie. Eppure. scorrendo la storia degli ultimi nove
secoli, piena tutta di convulsioni dolorose, di révolutions,
è costretto ad ammettere che [159] l'Europa aveva fatto
in quei secoli innegabili progressi: era più popolata, più
civile, più ricca, più illuminata di quanto fosse mai
stata. Merito dei suo dinamismo, cioè delle sue passioni? Queste
non avevano prodotto che disastri. Merito piuttosto della laboriosità,
della tenacia, dell'industrie degli uomini. Le guerre civili
avevano a lungo desolato la Germania, la Francia, l'Inghilterra. L'attuale
floridezza di quelle nazioni provava che l'industriosità aveva
finito per trionfare sul furore. In altre parole: la società
civile, quando è vigorosa, si riprende facilmente dai disastri
delle guerre, causate dalle ambizioni dei "grandi" o dall'insensato
odio teologico: "Quando una nazione conosce le arti, quando non è
soggiogata e strappata alla propria terra dagli stranieri, ripara facilmente
le sue rovine, e si riprende sempre". È la lezione di Candide
(1759): bisogna lavorare. Tutti devono contribuire a sollevare l'uomo
dalla sua miseria, tutti devono rendersi utili: "Quale grado di perfezione
non avrebbe raggiunto l'agricoltura, quanti soccorsi ed agi non avrebbero
diffuso nella vita civile le arti che trasformano i suoi prodotti, se
non fosse stato sepolto nei chiostri un numero prodigioso di uomini
e donne inutili?" (Essai, cap. CXCVII).
Da quel lungo viaggio nella storia del mondo degli ultimi nove secoli
Voltaire aveva riportato un'altra certezza consolante: l'unità
fondamentale del genere umano: "risulta da questo quadro che tutto ciò
che riguarda intimamente la natura umana si rassomiglia da un capo all'altro
dell'universo". La differenza, l'irrazionalità è soltanto
nei costumi. Nel pulviscolo caotico dei fatti aveva ritrovato, se non
l'ordine, un "amore dell'ordine" che animava "segretamente", inconsciamente,
il genere umano e che lo aveva finora salvato dall'autodistruzione.
Mossa da quest'istinto naturale l'umanità aveva disciplinato
la guerra, creato il "codice delle nazioni", e riveriva in ogni parte
del mondo la legge e i ministri della legge. In virtù di esso
i figli rispettavano dovunque i padri ed ereditavano da loro; in ogni
paese era tutelata la famiglia; e dappertutto si poneva un freno al
governo arbitrario: con la legge, con gli usi, con i costumi. Il despotismo
asiatico era un'invenzione di Montesquieu: un regime impossibile.
Voltaire aveva dunque universalizzato le esigenze della borghesia ?
È la formula di Meinecke. In realtà, aveva cercato d'individuare
quelle che a lui parevano, dopo lungo studio, le esigenze fondamentali
della società civile per la sua conservazione e per il suo sviluppo.
Quel programma avrebbe potuto in effetti essere quello di una borghesia
che avesse voluto identificarsi con l'umanità stessa: una borghesia
possibile, [160] non una borghesia reale. La borghesia potrà,
una volta nata, servirsi di quelle rivendicazioni umanitarie a copertura
dei suoi interessi, ossia come ideologia. Ma Voltaire parla in nome
del "popolo" che pena e lavora. Tipico il suo atteggiamento nei confronti
della guerra. La guerra è sempre per lui quella dei padroni,
dei "maîtres". Tanto di guadagnato per il popolo se riesce a tenersi
lontano dai suoi flagelli. Perciò Voltaire giudica positivamente
la creazione degli eserciti di mestiere, per se stessa un " male deplorevolissimo":
perché risparmia le popolazioni operose dal prender parte a conflitti
che non li riguardano: "In quale stato di floridezza non sarebbe l'Europa
senza le guerre continue che l'inquietano per lievissimi interessi e
spesso futili capricci?". I fornitori degli eserciti non erano i destinatari
di questo discorso; tanto meno la borghesia patriottica. Se poi si tiene
presente l'atteggiamento anticolonialistico deciso assunto da Voltaire,
esce fuori dal conto la grande borghesia mercantile. Resta il mondo
artigiano, al quale Voltaire guarda con indubbia simpatia. Vogliamo
chiamarlo borghesia manifatturiera? Sarebbe una bella forzatura. No:
Voltaire non parla in nome di una classe, ma di tutti i settori della
società che lavorano e creano ricchezza: ricchezza materiale
o prodotti raffinati dello spirito. Se si batte contro i privilegi aristocratici
e contro le restrizioni della libertà di espressione è
perché lì giudica ostacoli artificiali a quelli che la
sua vasta inchiesta storica ha dimostrato essere i veri fattori di progresso:
ragione e industriosità. La richiesta di una legislazione che
assicuri la "preminenza della società economica" (Tarello) e
la libertà d'opinione è fondata sulla convinzione dell'esistenza
di un amore naturale dell'ordine che garantisce la coesione profonda
dell'operare degli uomini. All'intellettuale, all'uomo cioè che
aveva fatto dell'intelligenza il proprio lavoro, il còmpito di
"illuminare", non soltanto lottando contro i pregiudizi, che tra i tanti
flagelli degli uomini non erano certo il minore, ma mostrando agli uomini
i rimedi per rendere meno infelice, più sopportabile la loro
esistenza. Era questo il modo di "consolarli" che la filosofia militante
del secolo e in particolare lui, Voltaire, il più grande di tutta
la schiera, aveva scelto,ma assumendo su di sé il rischio di
migliorare con la ragione - una ragione ancora giovane ("ce siècle
est l'aurore de la raison") - un mondo forse assurdo.
Tutti ormai guardavano alla metà del secolo all'intellettuale
come [161] all'uomo che poteva risolvere la crisi presente e
riassestare su nuove basi la società. Perfino Rousseau, e proprio
in quella sua celebre diatriba contro la cultura con la quale aveva
fatto nel 1750 la sua irruzione nel mondo letterario, finiva per chiedere
che gli " scienziati della prima sfera" venissero accolti a corte come
consiglieri: "Che essi vi ottengano la sola ricompensa degna di loro,
quella di contribuire con il loro credito alla felicità dei popoli
ai quali avranno insegnato la saggezza". Sarebbe stato un evento memorabile:
"Soltanto allora si vedrà quanto possano la virtù, la
scienza e l'autorità animate da una nobile emulazione e operanti
di concerto alla felicità del genere umano".
Persuaso di essere l'agente primo del progresso umano, il lettré
pretendeva al riconoscimento pieno del suo ruolo essenziale da parte
della società. Il solo fatto che troppi "grandi", troppi uomini
illustri solo per nascita, considerassero ancora la qualità di
homme de lettres un titolo insufficiente di nobiltà bastava
a D'Alembert per qualificare "barbara" la società francese. E
la Cina per converso veniva giudicata civilissima perché i letterati
reggevano lo Stato. Scopritore di verità utili o promotore dello
spirito critico - per Voltaire era una cosa e l'altra - il letterato
era un uomo in anticipo sul proprio tempo. La persecuzione stessa della
quale era fatto oggetto era un riconoscimento pubblico dei suoi meriti.
Un discorso sull'eminente dignità dell'homme de lettres
è il Discours sur la société des gens de lettres
et des grands pubblicato da D'Alembert nel 1753. Il mezzo più
sicuro per farsi rispettare era per essi - vi diceva - "vivere uniti
(se è loro possibile) e quasi rinserrati (renfermés)
tra loro". Soltanto formando una società a parte, una società
ben compatta, "essi riusciranno senza fatica a dar legge al resto della
nazione nelle materie di gusto e di filosofia". Immaginava insomma una
aristocrazia del pensiero, un "ordine" ben distinto da quello della
nobiltà di sangue. La conquista dell'Académie française,
che era per così dire il senato della repubblica dei dotti, era
il primo passo verso questa corporativizzazione. Quando nel 1772 D'Alembert
ne fu creato segretario perpetuo, l'evento fu celebrato come una vittoria
della filosofia. E per certi aspetti lo era stata. I "cappelli", cioè
i philosophes, avevano trionfato sui "berretti", cioè
sui devoti, nella conquista dei posti vacanti. Tuttavia la libertà
d'espressione, soppressa nel 1770 al tempo dell'affare Thomas, non era
stata ripristinata. I discorsi dei confrères continuavano
ad essere censurati dal cancelliere. Per riottenere quella preziosa
libertà i philosophes furono tutti d'accordo sul ricorso
all'arbitrato reale. Poiché l'Accademia era posta sotto l'immediata
protezione del sovrano, toccava a lui mettere al passo ministri e "organi
[162] intermedi", e restituire al corpo il privilegio concessogli
all'atto della sua costituzione. Era un'occasione per mostrarsi davvero
principe illuminato. Il re non si mosse. Il sistema delle elezioni favorì
in ogni modo la dittatura "filosofica" di D'Alembert (che si appoggiava
sul salotto di M.lle de Lespinasse, destinata a durare dodici anni,
fino alla morte del filosofo (1784). Un solo uomo alzò la voce
a protestare e a reclamare elezioni pubbliche, il solito Linguet: "L'Accademia
essendo un'istituzione nazionale, sono i suffragi della nazione che
bisogna consultare nelle scelte che la perpetuano".
Nessuno più convinto di Voltaire della necessità dell'unione
per far trionfare l'illuminato uomo di lettere. Ma proprio mentre andava
caldeggiando e raccomandando l'azione comune, si rendeva conto con maggiore
acuità degli altri della sua debolezza: l'isolamento sociale.
La gran disgrazia dell'uomo di lettere è ordinariamente l'essere
senza legami: "ne tenir à rien". E spiegava: un borghese che
acquista una carica entra a far parte di una corporazione: "se gli si
fa ingiustizia, trova subito dei difensori". Il letterato è invece
"sans secours". Rassomiglia al pesce volante: "se appena si alza gli
uccelli lo divorano; se si immerge, lo mangiano i pesci" (Dictionnaire
phi1osophique, 1765).
Il guaio fu che il pesce volante non si accontentò di occupare
seggi accademici ma volle far politica: senza averne il gusto, anzi
detestandola (era il regno degli "interessi", delle passioni, della
disarmonia), senza assumersene le responsabilità. Anni prima,
nel 1750, intervenendo a favore di una determinata politica fiscale,
proprio Voltaire aveva argomentato in questo modo: "I filosofi, non
avendo alcun interesse particolare, non possono parlare che in favore
della ragione e dell'interesse pubblico" (La voix du sage et du peuple,
1750). La certezza morale di avere accesso all'universale e di poter,
partendo da questo, universalizzare il particolare: ecco la radice di
tante superbe illusioni, dell'arroganza, e anche dell'infelicità
profonda (fu Hegel a notarlo) dell'illuminista entrato in politica.
L'uomo che pensa, avendo messo a tacere le passioni, pretese di parlare
non già a nome proprio, ma si qualificò volentieri, come
Diderot, "organo passivo della ragione". Autoproclamatosi portavoce
e ministro dell'universale ragione, investito perciò di un'autorità
incontestabile e incontrastabile, assolutizzò i propri progetti
politici nascondendone appunto la loro essenziale politicità.
E credette in tal modo, per il solo fatto di muoversi nella sfera delle
pure esigenze morali, di aver garantito il proprio operare contro i
rischi d'inefficacia o peggio di perversione propri di ogni impresa
politica.
[163] Forti dell'appoggio dell'opinione pubblica, il cui impero,
a sentire Rulhière (1787) si era manifestato in Francia la prima
volta al tempo della grande lotta del 1750 (ed è forse questo
l'evento al quale fa di continuo allusione Voltaire quando parla della
"felice rivoluzione degli spiriti" avvenuta alla svolta del secolo)
gli hommes de lettres esercitanti il loro magistero filosofico
si sentono detentori di un potere legittimo ed enorme. Si paragonano
per bocca di Malesherbes (1775) agli oratori di Grecia e di Roma riuniti
in assemblea (soltanto, questa volta, grazie alla stampa, assemblea
era la nazione intera). Sentono che il tempo lavora per loro: prima
o poi - scrive Louis Sébastien Mercier (l'autore di quell'opera
di science fiction politica che è L'an 2440, 1770)
- questi fabbricatori dell'opinione pubblica "dirigeranno le idee nazionali.
le volontà particolari sono nelle loro mani" (1778). Il pubblico,
deplorerà Guizot 1808, aveva fatto degli scrittori "il primo
stato della società". Ormai essi, convinti di formare un gruppo
a sé, cercano, in una società di ordini, uno spazio, una
collocazione sociale precisa. Anche perché il loro numero era
inverosimilmente cresciuto. Non abbiamo dati numerici precisi. Ma l'impressione
dei contemporanei è unanime: tutti parlano di una vera e propria
inflazione della professione letteraria. Dove avessero compiuto la loro
prima formazione tutti questi aspiranti al mestiere letterario non si
riesce a capire: non nelle università, che, in Francia come altrove,
vedono diminuire le immatricolazioni (malgrado che il possesso dei gradi
accademici fosse indispensabile per accedere ai grandi benefici - arcivescovati,
vescovati, prebende teologali, penitenzierie - e per esercitare determinate
professioni: medici, ufficiali di giustizia); non nei collegi religiosi,
calati di numero dopo l'espulsione dei gesuiti nel 1763, e che nel corso
del secolo avevano perduto, anziché guadagnato, allievi (Dainville);
non nelle grandes écoles, che preparavano tecnici
di alto livello.
Comunque sia: a Parigi, nel faubourg Saint-Germain, brulica
tutta una turba di giovani intellettuali di provincia, di déracinés
- veri e propri proletari della "repubblica delle lettere" - alla ricerca
di un inserimento nella società o più semplicemente di
un impiego. I più si adattano a vivere componendo libelli calunniosi,
opere pornografiche, scritti di ogni genere o facendo magari le spie
della polizia in attesa di formare i "quadri" del movimento rivoluzionario
(R. Darnton, E. Di Rienzo). Diderot, che era partito egli pure da un
ambiente del genere, ci ha lasciato, di questa canaille intellettuale
un ritratto indimenticabile: Le Neveu de Rameau. L'esistenza
di questa massa di scontenti costituirà per [164] gli
hommes en place più intelligenti un problema. Nel 1775
il barone di Breteuil, riflettendo sulla "maniera di render utili i
gens de lettres" proporrà il loro assorbimento nella burocrazia
statale. Sono questi uomini che facendo proprio il discorso illuministico,
che era stato nell'essenziale un grande discorso problematico sull'uomo,
sul mondo, sulla libertà, lo riducono a uno stock limitato
di idee, di formule, di parole d'ordine (libertà, uguaglianza,
felicità, progresso, fraternità, governo della legge).
Lo degradano insomma a ideologia; ne fanno per l'esattezza una ideologia
rivoluzionaria. Certo c'è ben poca somiglianza tra questi uomini
dalle certezze incrollabili, tra questi terribili dogmatici e, mettiamo,
un Voltaire che, facendo il proprio bilancio intellettuale, scriveva:
"mi sono trovato possessore di quattro o cinque verità, tirate
fuori da un centinaio di errori, e carico di un'immensità di
dubbi". Ma sono stati proprio gli illuministi, esercitando come avevano
instancabilmente fatto la loro giurisdizione morale sul mondo politico,
a provocare quella crisi di autorità che rese, se non inevitabile,
almeno possibile la frattura rivoluzionaria. Rousseau almeno aveva presagito
l'imminenza di un'epoca tempestosa: "sento arrivare la crisi e l'epoca
delle rivoluzioni" (Émile,1762, cap. IV). Negli stessi
anni Voltaire si cullava invece nella prospettiva di lendemains qui
chantent: di una grande, pacifica rivoluzione nella mentalità
collettiva, dans les esprits, che avrebbe visto il suo compimento
verso il 1785: "je vois venir de loin ces temps, ces jours sereins,
/ Où la philosophie, éclairant les humains, / Doit les
conduire en paix aux pieds du commun maître" (Epître
CXI, 1765). Invidiava soltanto le generazioni più giovani della
sua: "Mi fa rabbia il dover morire prima di aver visto gli inizi dell'epoca
felice della quale voi godrete". E ancora: "i giovani sono proprio fortunati:
vedranno delle belle cose" (1764). Il marchese di Chastellux, dopo aver
scorso tutti i secoli dell'avventura umana per misurarne il grado di
felicità, così apostrofava i contemporanei, soprattutto
le generazioni appena nate: "Voi che vivete, e soprattutto voi che cominciate
a vivere nel secolo diciottesimo, rallegratevi" (De la félicité
publique, ou considérations sur le sort des hommes dans les différentes
époques de l'histoire, 1772).
A merito dei philosophes va tuttavia ascritto il tentativo -
il primo della storia - d'immettere, se vogliamo d'iniettare a forza
e in dosi eroiche, nella lotta politica valori che non fossero di origine
religiosa; di aver anzi mirato alla creazione di un'autorità
laica in concorrenza con le chiese tradizionali: la comunità
degli esseri pensanti, degli scrittori. Facendosi [165] forti
di tutto il prestigio della ragione, gli hommes de lettres cercarono
di sostituire una politica sollecita del bene pubblico, della pace e
delle arti della pace, della collaborazione internazionale alla trista
politica della forza; reagirono in nome della giustizia offesa contro
le prevaricazioni del potere pubblico o del potere religioso, contro
lo spirito di persecuzione e di esclusione. In quest'opera di denuncia
e di opposizione essi furono a volte magnifici. Ma quando, senza misurare
le proprie ambizioni, vollero mischiarsi con la politica delle corti,
e dovettero di conseguenza sposare questa o quella causa, ne uscirono
diminuiti. Per quanto s'illudessero (e i principi li lasciarono in quell'illusione)
di essere una potenza pari a quella dei sovrani - si pensi al tono dei
rapporti epistolari di D'Alembert o Voltaire con Federico II - prima
o poi i philosophes dovettero ammettere di essere stati strumentalizzati:
"Voialtri re - confessa Voltaire a Federico nel 1775 - siete come gli
dèi d'Omero, che fanno servire gli uomini ai loro disegni senza
che questi poveri diavoli se ne rendano conto". Alludeva ai casi di
Polonia, che furono per la filosofia un gran brutto incidente. Sembra
che i philosophes, che non avevano capito molto della situazione
di quel paese, avessero avuto in tutta la faccenda un solo scopo: screditare
una volta di più la politica estera francese, umiliare i Welches.
Vecchio gioco, che riusciva quasi sempre. Come spesso hanno fatto gli
intellettuali progressisti venuti dopo di loro, i philosophes
troppo facilmente credevano e facevano credere che i valori atrocemente
calpestati in Francia si erano già realizzati altrove. Criticissimi
nei confronti del proprio paese, dove nulla andava per il verso giusto,
dimissionavano ogni spirito critico o davano prova di straordinaria
indulgenza quando si trattava di giudicare un paese remoto. Sono evidenti
i rischi di queste mitizzazioni, tanto più sorprendenti in chi
si era fatto un punto d'onore di combattere il pensiero mitico in tutte
le sue forme.
L'atteggiamento di sistematica denigrazione dei poteri pubblici in Francia
conduceva i cittadini alla disaffezione verso il proprio governo, alla
crisi dell'autorità, alla spaccatura del paese. Già lo
si è detto. Il fatto che qui si voleva sottolineare è
un altro: che ciò facendo gli intellettuali innescarono un processo
che non furono in grado di controllare e dal quale rischiarono di essere
travolti. La rivoluzione spinse molti nobili e molti borghesi a imputare
loro la responsabilità morale dei recenti avvenimenti; e a contestare
il loro prestigio e le loro pretese. Non solo. Molti membri dell'intellettualità
laica si unirono al coro, e denunziarono i misfatti, gli effetti devastatori
dell'intelligenza, impiegando [166] nello screditarla tutto il
prestigio che avevano acquistato in virtù proprio della crescita
sociale della corporazione. Ma ben presto, passato quel primo momento
di reazione, l'homme de lettres, il protagonista di quel grande
trasferimento di potere avvenuto nella seconda metà del secolo
XVIII dalle chiese tradizionali a un'autorità laica, riprese
e anzi ampliò la sua influenza. Il secolo XVIII aveva celebrato
e consacrato nello scrittore il filosofo e il pubblicista, il portatore
di chiarezze umane; il secolo XIX ai suoi esordi gli aveva contrapposto
il poeta, il portatore del mistero e dell'ineffabile, il testimone della
supremazia del divino. Una concezione spiritualistica più larga
fuse i due tipi. Figura dominante divenne il Poeta-Pensatore, "un ispirato
portatore di lumi moderni e insieme di mistero, mostrante agli uomini,
accompagnandoli nella loro marcia, uno scopo distante e puro" (P. Bénichou).
L'età romantica in Francia non soltanto restituì alla
corporazione pensante la funzione di guida spirituale della società
che l'Illuminismo le aveva conferito in concorrenza con la vecchia chiesa;
ma gliela restituì accresciuta del nuovo prestigio derivante
dalla frequentazione delle regioni divine, della vita profonda del cosmo.
Ma è tempo di guardare più da vicino alle strutture teoriche
del discorso politico dei lumi. Il problema centrale è quello
del potere, del contenimento del potere. È questo a ogni modo
il problema centrale di Montesquieu, il più famoso forse tra
i pensatori politici dei lumi, ma non il più influente. La sua
domanda è: come esorcizzare la natura demoniaca del potere ?
È nota la risposta: per mettere l'individuo al riparo dagli abusi
di potere non c'è altro modo che contrapporre potere a potere,
moltiplicare i centri di potere, creando tutta una serie di delicati
equilibri: "per evitare che si abusi del potere è necessario
che, grazie alla disposizione delle cose, il potere fermi il potere".
In altre parole: l'organizzazione costituzionale che impedisce gli abusi
di potere a danno della libertà individuale non è quella
che attribuisce una sfera di libertà al singolo limitando di
conseguenza l'invadenza della legge (l'unico diritto di libertà
del singolo consiste non nel "fare ciò che si vuole", ma nell'obbedire
alla legge: "la libertà è il diritto di fare tutto ciò
che le leggi permettono"); è piuttosto quella che garantisce
una relativa impotenza degli organi costituzionali. Una costituzione
del genere [167] non è soltanto teoricamente possibile,
ma si è anche storicamente realizzata: è la costituzione
dell'Inghilterra, uno stato che "ha per fine la libertà". In
esso il cittadino è liberato dalla paura di essere turbato nel
pacifico godimento della vita e dei possessi a opera di altri cittadini:
"La libertà politica per un cittadino è quella tranquillità
di spirito che proviene dall'opinione della propria sicurezza; e perché
si abbia tale sicurezza occorre che il governo sia tale che un cittadino
non possa aver paura di un altro cittadino". In concreto, la libertà
identificata con la sicurezza del cittadini "dipende principalmente
dalla bontà delle leggi criminali".
Per mostrare come funziona una costituzione nella quale "il potere arresta
il potere", Montesquieu è obbligato a individuare, a distinguere
i poteri. Essi sono per lui sempre e soltanto tre: il potere legislativo,
il potere esecutivo, il potere giudiziario. Per evitare gli abusi di
potere e consentire la libertà occorre che la costituzione collochi
i tre poteri presso organi separati. Dove uno solo di questi poteri
è indipendente, lo stato è "moderato"; dove i tre poteri
sono demandati a tre organi diversi lo stato è "libero"; dove
sono concentrati e confusi in un solo corpo o in una sola persona esso
è dispotico, la peggiore di tutte le forme politiche, se pure
di forma si può parlare. Neppure basta che i tre poteri siano
separati: occorre che l'organo depositario del più importante
tra loro - il legislativo - sia frenato al suo interno da svariati contrappesi
o interventi paralizzanti.
Di particolare interesse perché destinata a importanti sviluppi
nella posteriore ideologia giuspolitica è la concezione del "tremendo"
potere di giudicare, che Montesquieu voleva affidato non già
a un corpo permanente di magistrati ma a giudici popolari e occasionali,
ossia a non specialisti della legge. Di necessità fu costretto
a insistere sull'esigenza di chiarezza e di certezza: "Ma se i tribunali
non devono essere fissi, i giudizi debbono esserlo a tal punto da non
essere mai altro che il testo preciso della legge". Se le leggi "fossero
l'opinione personale di un giudice si vivrebbe nella società
senza sapere con precisione quali impegni vi si contraggono". La libertà
intesa come sicurezza psicologica dell'individuo si realizza attraverso
la certezza del diritto (G. Tarello). Realista, Montesquieu si era limitato
a fissare i limiti legali, entro i quali il cittadino può, se
vuole, esercitare la propria libertà. È il massimo limite
al quale può giungere per lui la moralizzazione della politica.
Per lo stesso motivo - mettere i cittadini al sicuro dai grands coups
d'autorité - egli esaltò all'estremo il commercio,
il doux commerce, ossia la ricchezza mobiliare, [168]
inafferrabile (A. O. Hirschman). L'essenziale era che la società
civile venisse protetta dall'invadenza del potere politico. Di fronte
al pericolo di una regolazione arbitraria di essa, Montesquieu opta
per uno stato inefficiente, paralitico. L'idea che il fine dell'organizzazione
politica fosse la positivizzazione e la tutela di ben precisati diritti
naturali individuali e inviolabili, e che la loro violazione bastasse
a illegittimare il potere; tanto meno quella di un controllo costituzionale
diffuso di natura strettamente giurisdizionale mediante il ricorso al
giudice da parte del soggetto leso, o che si crede leso, nei suoi diritti
costituzionalmente garantiti (justiciabiIity) gli rimasero estranee.
Queste idee, centrali nella costituzionalizzazione delle colonie inglesi
d'America a partire dal 1776 (ossia nelle Dichiarazioni dei diritti
e nelle Costituzioni che i tredici stati insorti contro il dominio inglese
provvidero a darsi per assumere rispettabilità sul piano internazionale),
derivavano piuttosto da Locke e dalle interpretazioni liberali delle
teorizzazioni di William Blackstone (G. Tarello). L'influenza di Montesquieu
si farà sentire nell'America inglese più tardi, nel 1787,
quando si trattò di elaborare una costituzione federale. Pur
adottando il sistema di checks and balances (controlli e equilibri)
ossia la separazione dei poteri come schema di organizzazione del potere
centrale, il problema dei costituenti americani sarà però
quello di rimediare al rischio dell'inefficienza che il modello montesquiviano
comportava (The Federalist, 1787-1788).
La diffidenza verso il potere statale nasceva in Montesquieu direttamente
dal suo pessimismo circa le possibilità della ragione di controllare
e moderare le passioni, in particolare il gusto di dominio, la sete
di potere: tanto più inestinguibile in quanto assimilata da lui
al piacere: "è un'esperienza eterna che ogni uomo che ha potere
è portato ad abusarne, e si spinge fino a tanto che non incontra
dei limiti. Chi lo direbbe? la virtù stessa ha bisogno di limiti".
La convinzione di aver scoperto meccanismi naturali che assicurano,
senza l'intervento della ragione, il miglior funzionamento della società
rese alcuni pensatori dopo di lui più ottimisti. Bastava lasciar
fare alla natura, che aveva pensato a tutto: "Tutto è calcolato,
tutto è pesato, tutto è previsto - scrive Morelly - nel
meraviglioso automa della società, i suoi ingranaggi, i suoi
contrappesi, le sue molle, i suoi effetti; se vi si nota contrarietà
di forze è vacillazione senza scosse o equilibrio senza violenza:
tutto vi è spinto, tutto vi è portato verso un solo scopo
comune" (Code de la nature, 1755). È il gioco stesso degli
istinti, degli impulsi individuali alla felicità e al piacere,
a ottenere così meravigliosi effetti: "Questa macchina, in una
[169] parola, benché composta di parti intelligenti, opera
in generale indipendentemente dalla loro ragione in molti casi particolari;
le decisioni di questa guida sono predeterminate e la lasciano soltanto
spettatrice di ciò che il sentimento produce".
Da tutti quanti la pensavano così - Morelly, Mably, Hèlvétius,
d'Holbach - ci si potrebbe legittimamente aspettare che reclamassero
una drastica riduzione dell'attività normativa dello stato per
lasciar libero il campo alle "buone" forze naturali. Adottarono invece
l'atteggiamento esattamente contrario. Tutti chiesero pesantissimi interventi
legislativi volti a determinate i comportamenti degli uomini e costringerli
ad adeguarsi alle leggi naturali, realizzando così la propria
e l'altrui felicità nonché quella dell'intero corpo politico.
Contraddizione, certo, dalla quale si tolsero almeno a parole con la
teoria dell'illimitata plasticità dell'uomo. I meccanismi naturali,
per effetto di questa modificabilità, erano stati deviati, l'uomo
era stato corrotto: o per l'introduzione dell'"innaturale" principio
di proprietà (Morelly, Mably) o per la repressione degli impulsi
a opera della morale religiosa (Helvétius, d'Holbach). Occorre
dunque riattivare in lui il potere della natura, rieducarlo. La legislazione
diventa pedagogia sociale; governare, l'arte di formare l'uomo. Il pensiero
dei materialisti Helvétius e d'Holbach raggiunge su questo punto
il pensiero di Rousseau: il "legislatore" del Contrat social
è appunto uno di cotesti grandi manipolatori di coscienze. Tanto
più energico in quanto per l'artificialista Rousseau non si tratta
di ripristinare dei meccanismi naturali momentaneamente inceppati, ma
nientemeno di annientare la natura - "changer pour ainsi dire la nature
humaine" -, di trasmutare in altre parole gli uomini, per natura solitari,
in membri di un corpo politico: "di trasformare ogni individuo, che
per se stesso è un tutto perfetto, in parte di un più
grande tutto dal quale questo individuo riceva in qualche modo la sua
vita e il suo essere; di alterare la costituzione dell'uomo per rafforzarla;
di sostituire un'esistenza parziale e morale all'esistenza fisica e
indipendente che abbiamo ricevuto dalla natura" (Contrat Social,
II, 7).
Il primo passo verso una seria riflessione politica è per Helvétius
- il caposcuola degli utilitaristi (De l'esprit, 1758; De
l'homme, 1773) - il riconoscimento che l'uomo è mosso soltanto
dalle passioni. Non resta che servirsene, contrapponendo le une alle
altre. L'unica motivazione delle azioni umane è "il sentimento
dell'amore di sé": l'egoismo. È questa la "misura dell'azione
degli uomini". Ed è su questa passione fondamentale, madre di
tutte le altre, che bisogna cercare di far leva per far [170]
funzionare bene la società. L'arte politica è l'arte di
comporre gli interessi fra loro. Se questa composizione, questa armonizzazione
non riesce si ha la corruzione politica, l'anarchia. Ma come assicurare
questa convergenza? Per Helvétius è il compito della legislazione
che assorbe in sé anche la morale. Assicurare la convergenza
degli interessi equivale a rendere gli uomini virtuosi. Il legislatore
deve scoprire "il mezzo di necessitare gli uomini alla probità,
costringendo le passioni a dar frutti di virtù e di saggezza":
deve cioè escogitare un sistema di pene e di ricompense che realizzi
quella convergenza degli interessi individuali che assicuri la più
grande felicità per il maggior numero. La politica si risolve
dunque in legislazione, in una forte emissione di norme; il potere si
riduce a quello necessario all'esecuzione delle leggi. Beccaria, nel
suo trattato De' delitti e delle pene (1764) - l'opera maggiore
dell'illuminismo lombardo - non la pensava molto diversamente. Da Helvétius
prese le mosse Bentham per elaborare la sua teoria della identificazione
artificiale degli interessi quale è espressa nei Principi
della morale e della legislazione (1789). E da Helvétius
tolse molti principi Gaetano Filangieri per la sua Scienza della
legislazione (1780-1791). Sulla stessa linea di Helvétius
si era mosso in Francia d'Holbach (Système de la nature,
1770; Politique naturelle, 1773; Système social,
1773). La novità di d'Holbach è che traduce in linguaggio
utilitaristico le formulazioni proprie dei giusnaturalismo e giuscontrattualismo
garantista: i vantaggi assicurati della società politica consistono
nella tutela a opera della legge dei diritti individuali di libertà,
proprietà e sicurezza. Ma in linea con Rousseau questi diritti
o piuttosto vantaggi "non sono un prius rispetto alla legislazione,
bensì il risultato della legislazione stessa" (G. Tarello). Dominata
da cima a fondo dalla preoccupazione della felicità, l'ideologia
della legge di Helvétius e di d'Holbach rivela un'alta potenzialità
eversiva nella polemica contro gli ostacoli che le istituzioni esistenti
e le mentalità dominanti oppongono alla realizzazione di quei
fini.
Ma sono evidenti, a guardar bene, anche le sue potenzialità totalitarie:
"la stessa idea di un sistema autonomo dal quale sia stato eliminato
ogni male e ogni infelicità è totalitario" (J. L. Talmon).
La supposizione che un tale sistema è realizzabile, e anzi inevitabile,
"è un invito per un regime a proclamare che esso realizza questa
perfezione, a esigere dai cittadini riconoscimento e sottomissione e
a condannare l'opposizione come vizio o perversione". Chi se non un
pazzo o un perverso potrà in effetti rifiutare un regime che
realizza perfettamente l'ordine naturale?
[171] Di ordine naturale parlarono a sazietà gli "economisti"
o, come loro piacque denominarsi dopo il 1767, i "fisiocratici". Ne
fecero anzi la nozione centrale sia della loro concezione economica
sia della loro concezione politica. E poiché come economisti
mirarono a incrementare la produzione della ricchezza nello Stato, come
politici ricercarono esclusivamente gli strumenti giuridico-istituzionali
atti a favorire la produzione della ricchezza. Per ricchezza secondo
natura essi intendevano i prodotti del suolo: i prodotti agricoli e
quelli minerari; e per produzione di ricchezza, lo sfruttamento della
terra, fatta già oggetto di appropriazione privata (proprietà,
si badi, individuale e piena). Per analizzare la ricchezza prodotta
nello Stato essi divisero la popolazione in classi a seconda della loro
posizione nel processo produttivo: classe proprietaria, classe produttiva,
classe sterile. Divisione "naturale", della quale si scorgono a prima
vista le potenzialità eversive dell'assetto sociale e istituzionale
d'ancien régime. La legislazione intesa a favorire la
produzione della ricchezza dovrà infatti rimuovere gli ostacoli
giuridici che impediscono l'instaurarsi di relazioni naturali tra queste
classi. Più in generale il rapporto tra economia e politica viene
rovesciato: il fine essenziale delle società politiche è
la tutela dell'ordine proprietario. Il concetto stesso della politica
viene praticamente soppresso attraverso la sua razionalizzazione assoluta.
Mirabeau scrive: "gli uomini sono governati dalle cose". Proprio per
non poter più usare i concetti di politica e di economia politica,
Dupont de Nemours aveva creato il termine "fisiocrazia", governo della
natura delle cose. Le leggi positive non sono per Quesnay, il fondatore
della sètta, che "semplici commenti" delle leggi, naturali e
primitive iscritte nell'ordine fisico del inondo: "senza questa base
dell'ordine fisico non c'è niente di solido, tutto è confuso
o arbitrario nell'ordine della società: da questa confusione
sono derivate tutte le costituzioni irregolari e stravaganti dei governi".
Le leggi naturali dell'ordine della società "sono le leggi fisiche
stesse della riproduzione perpetua dei beni necessari al nutrimento,
alla conservazione e alla comodità degli uomini". Ridurre l'ordine
delle società politiche all'ordine fisico equivale a ridurle
a un ordine assoluto, immutabile "dal quale non possiamo allontanarci
senza nostro danno". La Cina, che già aveva tentato l'immaginazione
dei philosophes (era governata da letterati; la religione confuciana
era semplicemente una morale; un'aristocrazia del sangue vi era sconosciuta
affatto) diviene ora, per opera di Quesnay (che si onora [172]
del titolo di "Confucio d'Europa" che i suoi devoti gli attribuiscono)
un mito, ma per altre ragioni: per l'incredibile durata di quell'impero
che sembrava ignorare l'erosione del tempo e per la forma despotica
del suo governo. Lo scritto Despotisme de la Chineè uno
dei testi fondamentali del gruppo.
Fissare le linee di quest'ordine immutabile fu l'assunto grandioso di
Le Mercier de la Rivière: L'ordre naturel et essentiel des
sociétés politiques (1767). Diderot, che aveva divorato
quel libro, ne parlava con ammirazione incondizionata: "È lui
che ha scoperto il segreto, il segreto eterno e immutabile, della sicurezza,
della durata, della felicità eterna degli imperi". A guarirlo
da quell'infatuazione riuscirà appena due anni dopo Ferdinando
Galiani con i suoi Dialogues sur le commerce des blés.
Ma quel primo moto di entusiasmo resta; ed è pur sempre una spia
della sua mentalità, delle sue attese.
I fisiocratici professarono non una ma due dottrine dell'armonia: furono
per il laissez-faire e sostennero l'armonia degli interessi,
cioè quella particolare concezione che afferma che l'interesse
pubblico scaturisce dalla libera ricerca da parte di ciascuno del proprio
particolare interesse. Su quale base fondarono le loro certezze? Essi
rispondevano con bella sicurezza: l'evidenza. Quei princIpi avevano
sempre guidato l'umanità, almeno da quando questa si era organizzata
in società civile. Nelle società "nascenti", nelle società
barbare infatti quell'ordine non viene rispettato. Ed è per questo
che non riescono a progredire. Lasciamo perdere questa prima contraddizione.
Più grave è l'altra: come mai questi princIpi, evidenti
a tutti, restano sconosciuti ai politici? Perché costoro sono
menti tortuose? Non è una risposta. Limitiamoci comunque a prendere
atto senza discutere di queste postulazioni della sètta. Sono
le conseguenze che essi ne traggono a interessarci di più. Il
problema, il primo problema per i fisiocratici, sarà dunque come
legar le mani ai politici. In altre parole, trovare la forma di governo
che faccia governare le cose, non gli uomini. Sarà la democrazia?
Neppure per sogno: "Ogni buon governo - sentenzia Mirabeau - consiste
nel ridurre al minimo gli affari pubblici". E la democrazia "fa di ogni
cosa un affare pubblico". Sarà la monarchia temperata alla Montesquieu
e alla Mably ? Neppure. Quesnay era perentorio: il "sistema delle controforze"
era un'"opinione funesta" (Maximes fondamentales du gouvernement
économique d'un royaume agricole). Una macchina troppo complicata,
difficile da montare e da far funzionare. L'ordine naturale non può
manifestarsi se il governo non è una macchina semplice. Restava
il despotismo. Ma quale? Quello arbitrario? Quesnay [173] descrive
con i colori più foschi i danni provocati da questa forma di
governo. Occorreva si il despotismo, ma quello "personale e legale":
un sistema che legasse il principe con il vincolo dell'interesse agli
interessi della nazione.
Perciò i fisiocratici lo vollero comproprietario delle ricchezze
del regno; e poiché ancòra temevano che questo vincolo
non fosse forte abbastanza, affidarono ai tribunali il controllo della
sua opera legislativa affinché non si allontanasse dal "giusto"
ordine delle cose. Nel caso che tale conformità non vi fosse
stata i magistrati non avrebbero dovuto applicare le leggi prevaricanti
(M. Einaudi). Non è tutto. Visto che il potere null'altro deve
fare che conformarsi all'ordine razionale; visto che il dibattito politico
è un potente fattore di disturbo al libero manifestarsi dei meccanismi
naturali, la scelta del despota a garante e guardiano di un ordine naturale
al quale gli uomini non sono ancora abbastanza affezionati ha la funzione
d'impedire il risveglio della politica, sempre pronta a scatenarsi (P.
Rosanvallon). Per questo stesso motivo, i fisiocratici caldeggiano un'istruzione
pubblica, un'istruzione impartita dallo Stato: per fornire ai giovani
le conoscenze tecniche necessarie a migliorare lo sfruttamento delle
risorse naturali, per ben imprimere negli animi delle generazioni nuove
i principi fondamentali della sètta. Una sorta di "medicazione
intellettuale", diceva Tocqueville. Ma è pur sempre un fatto
positivo che essi, con un vigore sconosciuto agli altri uomini dei lumi,
ponessero in primo piano il problema educativo come problema fondamentale
dello Stato (M. Albertone).
La separazione tra società giuridico-politica e nazione economica
fondata sul sistema dei bisogni e regolata dal libero scambio sarà
praticata con la maggiore chiarezza da Adam Smith (La ricchezza delle
nazioni, 1776). Vero cemento della società è il legame
economico che unisce gli uomini come produttori di merci per il mercato.
La distinzione fondamentale non è più tra società
naturale e società civile, ma quella tra società e governo.
Alla nozione di contratto Smith ha sostituito quella di mercato: un
mercato che coincide perciò con la società intera. Si
può parlare, a proposito di Smith, di "mercato generalizzato"
(P. Rosanvallon). Perciò egli non è soltanto un economista,
ma anche un sociologo. Il mercato, che accorda mirabilmente interesse
e giustizia, garantisce il dinamismo della società, il suo sviluppo.
E questo perché lo scambio non è più concepito
come un gioco a somma zero, ma come transazione vantaggiosa per entrambe
le parti.
In questo modo, nel cuore stesso del pensiero dei lumi, la ricerca dell'ordine
migliore della società civile - l'ordine che assicurasse il suo
[174] illimitato sviluppo - ha messo capo al primato dell'economico.
Indipendentemente dalle concrete manifestazioni di capitalismo, per
risolvere soprattutto problemi di ordine politico, è nata l'ideologia
economicistica (L. Dumont, A. O. Hirschman). Nella formazione di questa
ideologia non va trascurato il contributo dato dalla scuola storica
scozzese: Adam Ferguson (An Essay on the History of Civil Society,
1767); William Robertson (The History of Scotland, 1759; History
of the Reign of the Emperor Charles V, 1769; History of America,
1777-1794); John Millar (Observations concerning the Distinction
of Ranks, 1771; An Historical View of the English Govemment,
1787) nonché James Steuart, che era sì scozzese, ma avendo
trascorso la vita in esilio di quel gruppo non si considera parte (Inquiry
into the Principles of Political Economy, 1767). Tutti sono convinti
della dipendenza del politico e del sociale dall'economico. Per Steuart,
che legava strettamente le forme politiche al sistema di produzione,
la monarchia era una forma superata proprio per il fatto che, costretta
a promuovere commercio e industria per tener bassa la nobiltà,
allentava i legami di dipendenza economica, e quindi di subordinazione
politica, di quei gruppi. B. Mandeville (La favola delle api,
1714-1729) pensava ancora che la divisione sociale del lavoro, condizione
indispensabile per aumentare la produttività, avesse bisogno
di un grande organizzatore che distribuisse i compiti e controllasse
l'insieme del processo: il re e il suo consiglio "devono aver l'occhio
a tutto e tutto guidare". E lo stesso pensava ancora Ferguson nella
sua History (1767). Smith ha rotto con questa tradizione: "La
divisione del lavoro non deve essere considerata in origine come effetto
di una saggezza umana che abbia previsto e che abbia avuto per fine
l'opulenza generale che ne è il risultato; essa è la conseguenza
necessaria, benché lenta e graduale, di una certa inclinazione
naturale a tutti gli uomini, i quali non hanno in vista mire di utilità
così larga: è l'inclinazione che li porta a trafficare
a barattare, a scambiare una cosa per l'altra". È dunque la propensione
allo scambio che produce la socializzazione, non il contrario.
Ma qual è dunque il compito del potere politico? Per i fisiocratici,
lo sappiamo, essendo le leggi "belle e fatte" dalla natura, il governo
deve "sparire" di fronte ad esse. L'autorità sovrana "non deve
ledere (empiéter sur) l'ordine naturale della società"
(Quesnay). Ma non doveva però, per il fondatore della scuola,
restarsene inattivo. Come ogni buon giardiniere, senza toccare la scorza,
doveva togliere il muschio che soffocava l'albero. Ma i suoi discepoli
si dichiareranno per un laissez-faire assoluto, per "una concorrenza
libera e immensa". L'amministrazione, per [175] Le Mercier, è
cosa facile: basta "non vietare nulla"; e punire, beninteso, i malfattori,
i violatori della proprietà. Turgot, alla vigilia del suo ministero
(1774-1776), si dichiara egli pure rassegnato a "lasciar andare le cose
proprio come vanno da sé, per opera dei soli interessi degli
uomini animati ed equilibrati (balancés) dalla libera
concorrenza". Come si sarebbe potuto, con l'aritmetica politica, controllare
tutti i meccanismi di un'economia divenuta ormai troppo complessa? La
posizione di Smith è più articolata di quanto si creda.
Il dilemma per lui non è più dirigismo o libertà:
intervenire o lasciar andare le cose per il loro verso. Lo Stato liberale
non può restarsene inattivo, deve anzi dispiegare una grande
attività. Deve costruire infatti un mercato perfetto. Deve difendere
la società nazionale dall'aggressione esterna; deve proteggere
ciascun membro della società dall'oppressione di qualunque altro
membro; deve costruire tutte quelle opere e finanziare tutte quelle
istituzioni che la mano privata non avrebbe nessun interesse a creare.
La realizzazione di una società di mercato è inseparabile
come si vede dallo Stato di diritto o comunque dall'uguaglianza di fronte
alla legge; ed è inseparabile dalla creazione, oltreché
di opere d'interesse pubblico che facilitino gli scambi (strade, ponti,
canali ecc.), di scuole, e di scuole popolari, per lottare "contro il
veleno del fanatismo e della superstizione", per creare uomini ragionevoli.
L'uomo illuminato è il membro ideale, il migliore garante della
società di mercato.
La distinzione tra società e governo se spinta alle sue estreme
conseguenze conduceva all'anarchismo. E furono proprio gli illuministi
inglesi a compiere il passo decisivo: Tom Paine e William Godwin. Già
nel Common sense (1776), questo straordinario opuscoletto che
servì più di ogni altro a dare un largo contenuto umano
alla lotta d'indipendenza delle colonie inglesi d'America, si leggevano
frasi inquietanti: "la società e il governo non sono soltanto
realtà differenti, essi hanno origini differenti". Infatti "La
società è il prodotto dei nostri bisogni, il governo quello
delle nostre debolezze". Il governo è nel migliore dei casi un
male necessario; la società "è in tutti i casi una benedizione".
Tra i migliori governi annoverava il repubblicano perché meno
invadente, meno oppressivo; "più un governo si avvicina alla
forma repubblicana, meno il sovrano ha qualcosa da fare". Il governo,
come istanza [176] separata di regolazione del sociale, non ha
più senso per Paine, visto che la società provvede benissimo
a se stessa senza quella tutela. Ma è soprattutto nella seconda
parte di I diritti dell'uomo, uscita nel 1792 con dedica a Lafayette,
che Paine esprimeva con maggiore chiarezza il suo punto di vista. Il
primo capitolo (Società e civiltà) è
tutto una condanna dei governi: "La più gran parte dell'ordine
che regna nell'umanità non è opera del governo". Il merito
va alla società, alla "costituzione naturale" dell'uomo: "Esisteva
prima di ogni governo e continuerà ad esistere anche se il governo
formalmente sparisse". Il principio dello scambio basta a garantire
la coesione della società: "La dipendenza mutua e l'interesse
reciproco che gli uomini provano creano questa grande catena che unisce
la società". Conclusione: "la società realizza da sé
quasi tutto ciò che è attribuito al governo". La lotta
per abbattere i vecchi governi fondati sulla violenza e sul terrore
mira a sostituire ad essi un' "associazione generale". "A partire dal
momento nel quale il governo formale è abolito, la società
comincia a funzionare". Al posto del governo subentra un'associazione
nazionale "funzionante sui principi della società".
Paine, come si vede, "identifica la democrazia con la società
di mercato" (P. Rosanvallon). La lotta politica per l'affermazione dei
"diritti" dell'uomo mette capo al superamento della politica per realizzare
finalmente il governo della legge naturale. La fine della politica è
il principio della società armoniosa.
A rendere più netto, a liberare da ogni ambiguità il pensiero
di Paine, provvede di lì a poco Godwin (Enquiry concerning
political justice, 1793), che opta risolutamente per una società
senza governo, ponendo a fondamento della sua costruzione teorica il
principio della identità degli interessi. L'utilitarismo, come
ha dimostrato Élie Halévy, ha pervaso a tal punto l'ambiente
intellettuale inglese che esso può servire sia la causa democratica
sia quella controrivoluzionaria. Godwin ne fa il fondamento della sua
teoria anarchica, e polemizza in tutto il suo libro contro la teoria
dei diritti dell'uomo. Riconoscere che l'uomo ha dei diritti equivale
a supporlo capace d'ingiustizia. In realtà, gli uomini non possono
che conformarsi alla "voce immutabile della natura e della ragione".
Obbedendo alla ragione l'uomo non fa che obbedire a se stesso. È
tale conformità che i governi politici, qualunque sia la forma
dello Stato, non garantiscono; e perciò sono rifiutati come un
male assoluto: "L'esercizio universale del giudizio privato è
una dottrina talmente bella che i veri uomini politici proveranno certamente
un infinito disgusto alla sola idea di ammetterne la possibilità".
La polemica contro i governi [177] si estende naturalmente ai
partiti e in genere alle associazioni politiche, che interferiscono
intollerabilmente nell'esercizio del "giudizio privato", dividono le
intelligenze, suscitano lo spirito di contesa e di disputa. Godwin avversa
i giacobini per il loro autoritarismo; avversa i radicali perché
vogliono abolire la politica ricorrendo alla lotta politica. Al funzionamento
di una società giusta, che sarà una società "semplice",
bastano la "sincerità positiva" e il "controllo pubblico", il
controllo degli altri: "Il controllo di ciascuno sulla condotta dei
suoi vicini costituirà una censura assolutamente irresistibile".
L'uomo vivrà sotto lo sguardo di tutti. La legge positiva e il
governo, in breve la politica, saranno sostituiti dal controllo occhiuto
dell'opinione pubblica, dell' "occhio del giudizio pubblico". Ogni distinzione
tra privato e pubblico cadrà. Gli uomini, divenuti trasparenti
gli uni agli altri, trafitti dallo sguardo degli altri e trafiggenti
gli altri con il loro sguardo, diverranno - diciamo noi - dei tormentati
e dei tormentatori. Prospettiva, bisogna dire, che non doveva sorridere
neppure a lui che, da quell'individualista che era, non amava la confusione
e tanto meno la fusione con gli altri, "il contatto prolungato, la pesante
pressione continua della massa umana" (J. Jaurès). L'uomo deve
sì partecipare alla vita in comune, ma questa partecipazione
dev'essere libera: all'individuo deve sempre essere concesso di ritirarsi
quando vuole nella solitudine interiore. Godwin non voleva né
pasti in comune, né, se era possibile, lavoro in comune. Lavorare
con gli altri era una servitù intollerabile. Giudicava favorevolmente
la meccanizzazione perché liberava, o poteva liberare, dalla
necessità della cooperazione: perché prometteva, secondo
lui, di ristabilire il lavoro individuale. E avversava la teoria roussoiana
del contratto sociale, perché creava un legame oscuro, mistico
delle volontà. Tutti gli individui devono certo partecipare alle
deliberazioni della comunità, ma con la riserva che ciascuno
possa o no aderire alla decisione comune. Se l'unanimità non
si forma, la minoranza può sì piegarsi alla volontà
della maggioranza, ma per prudenza, non per obbligo contrattuale.
Solitudine, società: i poli stessi della riflessione di Rousseau.
Aveva esordito nel 1750 denunziando, in un discorsetto accademico, lo
stato infelice dell'umanità civilizzata. Il progresso scientifico
e artistico avviato dal Rinascimento non si era tradotto in progresso
dei rapporti umani. [178] C'era stato anzi deterioramento: le coscienze
non comunicavano più tra loro; l'uomo, allontanatosi da se stesso,
viveva in un mondo di finzioni, di apparenze. Protesta contro la civiltà
che non aveva in sé niente di originale, ma che assumeva un grande
significato in quel momento. Proprio quando i suoi amici philosophes
si dichiaravano più ottimisti sulla possibilità di conciliare
civiltà scientifico-tecnica, prosperità economica e progressi
della coscienza, lumières, Rousseau metteva in dubbio quella
possibilità. Si spiega perciò la larga risonanza europea
di quel Discorso. Ormai la strada di Rousseau era tracciata: sarà
un contestatore delle certezze dell'epoca e della società del suo
tempo.
Di ben altra ampiezza è il secondo Discorso (Discours
sur l'inégalité, 1755). Esso è un serio tentativo
di approfondire quella sua prima presa di posizione, di diagnosticare
con maggior precisione i mali dell'uomo moderno. Alla radice di tanta
inguaribile infelicità c'era l'assoluta contrarietà dell'ordine
sociale con la natura. Come si era prodotto, e quando, quel divorzio disastroso?
Risalendo a ritroso il corso del tempo (ancora una filosofia della storia,
ma a rovescio) Rousseau cercò di ritrovare l'uomo avanti la costituzione
della società, quell'ipotetico uomo della natura che doveva servirgli
a definire la natura dell'uomo. La scoperta di Rousseau è rivoluzionaria:
la natura dell'uomo è la sua libertà, il potere di trascendere
l'ordine della natura, di farsi, di costruire se stesso. In una parola,
la sua "perfettibilità". Per effetto di questa libertà in
sé (come la chiamerà Hegel), di questa libertà senza
scopo, l'uomo non ha un destino, bensì una storia (R. Polin). La
filosofia della storia costruita da Rousseau sarà una filosofia
della contingenza, una filosofia della libertà dell'uomo che si
fa uomo con tutti i rischi di disordine, di corruzione, d'infelicità
che tale libertà comporta. La storia di questo processo di trasformazione
sarà una storia congetturale nel senso di Kant, fedele continuatore
di Rousseau: "una storia dello sviluppo della libertà a partire
dalle disposizioni primitive inerenti alla natura dell'uomo" (Congetture
sull'origine della storia, 1786).
Ripercorriamone, con l'aiuto di Raymond Polin, le tappe. Il primo stadio
è lo stato di natura: è lo stadio della solitudine nell'abbondanza.
L'uomo è semplicemente un animale al quale la terra offre tutto
ciò di cui ha bisogno. Niente lavoro; niente riflessione. Nessuna
idea dell'avvenire, nessuna curiosità, nessun timore. L'idea stessa
della morte è sconosciuta. L'uomo, tutto pieno del sentimento della
sua esistenza attuale, in rapporto immediato con la natura, è felice.
Questa solitudine assoluta, non interrotta dagli incontri fortuiti e dai
gesti dell'amore, sottolinea la [179] radicale insocievolezza dell'uomo
naturale. L'uomo avrebbe perseverato eternamente in questo stato di perpetuo
presente senza il "concorso fortuito di molte cause esterne". Ma l'intervento
del "caso" non ha ancora una dimensione cosmica. Si tratta per ora soltanto
di piccoli avvenimenti che turbano l'armonia uomo-natura. L'insorgere
delle prime difficoltà mettono in moto le facoltà potenziali
dell'uomo. L'uomo cessa d'essere un animale puramente passivo: comincia
a prendere delle iniziative, a produrre i primi rudimenti, i primi artifici
della cultura (il fuoco, l'arco, le frecce ecc.). Si formano in lui le
prime idee semplici, le prime lumières. Egli scopre di avere
dei simili e forma con loro le prime associazioni, ma associazioni libere,
provvisorie, senza obblighi o impegni di sorta. La coesistenza con esseri
dopotutto simili a sé, per quanto ancòra indipendenti gli
uni dagli altri: questa è la grande invenzione della seconda età
dell'uomo. La storia dell'uomo, della produzione dell'uomo da parte dell'uomo,
è cominciata. Essa decolla nell'età successiva: la terza.
È quella dell' "infanzia del mondo". Si produce la prima rivoluzione;
una rivoluzione sociale: nascono le famiglie. La formazione di questi
piccoli gruppi stabili, fondati sulla libertà e sui reciproci legami
affettivi, favorisce la sedentarizzazione e incita a "una sorta di proprietà".
La prima appropriazione è di un oggetto artificiale, fabbricato
con fatica, dunque raro: la capanna. La pretesa all'uso esclusivo di questo
bene provoca le prime liti, i primi conflitti. Ma la situazione resta
ancora quella d'innocenza e di aiuto reciproco. La distinzione dei sessi
comporta una qualche divisione dei còmpiti sociali. Non è
ancora la disuguaglianza, ma ne è la matrice. Nascono i primi bisogni
artificiali. Tuttavia gli uomini continuano a godere di libertà,
sazietà, innocenza, solitudine, uguaglianza.
La tappa successiva - la quarta - è quella della "giovinezza del
mondo". Questa volta entrano in scena, a precipitare il processo di socializzazione
dell'uomo, le "rivoluzioni del globo": le grandi inondazioni, i terremoti.
Il distacco di grandi porzioni dei continenti isola gruppi di famiglie,
lì spinge a formare "nazioni particolari". Ma ancora l'uomo non
lavora. Caccia e combattimenti vengono vissuti alla maniera di giochi;
la fabbricazione che ciascuno fa delle proprie armi o dei propri utensili
è più attività d'artista che lavoro vero e proprio.
Questo stadio è quello al quale si sono fermati i "selvaggi" conosciuti
dagli esploratori. È una condizione intermedia: "equidistante dalla
stupidità dei bruti e dai lumi funesti dell'uomo civile", un juste
milieu "tra l'indolenza dello stadio primitivo e la petulante attività
dell'amor proprio". Gli uomini [180] vivono liberi, sani, buoni
e felici quanto possono esserlo per loro natura". Un "commercio indipendente"
li unisce tra loro senza sottometterli gli uni agli altri, rispettando
la loro libertà e la loro solitudine. È a questo stadio
di socievolezza festosa che va l'ammirazione di Rousseau, non allo stato
di natura: non è un primitivista (G. Boas).
Questo stadio sarebbe durato in eterno ("il genere umano era fatto per
rimanervi") se un "funeste hazard" non l'avesse costretto a inventare
forme più strette di collaborazione, il lavoro in comune. Perché
lavorare da soli non è ancora lavorare. Non si lavora, dirà
Hegel, che sotto la costrizione di altri. Una collaborazione di questo
tipo esige un'organizzazione, una divisione, una ripartizione dei còmpiti
e una ripartizione d'autorità. La libertà e l'uguaglianza
sono gravemente compromesse. La proprietà viene istituzionalizzata.
Nasce il diritto. Il lavoro collettivo scatena un processo infernale:
"scomparsa l'eguaglianza, venne introdotta la proprietà, il lavoro
divenne necessario; e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti
che dovettero essere innaffiate dal sudore degli uomini e nelle quali
si videro presto la schiavitù e la miseria germogliare e crescere
con i raccolti". Tutto è derivato dall'invenzione della metallurgia
e dell'agricoltura, e prima dell'una e poi dell'altra. Per questo Rousseau
chiama quest'età età del ferro: perché fu la rivelazione,
a séguito di qualche eruzione vulcanica, del "fatale segreto" della
lavorazione del ferro che rese il lavoro, il "lavoro penoso", necessario.
La necessità di assicurare il nutrimento agli operai costrinse
in seguito il genere umano ad applicarsi alla coltivazione della terra:
"sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e perduto il
genere umano". Da questo momento tutte le servitù, tutte le miserie
sono possibili. Il più orribile stato di guerra è infatti
la conseguenza dell'accelerarsi del processo d'inégalité.
Le passioni nate dall'amor proprio, la ricerca della considerazione e
del prestigio, la gelosia soprattutto, divorano gli uomini alienati da
se stessi: "il selvaggio vive in se stesso; l'uomo socievole sempre fuori
di sé, non sa vivere che nell'opinione degli altri; è per
così dire dal loro solo giudizio che trae la propria esistenza".
Dominio e servitù sono ormai i modelli delle relazioni interumane.
È lo stato descritto da Hobbes, ma con una differenza: lo stato
di guerra è non già caratteristico dello stato naturale,
ma di quello di "società nascente".
Con la settima età si entra ormai nei tempi storici. È l'età
della formazione delle società per contratto e della loro dissoluzione.
Il quadro che ne fa Rousseau è tutt'altro che consolante: ci fa
assistere al [181] progressivo avvilimento dell'uomo. Immancabilmente,
il potere legittimo, quello conferito per contratto di governo, si trasforma
in autorità despotica e riporta l'umanità al punto di partenza:
l'orribile stato di guerra. Non brilla agli occhi di Rousseau nessuna
speranza di veder spezzarsi questo ciclo infernale di "corte e violente
rivoluzioni" che finiscono sempre nel sangue? La storia metterà
sempre capo al caos ? Non ci si può attendere che il potere umano
di perfezionamento non sia esaurito e riesca ad inventare figure nuove
di convivenza politica? In un suo zibaldone in effetti Rousseau formula
la speranza che l' "arte perfezionata" possa "rimediare ai mali che l'arte
esordiente ha fatto alla natura". Ma sarà Kant a sviluppare questi
temi roussoiani; l'idea di un progresso razionale che restituisca agli
uomini tutto ciò che una razionalità imperfetta ha fatto
loro perdere, la prospettiva di una riconciliazione con la natura a opera
di un avanzamento della cultura (J. Starobinski). Rousseau lasciò
invece cadere quegli spunti; né li tradusse in imperativi di riforma
o di azione politica. Il destino catastrofico delle grandi monarchie policées
gli sembrava irreparabilmente segnato. Tutto quello che egli giudicò
possibile fu impedire la corruzione delle piccole repubbliche; cercare
rifugio, in margine al mondo, in piccole comunità virtuose di "anime
belle"; educare un individuo in modo da renderlo capace di resistere al
male. Saranno rispettivamente i temi delle grandi opere uscite tutte a
breve distanza l'una dall'altra, tra il 1761 e il 1762: il Contrat
social, la Nouvelle Héloïse, l'Émile.
Di una cosa Rousseau si dichiara sempre certissimo: per essere felici
bisogna far a meno degli altri. Esorta M.me d'Houdetot a bastare a se
stessa: "Raccoglietevi, cercate la solitudine: ecco il segreto" (Lettres
morales, VI). La felicità è il premio di uno sforzo
solitario. Anzi: la felicità nella solitudine è la sua forma
più perfetta. Egli stesso vi aspira appassionatamente. E alla preservazione
di questa essenziale solitudine cerca come può di orientare la
sua politica. Se la libertà naturale implica la separazione dagli
altri, l'indipendenza; la creazione di legami di dipendenza da altre persone
implica la perdita di ogni autonomia, la degradazione dell'uomo. Ed è
proprio quello che è storicamente accaduto. La fine della solitudine,
l'istituzione di una vita sociale ha segnato la fine della libertà,
dell'uguaglianza e in fondo della felicità. Ma non subito. Le "società
nascenti" in quell'età felice che fu la giovinezza del mondo dimostrano
che l'uomo può vivere in società continuando a essere libero.
Soltanto quando la penuria indusse gli uomini a inventare il lavoro in
[182] comune e la divisione sociale dei compiti, a istituire meccanismi
di comando e di costrizione, la società divenne un inferno. Naturalmente
solitario, l'uomo non è infatti insocievole. L'insocievolezza implica
antagonismi, incompatibilità, rivalità, lotta di tutti contro
tutti. Se non è socievole per natura, l'uomo possiede tuttavia
la virtualità della vita associata: possiede la pietà e
la capacità di un uso intelligente della libertà naturale
nei confronti degli altri. La società in sé non è
un male. È anzi un bene: essa sola permette all'uomo di sviluppare
la propria ragione e la coscienza morale, di perfezionare se stesso. Cattive
sono le forme nelle quali si è compiuta la sua socializzazione.
Impossibile ritornare, a ogni modo, al punto di partenza, allo stato di
natura. Su questo punto Rousseau è fermissimo: "La nature humaine
ne retrograde pas". Ormai ci si deve muovere all'interno delle società
storicamente date, immaginando se mai una forma di associazione politica
diversa da quelle che l'umanità ha con tanto dolore sperimentato
e tuttora sperimenta: quell'unica forma di società che permetta
all'uomo di ritrovare, trasposte su un piano giuridico e morale, le condizioni
di una nuova solitudine, intesa come indipendenza morale (R. Polin), Sulle
possibilità concrete di istituire uno Stato del contratto egli
è però pessimista. Non si possono dare leggi ai popoli corrotti
o avviliti sotto la tirannide, e divenuti ormai incorreggibili. Soltanto
uomini virtuosi possono godere della libertà civile. Perché
"sono gli uomini che fanno lo Stato". Per fare un uomo dabbene non basta
farne il cittadino di uno Stato le cui leggi siano buone (idea di Helvétius
e, più tardi, di Hegel). Il Contrat social sarà perciò
soltanto la definizione dei migliori rapporti possibili tra il cittadino
e lo Stato, tali che siano conformi alla natura dell'uomo, alla sua libertà.
Rousseau si limita a presentare la soluzione teorica del problema: "Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune
la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi
a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti altrettanto libero
quanto era prima" (I, 6). A far passare quel modello nei fatti sarebbe
stata necessaria l'opera rigeneratrice del "legislatore", personalità
carismatica, che Rousseau invocava con tutta la forza del suo desiderio.
Al fondo del pensiero del Contrat è la convinzione che sola
fonte di corruzione è la dipendenza dagli uomini. Un essere può
restare libero solo nella solitudine o nel rapporto con altri esseri ugualmente
liberi. La soluzione del Contrat è che "ciascuno, dandosi
a tutti, non si dà a nessuno". L'obbedienza all'intero corpo politico
non è dello stesso genere dell'obbedienza a una persona. Tanto
più che nella nuova forma [183] associativa, istitutiva
di un impegno reciproco tra il cittadino e il "pubblico", contratta per
così dire con se stesso. Se obbedisce in quanto membro dello Stato,
ordina in quanto membro del Sovrano e per conseguenza è a se stesso
che comanda ed è a se stesso che obbedisce. Non obbedisce ad un
uomo: obbedisce alla legge.
Una volta ammessa la necessità di una vita in comune e di un'organizzazione
politica, non si può negare che la soluzione di Rousseau almeno
nelle intenzioni sia la più democratica che si possa immaginare,
facendo di ciascuno nello Stato il sovrano di se stesso. Ma non la più
liberale: ai singoli non viene offerta nessuna garanzia contro lo Stato,
il problema stesso delle garanzie viene negato. E anche come democrazia
lascia a desiderare: è una democrazia guidata (L. G. Crocker).
La sovranità del popolo è, in realtà, la sovranità
della ragione; la volontà generale, l'universale in atto. Agire
contro l'interesse del corpo sociale definito dalla legge, atto della
volontà generale, è contrastare alla ragione. Il deviante
va punito: "bisogna costringerlo a essere libero". La sfera privata, sempre
che sussista, è limitata alla ricerca personale della felicità.
In questo modo i membri ideali della comunità saranno gli uomini
in grado di conciliare in sé società e solitudine: compiere
cioè le loro funzioni di cittadini e insieme realizzare le aspirazioni
profonde del proprio essere.
Ma all'autore questo equilibrio fu negato. La sua passione assoluta per
la giustizia e per la verità lo portò a isolarsi totalmente
dal mondo. Alla battaglia degli intellettuali per cause che erano pur
sempre le sue, anche se per lui non erano abbastanza radicali, finì
per preferire l'indifferenza. "È tempo - scrive a Mirabeau nel
1767 - di esser saggio o almeno tranquillo". Meglio ritirarsi dal mondo
e abbandonarlo alla sua follia. Un impegno tanto ardente contro l'ingiustizia
e la menzogna finisce in una totale sfiducia. La sua stessa speculazione
politica gli sembra ormai priva di senso: tempo sprecato. Si era posto
un problema: "trovare una forma di governo che mettesse le leggi al di
sopra degli uomini". Ora confessava ingenuamente di non aver trovato la
soluzione e che anzi tale soluzione non si poteva trovare. Il proprio
fallimento lo spingeva all'estremo opposto: bisognava mettere di colpo
l'uomo al di sopra delle leggi più che si poteva. Il "despotismo
legale" dei fisiocratici era una mezza misura: meglio, molto meglio il
despotismo arbitrario, il più arbitrario che si potesse immaginare:
"vorrei che il despota potesse essere dio". Uomo del tutto o nulla, non
vedeva un compromesso sopportabile "tra la più austera democrazia
e l'hobbismo più perfetto". Ma inutile ormai tormentarsi sui problemi
politici. La saggezza sarà raggiungibile soltanto liberandosi totalmente
dal mondo e dalla presenza degli altri, abbandonandosi senza riserve all'estasi
naturale, al sentimento puro dell'esistere nel quale ogni pensiero è
abolito (Réveries d'un promeneur solitaire). È la
rinuncia non soltanto alla soluzione nel mondo e attraverso il mondo -
la soluzione cercata dai phiIosophes - ma anche alla mediazione
filosofica. La presenza al mondo di Rousseau si fa silenziosa, il suo
sforzo di comprensione del mondo mette capo al nihilismo totale (G. Lapassade).
A poco a poco entra nella follia, consacrando così definitivamente
la propria unicità. La solitudine si è dimostrata insuperabile.
Qual è l'eredità politica di Rousseau ? Difficile dirlo.
Si può scegliere: la concezione dello "Stato di diritto" (unico
Stato legittimo è quello nel quale vi sono leggi); la concezione
della legge come superatrice di ogni contrasto; la democrazia festosa
della Lettre à D'Alembert; la città armoniosa del
Contrat social; la politica come luogo di superamento della scissione,
dell'infelicità dell'uomo moderno; e via specificando. Per noi
egli resta l'uomo della domanda, della domanda inappagabile; non della
risposta. Per questo lato della sua personalità, se vogliamo per
il suo fallimento, egli è davvero rivoluzionario.
Allargando ancora lo sguardo si vede che l'eredità ideologica dei
lumi è, dato lo spettro delle soluzioni proposte, larghissima.
A quest'eredità s'ispirarono nell' ‘800 sia le scuole liberali
sia i promotori di una società industriale e tecnocratica (Saint-Simon,
Comte) sia gli oppositori di quella società (Marx, gli anarchici).
A noi qui basta chiederci: quanti dei miti d'oggi non possono vantare
un'ascendenza settecentesca? Dall'idea dell'estinzione del politico e
della città armoniosa unificata trasparente della cultura politica
marxista all'altra, opposta, di riduzione di tutte le dimensioni della
vita alla politica: l' "illusione politica" come dice J. Ellul. Non sarà
necessario, per avviare una critica seria del presente, rivisitare i primi
inventori di quei miti?
Bibliografia essenziale [555-557]
- M. Albertone, Fisiocrati, istruzione e cultura, Fondazione
L. Einaudi, Torino 1979.
- B. Baczko, Rousseau. Einsamkeit u. Gemeinschaft, Europa Verlag,
Vienna 1970; Lumières de l'utopie, Payot, Parigi 1978
(trad. it. Einaudi).
- R. N. Bellah, "Intellettuali e società in Giappone", in Comunità,
170, 1973.
- P. Bénichou, Le sacre de l'écrivain. 1750-1830,
Corti, Parigi 1973.
- R. Bendix, Re o popolo. Il potere e il mandato di governare, Feltrinelli,
Milano, 1980.
- J. Béranger, Les hommes de lettres et la politique en Angleterre
de 1688 à la mort de George Ier, Faculté de
Lettres, Bordeaux 1968.
- F. Bluche, La vie quotidienne de la noblesse française au
XVIIIe siècle, Hachette, Parigi 1973.
- G. Boas-A. O. Lovejoy, A Documentary History of Primitivism and
Related Ideas, Baltimore, 1935.
- P. Casini, Introduzione all'Illuminismo, Laterza, Bari
1973.
- G. Chaussinand-Nogaret, La noblesse au XVIIIe siècle. De
la Féodalité aux Lumières, Hachette,
Parigi 1976
- L. G. Crocker, Il contratto sociale di Rousseau. Saggio
interpretativo, SEI, Torino 1971;
- Id., Un'età di crisi. Uomo e mondo nel pensiero francese
del Settecento, Il Mulino, Bologna 1975.
- J. Dagen, L'histoire de l'esprit humain, Klincksieck, Parigi
1977.
- J. Dagen, "La marche de l'histoire suivant Voltaire", Romanische
Forschungen, LXX, 1958.
- F. De Dainville, "Effectifs des collèges aux XVIIe et XVIIIe
siècle dans le Nord-Est de la France", Population,
X, 1955.
- R. Darnton, "The High Enlightenment and Low-Life of Literature in
Prerevolutionary France", Past and Present, 1971;
- Id., "The Grub Street Style of Revolution: J. P. Brissot, Police Spy",
The Journal of Modern History, 1968;
- Id., "Reading, Writing and Publishing in 18th Century France", Daedalus,
1970.
- F. Deloffre, Une préciosité nouvelle: Marivaux et
le marivaudage, Colin, Parigi 19672.
- G. Delpy, B. Feijoo et d'esprit européen,
Hachette, Paris 1936.
- F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi,
Torino 19732
- C. Th. Dimaras, La Grèce au temps des Lumières,
Droz, Ginevra 1969.
- E. Di Rienzo, Il principe, il mercante e le lettere. Per una storia
dell'intellettuale francese dell'Ancien Régime, Bulzoni,
Roma 1979;
- Id., "Intellettuali e élites in Francia nel XVIII secolo",
Studi Storici, 1980.
- M. Duchet, Anthropologie et histoire au siècle des Lumières,
Maspero, Parigi 1971 (trad. it. Laterza, Bari, 1976-77).
- L. Dumont, Homo aequalis. Genèse et épanouissement
de 1'idéologie économique, Gallimard, Parigi 1977.
- N. Elias, La civilisation des moeurs, Calmann-Lévy,
Parigi 1973;
- Id., La dynamique de l'Occident, Calmann-Lévy,
Paris1975.
- J. Ellul, L'illusion politique, R. Laffont, Paris 19772.
- J. Fabre, Stanislas Auguste Poniatowski et l'Europe des Lumières,
Les Belles Lettres, 1952.
- S. Fiette, "La correspondance de Grimm et la condition des écrivains
dans la seconde moitié du XVIIIe siècle", R. Hist.
Economique et Sociale, XLVII, 1969.
- P. Gay, The Enlightenment: An Interpretation, New York
1966-1969, 2 voll.;
- Id., The Party of Humanity. Essays on the French Enlightenment,
New York 1964.
- L. Gianformaggio, Diritto e felicità. La teoria del
diritto in Helvétius, Comunità, Milano 1979.
- J. M. Goulemot, Discours, histoire, révolutions, Paris
1975.
- J. M. Goulemot-M. Launay, Le Siècle des Lumières,
Seuil, Paris 1968.
- B. Groethuysen, Filosofia della Rivoluzione Francese, Il
Saggiatore, Milano 1967.
- G. Gusdorf, Les principes de la pensée au siècle
des Lumières, Payot, Paris 1971;
- Id., Dieu, la nature, l'homme au siècle des Lumières,
Payot, Paris 1972;
- Id., L'avènement des sciences humaines au siècle
des Lumières, Payot, Paris 1973.
- E. Halévy, La formation du radicalisme philosophique,
Alcan, Paris 1900-1903, 3 voll.
- P. Hazard, La crise de la conscience européenne,
Boivin, Paris 1934-1935 (trad. it. Einaudi, Torino 1946);
- Id., La pensée européenne au XVIIIe siècle,
Boivin, Paris 1946.
- A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli,
Milano 1979.
- D. Keene, The Japanese Discovery of Europe. Honda Toshiaki and
other Discoverers (1720-1798), Londra 1952.
- H. Kohn, "The Multidimensional Enlightenment", J. History
of Ideas, 1970.
- R. Kosellek, Critica illuministica e crisi della società
borghese, Il Mulino, Bologna 1972.
- W. Krauss, Studien zur deutschen u. franzosischen Aufklärung,
Ritter & Loening 1963.
- L. Kurdinacha, "Die Fruhaufklärung in Polen", in E. 117. Tschirnhaus
and die Frühaufklärung in Mittel und Osteuropa, Akademie-Verlag,
Berlino 1960.
- G. Lapassade, "Rousseau et les Encyclopédistes", Arguments,
1960;
- Id., "Rousseau et le problème politique", Arguments,
1962.
- A. Lortholary, Le mirage russe en France au XVIIIe siècle,
Boivin, Paris 1951
- Les Lumières en Hongrie, en Europe centrale et en Europe
orientale, I-III, Akademiai-Kiado, 1974-1977.
- I. Lungu, Scoala ardeleana, miscare idelogica nationale iluminista
(la scuola transilvana, movimento ideologico nazionale illuministico),
Minerva, Bucarest 1978.
- F. E. Manuel, I profeti di Parigi, Il Mulino, Bologna
1979.
- A. Marino, "Les Lumières roumaines découvrent 1'Europe",
Cahiers roumains d'études littéraires, 2/1979.
- L. Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820,
Einaudi, Torino 1975.
- W. Martens, Die Botschaft der Tugend, J.B. Metzler Verlag,
Stoccarda 1968.
- R. Mauzi, L'idée de bonheur au XVIIIe siècle,
Colin, Paris 19652.
- H. E. May, The Enlightenment in America, Oxford U.P.
1978.
- F. Meinecke, Le origini dello storicismo, Sansoni, Firenze
19672.
- N. Merker, L'Illuminismo tedesco, Laterza, Bari 1974.
- D.S. von Mohrenschildt, Russia in the Intellectual Life of Eighteenth
Century France, Columbia U.P. 1936.
- J. Molino, "Singulier Voltaire", Commentaire, 4, 1978-1979.
- R. Mortier, Clarté et ombres du siècle des lumières,
Droz, Genève 1969.
- R. Munteanu, "Le siècle des Lumières ou l'époque
des Lumières", Cahiers roumains d'étude littéraires,
2/1979.
- R. Polin, La politique de la solitude. Essai sur J. J. Rousseau,
Sirey, Paris 1971.
- D. Roche, Le siècle des Lumières en Province,
Paris 1973;
- Id., "Négoce et culture dans la France du XVIIIe siècle",
R. Histoire Moderne et contemporaine, 1975.
- P. Rosanvallon, Le capitalisme utopique. Critique de l'idéologie
économique, Seuil, Paris 1979.
- E. Rostorowski, "Stanislas Leszczynski et les lumières a la
polonaise", in Utopie et institutions au XVIIIe siècle,
Mouton, Paris 1963.
- J. Sarrailh, L'Espagne éclairée de la seconde moitié
du XVIIIe siècle, Klincksieck, Paris 19642.
- F. Schalk, Studien zur französischen Aufklärung,
V. Klostermann Verlag, Frankfurt/ Main 1977.
- H. Schneider, Lessing. Zwölf biographische Studien, Monaco
1951.
- J. Starobinski, La transparence et l'obstacle, Gallimard,
Paris 19702.
- Strugnell, Diderot's Politics. A Study of the Evolution of Diderot's
Political Thought after the Encyclopédie, M. Nijhoff,
L'Aia 1973.
- J. L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Il
Mulino, Bologna 19772.
- G. Tarello, Storia della culture giuridica moderna, I. Assolutismo
e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna 1976.
- E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra,
Il Saggiatore, Milano 1968.
- F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino
1969-1990, 5 voll in 7 tomi.;
- Id., Utopia e riforma nell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1970;
- Id., L'Antichità svelata e l'idea di progresso in N. A.
Boulanger, Laterza, Bari 1947;
- Id., "La prima crisi dell'Ancien Régime (1768-1776)", Riv.
Storica It., XCI, 1979.
- J. Viner, The Long View and the Short, Glencoe Ill., The Free
Press 1958.
- E. Winter, Frühaufklärung, Akademie-Verlag, Berlino
1966.
- B. Zolnay, "Über Frühaufklärung in Ungarn", in E.
W. Tschirnhaus cit., AkademieVerlag, Berlino 1960.
|