- La prima finzione
- Storico di congiure
- Verso Parigi
- L'invenzione di Mahmut
- Genova come Numanzia?
- L'esploratore in difficoltà
- Panegirista di Luigi, il grande riformatore
- L'esploratore varca la Manica
- Bibliografia
Giovanni Paolo Marana irruppe sulla scena con una storia di spie nel
1670. Aveva allora ventotto anni. Il padre Giovanni Agostino viveva, con
"somma modestia", esercitando l'arte del gioielliere, malgrado che discendesse
per linea maschile da progenitori onorati, che erano stati per lungo tempo,
anche durante le guerre civili, "padroni e signori" del feudo imperiale
di Fontanarossa in Val di Trebbia. Nel 1682 il Saint-Olon procurerà
a Giovanni Paolo (già parigino) l'attestazione di nobiltà
degli antenati. Ma l'esiliato non volle servirsene: "In tutti i
tempi", dichiarò, "io mi sono burlato della chiarezza del sangue".
Primo forse di quattro figli (delle due sorelle, una si fece monaca, l'altra
andò sposa al medico genovese Franco de Ferrari), ricevette dal
padre un'istruzione accurata. Leggeva il latino, il francese e probabilmente
anche lo spagnolo. Nel 1656 aveva subito una brevissima incarcerazione
per detenzione di un coltello. Nel 1664 fu adoperato come agente principale
dai promotori di un monte vitalizio della durata di ottant'anni di alcuni
milioni di scudi: per le sue mani passavano "conti, scritture, et ogni
altra cosa". Il governo aveva concesso l'erezione di quel monte, che doveva
portare il nome di San Giovanni Battista, sin dal 1660. Universale il
successo dell'iniziativa. I principi italiani erano impazienti d'impiegare
i loro capitali in un monte aperto da una Repubblica che godeva di un
inalterabile credito. Da Roma giunsero consistenti [154] offerte,
a cominciare da quelle di Cristina di Svezia. Unica difficoltà:
il modo d'impiegare tanto capitale. Se ne rimandò perciò
l'attuazione a più opportuna "congiuntura di tempo". Divenuto dunque
uomo di fiducia di cittadini cospicui, ad altro il Marana non pensava
che a rendersi utile alla patria.
Dopo la morte del Mazzarino, Genova si sentiva sempre più insidiata
dal Re Cristianissimo. Marana temeva un invasione dal mare. Il punto più
debole del sistema difensivo della città era, a suo avviso, la
fortezza della Cava, l'ultima della cinta orientale. Non sarebbe stato
difficile per una "persona di conto", con l'aiuto di una cinquantina di
persone confidenti e con l'assistenza di truppe sbarcate da navi ancorate
fuori dal porto, introdursi nella città, fortificarsi dalle parti
di Carignano, e di qui sorprendere l'abitato. Ma come comunicare i propri
timori ai Serenissimi, che delle fortificazioni non volevano assolutamente
che si parlasse? Il Marana ricorse a un espediente. Acquistò dal
libraio tre quinternetti di carta dorata, e dal profumiere una borsa di
cuoio rosso. Su quei fogli, ritagliati in modo che non si vedesse il marchio
di Genova, tracciò strani segni; li ficcò nella borsa; e
nel tardo ottobre del 1670 finse di averli ripescati in un fosso d'acqua
stagnante dalle parti di Granarolo, lì gettati da un uomo misterioso
celato dentro una guardiola ad altro uomo, non meno misterioso, che se
ne stava appoggiato alla cortina del muro, osservando ora la valle del
Polcevera ora il mare. Rasciugati quei fogli, molti dei quali nel cadere
si erano dispersi nell'acqua, aveva "scoperto" che si trattava di scritture
cifrate; e avendo tra esse per avventura ritrovato la cifra, si era dato
con furia - così narrava - a decriptarle. Vi lesse nientemeno che
un piano completo per sorprendere la città con le armi di Francia
per mezzo del posto della Cava. Il 24 ottobre era corso a Palazzo a darne
la notizia. Il Senato però sospettò l'inganno; e premiò
il suo zelo mettendolo nelle mani degli Inquisitori di Stato, che lo esaminarono
a dovere e alla fine, per tre quarti d'ora, lo torturarono. Rivelò
che quelle lettere fittizie esponevano considerazioni in parte sue, in
parte [155] d'altri; e soprattutto facevano tesoro delle rivelazioni
ricevute confidenzialmente da un francese passato per Genova alla volta
di Goa circa l'intenzione di un ministro di Francia, non sapeva bene se
Le Tellier o de Lionne, di sorprendere la città dal mare. Già
due ingegneri francesi, travestiti in uno o in un altro modo, avevano
diligentemente cavato la pianta delle sue fortificazioni. Quelle lettere,
vere o false che fossero, gli inquisitori giudicarono, a ogni modo, opera
di "persona molto intelligente dell'arte militare, e molto pratica de'
maneggi del mondo"; e il 31 ottobre invitarono i Serenissimi a trattar
l'affare "come se la machina della rappresentata sorpresa fusse vera".
I Serenissimi si affrettarono a provvedere. Quanto all'autore di quella
finzione, per essersi reso reo di mendacio, di calunnia nei confronti
di un "principe amico" e infine di falsità, avendo scritto in quei
fogli che il popolo era "mal'affetto" contro i suoi governanti, fu condannato
il 15 aprile 1671 a cinque anni di carcere nella Torre del Palazzo Ducale.
Carcere segreto e strettissimo, che comportava tra l'altro "la proibizione
d'ogni virtuoso divertimento" e il rigorosissimo divieto di "strumenti
da scrivere". In quelle condizioni, tra "le maledizioni, e gl'infernali
strepiti degli importuni compagni" riuscì lo stesso a portare a
termine avventurosamente la versione del "più savio fra morali",
Seneca, che fece allora il "primo impeto" sul suo spirito e che rimarrà
tutta la vita la sua guida. Non era una vanteria. Qualche anno dopo, il
bargello trovò in effetti in un suo libro "borradore", o sia scartafaccio,
quella versione, tanto cara al suo autore da promettere nel 1681 di darla
alla luce. Altra opera "furtiva": una raccolta di "pellegrini precetti,
e di rare erudizioni spremute da autori di primo grado". Quest'attività
letteraria clandestina obbliga a pensare che il rigore della detenzione
non fosse stato così spietato come diceva.
Per addolcire il governo il 5 agosto 1672 aveva ripresentato con le parole
più umili il progetto di banco vitalizio; suggerendo però
di riempire il deposito "con la sola borsa de' Genovesi". Quanto a lui,
"spogliato di vita per esser sepolto, di facoltà per esser miserabile,
e di valore per la [156] sua inhabilità", non poteva far
oblazione che di se stesso e della sua passata esperienza. Sulla proposta
in effetti si deliberò nei Consigli del 30 settembre 1673 e del
12 dicembre 1674. Il banco venne istituito il 23 gennaio 1675, con capitale
di scudi 200.000 d'argento d'annuo reddito del 4%. Ignoro se il Marana,
allora liberato, avesse ripreso le sue mansioni.
Nell'aprile del 1674, 1'afflittissimo padre, al quale era
rimasto l'onere "di somministrare non solo al figlio il vivere, ma anco
lo provedere con intolerabile spesa alla sua famiglia" (tutti figli in
bassa età), supplicò i Serenissimi di condonare a Giovanni
Paolo i restanti due anni di carcere. Pur favorevoli alla grazia, i Serenissimi
non seppero decidersi sul modo di commutargli la pena, visto che di mandarlo
libero non se la sentivano; e finirono per non decidere nulla (30 agosto
1674). Qualche mese dopo, il padre rinnovò l'istanza, offrendo
se stesso in cambio del figlio: mutassero "questo carcere nel padre stimando
la sua miglior sorte l'anticiparsi questa quieta sepoltura che trascinare
una vita per tanti titoli tormentosa". Al terzo tentativo fu ascoltato:
il carcere segreto fu graziosamente tramutato in carcere domiciliare sotto
stretta custodia paterna fino alla sconto della pena. Era il 29 novembre
del 1674: il Marana aveva trascorso nella Torre, a partire dal primo arresto,
quattro anni, diciannove giorni e tre ore.
Conclusa onorevolmente la guerra con la Savoia dell'estate del 1672,
il governo genovese, che molto curava la sua immagine internazionale,
si mise attivamente alla ricerca di uno storico di quelle vicende. La
materia era delicata. Quanta parte aveva avuto Carlo Emanuele II nel piano,
andato a monte per il tradimento di uno dei congiurati, ordito da Raffaele
Della Torre, d'impadronirsi della città e rovesciarne il governo
proprio alla vigilia (24 giugno) del proditorio attacco piemontese? Il
M.co Giovanni Prato, che in quella guerra aveva avuto ruolo non secondario,
si diede attorno [157] per trovare un degno soggetto. Il primissimo
candidato fu, spento appena il fragore delle armi nell'ottobre del 1672,
il conte padovano Niccolò Maria Corbelli, che però ne smise
l'idea. Il secondo fu il dottor Paolo Agostino Aprosio (un congiunto del
padre Angelico) che consegnò l'opera finita il 2 ottobre 1673.
Ma la sua ricostruzione dei fatti, malgrado la vivace difesa del Prato,
dispiacque a tal punto al governo che non solo ne vietò assolutamente
la stampa, ma si affrettò a distruggere l'originale affinché
non restasse "luce alcuna'' di quella storia. Il Prato non si perdette
d'animo. Il terzo candidato fu appunto il Marana, ai primi del 1675. Il
Marana, ancora agli arresti nella dimora paterna, ne fu lusingatissimo:
era una piena riabilitazione. Con l'occhio ai suoi modelli, in cima a
tutti Battista Nani, e alle "regole" del Mascardi, cercò di fare
del suo meglio e di distinguersi dalla turba di storici venali che avevano
avvilito e avvilivano ai suoi occhi l'esercizio alto e severo dello storico.
Gli riuscì di comporre nel giro di tre anni un buon pezzo di storia:
preciso, accurato e soprattutto imparziale. Riuscì, cosa non facile,
a non dir male di nessuno: neppure di Carlo Emanuele II, al quale riconobbe
le qualità di buon principe se non altro per le tante opere (Palazzo
Reale, Accademia, strade) con le quali aveva abbellito Torino. Riuscì
persino a elogiare il magistrato degli inquisitori di Stato di Genova,
"non men severo che ben'ordinato". L'unico personaggio del racconto che
si accanì ad annerire fu il Della Torre, il "Catilina genovese",
uomo "pronto d'ingegno e pazzamente feroce". Già vi compare la
sua "insolente diceria".
Aveva scritto "per ubbidire"; e sempre per ubbidire aveva tenuto presso
di sé l'operetta, avendogli i Serenissimi fatto sapere "che era
loro mente non si stampasse né qui né fuora senza loro espressa
licenza". Di quello scritto, che s'intitolava Successi della guerra
del 1672, tenne presso di sé un solo esemplare, che gli serviva
insieme "di copia e di originale". In un avviso al Lettore, scritto
di suo pugno, che va in testa a quell'esemplare (ritrovato dal Roscioni),
il Marana dichiara in effetti di stare al divieto: "né ambizioso
pensai [158] all'impressione, né avaro all'utile". Non si
tenne tuttavia dal comunicarla per ottenere consigli a cavalieri amici:
gli stessi, probabilmente, che avevano preso a frequentare la sua casa,
dopo il suo ritorno da un breve viaggio in Spagna, formandovi un'accademia
"in honor delle Muse, e della Musica". Tra gli altri, l'aveva data a leggere
a Philippe d'Ancourt (un coperto emissario del Colbert) che ne restò
"nauseato": "de' prìncipi", disse costui, "non se ne ha da parlare
in tal forma". Allarmati, gli inquisitori mandarono a cercare l'autore
a Banchi per intimargli di presentarsi a quel tribunale. Non soltanto
aveva violato l'ordine di non divulgare lo scritto; ma aveva frequentato
e servito un francese molto sospetto; colpa, anche questa, assai grave.
Era il 21 ottobre 1679. Alla vista dei due bargelli, il Marana fu preso
da "panico terrore" e cercò scampo nella fuga. Ripreso, fu arrestato
e "tutto coperto di fango e molto ben maltrattato di fatti e di parole";
fu trascinato a Palazzo. Era, per il Marana, la catastrofe: "ecco fallita
la mia buona fortuna, et esposto il mio credito col quale vivo a perpetuo
danno; tanti altri interessi sono esposti ad una irreparabile ruina essendo
solo, senza padre, e senza persona di fuori che sia informata delle cose
mie". Così supplicava il prigioniero, mentre gli sbirri andavano
ricercando nella sua casa e fuori, un po' dappertutto, il famigerato manoscritto.
Attentamente scrutinato dagli inquisitori, fu trovato - a sentir lui -
"in tutte le sue parti vantaggioso alla Repubblica". Tuttavia glielo sequestrarono,
né per quanto supplicasse, gli riuscì mai di riaverlo.
Per effetto di quella supplica fu concesso al Marana di lasciar la Torre,
ma con l'obbligo, dietro cauzione di cinquecento scudi d'argento, di rientrarvi
"dentro un mese anche non richiesto". Trascorso il mese, chiese grazia
di "assolverlo intieramente da simile carico e, con rendergli il possesso
della pristina quiete, assolverlo insieme da ogni nota di disubbidienza".
Nello stesso tempo supplicò che gli lasciassero pubblicare, anche
sotto falso nome, la sua operetta o almeno rispondere alla penna venale
del Brusoni (pur accarezzato dagli inquisitori con il dono di cinquecento
ducati) e rintuzzare [159] la sua baldanza. Ottenne rinvii su rinvii
e - pare - la remissione della pena; ma, sul punto della pubblicazione,
i Serenissimi furono irremovibili: "non ancora era maturo il tempo". Per
non riuscire "di soverchio noioso" cessò le istanze. Una "nuova
violenza" lo indusse però, per coprirsi da "maggiori oppressioni",
a partire precipitosamente da Genova al principio del 1681 e portarsi
a Monaco, dov'erano in educazione presso la zia monaca le due figlie rimastegli.
Di questa partenza improvvisa il governo diede più tardi una versione
più sinistra. A Luigi XIV, che chiedeva nel 1685 la riammissione
nella città di alcuni esiliati politici tra i quali il Marana,
fu risposto che costui non era un esiliato, ma un profugo reo di delitto
comune: "figlio di un orefice", si era assentato "per aver portato via
molte gioie, che da diversi gli erano state date in occasione del suo
mestiere". Un ladro, dunque. Versione che ha tutta l'aria di essere un
espediente per eludere le richieste del sovrano.
A Monaco, trovò morente la maggiore delle figlie. Per riempire
l'ozio impostogli dalle lunghe veglie accanto all'inferma, si provò
a ritessere da capo, servendosi dei primi abbozzi, la storia confiscatagli.
Ne nacque un opera nuova, "cresciuta a più nobile struttura" e
con molte "materie aggiunte". Quel corpo "risuscitato" offriva di nuovo
il 17 giugno 1681 alla patria: "L'esser io, o perseguitato per colpa d'altri
o disgraziato per colpa mia, tanta miseria mi dovrebbe fare, se non più
raccomandato, almeno più compatito, tanto più che gli affari
esterni giammai dovrebbero discreditare quelli dell'intelletto". Offriva
tutto se stesso: "se bene senza forze, e mezzo esiliato, non ho curato
perdita di tempo, fatica e spesa per contribuire alla patria ottima un
talento cattivo, come vi contribuirei la vita se potessi giovare". L'ottima
patria non si lasciò intenerire. Il 22 agosto, il governo gli
fece sapere che non poteva concedere l'autorizzazione a stampare un'opera
che non avesse prima revisionato. Che era argomento ineccepibile. Quello
stesso governo che andava facendo tanto il difficile con il Marana - anche
questo va detto - di lì a poco premierà con cinquecento
scudi d'oro il [160] modenese Pietro Gazzotti per aver parlato
della famosa guerra, con verità, nella sua Historia della guerre
d'Europa (Venezia, 1681). E bisogna aggiungere che, nel genere di
storia pragmatica che i Magnifici prediligevano, l'opera del modenese,
uomo di larga esperienza europea e scrittore misurato, eccelleva davvero.
Il Tiraboschi aveva ragione a dire: "Questa storia è forse degna
di essere più che non è conosciuta".
Troppo impaziente di gloria letteraria, il Marana decise a questo punto
di non più attendere e stampò l'operetta a sue spese a Lione
nel 1682 con una dedica a Paolo Spinola, terzo marchese di Los Balbases,
Gran Consigliere di stato di S.M.C. e Gran Protonotario nel Consiglio
d'Italia. Aveva rappresentato (in verità poco brillantemente) il
suo re nel 1679 alla gran conferenza di Nimega e gli aveva combinato in
quello stesso anno il matrimonio con Marie-Louise d'Orléans, nipote
di Luigi XIV: aveva - diceva il Marana - "disarmato e unito insieme con
nuovo nodo d'amore le due maggiori corone della Terra".
Nell'edizione a stampa metteva in primo piano la congiura, e solo in sottordine
faceva la storia della guerra: La congiura di Raffaello della Torre,
con le mosse della Savoia contra la Repubblica di Genova. Genova veniva
dunque presentata come una città in se stessa divisa, divisa la
sua classe di governo, dilaniata da tensioni interne e da rancori antichi.
Un quadro tutto diverso da quello che i Serenissimi si affannavano a presentare
di sé al mondo. Le congiure - le tante che da mezzo secolo in qua
avevano messo in pericolo la sicurezza dello Stato - erano il sintomo
di un profondo disagio che aveva ben precise cause sociali: "Sono le congiure
malatie delle città grandi [...]; et allora sono inferme le città,
o quando per le soverchie ricchezze troppo insolenti sono i cittadini,
o quando dall'esser mal compartiti i beni, così grande in una Republica
è l'eccesso della potenza, come della povertà". E subito
dopo, nella lunga orazione persuasoria rivolta dal Della Torre, quel "disperato",
all'Ercole della Savoia, il duca Carlo Emanuele II, al fine
d'indurlo a prender le armi contro quel corpo politico malato [162]-
quell'idra di tante teste - metteva giudizi più forti.
La società genovese era effeminata dal lusso; la nobiltà
"dormiva" negli splendidi palazzi di San Pier d'Arena e Albaro, "senz'altra
cura che della morbidezza"; era spento ogni "militare ardimento"; spento
ogni splendore delle buone arti; perseguitati i dotti; i migliori esclusi
dai Consigli; l'autorità del magistrato piegata a vendicare le
private ingiurie; "condannati a rigorose carceri i più minuti errori
di chi può meno, le nobili scelleraggini de' Magnati andar sempre
impunite, e con applauso". L'opera si chiudeva un esaltazione della "pietà"
dei genovesi. Erano gli ospedali e i "magnificentissimi alberghi" dei
poveri, non il valore dei soldati, non la virtù dei Consigli, non
l'unione de' cittadini il miglior presidio della città. Erano quelli
i "loro arsenali, da' quali estraggono le loro valorose truppe, che ne'
bisogni della Republica con l'armi delle preghiere per essa combattono,
e vincono".
Gli inquisitori, pur avendo formato di quella storia un cattivo concetto,
non la stimarono degna dell'honore di bandirla. Ma guai a chi avesse
osato introdurla. Di copie a Genova, in effetti, pare che se ne vedessero
poche. Divenuta rarissima, fu ricercata e letta in forma manoscritta fino
in Polonia.
Era a Lione per seguir la stampa dell'opera nel dicembre del 1681, già
sul punto di passarsene a Parigi con la speranza di succedere al vecchio
abate Vittorio Siri (1608-1685), in qualità di storiografo del
re nella lingua italiana. Aveva, infatti, acquistato laggiù amici
potenti: "Ha qui", scriveva da Lione Paolo de Marini, che andava egli
pure a Parigi in qualità di ministro residente l'11 dicembre, "alcuni
gesuiti che lo proteggono, e che sperano per mezzo del confessore del
Re d'impetrargli detto posto". Ma nell'Esploratore piacque al Marana
presentare quella decisione come disinteressata: "La sola curiosità
di vedere una gran città illuminata di notte mosse un letterato
ad abbandonar l'Italia [...]".
A Parigi, il Marana giunse al principio del 1682. Vi si era andata formando
in quegli anni una piccola ma agguerrita colonia (il de Marini la giudicava
"partito purtroppo numeroso [163] e forte") di genovesi scontenti:
Sinibaldo Fieschi, Giacomo Raggio e altri. Il Marana entrò presto
nel gruppo. Uomo di spicco era il conte Jean-Louis-Mario Fieschi, un discendente
diretto di quel Gian Luigi che aveva complottato nel 1547 contro la Repubblica.
La madre, Gilonne d'Harcourt, era la compagna inseparabile della Grande
Mademoiselle. Lui, il conte, era un uomo di spirito, colto, galante,
giocoso poeta estemporaneo, e cantante di bella voce. Si capisce che tante
doti lo facessero ricercare dalla "meilleure compagnie". Uomo liberissimo
e nemico d'ogni costrizione, poco curava, come la madre, i beni di fortuna.
Se si mise a rivendicare i suoi buoni diritti sui feudi che la Repubblica
aveva confiscati alla famiglia, lo aveva fatto unicamente per compiacere
l'amico Seignelay. A lui aveva fatto capo Sinibaldo, bandito nel 1679,
per la seconda volta, da Genova. Naturalizzatosi francese, benché
fosse discendente del quarto ramo della famiglia, costui era stato incluso
tra gli eredi legittimi dei conti di Lavagna.
Sinibaldo era, egli pure, uomo di rara "vivezza di spirito", "di cuore
intrepido e generoso" ed espertissimo di corti e paesi. Poco più
che ventenne aveva servito in Italia l'armata di Francia che assediava
Pavia. Fatta la pace, era passato in Portogallo, insorto contro la Spagna.
Nel 1661 aveva scortato in Inghilterra Caterina di Braganza andata sposa
a Carlo II. Alla corte inglese lo aveva incontrato Luca Durazzo, inviato
straordinario della Repubblica a Carlo per congratularsi della sua restaurazione
e del recente matrimonio. Il Fieschi gli aveva ottenuto - onore ambitissimo
- la "sala regia". Per i servigi resi a lui e per intercessione dello
stesso Stuart, la Repubblica lo aveva riammesso nella sua grazia e gli
aveva affidato delicati incarichi: prima a Milano, poi, dal 1666 al 1678,
presso la Sublime Porta. A Costantinopoli, malgrado che servissero paesi
dagli interessi direttamente opposti, "passò sempre strettissima
e perfetta corrispondenza" con Charles de Nointel, ambasciatore del re
di Francia dal 1670 al 1680 presso il sultano. Uomo splendido e grande
collezionista di oggetti, libri e codici preziosi, il de Nointel era stato
richiamato in patria e per [164] qualche tempo esiliato, esattamente
come il Fieschi, a causa delle proteste dei creditori. Ammesso, grazie
al Fieschi, nel suo gabinetto, il Marana vi poté ammirare e sfogliare
qualche codice turco: in particolare la Cronaca dell'Impero Ottomano
(Fedhleke) dell'eminente storico, bibliografo e geografo turco
Kàtib Celebi (1608-1658). Il Marana si vantò di aver non
soltanto "considerati" ma "letti con attenzione non meno che curiosità"
quegli annali; e almeno una volta li citò.
Attraverso il Fieschi, il Marana entrò pure in contatto con il
quasi coetaneo Francois Pidou de Saint-Olon, che un'improvvisa malattia
aveva costretto a ritardare la partenza verso Genova, dove il re lo aveva
mandato in missione esplorativa il 15 gennaio 1682. I Pidou (François
e il fratello maggiore Louis-Marie, teatino) avevano una predilezione
per l'Oriente. Louis-Marie, che aveva negoziato nel 1663 la riconciliazione
della chiesa armena di Polonia, Valacchia, etc. con quella di Roma, era
un intenditore del mondo islamico. Creato nel 1687 vescovo di Babilonia
(Baghdad), sarà per un trentennio console di Francia in Persia.
François era considerato a corte l'uomo idoneo a trattare con principi
non cristiani. Nel novembre del 1684 (a pochi mesi dalla conclusione della
sua infelice missione a Genova) era stato creato commissaire degli
ambasciatori del re (buddhista) del Siam a Parigi; nel 1693 sarà
scelto a negoziare con il sanguinano re del Marocco Maulày Ismà'il
(ne trarrà l'anno dopo una relazione su L'estat present de l'Empire
de Maroc che avrà larga fortuna europea); nel 1714 scorterà
per un anno intero Muhammad Rizà Beig, inviato in Francia dal sofi
di Persia. E proprio nell'accudire questo principe altero e capriccioso
consumerà le sue ultime energie. Del Marana divenne subito ammiratore
e amico; ne volterà in francese nel 1688 uno scritto e, fatto depositario
delle sue carte, consentirà alla pubblicazione postuma degli Entretiens
(1696).
[165] A lui il Marana, prima che partisse, diede informazioni minute
sul governo della Repubblica: "Egli si partì" è il Marana
stesso a dirlo, "con copiose memorie dategli per ben conoscere le inclinazioni
de' Genovesi, l'informai in iscritto della virtù e de' vizi di
tutta la nobiltà, e delle loro fazioni, del forte e del debole
della Republica, del modo di governo de' magistrati, del genio del popolo,
della maniera di guadagnarlo, delle propensioni et affetti de' mercanti,
con tutto quel di più che potei dire per illuminare un ministro
così saggio e attento, et un ministro designato residente in una
Republica sì poco affetta alla Francia". L'ipotesi che la Relazione
circa lo stato della Repubblica di Genova, che circolò manoscritta
al suo tempo sotto il nome del Saint-Olon, sia in gran parte farina del
sacco di Marana è tutt'altro che priva di fondamento. Nel giro
di dieci anni, colui che aveva sofferto oltre quattro anni di carcere
duro per aver denunciato le mire francesi su Genova; che in carcere [166]
era stato rigettato per colpa di un francese; che ancora nel 1681 cercava
un protettore spagnolo, è ormai passato, rotta ogni esitazione,
nel campo avverso. Al Grand Roi egli fa atto di dedizione assoluta:
"ben volentieri sacrificherò tutto lo spirito al Re, poiché
la vita e la volontà già sono sacrificate" (25 novembre
1682).
La coppia Fieschi-Marana, sempre intenta a divulgare falsità sul
conto della Repubblica e a screditarla in ogni occasione, mise la pazienza
del de Marini a dura prova. Non c'era che un modo per liberarsene: eliminarli.
Ma era un buon cristiano. Il 19 ottobre 1683 chiese che gli Inquisitori
sentissero in proposito dei teologi. Fu accontentato. Il 10 dicembre ne
consultarono due (uno era il barnabita Romolo Marchelli). La questione
posta era: un principe cristiano può, tuta conscientia,
sopprimere dei sudditi divenuti pericolosi all'intera comunità
e viventi fuori del territorio dello Stato senza la minima formalità,
solo ex informata conscientia? Entrambi risposero che l'opinione
negativa era probabile, ma più probabile era l'affermativa "e tanto
più quando si lascia di chiedere al Principe forestiero che punisca
quei delinquenti, atteso che da congetture probabili s'argomenta ch'egli
non debba farlo". Nel frattempo però il Marana aveva dato segni
di buona volontà. Aveva procurato al de Marini uno scritto "pestilenziale"
al quale da quattro mesi invano dava la caccia: Lagrime de' buoni genovesi
rappresentate a Luiggi il Grande da un zelante senatore della Repubblica;
lo aveva riverito in sua casa offrendosi di servire la patria. In considerazione
di questi favori e soprattutto timorosi della reazione di re Luigi, gli
Inquisitori, il 28 febbraio 1684, quando dovettero decidere, rinunziarono
ai metodi brutali e suggerirono al ministro residente di procurare di
cavar da lui tutto quello che poteva e di "mantenerlo nella buona disposizione
che mostra", come appunto il de Marini andava facendo, sia pure senza
troppa fiducia: "Io non gli credo nulla, io non mi fido niente". L'intesa
durò almeno fino al gennaio del 1684. Alla fine di quel mese, il
Marana gli portò varie copie, parte legate parte slegate, del primo
tomo del suo Esploratore turco, stampato da [167] Claude
Barbin (l'editore dei maggiori scrittori dell'epoca): tra queste una per
il doge, due per gli inquisitori, una per Giovanni Batta Spinola, il quale
- letto quel "romanzo storico" (come tutti cominciarono a chiamarlo),
sentenziò: "mi pare di poca stima et ho gusto che costi [a Parigi]
non acquisterà grande applauso al suo autore". Si trattava - come
si sa - del primo best-seller negli annali letterari.
La frequentazione di tutti quegli "orientalisti" (fors'anche A. Galland,
amicissimo del Nointel); l'occasione che gli si offrì di rivoltare,
nella biblioteca del Nointel, qualche codice arabo o turco gli avevano
fatto venire in mente l'idea di osservare la storia europea nell'ottica
di un turco. Per rendere più piccante il racconto e per drammatizzarlo,
meglio sarebbe stato che il turco fosse stato una spia, vissuta in paese
cristiano, anzi proprio a Parigi, e che il racconto fosse frantumato in
tante lettere a corrispondenti diversi. Pensava che "per distendere il
filo di una historia si vasta, si grande e piena di tanti avvenimenti"
com'era quella del regno di Luigi, "l'interrompimento non sarebbe stato
ingrato, anzi ameno". Oltre tutto, una storia suivie di quel re,
dal concepimento "miracoloso" al 1682, poteva dar l'impressione di storia
"affettata", composta da un adulatore salariato. Il Marana ci teneva a
distinguersi dalla turba degli elogiatori prezzolati.
La Sublime Porta disprezzava - è vero - la "Casa della guerra"
e non era solita mantenere rappresentanti permanenti presso le corti europee.
Ma non era credibile che cercasse informazioni su quel mondo con il quale
essa veniva, spesso, a conflitto? Proprio in quegli anni, l'impero ottomano,
ritornato ad essere una grande potenza militare, si era rifatto minaccioso.
Erede dell'opera dei due Kòprùlù, il nuovo visir
Kara Mustafa aveva ripreso in grande l'offensiva contro il mondo cristiano.
Meno di tre mesi dopo che, introdotto dal padre La Chaize, il Marana aveva
presentato al re il primo tometto manoscritto del suo Esploratore turco
[168] (22 aprile 1683), le armate turche erano giunte alle porte
di Vienna.
Nacque così la storia dell'arabo Mahmut, vissuto a Parigi sotto
i panni ("in habito di Abbate") di un cristiano d'oriente (Tito di Moldavia)
quarantacinque anni filati: dal 1637 al 1682. Il Marana si accontentò
della parte di traduttore del gran fascio di sue lettere ritrovate in
un ripostiglio: "Io ho travagliato", scriveva il 25 novembre 1682, "sopra
scritture arabiche, che ho dissotterato dall'oscuro di una camera, e non
ho aggiunto del mio che il buon ordine e qualche amenità". Ma subito
dopo rivendicava a se stesso la dignità di storico veritiero: "Ma
dato che vero non fosse il ministerio dell'arabo, quale inganno riceverà
il mondo che io lo abbia scritto a nome di Mamut, purché le cose
che sono scritte siano buone e vere, e che niente vi sia contra i buoni
costumi?". La piacevolezza nulla toglieva alla solidità del racconto
storico. Qualunque lettore, fosse "huomo Re" o "huomo privato", poteva
trovarvi il suo profitto. E chiedeva, per finire, documenti e documenti.
Aveva bisogno assoluto "di libri, di memorie, e di notizie, senza le quali
non posso far miracoli, tutte queste cose essendo necessarie, se voglio
proseguire un'opera così grande".
Per sostenere la finzione, qualche conoscenza del mondo turco e della
religione islamica il Marana doveva pur procurarsela. Senza contare gli
informatori privati, ecco le sue fonti essenziali. Per il mondo turco
e la storia dell'Impero ottomano negli anni di disordine, le opere egregie
di Sir Paul Rycaut della Royal Society, che in Oriente aveva trascorso
una ventina d'anni e quel mondo e le sue vicende aveva diligentemente
studiato: The Present State of the Ottoman Empire (1668; due traduzioni
in francese, 1670 e 1677; una italiana, Venezia, 1672) e The History
of the Turkish Empire from 1623 to 1677 (1680, traduzione francese
1682 presso il Barbin, l'editore dell'Esploratore turco). Del Corano
utilizzò la versione francese di André du Ryer (L'Alcoran
de Mahomet, 1647): benché difettosa, la prima, tra le moderne
edite, che avesse tenuto conto, nell'interpretare quel libro dallo stile
oscuro e involuto, della tradizione [169] esegetica islamica. Oltre
che del Corano, il Marana dimostra di avere qualche conoscenza
degli hadîth del Profeta. Pur disponendo di fonti d'informazione
molto ricche - sia detto di passata - i maggiori tra i philosophes
(Montesquieu, Voltaire, Diderot, Rousseau...) non dimostreranno di possedere
una migliore conoscenza dell'Islam (Malvezzi). Montesquieu, tanto per
citare un esempio illustre, continua ad assimilare le abluzioni dei musulmani
al battesimo, malgrado che questo antico errore fosse stato da molti corretto
(Lettres Persanes, XVII, XXXV).
Il personaggio di Mahmut è credibile? Il fatto è che, come
musulmano, egli è, a dir poco, atipico. Innanzi tutto: mostra una
curiosità, affatto insolita tra gli uomini dell'Islam, fermamente
convinti della propria superiorità, verso il mondo cristiano. Giovinetto
schiavo per quattro anni in Sicilia, si era nutrito di saggezza classica,
soprattutto di Seneca, il grande consolatore. Nella sua libreria minima,
accanto al Corano, c'erano Tacito e Sant'Agostino. Costretto a narrare
i tanti fatti di guerra di quel "secolo di ferro" (l'espressione è
del Marana), dimostrerà sempre una marcata ostilità verso
guerre e soldati, "gravi e insopportabili anche in tempo di pace", sorprendente
nel funzionario di un impero che viveva sulla guerra; e deplorerà,
fingendo di rallegrarsene, i tanti conflitti che dilaniavano gli Stati
cristiani. Che l'arcivescovo di Bordeaux, Henri de Sourdis, fosse un uomo
di guerra - un ammiraglio - lo scandalizzava: mai gli Osmanli si erano
serviti degli sheik, ossia dei capi di confraternite religiose - timidi,
inesperti, superstiziosi - per condurre le armate imperiali. Giudicherà
perciò severamente i cristiani, come aveva fatto il Marana nella
Congiura: "e' cosa spaventevole che con diversa disciplina adorino
gli huomini in un medesimo tempo Marte, e Christo". "Sparger sangue" e
"causar ruina" non è da religiosi. Ma soprattutto - cosa incredibile
in un musulmano - dava poco o nessun peso in fatto di religione ai gesti
rituali. A Yussuf, suo parente, raccomandava di non essere "ipocrita",
cioè bigotto. A Brededin, superiore del convento dei dervisci a
Konya, chiedeva: "Credi tu che in qualunque [170] setta che l'huomo
sia potrà essere salvo se sarà huomo da bene?". Sognava
la riconciliazione finale di Cristianesimo e Islam. Proprio in quella
lettera XI, dove faceva, non senza perfidia, l'elogio della Compagnia
di Gesù, e che tanto era piaciuta al padre de La Chaize da inviarne
copia in tutte le province prima che fosse stampata, il Marana adattava
al suo proposito la predizione attribuita a Maometto e assai comune tra
i musulmani che, verso gli ultimi giorni, un membro della sua famiglia
portante il suo stesso nome e patronimico (Mohammad ibn Abdallah) sarebbe
risorto per ristabilire sulla terra il regno della giustizia e della pace:
"Prego meco il Grande Iddio, che illumini le nostre tenebre, sino a tanto
che l'huomo promesso dal Profeta, l'huomo dico della sua razza discenda
in terra, veda tutti i re umiliati alla sua presenza, et in compagnia
di Giesù accordino insieme le due religioni, in maniera che non
ve ne sia che una". Elogiava il precetto cristiano dell'amor del prossimo:
"sopra tutto osserviamo questo precetto scritto nel libro dei Cristiani,
ma non sempre nel loro cuore: Quello che non vuoi che ti sia fatto non
lo far nemmeno a' tuoi nemici". Quale differenza da Maometto, che "non
pensò mai a sentimenti così alti". Citava a riprova i versetti
della famosa sura della vacca nei quali Maometto teorizzava il gihad,
la guerra santa contro i kāfirūna
(gli infedeli): "Uccideteli quindi ovunque li troviate [...]" (11, 190-192).
Ma, accanto a quei versetti terribili, in quella stessa sura se ne leggono
altri di sentimenti questa volta assai elevati, anche se sgraditi al cortigiano
di Luigi XIV: il forte proclama soprattutto della libertà di coscienza
("Non vi sia costrizione alcuna in fatto di religione!", II, 257).
Mahmut, che prediligeva una religione attiva, aveva naturalmente in forte
antipatia asceti e monaci. Deplorava la decisione di un amico cristiano
di farsi carmelitano, gli dava anzi del pazzo: "Non credo sia necessario",
gli diceva, "un sì gran lavorare per essere santo, e solo credo
che se amerai Dio quanto puoi, e più che puoi, e viverai come tu
dovessi quel giorno morire, che morirai santo, e viverai giusto". Dalla
riunificazione religiosa del genere umano, rinviata [171] ai tempi
messianici, era escluso - la cosa è degna di nota - il giudaismo
(tra l'altro, la religione più affine all'islamica). Gli ebrei
- in questo Mahmut è perfettamente in linea con la tradizione islamica
- depositari di una rivelazione imperfetta, anzi corruttori maliziosi
dell'eredità di Abramo, sono fatti segno del massimo disprezzo:
"I Giudei sono ora vagabondi, esiliati, senza legge, senza Re, senza Regno
e senza Altare, e sono diventati gli asini che tragittano i cattivi musulmani
all'Inferno". E insiste con i suoi corrispondenti di quella religione,
impiegati come lui a far da spie in Europa (cosa rispondente al vero)
a convertirsi all'Islam.
In breve: Mahmut era, sin dal primo tomo, come sarà Usbek nelle
Persanes, un musulmano in crisi, portato dalle sue libere riflessioni
a coltivare una religione etica, i cui articoli principali erano l'amor
di Dio e del prossimo, e l'esercizio di una vita virtuosa. Equidistante
da entrambe le religioni, sia la musulmana sia la cristiana, poteva ironizzare
a volontà sulle credenze cristiane: sul culto dei santi protettori
( [172] "tutti gli Infedeli, i quali con vergognosa idolatria dedicano
la loro città ad huomini morti che chiamano santi, che il Papa
fa con le sue mani, e che gl'Infedeli venerano sopra gli altari di terra
et invocano nelle necessità"); sui Te Deum ("quando perdono
i Spagnuoli cantano il Te Deum i Francesi, e lo stesso cantano
quelli, quando perdono questi; lo cantano ancora in un istesso tempo qualche
volta gli uni e gli altri"); sulla confessione auricolare ("confessioni
segrete che un huomo fa ad un altro"); sull'eucaristia ("certo pane sopra
il quale è effigiato il loro Christo, dicono essi, morto sopra
la croce, che chiamano sagramento dell'Eucaristia, nel quale vogliono
che Christo sia esistente in corpo reale hipostatico divino e umano").
Tutti "riti" che non intaccavano la sostanziale identità della
fede ("Il Dio de' Christiani è il nostro, ma troppo opposti sono
i nostri riti a i loro"). In realtà, non si trattava soltanto di
riti: erano le credenze a divergere. Pur riconoscendo a Gesù figlio
di Maria, vergine prima e dopo il parto, un posto eminente tra i profeti,
Maometto, assertore dell'assoluta unità e assoluta trascendenza
di Dio, si era rifiutato di farne un figlio di Dio e di farlo morire sulla
croce. Il che Mahmut, a suo modo, ammette subito dopo: "Vi è ben
differenza da un Giesù morto sopra un legno con i più vili
obrobrii, a un Maometto immortale sempre trionfante, legislatore, e pietra
angolare del primo Imperio della Terra". In ogni caso, falsa o vera che
fosse una religione, non bisognava burlarsi dei suoi misteri. Gli ebrei
marrani - è vero - lo facevano: un altro motivo per disprezzarli.
Si capisce che la lettura di quel primo tomo destasse qualche perplessità
in Saint-Olon, che pure era un giudice benevolo ed estimatore incondizionato
dell' "admirable fecondité" del genio del Marana. Non avrebbe potuto
astenersi - gli chiedeva - dal "parler irrespectueusement des mystères
de notre religion"? Il Marana si difendeva dicendo che, per rendere accettabile
la finzione, doveva "osservar la fedeltà". E si nascondeva dietro
l'approvazione dei suoi grandi protettori: "quando sentirà che
il Re ha approvato prima questo metodo, che il Reverendo Padre della Chaize
ha [173] trovato maravigliosa l'orditura e l'invenzione [...]".
Del resto, quel primo tomo non portava ancora "merce preziosa". Aspettasse
l'uscita del secondo - scriveva nel febbraio del 1684 - già finito
e che si andava traducendo in francese "a gran passi": avrebbe visto "come
saranno trattate le materie gravi del Richelieu" e come quella gran tela
avrebbe cominciato ad animarsi.
Il Marana sottovalutava l'importanza di quel primo tomo. Esso conteneva,
tra l'altro, osservazioni assai fini. Le notazioni su Parigi, città
strepitosa per i tanti "carri, cavalli, carrozze" che l'ingorgavano, e,
soprattutto, quelle sui parigini, animati tutti da un'incredibile fretta
e febbre di vivere: "Se vanno a piedi corrono, se a cavallo volano, se
sono strascinati da carri o carrozze assordano l'aria co' strepiti e rompono
le strade col precipitoso corso, e troncano metà delle parole se
parlano". Tutto facevano "con tale prestezza, come se dovessero quel giorno
morire". Il contrasto tra il dinamismo di una città europea e la
solennità compassata del mondo orientale non poteva esser colto
meglio. Montesquieu si ricorderà di quel passo: "Tu ne croirais
pas peut-être; depuis un mois que je suis ici, je n' a y encore
vu marcher personne [...]; ils courent, ils volent. Les voitures lentes
de l'Asie, le pas reglé de nos chameaux, les feraient tomber en
syncope" (Persanes, XXIV). Operosissimi, amantissimi degli spettacoli,
impetuosi, i francesi erano anche mangiatori gagliardi. Dispeptico, Mahmut
osserva con ribrezzo l'universale voracità: "Sono qui spettatore
ozioso di un milione di bocche che mangiano quattro volte il giorno e
che consumano ogni settimana millecinquecento bovi, quindeci mila d'animali
fra montoni, vitelli e porci, oltre le selvaticine, e tanti altri frutti
della terra e del mare".
Tra la pubblicazione del primo tomo e quella del secondo e terzo (1686)
erano accadute intanto cose gravi. Nel maggio del 1684, per dieci giorni,
Luigi aveva bombardato Genova dal mare. Malgrado la minaccia di nuove
azioni di [174] guerra, la Repubblica riluttava tuttavia a far
atto di sottomissione. Non solo: correvano "per l'Europa alcuni ingiuriosi
manifesti stampati in varie lingue", che sostenevano contro la Francia
le "cattive ragioni" dei genovesi. Con "rossore", il Marana, "cittadino
infelice" di quella patria "miserabile", "divenuta insopportabile a tutto
il mondo", faceva il 14 settembre 1684 le sue scuse al Re per la ostinatezza
dei suoi concittadini: "rimango tutto addolorato in una profonda confusione
che Genova ancora contumace non s'humilij a' piedi Reali del più
benigno e magnanimo monarca della Terra". Per l'occasione compose un Dialogo
fra Genova e Algieri, al quale lo stampatore dell'edizione italiana
riuscì a dare il titolo più efficace: Dialogo fra Genova
e Algieri fulminate dal Giove gallico. Per persuadere la patria alla
sottomissione aveva scelto di portarle l'esempio di Algeri che, bombardata
la prima volta dal 30 agosto al 4 settembre del 1682 e nuovamente nel
giugno e luglio del 1683, nella primavera del 1684 era finalmente venuta
a patti, sottoscrivendo una pace che avrebbe dovuto durare "cento anni"
e che ne durò invece quattro.
Di contro ad Algeri, resa conciliante dall'esperienza, Genova, più
superba del Gran Turco, si mostra ostinata più che mai a nulla
concedere al re di Francia. Desolata dal bombardamento, e minacciata di
totale rovina, sostiene una linea di resistenza fermissima: "Pure bisogna
far coraggio, e non mostrare alcun segno di viltà, e sono risoluta
di seppellirmi affatto come Numanzia nel fuoco, e nelle mie rovine". Usa
un linguaggio tragico: "piaccia al mio destino di farmi cadere presto;
ma che con me cada il Cielo ancora". L'idea di quel suicidio eroico al
popolo non piaceva: "Il popolo farebbe cose assai se avesse capo"; ma
l'esecuzione di trenta sediziosi era bastata a disarmare l'insurrezione.
L'operato del Saint-Olon, uomo "incorrottissimo" e risoluto, non aveva
certo contribuito alla distensione degli animi. Risse e puntigli da una
parte e dall'altra avevano spinto anzi le cose al punto di rottura. Il
trattamento riservato all'inviato del re non era stato, in verità,
dei più cordiali. La moglie non era stata ammessa dalle dame dell'aristocrazia,
gelose [175] della propria "libertà", nella loro compagnia.
Lo stesso Giovanni Batta Spinola aveva commiserato quella "povera signora",
ignara dell'italiano che aveva girato inutilmente su una "sedia di piggione"
(i Saint-Olon, gente "minuta", non avevano voluto carrozze) a render visite
a persone che la sfuggivano. Aveva dovuto accontentarsi della "divota
conversazione con il suo confessore", il teatino Aritonio Peyre. Ma anche
costui la Repubblica le aveva tolto. A lui (e a tutta la sua facinorosa
"famiglia") era stata negata, sotto pene severe, l'assistenza di medici,
chirurghi e speziali; e perfino la libertà di passeggiate con la
consorte nei luoghi ameni della città. Il Marana era esatto nel
racconto degli "studiati insulti" subiti dall'amico, e delle persecuzioni
alle quali erano fatti segno tutti coloro che dimostrassero appena simpatia
per la Francia, addirittura per le mode francesi. Non dimenticava se stesso
che altro delitto non aveva commesso se non quello di aver intrapreso
a comporre la storia di Francia sotto gli ultimi regni: "Se quest'uomo
ti dà gelosia, carezzalo più tosto che irritarlo". Poiché
è l'interesse "che dà la legge, et il moto a tutte le cose
umane", bisognava venire a patti: "Egli cerca i suoi vantaggi, cerca tu
i tuoi". Era buona regola, del resto, usar riguardo verso gli uomini di
lettere, signori dell'opinione pubblica, "facendo più male questi
con le penna e coll'ingegno che non fanno tutti i capitani col fuoco e
col ferro". Degna d'imitazione la larghezza d'idee di Enrico IV: "diceva
Enrico il grande che le penne, le lingue, e le composizioni, et le impressioni
si dovevano lasciar libere". Bella lezione di liberalismo e buona per
tutti: a cominciare da Luigi, l'uomo delle dragonnades e della
Revoca. Il Dialogo, rimaneggiato e qua e là accresciuto,
venne divulgato anonimo per le stampe d'Olanda al principio del 1685 in
duplice veste, italiana e francese. Non stupisce che la dogana francese
lo sequestrasse come scritto sedizioso (Sauvy).
Per evitare il peggio, la Repubblica doveva comandare "al suo Serenissimo
Doge et a quattro de' più vecchi senatori di portarsi prestamente
a Parigi ai piedi del Re". Genova, nel Dialogo, rifiuta con sdegno
quel partito: "Il mio Doge [176] et i miei Senatori moriranno nella
loro dignità senza mai commettere questa nota d'infamia". Ma nel
maggio del 1685 finirà per piegarsi: e la missione si fece proprio
in quel modo. E sarà proprio il Marana a tramandare ai posteri,
nei suoi Entretiens, l'ironica risposta data dal doge Lercaro -
l'odiatissimo Lercaro, "questo nuovo Nerone più malvaggio del vecchio"
- alla Delfina (non al Seignelay, come riferirà Voltaire). Genova
aveva certamente errato nel calcolo del suo "interesse di Stato", troppo
fidando nell'aiuto spagnolo e nella mediazione d'Inghilterra e di Roma.
Ed errava, tuttora, nel modellare la propria condotta sull'esempio di
Roma antica. I romani però, quei feroci difensori della propria
libertà, avevano saputo accettare all'occorrenza la sconfitta e
l'umiliazione. Meglio imitare l'esempio dell'Olanda, "la più potente
repubblica che sia nell'universo" che si era piegata alla legge del più
forte. La Pretesa francese all'egemonia mondiale era, per il realista
Marana, un evento incontrastabile.
Proprio le espressioni irriverenti o troppo libere verso la religione
crearono ostacoli alla pubblicazione di quel tomo secondo dell'Esploratore
turco, che già il Marana aveva offerto al re manoscritto, e
del terzo che nel frattempo aveva composto. La censura non gli concedeva
la licenza di stampa. Finalmente, nell'autunno del 1685, il gran cancelliere
nominò revisore "le gros Charpentier", uno dei quaranta dell'Académie
Française, uomo di conto e censore indulgente. Il 28 settembre,
gli concesse finalmente l'imprimatur, ma a patto che sopprimesse
quattro passi sconvenienti. Nell'agosto del 1686 le prime centodue lettere
videro la luce, ma soltanto nella veste francese, con il titolo già
assunto nel 1684: L ‘Espion du Grand-Seigneur.
Come aveva promesso al Saint-Olon, le materie politiche vanno assumendo
nei nuovi tomi sempre maggior peso. Il racconto arriva fino al giugno
1642. Erano anni di grandi turbolenze: "On ne voit en ces temps que conjurations
[177], que guerres, que seditions, des trahisons, des infidelitez
et des revolutions d'Estat". Alludeva alla rivolta dei Nupieds in Normandia,
alla rivolta della Catalogna, alla rivolta del Portogallo, ai torbidi
d'Inghilterra e di Scozia, alla morte violenta di Murad IV. Naturalmente
è Richelieu a dominare la scena. Il Marana non ha verso questo
prete che si occupava degli affari del mondo una grande simpatia. Ne ammirava
sì il "vaste génie", ma ne denunziava la rapacità,
l'ambizione smisurata, l'atteggiamento despotico e l'enorme potere: "il
interprète toutes les doutes qui peuvent artiver dans sa religion;
il resout les difficultés, il est maitre des chatimens; il dispose
des recompenses". Tiberio "ne fit point voir à Rome tant de dissimulation,
ni tant de penetration que luy". Il suo attivismo aveva tuttavia del meraviglioso:
"il donne, pour ainsi dire, le mouvement à tout". Fattosi arbitro
di tutte le potenze europee, forse aspirava segretamente al papato. Del
suo antagonista, il conte-duca di Olivares, nel 1642 sull'orlo della disgrazia,
il Marana parlava con disprezzo. Non avevano torto i francesi ad augurarsi
che il suo ministero durasse a lungo "afin de perpetuer par ses conseils
les disgraces de l'Espagne".
Il giudizio sulle rivoluzioni è diverso. Lodava la moderazione
- la "douceur" - dei portoghesi ("ils ont chassé de chez eux une
nation très puissante et très politique sans repandre de
sang que celui d'un scelerat" (Miguel de Vasconcellos), esecrava invece
la condotta dei catalani, soprattutto le violenze e le crudeltà
dei contadini; deplorava con vive parole gli attentati all'autorità
del Re compiuti dal Parlamento inglese. L'atteggiamento di Strafford di
fronte alla morte gli strappa parole ammirate: "intrepide comme Socrate,
et plus fort que Caton". Ma tra le sue poche suppellettili c'era (come
nello studiolo di Spinoza) il ritratto di Masaniello, "il Mosé
di Napoli".
Marana nasconde appena il suo orrore, quando espone le spietate leggi
successorie in vigore nell'Impero Ottomano. Mahmut cerca tuttavia di giustificarle:
"jamais l'Empire ne jouyroit de la paix, et il seroit dans un trouble
continuel, si on lassoit vivre tranquillement tous les fils et les neveux
[178] de nos Sultans et nous aurions tout un peuple de princes"
in continua guerra tra loro. Ma le nefandezze di Murad IV restano tali,
anche ai suoi occhi di suddito sottomesso.
Due lunghe lettere sono consacrate alla storia della vita di Enrico IV,
intese più a fare un ritratto del suo carattere che a narrare le
sue imprese in guerra: "Io sono sempre stato di questo sentimento, che
le cose più necessarie a sapersi siano i costumi de gli huomini
non gli assedii delle piazze, l'intendere la virtù e i vizii loro,
non i campeggiamenti e le battaglie". Si limitò a dire che "le
sue maggiori imprese furono quattro vittorie generali ottenute con poche
truppe contro grandi armate" e che aveva dato "la pace generale all'Europa"
facendo cessare la guerra dell'Interdetto, accesasi tra il papa e i veneziani.
Egli aveva accarezzato - è vero - il disegno di annientare l'Impero
Ottomano; ma aveva anche dato "pietoso imbarco" nei porti di Provenza
e di Linguadoca a 150.000 moriscos espulsi dalla Spagna. Esponeva
nei dettagli, senza commentarlo, il grandioso disegno attribuitogli di
creare una "repubblica universale", un superstato europeo, per far cessare
le guerre tra le potenze cristiane. A suo merito, veniva ascritto il tentativo
di moderare i duelli, costume "depravatissimo e bestiale che regna continuamente
tra i francesi", e che si era diffuso purtroppo anche in Italia, nel regno
di Napoli soprattutto. Il duellare era assolutamente contrario ai principi
cristiani: "fols les Nazaréns [espressione usuale coranica: nasara]
qui souffrent de telles coutumes chez eux et qui adorent cependant
un Messie, qui est un Dieu de paix".
Non mancavano, beninteso, le incursioni in campo religioso. Mahmut, che
non poteva fare il pellegrinaggio alla Mecca (uno dei cinque pilastri
dell'Islam), doveva per questo essere dannato? Mahmut protestava. Aveva
adorato Dio, teneva in grande venerazione il Profeta, mai aveva versato
sangue umano, mai aveva commesso adulterio, aveva perdonate le offese,
aveva una vera avversione per la maldicenza: "Se queste cose non bastano,
io non so come salvarmi perché non ho altra virtù". Al gran
mufti, che gli ordina che "tutto si deve sacrificare per non essere traditore
a Dio" replica: "è egli necessario per vivere fedele, odiare eternamente
i Nazareni?". [179] Il Corano - gli aveva detto il mufti
- "parla chiaro". Non era esatto: "quante oscurità vediamo nelle
parole del Profeta che hanno bisogno del lume della tua lucerna".
Critico nei confronti della sua religione, Mahmut riduce al minimo (e
sappiamo perché) le allusioni irrispettose verso il cristianesimo.
Mostra sorpresa per l'uso dei "procuratori", di nuovo ironizza sull'eucaristia
e naturalmente sul cardinale-ministro. A proposito del caso del duca di
Lorena, privato nel 1641 dei suoi Stati, il Marana si fa a teorizzare
i diritti individuali. L'argomentazione è curiosamente simile a
quella di Hobbes: "la nature a tout donné aux hommes, et toy et
moy et tous les hommes avons une égale authorité sur toutes
choses, et par là nous avons le pouvoir de faire tout ce que nous
voulons, de posseder et de jouyr de tout ce que nous croyons qui en peut
étre digne". Questo estesissimo jus in omnia genera però
fatalmente uno stato di guerra, nel quale ciascuno diventa nemico degli
altri, e - come per Hobbes - si vanifica di fatto: "cependant un droit
si étendu est tout comme si nous n'avions droit sur rien". Sarà
il più forte a farsi valere. In tempo di guerra "cette liberté
établie par la nature" giustifica ogni forma di autodifesa ("de
resister et d'attaquer non seulement avec la force ouverte, mais avec
toutes les ruses et les stratagèmes qu'on peut inventer"). In una
lettera precedente aveva insistito invece sulla necessità dell'umana
solidarietà: gli uomini sono nati "attachez les uns aux autres
avec des liens que rien ne peut rompre". Essi hanno bisogno assoluto dell'aiuto
reciproco: "C'est l'interest et les besoins mutuels qu'ils ont de s'entraider;
il n'y en a point qui puisse estre heureux, et devenir riche tout seul,
il faut des liaisons, il faut un commerce [...]". Gli uomini hanno bisogno
di lodi, di riconoscimenti pubblici, di aiuti morali: un "commerce de
services" ancor più delicato dell'altro.
Non si lasciò sfuggire l'occasione per adulare i genovesi: erano
"perfetti alchimisti" perché avevano "ridotto in oro quasi tutte
le pietre de' loro monti". Colpito dall'espansione demografica, davvero
eccezionale per l'epoca, dei figli d'Israele, ne ricercò le cause:
"non vanno alla guerra, non si consumano in mare, e sempre si maritano".
Nella dedica al re, gli raccomandava di gettare almeno uno [180]
sguardo "sopra il disegno di uno straordinario palagio" - un palazzo immateriale
- che l'arabo aveva offerto a Richelieu per ospitarvi lui fanciullo "e
dove certamente potrebbero alloggiare ancora tutti i Principali della
Terra fatti adulti e grandi": in sostanza, un'accademia storica internazionale,
che riscrivesse da cima a fondo, con spirito di verità, la storia
dei tempi moderni. Le guerre non sarebbero state l'oggetto principale
di quelle fatiche: "il furor militare, la fame et il sangue mi danno orrore".
Negli stessi mesi in cui il Marana esultava per la pubblicazione del
suo Espion, il re, già sofferente da tempo per la sua fistola,
andava decidendo se mettersi o no nelle mani dei chirurghi. Si risolse
infine, nel novembre, alla grande opération, che sostenne
con coraggio davvero eroico. Contro le previsioni, la guarigione ci fu,
e rapida. Alla fine del gennaio 1687, decise di celebrare la recuperata
salute con una gran festa popolare: fu la sua ultima apparizione in pubblico.
Da allora, per quasi trent'anni, eviterà ogni contatto con la folla.
Di questo ingresso trionfale a Parigi il Marana si fece minutissimo cronista
in tre lettere (stese in "stile familiare, ignudo di ogni abbellimento"),
indirizzate alla patria "rinsavita" e guidata da un "ottimo doge" (Pietro
Durazzo, il capo della fazione filofrancese) composte tra l'aprile e il
maggio del 1687: Il trionfo di Parigi. Alla cronaca fece seguire
il racconto degli alti fatti del re e il ragguaglio sull'organizzazione
dello Stato francese. Era un atto doveroso nei confronti di Luigi. Grazie
ai buoni uffici del padre de La Chaize e soprattutto dell'arcivescovo
di Parigi, Harlay de Champvalon, dei due di gran lunga il più influente,
gli aveva concesso (dopo la ripulsa dell'estate del 1686) la sospirata
pensione annua di duecento scudi.
Il Marana decise quasi subito di ampliare il quadro abbozzato nel Trionfo
in uno scritto dal titolo: Le piu' nobili azioni della vita e Regno
di Luigi il Grande. Le lettere alla "cara patria" sono diventate trentasette.
Non sono scritture del tutto illeggibili. Per chi riesce a superare [182]
il fastidio della celebrazione di un Re sempre vittorioso e sempre magnanimo,
esse riservano felici sorprese. Lo stesso testo celebrativo è significativo:
in Luigi il Marana esalta, a ben guardare, il grande riformatore senza
confronti nel suo secolo, l'attivissimo promotore della felicità
pubblica. Il sovrano che egli ammira e che porta ad esempio degli oligarchi
genovesi era colui che era riuscito a liberare la Francia dai duelli,
questo "furore pazzo e bestiale"; che aveva dato al paese "novelle pandette"
e un codice (l'Ordonnance civile del 1667) per "abbreviare i giudicij,
per contenere i giudici, e per metter freno alla sfrenata licenza dei
declamatori"; che aveva disciplinato la procedura dei giudizi criminali
(Ordonnance criminelle, 1670); che aveva protetto il povero dalle
usure; che aveva "abolito i pedaggi che si levavano sopra i fiumi del
Regno, le taglie e alcuni diritti sul sale"; che aveva costruito imponenti
opere pubbliche (il canale dei due mari, il lago artificiale dei Sainte
Férédole, il bacino di Noruse, il ponte di Repondre, la
gran volta di Malpas e "con le sue mani", dietro cioè le sue direttive,
il "vastissimo continente del castello di Versailles"; che aveva creato
il maestoso ospizio degli Invalides per accogliervi "tutti i cicatrizati
delle armi nemiche" e ventisei ospedali nella sola Parigi; che aveva illuminato
la città già "selva ‘di malfattori" con "gran fanali
di christallo", l'aveva pavimentata e pattugliata; che aveva edificato
oltre cinquecento chiese; che aveva creato il grande Observatoire, affidandone
la direzione al valoroso Cassini, uno dei tanti stranieri che aveva saputo
attirare in Francia; che aveva creato il Jardin des Plantes per lo studio
dei semplici; che aveva eretto numerose accademie (delle scienze, delle
arti, quelle romane di pittura e di scultura); che aveva creato una scuola
d'interpreti delle lingue orientali, un'accademia per seimila gentiluomini
e un educandato per signorine (Saint-Cyr); che aveva creato collegi "frequentati
da tutta la gioventù" perché aperti a tutti; che aveva promosso
due "floridissime" compagnie per il commercio coloniale nelle due Indie,
oltre a quella di Guinea; che aveva inviato e inviava di continuo missioni
di dotti in Oriente [183] per l'acquisto di codici rari da dotarne
la sua biblioteca, già ricca di un milione di volumi, e che aveva
reso pubblica affidandone la direzione all'abile Thévenot. Proprio
in quell'anno 1687, tre dottissimi padri della Compagnia di Gesù,
guidati dal padre Couplet, avevano pubblicato, per suo impulso, la prima
versione (in latino) dei classici cinesi con il titolo: Confucius Sinarum
philosophus. Grazie a quest'iniziativa, la "celebre e sottile filosofia
di questo sapientissimo chinese", il più morale savio dell'Asia",
fino allora sepolta nei codici della biblioteca, veniva esposta alla "maraviglia
del pubblico". E così via. Sono, per farla breve, gli aspetti positivi
e innovativi dell'opera di governo del Re Sole che, oltre mezzo secolo
dopo, valorizzerà Voltaire (tranne, beninteso, l'esaltazione dell'estirpatore
dell'eresia).
Nel 1754 Dreux lo aveva insinuato: "On peut appeler ces lettres le Siècle
de Louis le Grand". In effetti, c'era già forte in Marana l'attenzione
ai faits de civilisation e alle moeurs: "Cette nation est
devenue toute autre", dirà in Les Evénemens, "depuis
qu'elle est gouvernée par le Roy le plus sage et le plus heureux
qu'elle ait jamais eu. Tout y est changé". Tutto: anche il modo
d'essere dei francesi: "les moeurs des habitants sont entièrement
différentes de ces qu'elles étoient au commencement de ce
Regne". Narrava sì le strepitose guerre del re, ma non nascondeva
la sua simpatia per i Figli del Cielo, tutti dediti alle opere della pace
e circondati soltanto da uomini di cultura: "Fra noi Chinesi", farà
dire, proprio nelle prime pagine, a un saggio di quella nazione, "alcun
caso non facciamo de gli huomini bellicosi e bravi, tutti i nostri elogii
sono per i pacifici e per i giusti; i consiglieri del Principe non sono
che letterati e filosofi, i quali correggono i diffetti del sovrano con
la medesima libertà [con] che gli antichi profeti correggevano
i re della Giudea". Un sovrano pacifico e "illuminato", guidato cioè
e controllato dal ceto intellettuale: non è già l'ideale
politico dei philosophes?
Non mancano nei due scritti (il secondo dei quali molto deve al primo)
pagine dove la verve dello scrittore ha miglior agio di brillare; appaiono
anche, per dire la verità, leggermente [184] stonate in
quel contesto. I librai di Parigi: "ma che non fanno nel solo Parigi i
librari et i stampatori?". La loro produzione è enorme: "Ogni dì
opere nuove affisse sopra gli angoli delle strade". Gli autori, "scrivono,
vegliano, e travagliano, et i librai si divertono, dormono e s'arricchiscono;
in niun altro luogo del mondo non havendo mai le lettere tanto arricchito
quelli che non l'intendono". La lingua francese ha toccato la perfezione:
"Niuna nazione scrive hora meglio della francese". Niente iperboli, niente
periodi lunghi e stile figurato: "Scrivono come parlano, o per meglio
dire parlano con eloquenza degna di essere scritta". La vivacità
intellettuale dei parigini è incredibile: "Non vi è quartiere
in Parigi ove non sia aperta un'academia familiare a chiunque è
curioso di ascoltar ottimi discorsi, e a chi è capace di farne".
Ma se nulla ha da dire, è libero di tacere. Sono ospitalissimi:
"Il forastiero è introdotto e carezzato a sazietà". Non
potendo vestirsi di seta e d'oro, lui, Marana, vestiva decorosamente di
lana, ma mai aveva patito sete e fame, "essendo impossibile in una città,
ove l'hospitalità è il primo elemento de' Francesi... Da
per tutto si trova il necessario per il bisogno, et amici in ogni luogo,
che vi chiamano a tavola e che ringraziano i convitati dopo che questi
han finito di cibarsi".
Le donne: "Amano in vero queste femine con tanta passione i cagnolini,
che sovente si scordano di essere madri, carezzando questi piccoli animali
come se fossero della razza di quello che seguitò sempre Tobia
[...]. Vanno alcune in Parnaso in compagnia de' Poeti, e quasi tutte si
vantano di haver havuto un maestro, et essere entrate in qualche scuola.
Così alcune fanno libri, altre presentano al Re elegie, sonetti
e madrigali, e le più savie partoriscono". Il lettore ritroverà
questo, con tanti altri brani personalissimi, nella Lettre d'un Sicilien.
Su un punto bisogna ancora fermarsi: i poteri taumaturgici del re. Il
Marana sa di toccare una questione scottante: "Hanno questi re la virtù
di guarire le scrofole, dono dato da Dio". Ma c'era chi ne dubitava: "Coloro
che attribuiscono tutto alla natura e molto al caso diminuiscono la maraviglia
del successo". Per lui, Marana, si trattava di [185] vero miracolo.
Ma come distinguere un miracolo vero da uno falso? "I magi del Faraone
alla vista di Mosé produssero de' veri serpenti e delle ranocchie";
Vespasiano aveva, a detta di Tacito, restituito la vista a un cieco; una
"cappella di Giove fu trasportata, come scrive Eusebio, sopra il Nilo
simile in apparenza al vero miracolo che noi crediamo piamente per quella
di Loreto". Soltanto la forza delle fede, aiutata dalla grazia, può
aiutarci.
A Le più nobili azioni andava innanzi una lunga dedica
al re, nella quale il Marana gli esponeva il piano di una grande storia
dei Borbone, divisa in deche sul modello di Livio. Due anni dopo, nella
dedica premessa alla traduzione francese del suo Panegirico, eseguita
dal Saint-Olon per sfuggire alla noia nel tempo in cui custodiva a Saint
Lazare il nunzio Ranuzzi (1688-1689), ritornava sul progetto: "ardisco
supplicarla humilmente a sovvenirsi ch'Ella si è degnata di farmi
sperare per mezzo di Monsignor Arcivescovo di Parigi, ch'io sarei impiegato
a travagliare sopra qualche materie historiche et a quest'effetto ubbedendo
a' comandamenti di Vostra Maestà diedi una memoria [...]". Il guaio
era che il re non soltanto non aveva risposto, ma aveva cessato di corrispondergli
la pensione: "E come questo progetto è rimasto in silenzio, e sono
insieme per me sospesi i beneficij di Vostra Maestà, attendo dalla
grazia del miglior re del mondo, almeno qualche gradimento di questa fatica".
La grazia non venne. Indispettito, il Marana dedicò l'anno dopo
l'edizione della versione francese del Panegirico al cardinale
César d'Estrées. Ora che la guerra era tornata a desolare
l'Europa, quello scritto parve fuori posto. Qualcuno gli fece notare che
avrebbe meglio impiegato la sua penna "à déplorer les malheurs
dont tant de provincies et de familles sont accablées". Nell'Epître
au lecteur lamentava che la lentezza dei traduttori e quella dei revisori
avesse ritardato l'uscita della versione francese di una "dozzina" di
volumetti dell'Espion già stesi in italiano. Argomento formidabile
(rafforzato [186] dalla promessa fatta già nell'Esploratore
di "cinque cento e più lettere"), in mano di chi lo vuole autore
di quel mostro che divenne, tra il 1691 e il 1693, l'Espion nella
versione inglese (dall'italiano!). Cosa della quale è però
lecito dubitare. La predilezione che dimostra la Turkish Spy per
i grandi problemi filosofici dibattuti nel milieu libertino francese
(immortalità e natura dell'anima, creazione ex nihilo, indistruttibilità
degli atomi materiali, trasformismo delle specie, metempsicosi, anima
dei bruti, etc.) appare tutt'affatto nuova nel personaggio Mahmut, propenso
sì a giudicare liberamente credenze e riti religiosi, ma non sino
a quel punto, e non in quel modo. Da malizioso dubitatore che era, è
diventato un dissertatore e declamatore irrefrenabile. Con questo non
si vuol dire che in quel grande galimatias, composto verosimilmente
da più di una mano, non vi sia un gran numero di "fort bonnes lettres"
che si leggono con piacere (Fréron). Il curato Meslier, da parte
sua, trovò in quell'auteur judicieux assai di più:
spunti essenziali per elaborare la sua ideologia nihilistica ed eversiva.
In ogni modo, chiunque fosse stato a servirsi di quella struttura "aperta"
- lui stesso o altri - sua era innegabilmente la prima invenzione di tale
fortunata formula narrativa, che intrecciava storia arcana a libera riflessione
filosofica. L'Espion provocò una vera esplosione di gusto.
Non si contano, lungo tutto il Settecento, le lettere "persiane", "ebraiche",
cinesi", "marocchine", "peruviane", etc. L'Europa si va popolando di osservatori
curiosi, di "spie". Un solo paese resta estraneo a questa voga, al generale
processo di autocritica dell'Europa: l'Italia.
Tra le opere, annunciate come pronte nel 1690, c'erano gli Entretiens
d'une dame, d'un philosophe et d'un solitaire. Saranno pubblicati
postumi nel 1696, con un titolo dal quale è scomparsa la dame,
da uno che ebbe accesso alle carte rimaste al Saint-Olon. L'editore li
dice composti direttamente in francese; ma c'è da dubitarne. Contengono
nell'essenziale una lunga galleria d'illustri infelici (il conte di Essex,
il conte di Santa Coloma, Carlo I Stuart, il sultano Osman II, Masaniello,
Gustavo Adolfo, Wallenstein, Henriette de [187] France, Olivares,
Li Tzu-ch'eng e così via): altrettanti esempi del fatto che "de
tous les tems les hommes ont représenté sur les théàtre
du monde des tragédies sanglantes, des spectacles funestes, des
révolutions et des renversemens d'Etats". Tutto l'orrore nutrito
dal Marana nei confronti del suo secolo "cattivo" si concentra in queste
pagine lugubri. Nel mondo umano e nel mondo naturale tutto è guerra,
discordia, sopraffazione. Perfino le pecore, "qui sont les vrais hiéroglyphes
de la douceur", cozzano furiosamente tra loro quando sono in preda all'estro.
Non soltanto l'amore, anche la benevolenza, sono impossibili: le colombe,
"dans les plus douces affections", "ne découvrent que la baine".
Per sfuggire alla disperazione che procura così atroce visione
del mondo non c'è altro rifugio che il possesso di Dio o della
vera filosofia, questa volta dell'antichissima sapienza egizia. Nel 1689
il Marana sembra seriamente tentato dalla vita solitaria. Riprovò
tuttavia con la letteratura, e con miglior vena. Nell'agosto del 1692,
travestito questa volta da "siciliano", si mise a comporre (in italiano)
un ritratto brioso, rapido, intessuto tutto d'impressioni vive di quella
città, esuberante e meravigliosa, che aveva visto prender corpo
per un momento e naufragare il suo sogno di storico laureato. Riutilizzò
in gran numero, nella sua Lettre d'un Sicilien, proprio quei passi
che negli scritti encomiastici facevano spicco per la loro immediatezza.
Decontestualizzati, quei passi acquistarono luce nuova e soprattutto nuovo
ritmo, e formarono un testo che colpì i contemporanei per il suo
"style singulier". Scioltosi infine dai lacci del cortigiano, intinta
un po' la penna nel fiele, messo da canto ogni modello e divenuto insomma
scrittore sperimentale, l'inventore dell'Espion turc divenne alla
vigilia della morte (settembre 1693) l'inventore dello stile agile, spezzato,
arioso del nuovo secolo.
Fonti: Archivio di Stato, Genova, Archivio Segreto, 2201,
2201 bis, 2201 ter, 2202, 2203, 2204, 2205, 2206, 2207; Inquisitori
di Stato, 3019, 3020; Politici, 1659, 1660, 1661, 1662; Litt.
registri, 1935; Rota criminale, 118; Bibliothèque de
l'Arsenal, Parigi, Mss. 6613, 6829; Bibliothèque Nationale, Parigi,
nouvelles acquisitions françaises, 5808 (Volumes manuscrits
apportez de Versailles en la grande Bibliotbèque du Roi à
Paris en l'année 1729, au mois de février par l'abbé
Targny); 5409 (Catalogue des matières des Manuscrits François,
Espagnols, Allemans &c de la Bibliothèque du Roy fait en l'année
1714 et écrit par la main de Jean Buvat); 5534 (Mss. de
Versailles); Biblioteca Capitolare, Verona, cod. CCCIV, ff. 10-15a;
F. BIANCHINI, Censura libri cui titulus: Explorator [...], 11 maggio
1705; British Library, Londra, Add. Mss. 6144, 10217; Carpenteriana,
Paris, 1724, p. 29.
Opere edite e inedite: Successi della guerra del 1672, [1676],
in-folio, cc. 133+20, bianche. Scrittura calligrafica inelegante, di mano
sconosciuta. Soltanto l'avviso Al lettore è autografo (Archivio
di Stato, Torino, Ms. T.V. 26). Copia ottocentesca in: Biblioteca Reale,
Torino, Fondo Saluzzo 243. L'opera, considerevolmente accresciuta, è
stata pubblicata col titolo: La congiura di Raffaello della Torre,
con le mosse della Savoia contra la Republica di Genova. Libri due,
Lione, Alle spese dell'autore, 1682. Copia fedele, priva però della
dedica a P. Spinola, eseguita per conto di un lettore polacco nel secolo
XVII, in Bibliothèque Nationale, Parigi (d'ora in avanti BNP),
Fonds italiens, 744.
L'Esploratore Turco e le di lui pratiche segrete con la Porta Ottomana
scoperte in Parigi nel Regno di Luiggi il Grande l'anno 1683, Tomo
primo, In-8o piccolo, ff. 373, elegantemente rilegato in pelle
con fregi in oro (sole e mezzelune). Scrittura corsiva di mano sconosciuta
(BNP, Fonds italiens, 1006). Provenienza: Versailles. Dedica a Luigi XIV,
datata a penna dal Marana: 15 aprile 1683. Contiene le prime trenta lettere.
E' il testo stampato con varianti l'anno dopo, il 17 gennaio 1684, con
il titolo: L'esploratore Turco e le di lui relazioni segrete alla Porta
Ottomana, scoperte in Parigi nel Regno di Luiggi il Grande. Tradotte
dall'arabo in italiano da GIAN-PAOLO MARANA e dall'italiano in francese
da *** contengono le piu' nobili azioni della Francia e della christianità
dall'anno 1637 fino al 1682, Torno primo, In Parigi, Appresso Claudio
Barbin, M.DC.LXXXIV. Con privilegio del Re. In-80 (BNP, Imprimés
Z. 14.477, ex dono authoris). Nuova dedica a Luigi datata:
10 gennaio 1684. Il testo manoscritto con le varianti dell'edizione a
stampa è stato pubblicato da G. ALMANSI, D. WARREN in Studi
secenteschi, IX, 1968, pp. 159-264; X, 1969, pp. 243-288. L'opera
venne quasi simultaneamente - il 1° febbraio - pubblicata in francese
con il titolo: L'Espion du Grand Seigneur et ses relations secràtes
envoyées au Divan de Constantinople découvertes à
Paris pendant le regne de Louis le Grand. Traduit de l'arabe en italien
par le Sieur J.P. MARANA et de l'italien en françois. Ces relations
contienent les evénemens les plus considérables de
la chrestienté & de la France depuis l'année 1638 jusqu'à
l'année 1682, Tome premier, A Paris, Chez Claude Barbin, au
Palais sur le second Perron de la Sainte Chapelle, 1684. Finita di stampare
il 10 febbraio, in marzo l'opera venne contraffatta, con il consenso dell'editore,
in Amsterdam da H. Wetstein e H. Des Bordes (P. BAYLE, Nouvelles de
la République des Lettres, mars 1684, Amsterdam 16862,
p. 89).
L'Esploratore Turco del Signor G. P. MARANA, Tomo secondo, 1684,
in-80 piccolo di ff. 278, rilegato in pelle con i gigli di
Francia. Scrittura corsiva di J. Buvat, copista presso la Bibliothèque
du Roi. Dedica a Luiggi non datata (BNP, Fonds italiens, 1007). Provenienza:
Versailles. Contiene le lettere 31-63. Pubblicato da ALMANSI, WARREN in
Studi secenteschi, XI, 1970, pp. 75-169; XII, 1971, pp. 325-366;
XIII, 1972, pp. 275-291; XIV, 1973, pp. 253-283. Di questo tomo fu pubblicata
il 14 agosto 1686 soltanto la versione francese, unitamente a quella del
primo già pubblicato e alla versione di trentatré nuove
lettere (69-102) riunite in un terzo tomo (che per errore vien detto "quatrième")
dal solito Barbin, al quale il Marana aveva ceduto il sessennale copyright
ottenuto dal Re il 19 novembre 1683, con il solito titolo e la vecchia
dedica. Una nuova edizione in un unico volume di 450 pp. delle 102 lettere
(divise in quattro sezioni) venne pubblicata ad Amsterdam nel 1688 da
Wetstein et Desbordes. Altra edizione in quattro volumi in-12° a
Parigi presso Etienne Ducastin, al quale il Barbin aveva ceduto i suoi
diritti, nel 1688-89. Il titolo è ancora quello originale: L'Espion
du Grand Seigneur. L'anno prima - il 27 aprile 1687 - John Leake,
stampatore in Londra, aveva ricevuto la licenza di pubblicare un'opera
intitolata: The Grand Seigniors Spy and His secrete relations
to the Divan in Constantinople. Translated out of Arabickc into Italian
by JOHN PAUL MARANA (Stationer's Register, 1687, april 27). Il nome
dell'autore-traduttore venne però eliminato dalla stampa: Letters
writ by a Turkish Spy [...] written originally in Arabick first translated
into Italian, afterwards into French (101 lettere: omessa la 99).
Tra il gennaio del 1691 ed il dicembre del 1693, i volumi dell'edizione
inglese (che salta l'intermediario francese e parla di una fantomatica
edizione italiana) sono saliti a otto: una vera esplosione. Le lettere
sono diventate 644: The Eight Volumes of Letters writ by a Turkish
Spy [...] from the Year 1637 to the 1682, London, H. Rhodes, 1694.
Nel 1696 "Erasme Kinkius, Cologne" (un altro "Pierre Marteau") pubblica
in due volumi le prime 245 lettere tutte tradotte dall'inglese, anche
quelle delle quali già esisteva una traduzione francese, col titolo:
L'Espion dans les Cours des Princes Chrétiens. I volumi
III-V si intitoleranno: Suite de l'Espion dans les Cours [...] traduit
de l'Anglois, e l'editore si muterà in "Kenkius". L'ordine
delle prime 101 lettere è poco mutato. Soltanto la datazione si
fa meno precisa (viene indicato marginalmente l'anno, non il mese). I
nomi dei corrispondenti sono anagrammati (Isuf diventa Fousi, Carcoa Racoa,
etc.). Una "quinzième édition", aumentata di 64 nuove lettere
(anni 1687-93) uscirà a Londra, "aux dépens de la Compagnie",
nel 1742 (sette volumi). Nel 1746 "Kinkius" ne fece il volume VII della
sua edizione. Nel 1748 Nicolas van Dalen all'Aja pubblica Le Nouvel
Espion Turc che contiene sì 49 nuove lettere, ma non degli
anni 1693-97, come tutti i bibliografi dicono, ma degli anni 1746-48.
La Turkish Spy ebbe 26 edizioni tra il 1694 e il 1801. Un'antologia
recente: Letters writ by a Turkish Spy by G. P. MARANA selected
and edited by A. WEIZMAN, London, Routledge & Kegan Paul, 1970.
Alto, ma ancora imprecisato, il numero delle edizioni francesi. Esistono
una traduzione tedesca (Der Spion an den Hòfen der Christlichen,
Frankfurt a.M., 1733-1737) e due olandesi. La prima: Brieven, geschreven
door een Turkse spion... Uyt het Engels vertaald door H.G.[rettinga],
Amsterdam, Robert Blokand, 1699, 8 volumi; la seconda: Alle de brieven,
en gedenkscbr'fren van eenen Turkschen spion, Rotterdam, Nikolaus
Smithof, 1737 (volumi?). Un progetto di versione italiana lascia supporre
la conclusione della censura di Francesco Bianchini dei due primi tomi
dell'edizione "Kinkius" (11 maggio 1705). L'esame però della Suite
indusse, di lì a poco (2 marzo 1706, 4 marzo 1709), la Congregazione
romana a severissima condanna. Tra i tanti imitatori va segnalato D. Defoc,
al quale è attibuita una Continuation of Letters Written by
a Turkish at Paris (London, Printed for William Taylor, 1718).
Dialogo fra Genova et Algeri, in-8o, ff. 147 (British
Library, Add. Mss. 6144). Dedica a firma di Gian Paolo Marana a Luiggi
il Grande datata: Parigi 15 settembre 1684. Scrittura corsiva di mano
elegante sconosciuta. Elegante pure la rilegatura in marocchino rosso
ornata con i gigli di Francia. Penultimo possessore: P.-L. Ginguené.
Una prima versione francese manoscritta porta il titolo: La rencontre
d'Alger et Gennes. Dialogue, in-4o. Legatura in marocchino
rosso. Provenienza: Versailles (BNP, Fonds françaises, 2344). Il
testo è diviso in due "rencontres" ed è ampliato (le novità
più importanti sono il violentissimo attacco al Doge Lercara e
la scomparsa di ogni accenno al Marana). Il testo è diverso da
quello delle due stampe francesi e dall'italiana. La prima, senza luogo
e senza data, ha per titolo: Dialogue de Genes, & d'Algers Villes
Foundroyées par les Armes Invincibles de Louis Le Grand l'année
1684; è stampata su carta peggiore ed è di formato leggermente
più grande (142x75). E' di pp. 162 e reca, alle pp. 137-162, la
Lettre de la République de Genes au royaume d'Algers (BNP,
Imprimés Lb37 3848 A). La seconda, sempre in-8o(132x72),
ha per titolo: Dialogue de Genes & d'Algers [...] Traduit de l'italien,
A Amsterdam, Chez Henry Desbordes dans le Kalver-straat prés le
Dam, 1685 (BNP, Imprimés Lb37 3848). Il numero delle
pp. e il testo sono identici. Amplificato è invece il testo dell'edizione
italiana: Dialogo fra Genova et Algieri, Città fulminate da
Giove Gallico, Amsterdamo, Desbordes all'insegna della sfera, s.d.
(legata con la precedente). La data è anteriore al 12 febbraio
1685 (firma del trattato Genova-Parigi).
Il trionfo di Parigi e le più nobili azioni della vita del Re'
contenute in tre lettere che l'autore scrive alla sua patria, in-8o,
ff. 234. Rilegatura coi gigli, taglio in oro. Dedica a Luigi il Grande,
s.d. [ma 1687]. Provenienza: Bibliothèque du Roi (BNP, Fonds italiens,
862).
Le più nobili azioni della vita e regno di Luiggi il Grande
dopo la sua minorità, contenute in molte lettere che l'autore scrive
alla sua patria. Parte prima e seconda, in-8o, ff. 274
+ 213. Legatura in marocchino rosso con i gigli di Francia. Scrittura
corsiva di J. Buvat. Dedica a Luiggi il Grande non datata [ma 1687]. Provenienza:
Versailles (BNP, Fonds italiens, 867-868).
Un altro codice (perduto) vide ed esaminò nel 1754 Dreux du Radier.
Dalla libreria di Harlay de Champvalon (+1695) era passato in quella del
marchese di Locmaria e infine in quella di Monsieur de la Fautrière,
consigliere al Parlamento. La differenza essenziale è che le lettere
erano 36 in luogo di 37. Una copia incompleta con lo stesso titolo e formato
(si arresta alla metà della lettera 13) ma con dedica tutta diversa
datata: Parigi 10 luglio 1687, rilegata essa pure in marocchino rosso
e scritta dalla stessa mano in BNP, Fonds italiens, 2208. Provenienza:
fondi non classificati. E' il primo tomo del codice visto da Dreux?
Per le memorabili imprese et heroiche azioni fatte in pace et in guerra
da Luiggi il Grande. Panegirico. Fatto da Gian Paolo Marana in Parigi,
1688. In-8o, ff. 119. Rilegato in marocchino rosso con i gigli.
Dedica a Luigi il Grande non datata. Scrittura di J. Buvat. Provenienza:
Versailles (BNP, Fonds italiens, 990). Un altro codice di quest'opera
(quello inviato a Cristina di Svezia nei primissimi mesi del 1688?) era
posseduto da A. Boulard (1759-1825) (Catalogue de la bibliothèque
de feu M.A.M.H. Boulard, Paris IV, 1833, p. 139, Supplément,
N0 139). L'anno dopo, l'operetta fu voltata in francese dall'amico
Pidou: Les Evénemens les plus considérables du Regne
de Louis le Grand. Traduit de l'italien pa la Sieur PIDOU DE SAINT-OLON,
Gentilhomme Ordinaire du Roy, in-40, ff. 169.
Rilegata sontuosamente con i gigli, taglio in oro. Dedica di Marana a
Luigi il Grande non datata, diversa dalla precedente. Provenienza: Versailles
(BNP, Fonds françaises, 5857). Sarà pubblicata il 25 luglio
1690 con il titolo: Les Evenemens les plus considcrables du
Regne de Louis Le Grand. Ecrits en Italien par M. MARANA &
traduits en François par ***, A Paris, Chez Marin Jouvenel,
dedicati però al Cardinale César d'Estrées e qualche
pagina nuova che va innanzi al panegirico vero e proprio (pp. 3-16). All'opera
l'edizione rilegò un breve Portrait de Louis Le Grand, traduit
de l'italien à Monseigneur le Cardinal D.P.O. [Pietro Ottoboni]
che J. Lemoine attribuisce senza prova a Primi Visconti (Mémoires
sur la Coar de Louis XIV, Lemoine, Paris, s.d. [ma 1908], pp. 381-88,
413).
Traduction d'une lettre italienne, écrite par un Sicilien à
un de ses amis contenant une lettre agréable de Paris. Cette lettre
est écrite d'un style singulier, et on a taché de retenir
le meme style dans la traduction. La lettera è datata: [Parigi]
20 agosto 1692. Apparve la prima volta nel 1700 in veste francese in una
raccolta apocrifa dal titolo: Saint-Evremoniana, ou Dialogue des nouveaux
dieux, ripubblicata nel 1702 a Lussemburgo e nel 1710 a Parigi. Fu
edita separatamente col titolo: Lettre d'un Silicien à
un de ses amis a Chambéry, chez Pierre Maubal, nel 1714 e di
nuovo nel 1720. Sotto il nome di Marana la ripubblicò nel secolo
scorso V. Dufour (Lettre d'un Sicilien à un de ses amis,
introduction e notes par l'abbé V. DUFOUR, Paris, A. Quintin, 1883).
G. Almansi che ha curato (non impeccabilmente) la traduzione italiana
dello scritto esclude a torto tale paternità (Anonimo, Lettera
di un Siciliano, Palermo, Sellerio, 1984).
Entretiens d'un pbilosophe avec un solitaire sur plusicurs matierei
de morale et d'érudition, Dediez à M. de Saint-Olon
par M. D ***, A Paris, Martin & George Jouvenel, M.DC.XCVI.
The Amours of Edward the IV [...] by the author of the Turkish Spy,
1700. Non si tratta di Marana, ma del fantomatico autore della Turkish
Spy.
Studi critici: P. BAYLE, Nouvelles de la République des
Lettres, mars 1684 - décembre 1684 - février 1685 (=
Oeuvres diverses, La Haye, 1727); DREUX DU RADIER, "Mémoire
sur la vie et les oeuvres de Gian Paolo Marana", Suite de la Clef ou
Journal Historique sur les matières du temps, t. LXXVI, septembre
1754, octobre 1754; DREUX DU RADIER, Tablettes anecdotes & bistoriques
des Rois de France, III, Paris, 1759; MORERI, Le Grand Dictionnaire,
Nouvelle édition p.p. M. DROUET, VII, Paris, 1759; E.C. FRÉRON,
L'Année Littéraire, II, 1757; I. DISRAELI, Curiosities
of Literature, II, London, 17932; DR. NICHOLS, Literary
Anedoctes, I, London, 1812; WEISS, Biografia universale antica
e moderna, XXXV, Venezia, 1827; P. L. GINGUENÉ, F. SALFI, Histoire
Littéraire d'Italie, XIV, Paris, 1811-1835; H. HALLAM, Introduction
to the Literary History of the Fifteenth, Sixteenth and Seventeenth Century,
IV, Paris, 1839; J.R.(OCHE), Gentleman's Magazine, n.s., XIII,
january-june 1840; F.R.A., Gentleman's Magazine, n.s., XIV, august
1840; B. CORNEY, Gentleman's Magazine, n.s., XIV, september 1840;
J. R.(OCHE), Gentleman's Magazine, n.s., XIV, october 1840; B.
CORNEY, Gentleman's Magazine, n.s., XIV, november 1840; J. R.(OCHE),
Gentleman's Magazine, n.s., XIV, november 1840; A. NERI, Prefazione
a F. CASONI, Storia del bombardamento di Genova, Genova, 1877;
P. TOLEDO, "Dell'Espion di Gian Paolo Marana e delle sue attinenze
con le Lettres Persanes del Montesquieu", Giornale storico della
letteratura italiana, anno XV, volume XXIX, 1897; P. MARTINO, L'Orient
dans la littérature française, Paris, 1906; G. VAN ROOSBROECK,
Persian Letters before Montesquieu, New York, 1932; R. CIASCA,
"Genova nella Relazione d'un inviato francese alla vigilia del
bombardamento del 1684", Atti Società di scienze e lettere di
Genova, XI, 1937; O. PASTINE, "Le rivendicazioni dei Fieschi e il
bombardamento di Genova del 1684", Bollettino ligustico per la storia
e la cultura regionale, I, 1949; A. S. CRISAFULLI, "L'observateur
oriental avant le Lettres Persanes", Les lettres romanes,
VIII, 1954; O. PASTINE, "Genova e l'impero Ottomano", Atti della Società
ligure di storia patria, LXIII, 1956; W.H. MCBURNEY, "The Authorship
of The Turkish Spy", Publications of Modern Language
Association, LXXII, 1957; J. TUCKER, "The Turkish Spy and its
French background", Revue de Littérature Comparée,
XXXII, 1958; J. TUCKER, "On the Authorship of the Turkish Spy.
An Etat Présent", The Papers of The Bibliographical
Society of America, LII, 1958; G. ALMANSI, "L'esploratore Turco
e la genesi del romanzo epistolare pseudo-orientale", Studi secenteschi,
VII, 1966; S. BONO, "Un dialogo secentesco fra Algeri e Genova (1685)",
Africa, XXI, 1966; F. VENTURI, Utopia e riforma nell'Illuminismo,
Torino, Einaudi, 1970; G. ALMANSI, D. WARREN, "Roman épistolaire
et analyse bistorique: l'Espion Turc de G.P. Marana", XVIIe
siècle, CX-CXI, 1976; J. LAVICKA, "L'espion turc, le monde
slave et le hussitisme", ibid.; Y. BELLENGER, La description
de Paris dans la "Lettre d'un Sicilien" datée de 1692, in La
découverte de la France au XVIIe siècle,
Paris, 1980; L. P. GAUDIER, J. HEIRWEG, J.-P. MARANA, "L'Espion
du Grand Seigneur et l'histoire des idées", Etudes
sur le XVIII siècle, VIII, 1981; B. BRAY, Nouveaux modes
critiques dans un roman épistolaire: l'Espion du Grand Seigneur
de J.P. Marana (1684), in De la mort de Colbert à la
Révocation de l'édit de Nantes: un monde nouveau?,
Marseille, 1985; F. CACCIABUE, Per una biografia di Raffaele Della
Torre, in Miscellanea storica ligure, II, Studi in onore
di Luigi Bulferetti, Genova, 1986; S. ROTTA, "Il bombardamento di
Genova nel 1684", in Atti della giornata di studio nel III centenario,
Genova, 1988, Introduzione; M.G. PALUMBO, "La crisi dei rapporti
tra Genova e la Francia negli anni Ottanta del secolo XVII", in Atti
del III Congresso di studi storici, Genova, 1989; G. C. ROSCIONI,
Sulle tracce dell'Esploratore Turco, Milano, Rizzoli, 1992.
Il cognome, infine: ortografato Marana o anche Marrana in testi autografi,
esso non ha niente a che fare con il dispregiativo "marrano" (A. FARINELLI,
Marrano. Storia di un vituperio, Genève, 1925).
|