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Salvatore Rotta

Genova e il Re Sole

S. Rotta, «Genova e il Re Sole», in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
<testi/900/rotta/rotta_luigiXIV.html>

Nel 1669, Giovan Battista Tiboldi, lo stampatore ducale, ripubblicò a Genova, assieme al testo spagnolo, uscito a Madrid, quattro anni prima, la versione italiana della Real Grandeza de la Serenissima Repùblica di Génova, del gentiluomo spagnolo Luis de Gòngora, Alcàzar e Pempicileòn. Ma si trattava di nome fittizio, nient’altro che l’anagramma di quello dell’autore vero: Carlo Sperone, nobile genovese, cappellano maggiore della Regia cappella della Serenissima Repubblica di Genova, protonotario apostolico, dottore in teologia e nei due diritti. Un uomo dalla esistenza avventurosa o almeno movimentata. Aveva studiato a Milano, a Genova, a Bologna, a Salamanca. Per due volte si era spinto in Africa, forse per riscattarvi schiavi cristiani. Aveva, per sedici anni, frequentato uomini di cultura e grandi della corte. Per ubbidire ad un gran ministro della corona di Spagna aveva composto un memoriale a uso di Filippo IV, a sostegno delle pretese regali (vecchia storia) di Genova. Quel memoriale era “degenerato in un libro” (così diceva), che, una volta pubblicato, gli aveva procurato “gran borrasche”. Ora, tornato finalmente in patria, lo ripresentava in veste italiana al doge neo-eletto (un’elezione contrastata: la sede vacante era durata quaranta giorni) Francesco Garbarino ed ai Serenissimi Signori, che avevano evidentemente gradito il dono. Il Garbarino, soprattutto, si era fatto protettore di quel “genio ardente e vivace”: aveva designato proprio lui a pronunciare il discorso per la sua incoronazione, davanti al Senato. Qual era il disegno dell’opera? Lasciamolo dire all’autore: “In questi pochi fogli, come in carta da navigare, compariranno ristrette le vostre glorie, i vostri trofei, le vostre preminenze, e grandezza veramente reale”. Un’opera encomiastica, dunque. Ma di fattura non ordinaria. Per meglio provare il suo assunto, lo Sperone si era messo a ricercare dentro le storie di ogni paese e – cosa notevolissima in quel tempo – negli archivi patrii i documenti di quella grandezza. Ed era riuscito, a detta del Lopez, il primo storico dell’impero coloniale genovese: il primo, e per almeno due secoli, l’unico.
Dalla rievocazione, esaltata ed esaltante, di tanto glorioso passato emergeva netta, agli occhi dello Sperone, l’indicazione della vocazione, della missione mondiale di Genova. Basta guardare il frontespizio e leggere il motto che lo orna: Unus non sufficit orbis. E sotto, i due emisferi, tagliati dalla scritta: Auspice Columbo. Ai genovesi si doveva la duplicazione del mondo. Si dirà: delirio di grandezza, mito consolatorio di un presente più che languido. Sarà. Ma il tono non è proprio quello del rimpianto di una grandezza perduta. Tutt’altro. In quel passato, rifatto tutto vivo ed attuale, lo Sperone cercava piuttosto le linee di un destino storico, un’eccitazione al fare ed al farsi valere. Cooperava insomma a suo modo, da storico e da ideologo qual era, mettendo innanzi agli occhi di tutti i veri “tesori” della storia di Genova – il suo inconfrontabile capitale morale – sia a ridar smalto all’immagine internazionale della sua patria, sia a suscitarvi all’interno nuove energie, necessarie a intensificare l’opera di ricostruzione in atto, dopo la spaventosa catastrofe che aveva colpito la città dodici anni prima: la peste. Pensate: una città di circa settantacinquemila anime, ridotta alla fine del flagello a non contenerne più di un terzo. E pensate alle conseguenze psicologiche devastanti di tale immenso e continuato spettacolo di morte. Un’altra città, ridotta in tanto squallore, ne sarebbe rimasta per sempre prostrata. Invece, ecco Genova pronta a pretendere per sé come in passato, onori regali, a rivendicare, per il diritto che discende dall’esercizio ininterrotto di virtù eroiche, la sovranità piena su Liguria e su Corsica ed il dominio assoluto del Tirreno; a sognare, sull’onda dell’entusiasmo acceso dalla recentissima riapertura dei commerci con il Levante, chissà quali avventure oceaniche.
In effetti, la sua ripresa demografica aveva avuto del miracoloso. Appena sette anni dopo il contagio, nel 1664, a detta di Girolamo De Marini, la città era tornata a essere una città “grande” sui settantamila abitanti, e in piena espansione (et augetur in dies). Andava cioè lottando, come poteva, per rianimare un’economia presa nelle strette di una congiuntura internazionale ostinatamente sfavorevole. Nell’opinione internazionale e nell’impressione dei viaggiatori – di uno almeno si deve qui dire, il ventenne Seignelay, speditovi dal grande e autoritario genitore, Colbert, nel 1671 – era tornata a essere, in un breve giro d’anni, una città, oltre che bella, ricca e civilissima. [287]
Sviati dall’immagine della decadenza, riusciamo appena a immaginarci – noi, divenuti così fragili di fronte alle difficoltà – quale potente, quale enorme volontà di vita, di stare nel mondo, di farvi figura, di contare, animava i genovesi di quel secolo, grande e tragico. Se, nel loro tentativo di reinserire la loro piccola repubblica nel giro della grande politica e dei grandi commerci, non ottennero i successi sperati, o addirittura collezionarono insuccessi, peccarono forse non d’irrealismo, non d’irresolutezza. E in un caso almeno – l’episodio che oggi rievocheremo – si mostrarono addirittura temerari.
Il fatto è che l’ambizione agli onori regali impegnava ad un comportamento regale. Il proposito di vivere da liberi cavalieri andava provato con i fatti. Si avvicinava l’ora della verità. Gli oligarchi genovesi si mostrarono all’altezza dell’immagine che avevano accreditato di se stessi; e – potenza dell’ideologia – arrischiarono tutte le loro fortune, l’esistenza stessa della loro città, per dare credibilità al loro mito. E in questi uomini, che fino allora erano apparsi degli infatuati e dei maniaci di grandezza, riuscirono agli occhi del mondo veramente grandi. Gregorio Leti passò bruscamente dalla disistima all’ammirazione: “Qual Senato più coraggioso, più fortunato, e più esperto, havrebbe possuto fare più di quel che fece il Senato di Genova in tal rancontro?”. E li salutava liberatori d’Italia: “Vaglia il vero, questa Repubblica si espose con gran zelo a farsi del tutto sommergere per liberar dall’imminente naufraggio l’Italia; e la liberò”.
A leggere tutta la letteratura sull’avvenimento, un’impressione resta nettissima. Da quando si mostrarono, a partire dal 1678, i segni dell’ostilità del re di Francia, negli oligarchi si fece strada, a poco a poco, la convinzione dell’inevitabilità dello scontro, e quasi vi andarono incontro, con allegrezza: come se si trattasse di una rifondazione della libertà genovese o di un atto di conferma solennissima. Finalmente, avevano trovato un antagonista à leur taille, alla misura della loro superbia. Non più il losco duca di Savoia, Carlo Emanuele II, uomo di raggiri e di bassezze, ma appunto il superbo signore d’Europa – l’invincibile – e quasi un dio. La scena non era più la piccola Italia, ma il mondo intero. La vicenda si colorò subito di un eminente significato tragico. E sarà, in effetti, una tragedia della libertà. Alla tragedia non manca nulla: la collera del re, la ribellione alla sua volontà imperiosa, la punizione che consuma il sacrificio della vittima. E, attorno al re irato, a complicare il canovaccio, i traditori, i figli ingrati che lavorano alla perdita della patria. Ribellione, quest’ultima, di segno negativo, un’impulso perverso di libertà, che si fa volontà distruttiva dell’oggetto del suo amore. Luigi si rende conto della grandezza della posta in gioco: e non soltanto la sua autorità, la sua onnipotenza, è la sua giustizia che è contestata. Ma cadrà nel trabocchetto delle provocazioni genovesi. Accetterà lo scontro aperto. Metterà in piedi una formidabile macchina da guerra, terribile per numero – centoquaranta navi – e per novità di ordigni e per l’accuratezza della preparazione, e la terrà impegnata nel golfo di Genova per undici giorni. Primo errore: l’enormità delle forze impiegate, che porterà subito lui, il giusto, dalla parte del torto. Secondo errore: la sottovalutazione dell’energia morale di una classe che i suoi informatori, concordi, gli presentano lacerata all’interno e odiatissima dal popolo. Messi alla prova, quei nobili cambisti e mercanti si rivelarono più intrattabili dei suoi feudatarii. Il fatto è che quei sordidi manieurs d’argent avevano conservato nella loro mentalità una forte componente d’idealismo aristocratico, di moralità eroica, di amore della gloria. Un’anacronismo? Forse. Luigi aveva dimenticato, in ogni modo, che da quelle famiglie di mercatores erano usciti e continuamente uscivano uomini di guerra, che esercitavano con éclat negli eserciti d’Europa, a cominciare dal suo, il mestiere delle armi. Eppure, pochi anni prima, nel 1658, Jean-Baptiste detto Tristan L’Hermite de Solliers glielo aveva ricordato. Nella loro età eroica, i “Neptunes Liguriens” – costui aveva scritto nella sua Ligurie Françoise – erano stati “les plus fameux guerriers de l’Europe”: personaggi più che umani, “demi-dieux”. E i loro discendenti si mostravano tuttora degni di quei costruttori d’imperi. Il terzo errore è evidente: la sopravvalutazione dell’effetto psicologico della “bombarderie”: tra l’altro, una forma di guerra che la coscienza comune disapprovava, come barbara, quando veniva usata ai danni delle popolazioni civili. [288] Il grande regista aveva sbagliato tutto.
Mo torniamo agli oligarchi. Che costoro temessero e tremassero, all’idea dello scontro decisivo, e che cercassero di allontanare il pericolo si comprende: faceva parte del loro dovere di governanti. Tanto più che nessuno di loro osava sperare che, se fossero venuti alle armi, la Repubblica potesse uscirne con onore. Non erano sciocchi. Cosa potevano dieci galee, qualche vascello, poche artiglierie obsolete, duemila o anche quattromila mercenari, sia pure con il rinforzo dei miliziani, contro le forze militari che poteva spiegare in campo o mettere in mare il gran re? Le forze della Repubblica potevano bastare, ed erano bastate qualche anno prima, quando il nemico da battere era il Savoia. Nel caso della Francia, e di una Francia non impegnata altrove, non era neppure il caso di far confronti. Eppure. Certo, si danno da fare a trovare mediatori e riconciliatori, cercano accomodamenti. Ma li cercano davvero? Sui punti veri di attrito non transigono mai. Tutto questo lavorio diplomatico potrebbe anche interpretarsi come la riluttanza, la perplessità, la comprensibile timidezza dell’oligarchia ad assumere il suo ruolo tragico: la difficoltà, si direbbe, a entrare in una parte così impegnativa. Ma, una volta entrati, essi la ressero ammirevolmente, fino in fondo. Fosse o non fosse accompagnata dalle fiere parole con le quali, in alcuni resoconti dell’epoca, viene riferita la risposta negativa che il Senato aveva dato al Seignelay (che, cessato il primo bombardamento, mostrava di voler venire a un aggiustamento), il fatto è che quella delibera fu presa alla quasi unanimità: centoquarantasei voti su centocinquanta. Che è un esempio di bella concordia, da parte di un gruppo dirigente che si trovi a deliberare su un ultimatum in quelle condizioni: dopo, cioè, sessantanove ore di bombardamento e in una città che si era appena rivoltata e poteva tornare a rivoltarsi, da un momento all’altro, a meno che i corpi dei trenta moschettieri lasciati insepolti sul luogo dell’esecuzione non servissero a raffreddare la sua furia. Che i nobili di Genova fossero fuggiti tutti nelle loro ville, ai primi scoppi delle granate, e che nessuno d’essi risultasse ferito dalle scheggie non ha importanza. Il coraggio non è imbecillità. L’importante è che, al momento delle deliberazioni gravi, si trovassero numerosi – è un punto da sottolineare – e soprattutto uniti nella volontà d’insottomissione. Che fraseggiassero come eroi romani o che si limitassero a dare asciutte e ironiche risposte, il tono usato rende evidente che essi vivevano un momento di grande tensione eroica: che si sentivano investiti da forze ideali immense, che andavano ben oltre la loro persona. Erano entrati in pieno nell’universo tragico. L’effetto del loro rifiuto non si fece attendere: il bombardamento riprese, e anzi più furioso di prima.
Che tutta la vicenda avesse assunto un valore simbolico altissimo lo si vide bene al momento dello scioglimento: il doge a Versailles. Questa volta, il supremo regista, al centro del grande teatro della sua corte, aveva scelto bene la sua parte. La divinità, infine rasserenata, aveva posto ogni studio per far risaltare – nello spettacolo del perdono – il lato amabile del potere monarchico: la clemenza, la moderazione, l’amorevolezza. Ma, a smontare tutta la superbia messa in scena e a ricordare il lato violento, brutale di quel potere, bastò una battuta dimessa, appena un mot d’esprit, del doge. Decisamente, e questa volta sul terreno della propaganda, i genovesi lo avevano per la seconda volta battuto. Successo amaro, però. Il tono della vita pubblica genovese ne uscì, da tutta questa vicenda, radicalmente mutato.
Per un momento, la Repubblica si era trovata – degna conclusione del tempo della démesure e dell’orgoglio – alla punta della storia mondiale; a difendere, in una situazione di solitudine eroica, l’Europa della libertà (questo ruolo passerà, di lì a poco, agli ugonotti). Ora, dopo Versailles, il ciclo era irrimediabilmente concluso. Quasi estenuata dallo sforzo di rappresentare, nel grande dramma storico dell’umanità, l’ardua figura della libertà, la Repubblica di Genova elesse per sé forme meno rischiose d’esistenza. Diventò “saggia”, come notava, con piacere, il “traditore” Marana. Si tenne lontana quanto poté dal vortice della storia europea; evitò i grandi dibattiti e i grandi scontri ideali. Invano: perché ne fu investita da ogni parte e ne uscì gravemente diminuita come corpo politico. Conservò sì la libertà, quando le riuscì di conservarla, ma pagandola, di volta in volta, con denaro sonante. Fino al punto di perdervi ogni dignità. E toccò, questa volta, al ceto civile ed al popolo prendere le armi per rialzare l’onore tradizionale, del quale l’oligarchia mostrava di non curarsi più che tanto. Quanto siamo ormai lontani dal tempo fortissimo della resistenza al tiranno, dell’età dei gesti splendidi e dei partiti disperati, che era stata anche quella delle immaginazioni violente ed eccessive, dell’ansioso progettare e interrogare l’avvenire. L’oligarchia della Genova illuminata non investe più nel futuro, come faceva quella della Genova barocca. Vive, alla giornata, un’esistenza mediocre, immersa in quell’aria di festa malinconica che è un po’ il colore dell’epoca.
Divenuta incurante del futuro, l’oligarchia si disinteressò naturalmente del passato. La quasi totale perdita della memoria storica è, in effetti, il fenomeno più sconcertante del Settecento genovese. Gli archivi della Repubblica sono diventati soltanto arsenali, donde i suoi giuristi tolgono le “prove storiche” per rintuzzare a parole le pretese di alta sovranità dell’Impero o il testo di qualche antica convenzione da far valere contro i sudditi ribelli di Corsica o di San Remo. Per gli altri, l’archivio è sbarrato. I fortunati possessori di qualche codice di cronista medievale riluttano a comuncarli agli studiosi. Il Muratori dovette faticare non poco e muovere tutta la rete delle sue amicizie per procurarsi copia dello Stella. Quanto alla storia più recente, il modesto Casoni si vide proibire ostinatamente la pubblicazione dei sui annali. La storia del bombardamento da lui intessuta – cosa assai scialba – vide la luce soltanto nel 1877, per le cure di Achille Neri. L’oligarchia, fattasi ragionevole e divenuta “ossequente verso tutti li principi grandi”, non riusciva più a comprendere quell’episodio di suprema insania; e cercava di cancellarne, perfino, il ricordo. I governati non si ribellarono a questa congiura del silenzio, a questa incredibile confisca del passato nazionale. Se ne togliamo qualche rabbioso nostalgico del governo popolare, come il prete Accinelli, nessuno che osasse ripercorrere la lunga vicenda secolare della sua patria, per cercarvi un senso, un filo, una lezione per il presente. L’interrogazione del passato non era più nelle abitudini dei “cittadini di governo”, fattisi ormai soltanto aridi difensori dei propri privilegi. E non era neppure occupazione degli esclusi. Soltanto dopo la giornata del 14 luglio del 1797 Agostino Bianchi prese a riflettere, nell’eccitazione del [289] momento, che vedeva la nascita di un nuovo ordine politico, alla maniera di Montesquieu sulle “cause della grandezza e della decadenza di Genova” e propose a modello per la nuova costituzione nientemeno che il comune dei consoli. Quella storia, tramandata dai genovesi, era diventata intanto terreno di caccia per i francesi. Per interpretare le vicende dei paesi turbolenti, come l’Inghilterra, il padre gesuita Joseph d’Orléans aveva inventato, nel 1693, uno schema che divenne, ben presto, un genere alla moda e lo resterà per tutto il Settecento: la histoire des révolutions, estensione alla storia delle società politiche della bossuetiana histoire des variations. Genova, la città dell’instabilità e dell’impermanenza (tutta diversa, in ciò, da Venezia, il modello della stabilità), venne subito fatta oggetto d’attenzione, prima ancora che Vertot applicasse quello schema alla Repubblica romana. Il discorso monarchico sulle repubbliche trovava, nelle sue innumerevoli convulsioni, molti motivi di autoconferma e di edificazione. Non è un caso che il primo a misurarsi in quel cimento fosse, nel 1694, un figlioccio di Luigi XIV, il cavaliere di Mailly, che al re – questo eroe della moderazione – dedicava appunto la sua poderosa fatica. Non lo spaventarono i tempi lunghissimi: il suo racconto andava dall’anno 464 della fondazione di Roma fino ai suoi giorni. Oltre che istruttivo, sperava di esser anche divertente: “L’inconstance de ses [della Repubblica] peuples a donné lieu à des si fréquentes révolutions que j’ai cru qu’on liroit son histoire avec plaisir”. Meravigliosi lettori del secolo XVII: l’opera ebbe tre edizioni. L’ultima è del 1742. Ma, ormai, era divenuta troppo farraginosa per il gusto dei lettori della metà del secolo XVIII. Bisognava snellirla. A questo provvide, nel 1750, l’abate di Bréquingny: un uomo d’archivi, un erudito. I suoi meriti come raccoglitore di fonti per la storia di Francia, sepolte negli archivi inglesi, sono ben noti. Ma, nel caso di Genova, non si diede troppo studio: compilò sulle fonti a stampa. La sua Histoire des révolutions de Gênes affronta, comunque, un tema drammatico: la difficoltà di conservarsi liberi (“la liberté qui leur pesait”) e, ancor più, di organizzare la libertà, di tradurla in istituzioni durevoli. Il governo oligarchico – Bréquigny lo riconosceva – c’era riuscito: “Les Génois jouïrent enfin d’un calme qu’ils connoissoient peu”. Per fortuna, a movimentare il racconto, che rischiava di farsi piatto, sopravvenivano congiure e guerre esterne, l’ultima soprattutto, che aveva riservato ai gallispani – entrati in città da liberatori – la parte bella.
Il terzo tentativo fu compiuto, in piena rivoluzione, nel 1794, da un pubblicista noto, soprattutto, come ammiratore e seccatore di Rousseau, Jean-François de Bastide, riparato a Genova in quegli anni. Di nuovo Genova era minacciata dalla Francia: questa volta dall’espansionismo della Grande Nation. Ai volontari corsi a difendere l’indipendenza della patria, il Bastide offrì la sua opera: “Quand vous verrez tout ce que la valeur fit pour elle dans les siècles antérieurs, Vous sentirez redoubler l’émulation qui Vous distingue”. La sua storia era stata, in effetti, composta in uno stato di continua esaltazione morale: Bastide aveva in orrore le storie fredde. Gli piacevano i quadri rilevanti, i grands traits, le riflessioni: “les réflexions surtout”. Voleva che fosse, la sua, una histoire raisonnée. E di riflessioni e declamazioni ne infilò fin troppe nella sua opera, tante da sommergere quel poco o pochissimo che egli diceva di aver tratto da manoscritti e memorie inedite. Il bombardamento che era servito al Mailly e al Bréquigny, come exemplum per invitare alla moderazione i piccoli stati, diveniva invece, per Bastide, l’evento centrale di tutta la storia di Genova: il fatto – diceva – “che ha fatto più strepito, quello che [290] non si cancellerà giammai dalla memoria degli uomini nel corso del secoli”. In confronto a esso, “la désastreuse et barbare guerre d’une reine [Maria Teresa d’Austria] qui n’étoit point barbare” non aveva prodotto conseguenze più importanti. Giudizio al quale, enunziato così in grande, volentieri mi sottoscrivo. Il Bastide, indubbiamente, nella percezione delle grandi svolte storiche e nella valutazione del peso degli avvenimenti aveva buon fiuto. Ma gli mancò la pazienza, e forse l’ingegno di ben ragionare il suo giudizio. In ogni modo, deplorò, e con eloquenza, la politica d’intimidazione e di violenza adottata da Luigi. In controluce, s’intravvede la denuncia di nuove imminenti minacce. L’opera, comunque, non riuscì affatto quella nuova storia che egli aveva annunciato, anzi neppure si può dire che fosse opera di storia.
L’atto inaugurale della nuova storiografia genovese fu compiuto, ancora una volta, a Parigi, nella Parigi del Direttorio. Nel 1798 un preciso programma di ricerche elaborato dall’Institut fu inviato al governo provvosorio, con l’ingiunzione di darvi risposta. Il segreto degli archivi era violato, si può dire, con la forza delle armi. La storia non era più parte degli arcana imperii. Mentre il mite Semino, professore d’etica all’università, cercava di soddisfare come poteva all’ordine di Parigi, un nuovo e più potente impulso allo studio storico-archivistico venne congiuntamente dall’Institut e dall’Académie des Inscriptions, in occasione della riunione di Genova all’Impero; e tutti sanno quanto, di bene e di male, ha fatto a Genova la missione del padre Sylvestre de Sacy. Certo è che egli fu il primo motore dello studio scientifico del passato genovese. A lavorare a quella risurrezione ritroviamo, di lì a poco, anche i Serra e i Sauli, proprio quei nobili, cioè, che, delusi nelle speranze di creare un nuovo ordine politico in uno stato rimasto indipendente, si adopereranno almeno a salvare l’identità nazionale.
Ma è ancora da Parigi, una Parigi sempre più appassionata di storia – la Parigi di Michelet, di Guizot, di Quinet, di Sismondi – che si formò e prese corpo un nuovo progetto di storia di Genova. L’autore, Emile Vincens, nato ad Arles, nel 1764, era un buon rappresentante di quell’attivo capitalismo calvinistico che aveva trovato in Guizot (che con il Vincens era anche imparentato) il suo portavoce. Vincens aveva, alle spalle, una lunga esperienza genovese: aveva vissuto a Genova venticinque anni, tra il 1790 e il 1815, come membro cospicuo della colonia ugonotta della città (era il genero del mercante ginevrino Maystre). Per i suoi meriti nella nuova Università napoleonica, era stata creata per lui una nuova cattedra: quella di scienze commerciali. Penserete che attorno a questo valoroso economista si fosse formata una numerosa scuola. Disingannatevi: nei quattro anni che egli professò i suoi corsi ebbe ad ascoltarlo soltanto uno studente. Erano gli anni – si dice a scusa – del blocco continentale. Già a Genova il Vincens aveva raccolto molto materiale per la sua storia. Ma molto di più ne raccolse a Parigi: nelle Archives nationales, in quelle delle Affaires Etrangères, nella Bibliothèque du Roi. A far da scorta al vecchio consigliere di stato, en retraite, in queste sue diligenti esplorazioni, furono Michelet, Mignet, Alby: il brillante stato maggiore della giovane storiografia francese. La sua Histoire uscì nel 1842; e resta a tutt’oggi per certe parti – tra queste, il capitolo sul bombardamento – insuperata. Tanti documenti egli vide e intelligentemente utilizzò che gli studiosi posteriori – inguaribili provinciali – non si curarono di riesaminare. La sua Histoire non ebbe l’accoglienza che si meritava. Lo Cherbuliez, il pontefice del Journal des Economistes, portò alle stelle l’economista (“personne n’a mieux su écraser [291] les utopistes avec la massue du sens commun”) ma depresse ingiustamente lo storico, espositore a suo giudizio troppo piatto e incolore: “Monsieur Vincens n’était ni assez artiste ni assez philosophe pour écrire l’histoire”.
Dopo di lui, pochi i contributi nuovi, in genere lavorati tutti su corrispondenze diplomatiche, tratte dargli archivi italiani. Viene in chiara luce, questo sì, il poco amore degli altri stati italiani per la Repubblica: tristissima storia, ma che fa meglio risaltare ai nostri occhi la solitudine eroica degli oligarchi. Molto resta ancora da fare. Per cominciare, andrebbe meglio precisata la parte avuta dalla Spagna, e dal suo energico rappresentante in Lombardia, il conte di Melgar – uomo, si sa, dai grandi disegni – in tutta l’affaire. Troppo spesso si è detto e ripetuto che la Spagna fu assente; che non portò alla Repubblica tutto l’aiuto che questa s’attendeva. Gli archivi spagnoli – sono certo – smentiranno questa leyenda negra. Gli Spagnoli giunsero in effetti a Genova, e in buon numero (e pretesero, con le maniere forti, che Genova pagasse a quelle truppe alle quali nelle relazioni ufficiali si attribuisce il merito, se non altro, di aver mantenuto l’ordine nella città, il soldo dovuto); e crearono al Senato, stretto tra due potenti, tra il nemico dichiarato e l’alleato prevaricante, preoccupazioni non lievi. Non posso, qui, entrare nei particolari. Chi volesse saperne di più legga, tanto per cominciare, il resoconto minuto che, degli avvenimenti successivi al bombardamento e all’atto di sottomissione, fa, sulla scorta delle fonti francesi, il Mailly. Resta, comunque, tutta da studiare la politica tenuta dalla Repubblica durante la guerra della Lega d’Augusta: quanto difficile le riuscisse conservare, in quei frangenti, un’esatta neutralità tra contendenti fattisi sempre più esigenti e vessatori. Tra l’altro, nel 1691, si ebbe come la prova generale del 1746: pagamento all’imperatore di una forte somma, per offrire i quartieri d’inverno alle truppe imperiali, inviate in soccorso del duca di Savoia. Manca ancora al copione – è appena il caso di dirlo – l’esplosione della collera popolare. La situazione interna è anch’essa malnota. Sappiamo tuttavia che il popolo di Genova vive, in questi anni, una forte tensione escatologica. Agli effetti del bombardamento, si uniscono quelli prodotti dalla disastrosa alluvione, abbattutasi sulla città tra il 5 e il 7 ottobre 1685. Le previsioni apocalittiche s’intensificano all’avvicinarsi dell’anno fatale 1688, l’annus mirabilis della profezia del venerabile Beda (si veda l’annotazione aggiunta da un anonimo alla sua copia della Risposta al Signor N... e così via [Genova, 9 agosto 1684], attribuita, falsamente, a Bernardo Salvago: copia posseduta dalla Biblioteca Universitaria di Genova (2.N.II.442). E il 1688 si presenta in effetti, come era stato annunciato, catastrofico: il terremoto che scuote Napoli e Benevento eccita oltremodo una plebe già scossa dalle prediche quaresimali del padre Segneri. Lasciamo a Paolo Mattia Doria, testimone di quegli eventi, la parola:

Ora alla fama di questo avvenimento [lo spaventevole terremoto di Napoli e Benevento] si suscitò in tutto il popolo genovese, già riscaldato di mente per le passate missioni, lo spavento dei castighi di Dio, e in conseguenza di ciò uscirono in Genova i profeti, siccome sepre avviene nelle divozioni prodotte più dal fervore melanconico, e fantastico che dalla ragione, e dalla ben ordinata compunzione dell’anima

E così continua:

Ora un di questi profeti melanconici, e visionarj disse che nella chiesa di San Carlo aveva veduto un Cristo chinar la testa, alla religione di questo visionario cominciarono i falsi profeti a predire orribili castighi alla Città: chi la rappresentava fra un determinato numero di giorni sommersa nel mare da un terribile terremoto, chi arsa da un fuoco cadente dal cielo; ed alla fine ogni pensiero di quel popolo visionario era dal timore e dallo spavento ingombrato. Al tetro avviso di queste false profezie, Genova fu in un momento tutta piena di processioni di popolo, chi trascinava catene, chi portava in spalla lunghissime, e pesantissime croci, chi pietre di smisurata grandezza; ed alla perfine tutto ‘l popolo era divenuto santo visionario, ma tutt’ad un tempo conservava nell’animo più vivido, e vigoroso che mai l’odio verso la nobiltà [...].

A farne le spese fu Livia Mari, scontrata in lettiga da una di queste processioni penitenziali. L’isterismo popolare si trasforma facilmente in ostilità anti-aristocratica (Doria 1981, pp. 368-369). Non è un caso che, proprio in quest’anno, torni a manifestarsi, con virulenza, l’opposizione democratica fino allora rimasta, almeno sembra, silenziosa. La testimonianza è del Mailly: “Les esprits brouillons prirent de là [la pretesa di Luigi XIV a far erigere nella pubblica piazza una piramide di bronzo o di marmo, a perpetuo ricordo dei torti usati dalla Repubblica verso di lui] occasion d’émouvoir le peuple contre la noblesse: ils firent courir dans les rues des billets, par lesquelles ils remontraient que depuis que le Gouvernement Démocratique étoit devenu Aristocratique les affaires avoient été toüjours de mal en pis, et que le seul moyen de rendre à la République l’éclat quelle avoit eu, consistoit à remettre les choses dans l’état où elles avoient été autrefois, et qu’autrement il fautdroite toüjours gémir sous la tyrannie de la noblesse” (Histoire, III, Hollande 1697, p. 296).
Non sono che rapidi scandagli, per mostrare il molto che resta da fare. Si potrebbe – è ovvio – conunuare. Manca, per fare un ultimo esempio, uno studio moderno sull’organizzazione militare della Repubblica. E’ tempo, dunque, di allargare lo spettro delle indagini (storia sociale, storia urbana, pamphlettistica e pubblicistica politica, e così via); è tempo di consultare gli archivi, non soltanto di Genova, ma di Francia, di Spagna, d’Inghilterra, d’Austria. Ma ho già parlato troppo su questi undici giorni che hanno minacciato di disfare Genova.

Nota editoriale

Apparso una prima volta, privo peraltro di titolo, come introduzione al volume collettivo Il bombardamento di Genova del 1684 (Atti della giornata di studio nel III centenario), Genova, La Quercia, 1988, pp. 9-19, il presente saggio è stato, successivamente, rivisto e ripubblicato dall’Autore, con il titolo di Genova e il Re Sole, in «El siglo de los genoveses». Una lunga storia di arte e splendori nel palazzo dei dogi, a cura di P. BOCCARDO – C. DI FABIO, Milano, Electa, 1999, pp. 286-291. Per la trascrizione del testo, pertanto, ci si è valsi di questa sua seconda versione. Ogni nome – di persona, cosa o luogo – è stato qui riportato per esteso, a differenza di quanto, talvolta, si è verificato nel caso dell’originale. Si tratta, ad ogni modo, di modifiche minime e non sostanziali, che si è ritenuto necessario adottare per ragioni di uniformità testuale e coerenza interna. La paginazione originale è stata riportata in grassetto, fra parentesi quadre [Davide Arecco].

Bibliografia di riferimento

  • S. ROTTA, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in ‹‹Il movimento operaio e socialista in Liguria››, VII, 1961, pp. 205-284.
  • S. ROTTA, Paolo Mattia Doria, in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento, a cura di G. RICUPERATI, Milano – Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 837-968.
  • S. ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in «Studi settecenteschi», III-IV, 1982-1983, pp. 45-88, poi in Paolo Mattia Doria fra rinnovamento e tradizione, Lecce, Congedo, 1985, pp. 389-431.
  • S. ROTTA, Gian Paolo Marana, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), II, Il Settecento, a cura di A. BENISCELLI, Genova, Costa & Nolan, 1992, pp. 153-187.
  • S. ROTTA, I gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, in «Quaderni Franzoniani», V, 1992, pp. 11-15.
  • S. ROTTA, Il padre Antero, ovverosia il rasoio della peste, in Gli Agostiniani a Genova e in Liguria tra Medioevo ed età moderna, a cura di C. PAOLOCCI, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1994, pp. 289-312.