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Salvatore Rotta

Sulla costruzione e diffusione in Italia dei telescopi a riflessione [*]

S. Rotta, "Sulla costruzione e diffusione in Italia dei telescopi a riflessione", in Scritti scelti di Salvatore Rotta,
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1. Di un telescopio a riflessione si parla già nel carteggio galileiano. In data 7 luglio 1626, infatti, Cesare Marsili da Bologna scriveva a Galileo:

Un certo Messer Giovanni, il quale pretende, doppo la morte d'un Messer Cesare Caraveggi bolognese (il quale negl'esperimenti e secreti della natura, come nell'ingegno, più che nello studio, era eccellentissimo), di essere unico suo herede nel modo di fabricar spechi, tanto di christallo, che operano per refratione, quanto d'altre materie, che operano per reflessione, mi portò alcuni giorni sono l'incluso disegno, acciò l'inviassi a Vostra Signoria Eccellentissima; ond'ella vede ch'egli pretende poter fare uno specchio concavo, che non solo nella quarta, come dicono i moderni, ma nel centro, come dicevano gl'antichi, et oltre ancora, come anco dentro della quarta in due loghi possa accendere il foco, et in tutti i loghi in un medesimo tempo e in un solo, come a lui più piace. Questi due erano quelli che vantavano, come egli anco professa di presente, se bene con gran tempo e con gran dispendio, di poter fare un specchio, il quale per refflesione possi fare, anzi faccia, l'effetto del perspiciolo.

Con quello specchio, accomodato ad uso di cannocchiale per rifrazione, gli oggetti si ingrandivano ai riguardanti – a detta di alcuni cavalieri (lontanissimi però "da ogni principio di matematica o philosophica cognitione") che l'avevano sperimentato – al modo stesso che nel telescopio ordinario. Galileo ne fu, naturalmente, incuriosito: "Quanto all'altro specchio, che per reflessione faccia l'effetto del telescopio, lo stimerei per cosa meravigliosa, e molto volentieri lo vedrei".
L'amico bolognese cercò di sapere di più su quel meraviglioso apparecchio: "Intorno allo spechio nel quale si vede per refflesione, che io non ho mai potuto vedere, per più che mai sicuri indicii non è il spechio d'aciaio che faci l'effetto, ma di sicuro vi si aggiungono o lenti o traguardi di christallo o ambedue". Galileo convenne con lui: "Dell'altro effetto concorro con lei, che il semplice specchio concavo non basti, ma vi bisogni l'aggiunta di lente o traguardo; ma perché non ho specchio concavo, non posso tentare esperienza alcuna".[1]
Il telescopio a riflessione uscì dunque – frutto di tentativi compiuti in via esclusivamente empirica – dalle mani di due tecnici, di due artefici "ingegnosi", ma digiuni affatto di cultura scientifica. Il loro nome e la loro invenzione caddero presto nell'oblio. Non ne ebbe, a quanto pare, notizia alcuna il Cavalieri, che pure abitava a Bologna ed era del Marsili amicissimo. "Potrei anco dire – scriveva di lì a poco nel 1632, nel suo Lo specchio ustorio[2] - come l'effetto del canocchiale si averebbe forse anco dalla combinazione di questi specchi o degli specchi con le lenti, sebben la felicità del produrre la figura sferica farà che ci prevagliamo di questa che dell'altra. Conciossa cosa adunque che lo specchio concavo faccia l'operazione della lente convessa, e lo specchio convesso della lente cava, è manifesto che, se combineremo lo specchio concavo con il convesso, ovvero con la lente cava, dovremo aver l'effetto del canocchiale, e tale fu forse lo specchio di Tolomeo [...]".
Il tentativo di costruzione di questo telescopio di nuovo tipo era in ogni modo giudicata da lui una fatica sprecata: "Ciò però con questa occasione ho voluto accennare, come per una bizzarria, per dar qualche sodisfazione a' curiosi, che voglion cercar miglior pane che di farina, poiché all'eccellenza del canocchiale non arriveranno mai, per mio credere, né gli specchi combinati insieme, né accompagnati con le lenti, come chi ne vorrà far la prova, credo si potrà assicurare". Bisogna aspettare il 1652 perché si ritorni a parlare, ad opera del gesuita Nicola Zucchi (che ne aveva avuto – così diceva – la prima idea nel 1616), del telescopio riflettente.[3]
Circa dodici anni dopo, verso il 1664 o 1665, un gruppo di "virtuosi" romani discute seriamente sulla possibilità della sua realizzazione: sono Gian Domenico Cassini, Matteo Campani, Francesco Eschinardi, Salvatore Serra, ed altri.[4] Il nome del Cassini è illustre; ma è quello del Campani a incuriosire di più. Dietro di lui si profila quel mondo di ottici romani che attirò a suo tempo, per abilità esecutiva e per le sue rivalità, l'attenzione dell'Europa intera. Sono gli anni del massimo sforzo di Giuseppe Campani (Matteo è suo fratello e collaboratore strettissimo) per eliminare il concorrente già affermato, Eustachio Divini, a dominare il mercato.[5] Il 1664 è anzi l'anno della grande sfida. L'"occhialone" che assicurerà al Campani, per un cinquantennio circa, un vero primato tra i tecnici europei, non fu opera di un giorno: era stato preceduto da una lunga serie di tentativi segretissimi, di sperimentazioni inefficaci. Di uno di questi riferì lo stesso Campani a Leopoldo de' Medici. E, dal nostro punto di vista, è il più interessante, anche se si tratta di un tentativo fallito. Il tecnico romano aveva pensato di sostituire a una delle lenti una carta "finissima e bianchissima" sulla quale l'obiettivo doveva dipingere la "specie" dell'oggetto – quasi "una piccola pittura fatta col pennello nell'istessa carta" – e di utilizzare quindi una lente microscopica per oculare.[6] Un'idea di cui Newton saprà trarre tutto il profitto nella costruzione del suo telescopio catottrico.
E' un fatto che, se non Giuseppe (troppo legato alle costruzioni delle lenti), Matteo in quegli stessi anni prese in considerazione, sia pure in linea teorica, la possibilità di costruire telescopi riflettori. Ad acuire l'interesse, giunse – nel bel mezzo di queste discussioni – l'operetta pubblicata poco innanzi, nel 1663, a Londra dallo scozzese James Gregory, l'Optica promota,[7] che di un telescopio del genere forniva il modello teorico (dal quale prenderanno poi le mosse tanto Newton quanto il Cassegrain per realizzare i loro strumenti). Capitò anzi a Roma il giovanissimo autore in persona, che non disdegnò di discutere di cose ottiche con le nuove conoscenze romane, e cortesemente comunicò a qualcuno di loro certe sue scritture manoscritte.[8]
Sul passaggio in Italia, tra il 1664 e il 1668, del celebre geometra ed astronomo scozzese, resta ancora da far luce; sugli uomini che incontrò e con chi strinse amicizia. Solo si sa – per sua stessa testimonianza – del suo discepolato a Padova sotto Stefano degli Angeli e del suo debito, apertamente riconosciuto, verso di lui. Debito ingente: questi, con la sua opera geometrica, gli aveva aperto la via alla fondazione della geometria infinitesimale.[9] Ma l'influenza del Gregory sui dotti italiani è passata sotto silenzio. Non parlo qui delle sue opere matematiche, che, pensate e pubblicate in Italia, ebbero presto tra noi i loro lettori ed estimatori: basta dire soltanto del Mengoli e del Ricci.[10] Parlo dell'operetta ottica. E' stato detto, e l'affermazione non ha ancora trovato contraddittori, che verso la metà del secolo XVII gli ottici italiani, all'oscuro dei progressi che tale scienza andava compiendo al di là delle Alpi, erano rimasti indietro rispetto alle altre nazioni europee. Molto indietro. Nel 1660 il Viviani – quel vivace e colto ricercatore che era il Viviani – non aveva ancora preso visione della Diottrica cartesiana. La scienza ottica dell'ultimo discepolo di Galileo era, nel 1660, in arretrato di oltre vent'anni.[11] Se le cose stanno veramente così, è lecito pensare che la diffusione dell'opera del Gregory contribuì certamente a ricuperare il tempo perduto, ad aggiornare i nostri uomini di scienza e – perché no – i nostri tecnici. Nel 1665 è nelle mani di un membro dell'Accademia del Cimento, uno dei più laboriosi se non dei più acuti: Carlo Renaldini.[12] L'impazienza con cui l'aveva ricercata è segno indubbio dell'interesse che ad essa portava. A Padova, e forse a Firenze, il Gregory stringerà con lui una cordiale amicizia.[13] L'Optica promota è studiata dunque e discussa negli ambienti romani, fiorentini, bolognesi. Lo studio dei problemi sollevati da questo libro aiuta a capire il prontissimo movimento di curiosità – di curiosità attiva, come presto vedremo – nei confronti delle invenzioni di Newton e del Cassegrain.

2. Ma perché mai, a partire dalla metà del secolo, si intensificano un po' dappertutto in Europa e perfino in Italia – dove la fabbricazione delle lenti ottiche è un importantissimo ramo dell'attività industriale del paese, la cui prosperità è condizionata dall'uso generalizzato del telescopio a rifrazione – i tentativi di costruire un nuovo tipo di cannocchiale? Per bizzarria, come pensava il Cavalieri?
Il fatto è che il cannocchiale olandese o galileiano che dir si voglia si era rivelato all'uso meno perfetto di quanto pensassero i suoi primi ammiratori. Bisognava risolvere soprattutto due problemi: costruire tubi di lunga portata che riuscissero maneggevoli all'uso, aumentare la nitidezza delle immagini eliminandone gli orli colorati. La prima difficoltà poteva essere sormontata con l'adozione di dispositivi "aerei" del tipo di quello realizzato da Huygens verso il 1680, ma da lui progettato sin dal 1662, prima ancora – pare – che venisse all'Auzout l'idea di costruire "lunettes sans tuyau.[14] Nel 1684, i membri dell'Accademia fisico-matematica romana (praticamente il Campani e il Celebrini) e un autorevole professore del Collegio Romano, il Gottignies, son dietro a perfezionare l'invenzione dello Huygens.[15] Nel 1712, l'Académie des Sciences accoglie calorosamente un dispositivo dello stesso tipo messo a punto da Francesco Bianchini in collaborazione con un ottico vicentino, Andrea Chiarello.[16]
Più difficile la soluzione della seconda difficoltà. Kepler, Descartes e la maggior parte degli ottici del tempo attribuivano l'aberrazione delle lenti alla loro superficie sferica e avevano pensato di eliminare l'inconveniente con l'adozione di lenti a superficie iperbolica. Solo nel 1663 il Gregory, per rimediare all'aberrazione sferica, aveva suggerito la costruzione del telescopio riflettente e ne aveva indicato la struttura, senza però passare alla realizzazione dello strumento.[17] Le prime ricerche di Newton sono orientate ancora in questo senso. Si rilegga l'apertura della celebre lettera del 6/16 febbraio 1671/72 all'Oldenburg, nella quale gli rendeva note le sue scoperte sulla natura composita della luce bianca: " [...] in the beginning of the Year 1666 (at which time I applyed my self to the grinding of Optick glasses of other figures than Spherical) [...]".[18] Le nuove scoperte sulla luce lo convinsero ben presto che l'imperfezione maggiore dei telescopi non era dovuta tanto alla forma sferica degli obiettivi – eliminabile con un sistema di lenti – quanto al diverso grado di refrangibilità dei raggi luminosi componenti la luce bianca: era dunque inevitabile trovare, al fine di perfezionare gli strumenti ottici, una sostanza riflettente "as finely as glass, and reflect as much light, as glass trasmits, and the art of communicating to it a parabolick figure be also attained".[19]
Nel 1668, Newton riuscì finalmente a costruire il primo telescopio a riflessione. Lo aveva lavorato tutto con le proprie mani. Era uno strumento di ridottissime proporzioni, lungo poco più di quindici cm (sei pollici e un quarto) e con un diametro di circa due cm e mezzo. I raggi riflessi sul metallo speculare concavo cadevano su uno specchietto metallico che li rifletteva lateralmente. L'oculare, situato nel fianco, era una lenticola piano-convessa che ingrandiva da trenta a quaranta volte gli oggetti. Confrontato con un buon telescopio a rifrazione di circa 122 cm di lunghezza, si rivelò più potente: vi si poteva leggere a una distanza maggiore che con il cannocchiale a lenti. Soltanto, gli oggetti apparivano molto più oscuri, in parte per il fatto che si perdeva più luce per la riflessione sul metallo che per rifrazione sul vetro e in parte perché l'oculare ingrandiva troppo. Se avesse ingrandito solo venti o venticinque volte, l'oggetto sarebbe apparso più luminoso. Riuscì ugualmente a osservare le fasi di Venere e i satelliti circumgioviali. Si limitò a mostrarlo a due amici.[20] Nell'autunno del 1671, ne costruì un secondo di dimensioni maggiori (lo specchio era di circa cinque cm di diametro, la lunghezza dello strumento di circa venticinque cm) e, benché non fosse riuscito della perfezione desiderata, Newton si lasciò indurre ugualmente a presentarlo alla Royal Society. Fu esibito ufficialmente ai soci nel meeting del 18/28 febbraio 1672, e ottenne un vivo successo.[21] Qualche giorno prima, l'11/21 febbraio, Newton era stato ricevuto tra i membri della Società. E' storia notissima.

3. Meno nota è la storia, invece, della diffusione sul continente della notizia dell'invenzione. Essa mostra al vivo quanto fosse affiatata la città dei dotti nel secolo XVII: quale magnifico sistema d'informazione essi fossero riusciti a creare da paese a paese. La rete fa capo naturalmente alla Royal Society e al suo instancabile e intelligente segretario, Henry Oldenburg. Il movimento scientifico del secolo XVII deve molto a questo mercante tedesco che, a forza di studio, era riuscito a diventare, se non scienziato, almeno uomo dottissimo, e che era entrato nella intimità degli uomini più in vista del proprio tempo, il Milton, lo Spinoza, il Boyle. La pubblicazione in corso del suo epistolario va rivelando sempre meglio le linee della sua politica culturale, la profondità della sua azione.[22] Situato al centro della vita scientifica inglese, ben convinto che la scienza è un lavoro collettivo, non si limita però a svolgere la parte dell'"intelligencer"; ma sollecita, scopre, provoca. E' lui a togliere Newton dall'isolamento, a indurlo a comunicare al mondo i primi risultati delle sue ricerche, a parteciparli prontamente agli uomini interessati, a chi può discuterli.
Saputo di quel telescopio, il 1°/11 gennaio 1672 ne dà subito notizia all'Huygens: "le premier essay, qui en a esté vu et examiné icy, il apparoit neuf foies plus grand qu'un telescope ordinaire de vingt-cinq pouces, en comparant le mesure de l'une et del'autre image".[23] Nel dare queste informazioni l'Oldenburg obbediva a istruzioni precise della Royal Society, preoccupata di salvaguardare l'invenzione newtoniana (che era per tutti "Invention of contracting telescopes") dalle usurpazioni straniere.[24] Ottenuta dall'Autore una descrizione precisa dello strumento, il 15/25 gennaio si affrettava a spedirla allo scienziato olandese, residente allora a Parigi. Alla metà di febbraio riceveva il parere dell'Huygens su quel "merveilleux télescope": "J'ay beaucoup meilleure opinion maintenent que lors que par le raport imparfait qu'on m'en avoit fait je m'imaginois qu'il s'éstoit proposé d'accourcir les lunettes ordinaires par la reflexion de ses miroirs. Je vois maintenent que son dessin a esté bien meilleur".
Il problema maggiore resta tuttavia quello "de trouver una matière pour ce mirois qui soit capable d'un poli aussi beau et uny que celuy du verre; et la manière de donner ce poli sans gaster la figure spherique". Era piuttosto scettico in proposito: fino allora non aveva visto – diceva – degli specchi "qui l'eussent a beaucoup pres si beau que le verre". Valeva tuttavia la pena di tentare: "il vaut bien la peine qu'on cherche de remedier à cet inconvenient". Le nuove pratiche di politica dei vetri ritrovate da "quelques curieux d'icy" davano ragionevoli motivi di speranza.[25] L'Huygens non tenne per sé la notizia. Comunicò al Journal des Sçavans del 29 febbraio una descrizione sommaria dello strumento, e la fece seguire – a guisa di commento – da una sua lettera al direttore (l'abate Gallois). Il Giornale de' letterati di Roma riprodusse i due documenti nel suo terzo fascicolo, che porta la data del 30 marzo.[26] L'articolo descrittivo composto da Newton non apparve sulle Philosophical Transactions che nel fascicolo LXXXI, che porta la data del 25 marzo/4 aprile. I lettori italiani del Giornale ebbero così la notizia della nuova invenzione contemporaneamente ai lettori inglesi delle Philosophical Transactions, anzi con un leggero anticipo.
Ma c'era in Italia, a Roma, chi di quella invenzione era riuscito a saperne di più con almeno un mese di anticipo sul Giornale e verosimilmente prima che sulle colonne del Journal apparissero gli articoli che ho detto: Adrien Auzout. Il fatto è che, alla fine di marzo, l'Oldenburg poteva comunicare a Newton i dubbi suoi e del Denys circa la nuova invenzione.[27] Chi aveva informato il "virtuoso" francese? Le ipotesi possono essere più d'una: egli era da tempo in relazione con l'Oldenburg (era stato lui tra l'altro a mettere in contatto Francesco Nazari, redattore principale per non dire unico del Giornale romano con l'Oldenburg;[28] era amico e amico intimo dell'Huygens,[29] amico del medico cartesiano Denys, amico di Henry Justel, gran diffusore sul continente dei prodotti intellettuali d'Inghilterra;[30] purtroppo la lettera dell'Auzout all'Oldenburg è andata perduta; e perdute (a meno che non si celino in qualche archivio romano, come ho forti ragioni di ritenere) sono andate le carte dell'Auzout: quelle carte che incuriosivano ancora alla vigilia della morte il Leibniz, un quarto di secolo dopo che l'Auzout era sceso nella tomba.[31] Delle lettere da lui ricevute son riuscito finora a trovare soltanto un transunto, fatto appunto dal Nazari, di quelle che da Parigi gli inviava settimanalmente il Justel, dopo che l'Auzout era stato esiliato dalla Francia di Colbert.[32] Disgraziatamente, il transunto non giunge all'anno in questione.
Comunque sia, il 30 marzo/9 aprile, Newton diede risposta all'"ingenious French philosopher" in una lettera all'Oldenburg, apparsa di lì a poco nelle Philosophical Transactions.[33] Documento interessante: per la prima volta Newton esprime l'idea di utilizzare, per la deviazione dell'immagine verso l'oculare, non più uno specchietto metallico, ma un prisma isoscele. Nostalgico delle "sociétés savantes" parigine, l'Auzout, molto legato sia all'ambiente romano (dove aveva radunato intorno a sé un piccolo gruppo di virtuosi, tra i quali ritroviamo anche Matteo Campani), sia a quello bolognese (dove aveva amici il Malpighi, il Montanari, il Bonfiglioli), non ebbe con quello fiorentino che rapporti radi e occasionali (col Magliabechi, naturalmente, ma in epoca più tarda).[34] Indipendentemente dall'Auzout, quindi, fu compiuto, nel corso del 1672, il primo tentativo (restato, che io sappia, l'unico in tutto il secolo) di realizzare in Italia il telescopio newtoniano.
L'autore di questo tentativo fu Pietro Salvetti, anzi Pietro di Leopoldo, come soleva farsi chiamare per distinguersi da un altro dello stesso nome, egli pure fiorentino, ma – è appena il caso di sottolineare – nessuno dei due ha qualche rapporto con l'omonimo poeta burlesco del principio del secolo.[35] Già aiutante di camera del granduca Ferdinando, il Salvetti era in quest'epoca maestro di cappella di Cosimo III, abile nel suonare più strumenti, nel 1668 aveva trovato "una nuova accordatura della lira antica arciviolata con le solite tredici corde, mediante la quale vi si possano fare tutte le consonanze, dissonanze, e legature al pari di qualunque cimbalo che habbia i tasti spezzati; il che s'intende nelle cose flebili, e patetiche, non già nelle diminutioni come è propria natura della lira". Con detta accordatura ascendeva "nell'acuto fino a G sol re ut, e nel grave a G sol fa ut".[36] Possedeva – dice un suo biografo – "belli ornamenti" di poesia e di matematica. Allievo del Viviani, nel 1668 diede fuori uno scritterello nel quale pretendeva, con seste e riga, di risolvere "l'ammirabil problema delfico di duplicare il cubo".[37] Il Viviani – se dobbiamo credere al Magliabechi – lo "canonizzò per pazzo".[38] Una delle sue passioni era l'ottica: insieme all'avvocato Venanzio, passava per uno dei più abili costruttori, a Firenze, di vetri ottici.[39] L'invenzione di Newton, seguita di lì a poco da quella del Cassegrain, lo incuriosì; ma non riuscì per allora ad avere della prima che una notizia confusa: quel poco che ne diceva il Giornale de' letterati o il Journal des Sçavans (che era lo stesso). Malgrado ciò, si cimentò nell'opera, registrando qualche successo.
Il 6 agosto 1672, Thomas Platt, interprete presso il granduca per la lingua italiana ed emissario in Toscana della Royal Society, scriveva infatti all'Oldenburg: "[Salvetti] lately shew'd one of his microscopes to the great duke, wich was judged by all much better than any of the best his highness hath, and I was an eye-witness to this, that, for magnifying, termination, and clearness, it was found most excellent".[40] Lo stesso giorno aveva mostrato al granduca "a little prospective glass, wich he made according to Mister Newton's new Invention, though he had received but a confuse relatio of it; and yet notwithstanding, that this was the first, and was not above halfe a foot long, it had the same effect as one of two". Ricevuto l'ottavo fascicolo del Recueil del Denys (28 aprile 1672), dov'era pubblicata la memoria del Cassegrain, aveva ripreso le sperimentazioni:

He is now makeing another of a bigger size after the conceit of that of Monsieur Cassegrain, whom Monsieur Denis speakes of, in his 8th Mémoire: As for this, the opinion of Signore Salvetti is, that those perspective glasses, haveing a due termination and clearness, cannot be brought to magnifye so much as that of Mister Newton's does, as it writt out of England; but that the proportion is as from one to eight, that is, that the magnifying, termination, and clearness of this new perspective glass, is the same as that of an ordinary telescope eight times as long [...]. As for the rest, he helds that be hath found a way to make objects seeme reight with one only glass He does not aggree neither with that opinion of Monsieur Cassegrain to make that little glass convexe into wich one looks into by meanes of the ocular glass; and believes the french Author only thought upon that to disguise as much as it possible his pretended new invention, wich he endeavours to make appeare anteriour to Mister Newton's most noble one.

La lettera giunse all'Oldenburg nell'ottobre, insieme con un'altra (ancora inedita) del Magalotti. Il 24 settembre (o 4 ottobre) ne informò prontamente Newton: gli riferì di quel tentativo, e dell'opinione del Salvetti sulle pretese del Cassegrain.[41] Pubblicò quindi sulle Philosophical Transactions per intero il passo della lettera del Platt, che narrava di questi esperimenti. Newton si incuriosì soprattutto dell'annunciata scoperta del Salvetti di riuscire a raddrizzare l'immagine con un solo vetro. Suppose che volesse servirsi, riproducendo il dispositivo cassegrainiano, di una lente concava in luogo di una convessa.[42] L'Oldenburg, da parte sua, incoraggiò il Salvetti a continuare le sue ricerche, e a prendere conoscenza della teoria newtoniana dei colori, che dell'invenzione era la premessa indispensabile.[43] Non sappiamo però se il Salvetti avesse seguito il consiglio e neppure se avesse ripetuto i suoi tentativi: purtroppo, dopo questa data, la figura dell'ingegnoso musico fiorentino entra nell'ombra più fitta. Si trattò, a ogni modo, di tentativi senza futuro: non in Italia saranno compiuti gli sforzi più fruttosi per perfezionare l'invenzione newtoniana. Quanto alla nuova teoria della luce, la discussione prenderà il via in Italia dopo la pubblicazione dell'Opticks: i primi a rifare con successo le esperienze sulla dispersione della luce bianca saranno Francesco Bianchini e Celestino Galiani, a Roma, nel 1706.

4. D'altra parte, le difficoltà, incontrate dallo stesso Newton, nella fabbricazione di buoni specchi, fece rinunziare ancora per mezzo secolo allo sfruttamento dell'invenzione newtoniana. La pubblicazione, nel 1704, dell'Opticks riaccese l'interesse per tal tipo di telescopi. La veneziana La Galleria di Minerva ne ristampa nel 1708 una descrizione, come se si trattasse di una novità.[44] Campailla, che ne aveva chiesto notizia al Berkeley, ricevette da Londra, nel luglio 1723, l'assicurazione che nessun altro tentativo dopo quello di Newton era stato compiuto, né da lui né da altri, per realizzare quel tipo di strumento.

Telescopium quod attinet catoptricum, e metallo confectum, id quidem olim aggressus est Neutonus; verum res ex voto non successit; nam impossibile erat, nitidum chalybis splendorem usque eo conservare, ut stellarum imagines distinctae exhiberet, proide huiusmodi telescopia, nec in usu sunt, nec unquam fuere; nec, praeter unicum illud, quod Author, experimenti causa fabricavit, ullum factum est unquam, vel fando eccepi.[45]

Il Berkeley era però male informato. Oltre un anno avanti, il 12 gennaio 1722, John Hadley aveva presentato infatti alla Royal Society un telescopio riflettente di tipo newtoniano, di sei pollici. Ed era stato proprio un amico intimo del Berkeley – Samuel Molineux – ad applicarsi entusiasticamente con l'Hadley a perfezionare l'apparecchio. La disinformazione del filosofo è davvero inspiegabile.
Il problema essenziale era di fabbricare buoni specchi: trovare cioè una proporzione conveniente di rame, stagno e arsenico che desse una lega suscettibile di assumere una bella lucentezza e una rigidità e durezza sufficienti per conservare la forma. Furono tentate centocinquanta combinazioni differenti, prima di trovarne una soddisfacente. Finalmente, nel 1725, il nuovo "apparatus" era pronto. Il Molineux si affrettò a inviarne in dono un esemplare a Giovanni V del Portogallo,[46] e si affrettò a sperimentarlo, compiendo, nella sua casa di Kew, osservazioni delle emersioni e immersioni dei satelliti gioviali. Malgrado il vivo movimento di curiosità, gli astronomi, non avendole trovate sufficientemente esatte, assunsero un atteggiamento di diffidenza verso il nuovo strumento: il Bianchini e il Maraldi si trovarono d'accordo.[47] Di lì a poco, alla fine del 1726, Giovanni V di Portogallo donò al Bianchini un esemplare del nuovo apparecchio: il primo a entrare in Italia. Tutti i dubbi caddero. Il 3 gennaio 1728, l'astronomo veronese vantava al Rizzetti, avversario irriducibile delle scoperte newtoniane, la buona qualità del nuovo strumento:

dubito molto, che in queste questioni di colori, che mettono in diffidenza appresso Vostra Signoria Illustrissima gli esperimenti del signor Newton, non sia avvenuto che veggo avvenire del di lui cannocchiale di nuova invenzione stampato già da lui nello stesso libro della sua ottica e de' colori. Fu stimato tanto difficile il ridurlo ad esecuzione, che o niuno vi si provò, o non riuscì alcuno prima di tre, o quattro anni or sono. Un artefice di Londra con la di lui direzione (mentre allora il signor Newton sopravviveva) arrivò a perfezionarlo in modo che io, dalla somma clemenza e benefica munificenza del Re di Portogallo, ne ho avuto uno così bene lavorato che riesce di meraviglia non solamente a' dilettanti, ma agli stessi professori, che sono i migliori di Roma. Si pruovano a farne uno simile su la forma di questo originale donatomi da Sua Maestà, e conoscono che non possono arrivare a questa perfezione, alla quale è arrivato l'artefice di Londra, che pruova con la esperienza il discorso del signor Newton del trovato essere esente da ogni eccezione.[48]

Ignoro i nomi dei "professori" che fecero questo tentativo e se esso ebbe in futuro esito migliore. Ma c'è da dubitarne. Il telescopio del Bianchini passò quindi in dotazione all'Istituto di Bologna.[49] Di un telescopio di questo tipo, fabbricato dallo Scarlet, si provvide quasi subito, nel 1732, l'Osservatorio dell'Università di Pisa;[50] un terzo, ordinato di lì a poco e forse destinato all'Ariani, andò ben presto distrutto in un incendio;[51] un quarto ne possedette, a Roma, il cardinale Valenti Gonzaga: tutti di fabbricazione inglese.
La fabbricazione dei telescopi a riflessione languì, tuttavia, anche in Gran Bretagna, fino agli ultimi decenni del secolo, allorché le scoperte dell'Herschel nel campo dell'astronomia siderale richiamarono l'attenzione sopra tali strumenti. La difficoltà era sempre la stessa: la confezione degli specchi, lavoro lungo e delicato, al quale soltanto operai abilissimi potevano dedicarsi. Nella prima metà del secolo, si costruirono soprattutto telescopi del tipo del Gregory di piccole dimensioni: oggetti da salotto, che non resero alcun servigio all'astronomia.[52]
D'altra parte, dimostrata nel 1747 dall'Eulero e nel 1755 dal Klingestierna la possibilità, da Newton negata, di costruire lenti acromatiche, questa venne ad aprire nuove strade, sia all'ottica teorica sia all'ottica applicata. La fabbricazione di lenti acromatiche divenne allora una specialità degli ottici inglesi: gli ottici del continente incontrarono sempre grosse difficoltà a produrre il necessario flint glass. L'epoca degli ottici italiani era finita da un pezzo: dal 1715, si può dire, anno di morte di Giuseppe Campani.

5. La lente messa a punto, come strumento di osservazione scientifica, del telescopio riflettente, non giovò tuttavia all'industria italiana di apparecchi ottici. La decadenza di tale ramo di attività era divenuta, nel secolo XVIII, irreparabile. Inelasticità della mentalità dei vecchi artigiani, incapaci di tener dietro alle nuove scoperte? Irrimpiazzabilità dei grandi "maghi" del secolo XVII, ultimo il Campani? Effetto depressivo dell'anglomania? Tutti questi fattori possono aver avuto la loro parte; ma non di sicuro la parte decisiva. Non mancarono, infatti, tra i "professori" di un centro dalle tradizioni illustri come Roma – lo abbiamo appena visto – la curiosità e la volontà di emulazione.
Per la seconda metà del secolo XVIII, la risposta è facile: gli ottici italiani, come del resto i loro colleghi continentali, incontrarono insormontabili difficoltà a procurarsi la materia prima che permetteva finalmente la costruzione di telescopi esenti da aberrazioni cromatiche: il flint-glass. Ma per la metà del secolo la risposta non è altrettanto ovvia. Qualche punto dev'essere, innanzitutto, meglio precisato dalla ricerca storica: il declino delle botteghe italiane non fu repentino. Abbiamo le prove che, ancora nel terzo decennio del secolo, l'Osservatorio di Norimberga cercava i propri strumenti in Italia, presso gli eredi del Campani. E' vero, però, che il numero di strumenti firmati da artigiani italiani, si fa, tra quelli superstiti, sempre più raro.
Due punti sembrano, sin d'ora, porsi all'attenzione degli studiosi. Uno è dato dall'allentamento o addirittura dalla cessazione completa della collaborazione tra uomini di scienza e strumentarii. Si pensi, per contrasto, a quanto fosse stata feconda a suo tempo la collaborazione tra il Campani e il Cassini, durata anche dopo il passaggio di quest'ultimo a Parigi. E' la collaborazione tra scienziati e tecnici che assicura agli inglesi i più brillanti dei loro successi. A misura che il progresso della ricerca scientifica richiede apparecchi sempre più precisi, l'abilità personale e le regole empiriche non bastano più, anche se – è il caso, appunto, delle lenti acromatiche – la sperimentazione empirica anticipa sui risultati la scienza. Chi studia i rapporti tra scienza e tecnica nel secolo XVIII farà bene a non dimenticarlo.
Il secondo punto mette in causa la struttura della produzione. Una diversa organizzazione produttiva permette ai fabbricanti inglesi di strumenti scientifici di gettare sul mercato molti e ottimi apparecchi, a un costo molto basso. Gli artigiani italiani restano, il più delle volte, costruttori di ammirevoli pezzi unici. La crisi dell'industria italiana di apparecchi ottici appare dunque sin d'ora legata sia a fattori scientifici sia a fattori più strettamente organizzativi ed economici. Precisare gli uni e gli altri è compito degli studiosi. Dev'essere ricostruita per primo, e città per città, l'attività delle botteghe artigiane (almeno delle più segnalate), cercando di cifrarne per quanto è possibile la produzione o almeno di segnare con precisione l'arco della loro operosità. Si riuscirà in tal modo non soltanto a far luce sui fattori che provocarono la dissipazione di una doviziosa tradizione di abilità e – perché no – d'intelligenza tecnica: ma anche a dar maggior concretezza al discorso sui rapporti tra scienza e tecnica nel secolo XVIII.

Note

[*] Il saggio, che si rifaceva a ricerche svolte dall'Autore per contratto con la Domus Galilaeana di Pisa e per mezzo di un finanziamento del CNR, fu pubblicato in origine sulla rivista Le Machine, I, 2-3, 1967-1968, pp. 90-102. Rispetto alla versione cartacea, sono state sciolte le abbreviazioni e sfrondate le maiuscole nelle fonti citate. Ogni intervento editoriale è stato inoltre segnalato dal curatore mediante l'uso di parentesi quadre [Davide Arecco].
[1] G. GALILEI, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Barbera, 1890-1909, vol. XIII, pp. 330-332, 335, 339.
[2] B. CAVALIERI, Lo specchio ustorio, Bologna, 1650, p. 76.
[3] N. ZUCCHI, Optica philosophica, Lugduni Batavorum, 1652, vol. I, p. 126.
[4] F. ESCHINARDI, Dialogus opticus, Romae, 1666, p. 54: "De telescopio catoptrico parabolico – scrive – dum vero de hoc agerem cum D. Jo. Dominico Cassino, D. Matteo Campano, et aliis; significavit mihi hoc idem se agitare D. Salvatore Serra pro ea qua pollet ingenii subtilitate [...]".
[5] S.A. BEDINI, "Giuseppe Campani Pioneer Optical Inventor", in Actes du Xe congrès international d'histoire des sciences, Ithaca – Paris, 1664, p. 401; ID., "The Optical Workshop of Giuseppe Campani", Journal of the medicine and allied sciences, XIV, 1961, n. 1; ID., "Seventeenth century Italian Compound Microscopes", Physis, V, 1963, p. 383. Il maggior contributo del Campani alla costruzione dei microscopi è l'invenzione del tipo a vite ("screw barrel type"). Occorre tuttavia ricordare che la produzione dei microscopi era, da parte del Campani, molto limitata; vedi F. Bianchini a F.M. Del Torre, Roma, 6 dicembre 1710: "Non ho mancato d'informarmi di ciò che si poteva sperare e di lavoro e di prezzo del signor Campani in genere di microscopij [...]. Egli [il Campani] ha sempre risposto che non ha gusto di lavorare microscopij, e che due soli si rittrova avere de' fatti già da gran tempo. L'uno è di un vetro solo, e ne vuole quattro doppie. L'altro è di tre vetri, e ne vuole dieci doppie. Inteso questo, e di più [avendo] ancora soggiunto il signor Campani che malvolentieri se ne priverebbe, perché sono gli unici de' suoi lavori di questo genere, che gli restano, e non ha genio di farne più [...]" (Biblioteca Vallicelliana, Roma, signatura 83/l, f. 530).
[6] G. Campani a L. de' Medici, Roma, 6 settembre 1664 (Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Galileo 277, f. 162).
[7] F. ESCHINARDI, cit.: "[...] denique post plures menses fuit ad me allatus a Scotia libellus soprallaudati Jacobi Gregorii, qui hunc tubum describit[...]".
[8] F. ESCHINARDI, cit. (postscriptum), in Centuria problematum opticorum, Romae, 1666, vol. II, pp. 24-25. Dell'Eschinardi il Gregory non ebbe però molta stima (vedi James Gregory Tercentenary Memorial Volumen, ed. by H.W. TURNBULL, London, 1939, p. 118). Vedi anche J. GREGORY, Vera circuli et hyperbolae quadratura, Padova, 1688, "Lectori" .
[9] J. GREGORY, cit., pp. 4, 7, 90, 465, 566, 487, 500, 502.
[10] P. Mengoli a A. Magliabechi, Bologna, 4 agosto 1676: "Questo autore è di molto mio genio, in quanto si stringe molto in poco, e cose non mai scritte da altri, e molto sottili, e sollevate" (Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Magliabechi, VII, 1094); P. MENGOLI, De quadratura circuli, Bologna, 1672, paragrafo 4: "[...] il signor Iacomo, di cui pronuncio, che sia il più vivace geometra che habbia io letto mai sino all'hora presente". Sul Mengoli cfr.: A. AGOSTINI, "La teoria dei limiti in P. Mengoli", Periodico di matematiche, V, 1925, p. 18; ID., "Il concetto di integrale definito in P. Mengoli", Periodico di matematiche, V, 1925, pp. 137, 146. Il Ricci scriveva a Leopoldo de' Medici da Roma il 17 ottobre 1667: "Credo che ‘l signor Giacomo Gregorio [James Gregory] scozzese avrà inviato a Vostra Altezza Serenissima il libro De quadratura circuli et hyperbolae nuovamente stampato in Padova; ma quando cò non sia seguito, ne ho due copie, una delle quali la manderò subito a Vostra Altezza, essendo l'Autore di sottile, ingegno, et inventivo" (Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Galileo 278, f. 76) [Sul matematico scozzese continua tutt'oggi a persistere il silenzio denunciato oltre trent'anni fa da Rotta; i soli studi apparsi sono quelli di O. GINGERICH, "Halley's letter to Gregory concerning the Synopsis", History of astronomy, XVI, 1985, pp. 223-224; D.C. ALLEN SIMPSON, "James Gregory and the reflecting telescope", History of astronomy, XXIII, 1992, pp. 77-92, né aiuta la perdita dei manoscritti di Stefano degli Angeli avvenuta alla morte di quest'ultimo; N.d.C].
[11] R. CAVERNI, Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze, 1892, vol. II, p. 78. La larghezza degl'interessi del Viviani risulta chiaramente dal catalogo della sua biblioteca (duemila titoli), che sarà da me pubblicato presso la Domus Galileana di Pisa [la cosa non si è purtroppo mai relizzata; tra l'altro, sino ad oggi, è stata edita solo la corrispondenza vivianea con Marcello Malpighi e Nicola Stenone: C. DOLLO, "Inediti per l'epistolario malpighiano", Rivista di storia della filosofia, XXXIX, 3, 1984, pp. 537-550; L. NEGRI, "Alcune lettere inedite di Niccolò Stenone e di Vincenzo Viviani", L'Ambra, II, 2, 1994, pp. 7-25; N.d.C.].
[12] C. Renaldini a F. Passerini, Pisa, 21 marzo 1665: "Intendo dal signor Magliabechi ch'ella ha due libri [...], l'altro si è Optica promota seu abdita radiorum reflexorum et refractorum. Mi favorisca avisar il prezzo [...]" (Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Magliabechi, VIII, 1126).
[13] C. Renaldini a J. Gregory, Padova [1669]: "Longum est intervallum ex quo tuas humanissimas accepi litteras", in C. RENALDINI, Commercium epistolicum, in appendice ad Analyticae artis, Padova, 1684, parte III, p. 63.
[14] C. HUYGENS, Oeuvres complètes, La Haye, 1944, vol. XXX, p. 19.
[15] E. Schelstrate a O. Mencken, Roma, 1664: "Nolim tamen te latere Illustrissimum D. Ciampini [...] duobus telescopiis conficiendis occupari, quorum unum 92, aliud 112 pedum longitudine attingent", in La correspondance d'Emmanuel Schelstrate Prefet de la Bibliothèque Vaticane (1639-1692), a cura di L. CEYSSENS, Bruxelles – Roma, 1949, p. 139; G.G. CIAMPINI, "Nuove invenzioni di tubi ottici dimostrate nell'Accademia fisico-matematica romana", La Galleria di Minerva, I, 1696, p. 110; F. BIANCHINI, Hesperi et phosphori nova phaenomena, Romae, 1728 (questi esperimenti erano seguiti con curiosità negli ambienti della Royal Society: vedi T. BIRCH, History of the Royal Society, London, 1756, vol. IV, p. 522).
[16] F. BIANCHINI, "Description d'une machine portative propre à soutenir des verres de très grand foyer", Mémoires de l'Académie des Sciences de Paris, 1713. Il Chiarello, che era stato al servizio di Girolamo Correr (1696) e aveva costruito apparecchi ottici per la sua specola in Venezia, si era trasferito a Roma, dove continuò a lavorare "molto bene tanto di cannocchiali come di microscopi, ed a prezzi molto più miti di quelli del signor Campani, in modo che molti signori particolarmente di Bologna hanno scritto più volte di ordinare a lui li cannocchiali in luogo di ricercarli al signor Campani il quale ragguaglia i suoi prezzi ne' cannocchiali a ragione di una doppia il palmo". Nel 1710 il Chiarello aveva costruito ingegnosi microscopi che permettevano di vedere le parti interne ed esterne dell'oggetto anche a lume di candela: così F. Bianchini a F.M. Del Torre, Roma, 8 novembre e 6 dicembre 1710 (Biblioteca Vallicelliana, Roma, signatura 83/1, ff. 528 e segg.).
[17] H.G. KING, History of the Telescope, London, 1955.
[18] I. NEWTON, Correspondence, ed. by H.W. TURNBULL, London, 1959, vol. I, p. 92.
[19] Ibid., vol. I, p. 95.
[20] Ibid., vol. I, p. 96; I. NEWTON, Opticks, London, 1704, I, Propos. VII, Theor. VI.
[21] Philosophical Transactions of the Royal Society, VII, 1672, p. 4004; I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 74.
[22] H. OLDENBURG, Correspondence, ed. by A.R. HALL, M. BOAS HALL, I (1641-1662), II (1662-1665), Madison, The Wisconsin University Press, 1965-1966.
[23] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 72.
[24] Ibid., vol. I, p. 73.
[25] Ibid., vol. I, p. 92.
[26] Giornale de' letterati, 1672, p. 48: "Nuovo cannocchiale catoptrico inventato dal signor Newton professore di matematica nell'Università di Cambridge, estratto di una lettera di Mister Huygens [...] all'Autore del giornale intorno all'occhiale catoptrico di Mister Newton".
[27] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 129.
[28] Ibid., vol. I, pp. 363, 369, 380, 393, 414.
[29] H.L. BRUGMANS, Le séjour de Christian Huygens à Paris [...] suivi de son Journal de Voyage à Paris et à Londres, Paris, 1935, p. 139.
[30] P. DALLY, "Les Justel", II, "Henry Justel (1620-1693)", Bulletin de la Société de l'histoire du Protestantisme français, LXXIX, 1930, p. 10; H. BROWN, "Un cosmopolite du grand siècle: Henry Justel", Bulletin de la Société de l'histoire du Protestantisme français, LXXXII, 1933, p. 187; ID., Scientific Organisation in Seventeenth Century France (1620-1680), Baltimore, 1934, passim.
[31] G.W. Leibniz a G. Davanzati, Vienna, 30 luglio 1714 (Niedersachsische Landesbibliothek, Hannover, Leibniz-Briefweschel, Ms. 197, f. 3v).
[32] Biblioteca Estense, Modena, Autografoteca Campori (Francesco Nazari). Un estratto di lettere del Justel all'Auzout è in Bibliothèque Nazionale, Paris, Collection Clairambault, Ms. 285, t. 75.
[33] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 126; Philosophical Transactions of the Royal Society of London, VII, 1672, p. 4034. Non capisco perché H.W. TURNBULL, cit., scriva: "Evidently Auzout had communicated to Oldenburg some comments on Newton's theory of colours" (I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 130). La lettera di Newton accenna a questioni riguardanti il telescopio. Del resto, l'Oldenburg aveva intitolato l'estratto: "An Extract of another Letter of the Same to the Publisher, dated March 30, 1672, by way of Answer to some Objections, made by an Ingenious French Philosopher to the new Reflecting Telescope". Se si fosse trattato della teoria dei colori, le cose si complicherebbero: la lettera di Newton è del 6/16 febbraio; fu pubblicata nel numero LXXX, uscito verso il 10 marzo (I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 117). L'Auzout – sarà bene non dimenticarlo – stava a Roma e Newton a Cambridge.
[34] Biblioteca Universitaria, Bologna, Ms. 2085/VIII, ff. 31-34; Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Magliabechi, VIII.
[35] G. NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Firenze, 1722, p. 468.
[36] Giornale de' letterati, 1673, p. 172.
[37] Un esemplare dello scritto è tra le carte del Viviani (Biblioteca Nazionale, Firenze, Ms. Galileo, 255, f. 64r-65v).
[38] A. Magliabechi a G. Montanari, Firenze, 1681: "Il signor Salvetti suo scolare fece non so che, e volendo far ciò pervenire alle mani del serenissimo granduca Ferdinando, non istimò che si potesse essere mezzo più opportuno che 'l servirsi del suo maestro [...]. Canonizzò infine per pazzo il suo Salvetti presso Sua Altezza Serenissima" (A.G. BONICELLI, Bibliotheca Pisanorum Veneta, II, Venezia, 1807, p. 312. Che si tratti di questa invenzione è mia supposizione, forse arbitraria; potrebbe trattarsi anche della lira.
[39] G. TARGIONI TOZZETTI, Atti e memorie dell'Accademia fiorentina, Firenze, 1780, vol. I, p. 399.
[40] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 227; Philosophical Transactions of the Royal Society, VII, 1672, p. 5060; Giornale de' letterati, 1673, p. 168. Di tal lettera fu fatta anche, dal Tinassi di Roma, edizione in lingua italiana, che finora non sono riuscito a ritrovare. Chi fosse il Platt dal Turnbull non è detto. Un po' di luce su questo personaggio ha fatto A.M. CRINO', Fatti e figure del Seicento anglo-toscano, Firenze, Olschki, 1957, pp. 195, 297-307, 309, 321. Nato cattolico, si era convertito all'anglicanesimo. Cosimo III, che si era servito di lui come interprete durante la sua seconda visita in Inghilterra (1669), aveva cercato di riconvertirlo; ma allora senza successo. Qualche anno dopo, era a Firenze con la funzione di segretario per la lingua inglese. Nel gennaio del 1675, era ancora nella città toscana. Se ne allontanò dal maggio 1675 al novembre 1676 per fare ritorno a Londra. Rientrò a Firenze di lì a poco. Dal 6 marzo 1678 al 2 novembre 1679, sarà residente inglese a Livorno. Richiamato in Inghilterra, fu, nel 1681 e 1682, "inviato inglese" all'Aja (The dispatches of Thomas Platt and Thomas Cundleigh, ed. by F.A. MIDDLEBUCH, ‘S Gravenhage, 1926). Nel 1687, sotto Giacomo II, riabbracciò finalmente il cattolicesimo e richiese impiego in Toscana. Dal 1689 al 1691, visse a Firenze. Nel 1690, fornì alla corte medicea una relazione sulle colonie americane del Re d'Inghilterra.
[41] Per aiutare il lettore, ecco la descrizione del cannocchiale del Cassegrain fornita dal Giornale de' letterati, 1672, p. 108: "Si fa un buco nel centro dello specchio concavo, e in quel buco s'accomoda un oculare che riceve i raggi riflessi da uno specchio convesso, che si pone direttamente nel foco del medesimo specchio grande; in luogo che Mister Newton mette obliquamente nel foco del concavo uno specchietto piano che ribatte i raggi in una lentina di vetro, posta al lato opposto del cannone, dove sta l'occhio a vedere. Quest'invenzione è simile a quella di Mister Gregorio descritta nel libro di lui, stampato l'anno 1663 sotto titolo d'Optica promota: salco che Monsieur Cassegrain non determina di qual figura habbiano ad eser gli specchi, e Mister Gregorio vuol che siano di settion conica; e in luogo di metter l'oculare come Monsieur Cassegrain in quel buco, v'inserisce un pezzo di cannone coll'oculare dall'altra parte. Con che si viene a rimediar all'abbigliamento che cagionerà la molta luce c'entra per l'apertura del cannone". Cfr. anche H.G. KING, cit., pp. 75-78, 390-391, 395. Del tipo gregoriano o cassegrainiano è il telescopio di Monte Palomar.
[42] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 248; I. Newton a J. Collins, 10 dicembre 1672.
[43] I. NEWTON, Correspondence, cit., vol. I, p. 238; sul rovescio della lettera a Newton del 21 dicembre 1672, l'Oldenburg annotò: "Rec. Sept. 23, 1672. Ans. Sept. 24. of Salvetti's making his telescope; to move him to prosecute it, as to put out of doubt his doctrine of colors".
[44] La Galleria di Minerva, VI, 1708, p. 110: "Nuovo occhiale catoptrico inventato da N. Neowton".
[45] W. Berkeley a T. Campailla, London, Kal. Iulii 1723; T. CAMPAILLA, L'Adamo, ovvero il mondo creato, Milano, 1744, prefazione non numerata.
[46] R. SMITH, A complete System of Opticks, London, 1738, vol. II, p. 304; H.G. KING, cit., p. 77.
[47] F. Bianchini a F. Maraldi, 11 dicembre 1726, in Archives de l'Observatoire de Paris, Ms. AB 4 (9), f. 19r (Biblioteca Vallicelliana, Roma, signatura U. 23, f. 174).
[48] F. Bianchini a G. Rizzetti, Roma, 3 gennaio 1728 (Biblioteca Capitolare, Verona, Cod. CCCXCIII, f. 42v).
[49] S. MAFFEI, Verona illustrata, Verona, 1732, vol. II, p. 487.
[50] H. Sloane a T. Dereham, London, 13 maggio 1732, in Saggio delle Transazioni filosofiche, Napoli, 1734, v. 294 (Biblioteca Universitaria, Pisa, Cod. XC, f. 202).
[51] Ibid., v. 299: H. Sloane a T. Dereham, London, 31 gennaio 1733.
[52] Si ricorda, tuttavia, che, con quello del Molineux-Hadley, James Bradley fece importanti osservazioni di y Draconis; cfr. "A Letter from the Reverend James Bradley [...] giving an Account of a new discovered Motion of the Fix'd Stars", Philosophical Transactions of the Royal Society of London, XXXV, 1728, p. 638.