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Salvatore Rotta

Il viaggio in Italia di Gibbon[*]

Salvatore Rotta, Il viaggio in Italia di Gibbon, in "Rivista Storica Italiana", LXXIV, 1962, 2, 324-354, sezione " Storici e Storia", ristampa in Cromohs, 7, 2002, 1-18  <http://www.cromohs.unifi.it/7_2002/rotta_gibbon.html> e in Scritti scelti di Salvatore Rotta, in Eliohs©, giugno 2002 <testi/900/rotta/rotta_gibbon.html> [Tra parentesi quadre figurano alcune integrazioni editoriali perlopiù a completamento di indicazioni bibliografiche]

 

1. La pubblicazione dei giornali del Gibbon, ora che ha visto la luce il diario del viaggio italiano, è finalmente completa. Non è stata impresa di pochi anni. Se ne cominciò a parlare nel 1894, nel corso delle celebrazioni del centenario. Ma soltanto nel 1929 il Low pubblicava le prime tre parti del Journal e le Ephemerides, le sole parti cioè composte in lingua inglese (Gibbon's Journal to January 28th 1763, London, 1929). La cura della pubblicazione passò poi al Bonnard; e fu, per tutti i versi, una fortuna. Nel 1945 faceva uscire, in edizione impeccabile, il giornale del secondo soggiorno losannese (Le Journal de Gibbon à Lausanne. 17 Août 1763-19 Avril 1764, Lausanne, 1945); nel 1952 i tre frammenti del giornale parigino (Le séjour de Gibbon à Paris du 28 Janvier au 9 Mai 1763, in Miscellanea Gibboniana, Lausanne, 1952); ora, a quasi dieci anni di distanza, con la pubblicazione del diario italiano ha concluso degnamente la sua fatica. Del giornale losannese ampi squarci - quelli che si riferivano alle letture e agli studi compiuti in quei mesi - erano stati pubblicati da lord Sheffield nelle Miscellaneous Works (1796 e 1814) con un intento palesemente apologetico: mostrare che "indefatigable Student" era stato l'amico nella sua giovinezza. Altri brani dello stesso giornale, di contenuto più strettamente privato, lo Sheffield pubblicava in nota ai Memoirs of my Life and Writings, a schiarimento di qualche passo. Del giornale italiano invece poco aveva dato a conoscere; e questo poco - per colpa di copisti e stampatori - sfigurato da gravi mende. Sei estratti - sia in originale sia in traduzione - nella ed. 1796, saliti a nove in quella del 1814: in tutto una ventina di pagine di un manoscritto che ne riempie circa 280. D'altra parte, dei sei biografi novecenteschi del G. due soli hanno utilizzato il manoscritto, ma con molta parsimonia: il Low nel suo E. Gibbon, che è del 1937, e l'Oliver nel suo Gibbon and Rome, che è del 1958. Non se n'è servito punto il Birkbeck Hill per la sua edizione dei Memoirs (London, 1900). E la Norton, per la sua ottima edizione dell'epistolario, lo ha sfruttato solo qualche volta (The Letters of E. G., London, 1956)[1].

2. Un testo dunque, per la più gran parte, intatto: quasi una primizia. Gli studiosi del Gibbon e quelli del Settecento italiano vi troveranno il loro profitto. Oltretutto, il Journey si legge con vero piacere: per lo meno da chi ama osservare i movimenti di una intelligenza nitida e concreta al primo contatto con uomini e cose. Anche se le "cose" qui sono, spessissimo, quadri monumenti iscrizioni medaglie. Il pensiero che chi osserva e giudica è il futuro autore della History ci fa trovare il fatto più che naturale, e da un certo punto di vista perfino attraente. L'occasione di sorprendere un grande storico mentre allestisce e mette al punto gli strumenti del mestiere, e soprattutto un grande storico in cerca del "suo" argomento, non càpita tanto spesso.

3. Oltre a quel che andava facendo e leggendo, oltre alle sue impressioni e riflessioni di lettore, il G., quando riprese a Losanna il suo giornale, prestò attenzione più che non avesse fatto in passato alla vita dei propri sentimenti. La ricerca di una misura personale di happiness, lo sforzo di chiarire caso per caso la natura dei propri rapporti con gli altri dànno alle pagine del diario di quei mesi fecondi un sapore particolare. Nel Journey - e si capisce - il campo è quasi tutto occupato dalle cose viste e dagli spostamenti itinerari. Più oggettivo del diario losannese, non ci fa assistere al franco dialogo del G. con se stesso, come certe pagine del giornale suddetto. Ma umori e stati d'animo sono puntualmente registrati, giorno per giorno, annota tutto ciò che di rimarchevole ha osservato: per aiutare la memoria e, prima ancora, per metter via via ordine nelle proprie impressioni. Il G. è viaggiatore metodico; e lo è - si direbbe - d'istinto. Prova ne sia la relazione al padre del giro svizzero compiuto nel 1755, appena diciottenne (M.G., 7-84). E non è viaggiatore "dilettante", che veda quel che gli càpita e quel che gli pare, lasciandosi piacevolmente irretire nella mobile trama delle "occasioni": com'era il Boswell, calato in Italia ai primi del 1765, che ancora il G. non ne era partito. Il G. ha formato in anticipo un suo piano; e deve dare a se stesso stretto conto delle proprie giornate. Tanto impegno descrittivo non si spiegherebbe senza la volontà di autodisciplina, che è all'origine della consuetudine del diario. Il G. sorveglia - è vero - le proprie occupazioni intellettuali e l'andamento della propria esistenza con molto tatto e senza pedanterie; ma non si perde d'occhio un momento. Agiva infine su di lui, e autorevolmente, l'esempio dei precedenti viaggiatori: Misson, Keyssler, Cochin. Le "descriptions complettes", che gli costavano tanto tempo e tanta fatica, erano il tributo che il giovane G. pagava alle convenzioni di un genere letterario. Egli stesso si spazientirà di quel descrivere meticoloso, e deciderà un bel giorno di mutar radicalmente sistema: si sarebbe limitato d'allora in poi a fissare le sue proprie osservazioni. Il giornale sarebbe diventato meno diffuso "sans être moins interessant" (p. 224). Disgraziatamente, la riforma precede di poco la fine del diario.

4.  Il "pilgrimage of Italy" era stato lungamente accarezzato - e fantasticato - dal Gibbon: "A tour of Italy had long been the object of my curious devotion" (AA, 303, 405). Un piano di viaggio in Italia e in Francia aveva sottoposto all'approvazione del padre sin dal 1755. Ma avendovi meglio riflettuto, s'era pentito della domanda e aveva preferito rimandarlo di qualche anno, d'accordo con Locke sulla inopportunità dei viaggi prematuri: "I never liked young travellers [...]" (LL, I, 9-10, 13). Varcando le Alpi nella primavera del 1764, egli scioglieva dunque un antico voto. Il giornale losannese, le lettere, gli abbozzi autobiografici replicano le indicazioni sugli obiettivi della spedizione. Roma è, si sa, "the great object" del viaggio (AA, 266). Ma non ne è il movente unico: a spingerlo verso l'Italia c'era anche il desiderio di perfezionarvi il proprio gusto artistico. Esplorerà perciò sistematicamente tutte le collezioni d'oggetti d'arte, pubbliche e private, che potrà; osserverà chiese e palazzi. Nei Memoirs egli aveva ripetutamente, ma genericamente, parlato del suo interesse per le "fine arts" e del suo modo di osservare " the capital works of painting and sculpture with the eyes of Nature rather than of art" (AA. 405). Aveva ammesso dunque (se mal non intendo) di non aver l'occhio esercitato a cogliere i valori specifici dell'espressione figurativa; e di lasciarsi guidare nella valutazione, per dirla alla buona, dall'istinto. E' in effetti difficile ricostruire la formazione della sua cultura artistica e anche i fondamenti teorici del suo gusto. Le prime analisi di opere pittoriche si incontrano nel giornale parigino (M.G., 95-96). Solo sappiamo che aveva studiato attentamente gli scritti del Caylus e del de la Nauze sull'arte classica; che aveva consultato l'Inquiry del Burke sul sublime; e soprattutto ch'era amico di Joshua Reynolds (JA, 34-35; AA, 193). A Parigi non pensò neppure un momento di unirsi all'infaticabile Caylus nelle sue giornaliere visite agli ateliers degli artisti (M.G., 104). Non sentiva evidentemente il bisogno di farsi un gusto visivo libero dagli schemi psicologico-letterari: alla sua educazione pittorica bastavano i musei. Se mancava di concreta esperienza artistica, aveva però le sue idee sull'arte e sulla origine delle arti. Non solo: le sue prime impressioni di gusto rivelano in lui preferenze già formate, e pregiudizi già così forti che l'esame diretto delle opere riuscirà appena a scalfirli. È appena il caso di dire ch'egli s'accosta alle opere figurative da letterato (invenzione, dottrina, verisimiglianza, ecc.). Non è perciò la maniera dell'approach che ci interessa: è la qualità del suo gusto. i criteri direttivi dei suoi apprezzamenti sono quelli indicati dai precedenti studiosi (che però non disponevano delle copiose osservazioni del Journey): imitazione della natura, bello ideale, nobile compostezza. Ma si tratta di accademismo piuttosto che di classicismo alla Winckelmann. In omaggio a un generico gusto plastico-lineare il Winckelmann era giunto, si sa, a una svalutazione del colore, per le sue qualità illusive e piacevoli, a vantaggio del disegno.

5.  Non così il Gibbon: prova ne sia il suo amore per Rubens, così maltrattato da classicisti e romanisti (si pensi alle invettive di Ingres contro l' "école du mensonge"). Non ha la diffidenza di Winckelmann verso l'espressione degli affetti, anche se l'eccesso di espressivismo lo urta. Né apprezza solo la grazia severa - la grazia rivolta al sublime -, ma anche quella che coltiva il piacente: quella del Correggio, del Reni, dell'Albani. Rifiuterà il Veronese perché, a suo dire, pittore secco, non "agréable". Dalla ricerca di sensazioni gradevoli all'assaporamento edonistico dell'opera d'arte non c'è che un passo. Dinnanzi alla Venere medicea, indugia con un lungo brivido voluttuoso: "C'est la sensation la plus voluptueuse que mon oil ait jamais eprouvé" (pp. 1.78-179). Tra l'altro, contemplando quello stupendo corpo di donna ("les contours les plus moelleux, les plus elegans, une rondeur douce et pleine; la molesse de la chair communiquée au marbre [...] ") si persuase definitivamente della superiorità della scultura sulla pittura (AA, 267). Dentro i limiti del suo accademismo, il Gibbon si mostra capace di comprendere esperienze figurative e stili molto diversi: Raffaello, Poussin, Rubens, Caravaggio. Certamente, quest'ultimo è ammirato per la sua icastica riproduzione del naturale. Ma se si pensa all'avversione decisa che il Winckelmann aveva dichiarato l'anno avanti per quest' "arte nera", si dovrà riconoscere la spregiudicatezza, la libertà di gusto di Gibbon. Verso i Carracci il suo atteggiamento è, in principio, entusiastico ("les miracles de l'école des Carraches"). Ai più noti rappresentanti della loro scuola (Domenichino, Albani) tributa sempre l'omaggio più rispettoso. Si direbbe però che, dopo il soggiorno bolognese, quest'ammirazione - pur restando viva - si era fatta più cauta (AA, 268). Non mancano però in lui le incomprensioni, le chiusure; e gravi. I maestri italiani del tre e quattrocento fino al Mantegna incluso sono giudicati con impazienza: la loro maniera minuziosa e timida lo infastidisce: "Ils copioient servilement parce qu'ils voyoient peu de chose, et mal" (p. 138). Non ritrovava in essi nessuna di quelle "hardiesses heureuses" per le quali sono grandi i primi poeti, e che riscattano "tous les ecarts d'une imagination dereglée". Ma i primi poeti erano profeti; i primi pittori, artigiani: "la poesie est descendue, du ciel, - riassumerà con una formula enfatica - la peinture s'est elevée de la terre" (ivi).

6. Per la scuola fiamminga manifesta una insofferenza vera e propria: "Cette imitation exacte de ce qu'il y a de plus bas et de plus degoutant dans les moeurs d'une populace grossière interesse si peu mon esprit, que leur coloris sec et leurs ombres noircies me deplaisent à la vue" (p. 32). Rifiuto totale dunque, motivato da ragioni estetiche e da ragioni contenutistiche. Sul piano tecnico-artistico si mostrerà tuttavia disposto in seguito a far qualche concessione: la finezza di disegno di Pieter Breughel, la sua precisione lenticolare nel riprodurre la natura lo lasciano sinceramente ammirato (pp. 51, 13). E ancor più la forza espressiva di Rembrandt (p. 250). Ma le riserve contenutistiche non verranno mai meno. Saranno rinnovate per Callot: "On y trouve le merite ordinaire des Flamands; un clair obscur admirable, un travail prodigieux et beaucoup d'expression des passions basses. Point d'invention, aucune noblesse; j'aime le thèatre, mais j'ai peu de gout pour la farce" (p. 140).

7. Se le arti figurative attraggono vivamente il G., non lo attraggono invece la musica ("totalement depourvû comme je suis de gout pour l'harmonie"; p. 161 e AA, 405) e l'opera ("l'Opera [...] n'est pas de mon ressort"; pp. 16, 226 e LL, 1, 183). Il ricco mondo musicale italiano lo lascia perciò indifferente: tutto al contrario del suo socio nel viaggio, William Guise, che la musica ama sopra ogni altra cosa. Ma nonostante queste differenze di gusto, l'intesa tra i due amici filò perfetta per tutto il tempo: prudente, sensibile, dotato di curiosità e spirito di ricerca (così il G. si esprimeva nei suoi riguardi) il Guise si dimostrò un eccellente compagno (LL, 1, 170, 179). Anch'egli ha lasciato un diario di quei giorni; e molto a proposito il Bonnard se n'è servito per riscontrare e integrare, dove occorreva, il racconto gibboniano; e ne ha pubblicato in appendice otto lunghi estratti (pp. 253-258). Il G. non era dunque mosso da curiosità per l'Italia contemporanea (come, per fare un caso, un anno dopo il Lalande): era l'Italia classica e rinascimentale che l'attirava. Il "classic tour", insomma: un viaggio di formazione e di studio. Ma di tanto in tanto fermerà il suo sguardo sull'Italia del tempo, sui suoi costumi, sui suoi problemi sociali e poli. tici. Saprà talvolta vedere così acuto da farei rimpiangere che non abbia sentito il bisogno di farlo più spesso.

8. Allorché il G. iniziò la sua "Transalpine expedition" aveva ventisette anni. L'Essai sur l'étude de la littérature - l'unica opera ch'egli aveva sino allora pubblicato (1761) - era piuttosto un brillante saggio del suo ingegno che un'opera durevole: "ouvrage de jeunesse fait dans deux mois et oublié dans quatre" (JB, 169-170). A distrarlo da lavori più impegnativi c'era stato l'intermezzo militare. Ma sin dal luglio 1761 aveva preso la sua decisione: sarebbe diventato uno storico "(mon inclination, celle de mon siècle, me décident pour l'histoire [...] "; M.W. 111, 18). Dubbioso ancora delle proprie forze, desiderava solo metterle alla prova, saggiandole sopra un buon argomento. Per controllar più strettamente l'impiego del proprio tempo, s'era imposto un mese dopo - il 24 agosto - la disciplina del diario. A guerra finita aveva guadagnato sùbito il continente. Ma a Parigi, nei tre mesi e più che vi restò al principio del 1763, aveva piuttosto studiato il mondo che libri e antichità. Sarà solo a Losanna, in una scena più tranquilla, che, pur tra le occupazioni di una piacevolissima società cosmopolita, egli riuscirà a portare ben avanti la propria iniziazione di storico. In quegli otto mesi il G. prepara il viaggio italiano per trarne il maggior utile possibile: legge poeti e storici dell'età classica, geografi e topografi, e anche l'opera di un viaggiatore moderno: le imponenti Neueste Reise del Keyssler ( JB, 286; AA, 209-210). Legge alla sua maniera, per aiutarsi a pensare (M.W. 111, 188). In margine alle letture nasce qualche breve dissertazione. Per farsene un'idea si veda il capitoletto - ispiratogli dal Bergier - sul modo di viaggiare dei Romani: la maniera, il garbo sono ancora quelli qell'essayist (M.W. IV, 6-23). Sarà un tema di riflessione nel corso del tour italiano. Frattanto lavora, sempre più alacremente, a un'opera di vasto impianto sulle antiche popolazioni italiche (quanto ne resta sarà pubblicato dallo Sheffield con il titolo: Nomina Gentesque antiquae Italiae; M.W. London, 1814, il V, 157-326). Nei progetti, lo scritto doveva diventare, arricchito delle osservazioni lette sur place, una completa descrizione dell'Italia antica: un'opera agile, grata al gusto dei lettori contemporanei, "qui tenoit le milieu entre Cluvier et Cellarius". A una compilazione del genere, se bene eseguita, non poteva mancare il successo: essa "pourroit enrichir un libraire, passer à la dixième edition et devenir un livre classique pour les collèges, les voyageurs et meme pour les gens de lettres" (1B, 167-170). Credeva dunque d'aver trovato il tema che gli avrebbe permesso di fondare solidamente la propria reputazione; e si mostrava disposto a sacrificare la propria "originalità" per comporre un'opera utile (JB, 170; LL, 1, 181).  Se aveva rinunziato, almeno temporaneamente, alle grandi ambizioni storiografiche, non aveva rinunziato però a essere uno storico filosofo: " [...] j'envisagerois d'un oeil philosophe l'interieur de l'habitation et les habitans eux-memes après avoir decrit et partagé la surface" (1B, 169). Voleva dire che avrebbe prestato conveniente attenzione alle produzioni della natura e dell'arte, alle migrazioni dei popoli, alle loro leggi e al loro carattere; cercando di non perdere mai occasione, "parmi tant d'objets si interessans pour un philosophe", di indagare "quand et jusqu'à quel point la configuration du pays, le climat, la situation ont influé sur les moeurs des habitans et sur les evenemens qui leur sont arrivés" (ivi). Ma la cosa più interessante di questo progetto è che, essendosi proposto di seguir l'ordine delle conquiste romane, il racconto cominciava da Roma: " [...] Je me placerois sur le mont Palatin avec Romulus, et commençant par le berceau de la nation, et le premier pomoerium de la ville j'en parcourrais (sic) les quartiers differens". La ricerca gli si andava dunque, fin dal tempo di Losanna, configurando innanzi tutto come una storia urbanistica di Roma (cfr. Giarrizzo, Op. Cit., 178-188). A Firenze scriverà che i suoi "desseins sur la geographie de l'Italie" sussistevano ancora "quoique le plan eri soit un peu changè" (p. 221). Non diceva però quale fosse il nuovo piano. Sembra tuttavia che volesse accentuare il carattere "filosofico" della sua trattazione: insisteva infatti sulla sua intenzione di studiare "les moeurs, les usages [...] et toute cette bistoire interessante qui est cachée dans l'histoire ordinaire" (ivi). Il primo progetto romano - l'idea di un'opera sulla "decline and fall of the City" - è dunque germogliato sulle letture e sui progetti di Losanna. A Roma il 15 ottobre, mentre sedeva meditando fra le rovine del Campidoglio e i frati scalzi cantavano vespro nel tempio di Giove, una folgorazione di carattere emotivo - il sentimento d'una grandezza inabissata dal tempo, della tragicità di quella vicenda storica - aveva dilatato, a un colpo, l'orizzonte della ricerca, strappandola dall'alveo di una placida ricostruzione archeologica. Ma niente di più.

9. Aveva poi in mente il progetto più antico (risaliva al luglio 1762), di una storia di Firenze sotto i Medici (AA, 197; IA, 104). Un soggetto "splendido": "a Commonwealth, soft, opulent, and corrupt, which, by just degrees, is precipitated from the abuse to the loss of her liberty". Gli avrebbe permesso di comporre un largo quadro, ricco di forti figure e di elementi drammatici, come la rinascita delle arti e delle lettere sullo sfondo della rovina della libertà fiorentina, ed essenzialmente connessa con questa rovina. Tale progetto tenta il Gibbon, ancòra dopo il viaggio italiano: sarà l'amico svizzero Deyverdun a farlo risolvere per il progetto che gli era nato in mente insieme, e a contrasto, con il progetto della storia fiorentina: la storia, vale a dire, della libertà degli svizzeri (AA, 275, 406; M.W., 1814, 111, 259 s.). Allorché il G. metteva piede in Italia conosceva la lingua del paese? Aveva cominciato lo studio dell'italiano nel novembre 1759 sotto la guida di un tal Matzee, che, se non sbaglio, dev'essere proprio Filippo Mazzei (JA, 10). La cosa è probabile: il Mazzei era amico dei Mallet, del Maty, del Celesia[2]. Testo di lettura: le Storie fiorentine e i Discorsi del Machiavelli. Fece progressi? È difficile dirlo: il Journal s'interrompe e riprende il 28 aprile dell'anno successivo; mancano per tutto questo periodo testimonianze epistolari. Nel Memoir C G. asserì ad ogni modo di aver preso in patria qualche lezione (some lessons) d'italiano (AA, 267). Certo è che, a Torino, una delle prime cose che fa e di cercarsi un maestro di lingua: l'abate Nenieri. Quattro giorni dopo l'arrivo ha già ricevuto la prima lezione (p. 16). Erano lezioni quotidiane di due ore, impartite in comune a lui e al Guise. Ma da Torino partiva undici giorni dopo. Si rimetterà "très serieusement" allo studio dell'italiano a Firenze, il 22 giugno; precettore l'abate Antonio Pillori, da vent'anni "maitre general à la nation Anglaise" e che s'era anche cimentato nel 1759 come traduttore in versi del Pope p. 120 e n. 4)[3]. Sarà il Pillori, con le sue amicizie (Niccolini, Lami, Cocchi), ad aiutare il G. nel suo giro delle principali biblioteche fiorentine: le due riccardiane, la magliabechiana. Ma sarà soprattutto colui che lo familiarizzerà coi classici italiani: "I read the Tuscan writers on the banks of the Arno"  (Memoir E); e altrove (Memoir C): "on the spot I read with a learned native the Classics of the Tuscan idiom" (AA, 302, 267). Era metodo del Pillori metter bruscamente l'allievo a contatto con i testi: "Si vous ne l'arretez pas - si lamentava il G. - il vous met d'abord à la poesie et à la traduction" (p. 120). C'è da pensare che le sue conoscenze grammaticali non fossero, neppure a questa data, gran cosa. Come testo di lettura, non essendosi trovata una delle opere maggiori del Machiavelli, vennero adottate le Relazioni del Bentivoglio. Con un maestro simile i progressi dovevano esser rapidi. Otto giorni dopo, in una conversazione in casa Strozzi, "j'ai eu l'hardiesse - racconta - de commencer à parler un certain jargon que je voulois que l'on prit pour l'italien" (p. 128). Tutti lo ascoltarono con molta bontà: "les Florentins - annotava riconoscente - sont réelment polis" (p. 129). Ma il 9 agosto, dopo un giro in tre salotti (compreso quello del duca Strozzi), sfoga il suo malumore di "poor Englishman" disambientato e costretto a fare da "silent spectator" alle conversazioni: "Je ne parle pas la langue du pays. J'ignore leurs jeux. Les femmes sont occupées de leurs cicisbées et les hommes paroissent d'une indifference extrème" (p. 204). Ma se non lo parlava (non vi riuscirà mai), poteva ormai leggerlo: quattro giorni prima aveva attentamente esaminato una dissertazione del Guazzesi, e aveva anche fatto delle osservazioni di stile. "Son défaut principal est celui de sa nation, un style asiatique, ennemi de la force, de la precision & de la brieveté" (M.W. IV, 32). E a Roma leggerà manoscritta l'operetta graviniana Del governo civile di Roma (M.W. IV, 73-76) [4]. Basta, del resto, dare un'occhiata alla sua biblioteca: i classici italiani ci sono tutti, e talvolta in più copie: quattro, p. e., dell'Orlando Furioso (E. G.'s Library. A Catalogue ed. by G. Keynes, London, 1940). Non si corre troppo, mi pare, a immaginarsi il G. lettore appassionato dell'Ariosto[5]. Molti di questi volumi sono entrati nella libreria in epoca posteriore al viaggio italiano: ce ne fanno certi le date d'edizione. Una cosa è dunque sicura: il G. riportò dalla sua spedizione non solo una sufficiente conoscenza della lingua, ma anche un interesse costante per la cultura italiana. E non solo per quella classica. Possiede infatti le opere complete del Goldoni, di Carlo Gozzi, del Metastasio, la Frusta e le Lettere ai fratelli del Baretti [6] . Cosa ancor più significativa: tra i suoi libri ci sono opere del Beccaria, del Fortis, del Denina, del Griselini, del Galiani, del Pilati, dello Spallanzani; c'è la Storia del Tiraboschi [7] . Il Giannone era un vecchio amore del primo soggiorno svizzero; ma Gravina, Maffei, in un certo senso Muratori [8] furono una scoperta del soggiorno italiano. Nella sua libreria figurano con tutte le loro opere più importanti; ed erano, si sa, un bel numero. Gli ultimi due saranno le sue "faithful and assiduous guides", con Sigonio e Pagi, nello studio del medioevo italiano negli anni immediatamente precedenti la preparazione della History (AA, 303). E ho lasciato fuori, per deliberato proposito, le opere di puri antiquari.

10.   Nell'epistolario il G. fa di tanto piú tanto allusione ai libri che legge; talvolta si può anche sapere da chi e quando li ha acquistati (cfr. il diligente catalogo messo insieme dalla Norton; LL, 111, 381-382). Mai un accenno a libri o autori italiani: è davvero singolare. La History, certo, ne dice qualcosa: il Tiraboschi, p. e., gli servì per la elaborazione del cap. LXVI; le opere del Sarpi nella ed. di Helmstatt del 1761-1765 ("the best edition") per più di un capitolo; il Leti per il cap. LXX; e così via. Ma non dice nulla su quegli altri libri, come De' delitti e delle pene o il Traité des loix civi!es del Pilati: proprio quelli intorno ai quali più ci piacerebbe sapere che giudizio ne facesse. Tuttavia il cap. XLIV della History, dov'è rapidamente disegnata l'evoluzione della giurisprudenza romana da Romolo a Giustiniano, può servire a questo proposito da spia. Beccaria e soprattutto Pilati non erano certamente quelle guide temperate che il Gibbon, nel trattare di un soggetto così delicato come la "civil law", diceva di preferire. Erano senza dubbio da mettere nella setta degli "antitriboniani". Ma il "senza partito" Gibbon s'era formato un concetto troppo negativo dell'opera politica di Giustiniano per risparmiarne del tutto l'opera di legislatore: "[...] the government of Justinian - è la conclusione del capitolo, - united the evils of liberty and servitude, and the Romans were oppressed at the same time by the multiplicity of their laws and the arbitrary will of their master". La giurisprudenza civile, pur dopo il compendio giustinianeo, continuò ad essere "a mysterious science and a profitable trade, and the innate perplexity of the study was involved in tenfold darkness by the private industry of the practitioners". L'alto costo delle spese processuali spesso induceva le parti ad abbandonare la difesa dei più chiari diritti. Era un sistema che avvantaggiava soprattutto i ricchi: "Such costly justice might tend to abate the spirit of litigation, but the unequal pressure serves only to increase the influence of the rich, and to aggravate the misery of the poor". Per effetto della legislazione romana, gli abusi generati dalle complicatezze procedurali nel processo civile, duravano ancora; e provocavano nei contemporanei "a generous indignation", tale da spingerli talvolta a preferire "the simple and, summary decrees of a Turkish cadhi" a una giurisprudenza troppo "elaborate". Era, beninteso, ai suoi occhi un'esagerazione: l'arbitrio dei giudici "is the first engine of tyranny". Quanto al diritto penale, esso occupava nei sessantadue libri del Codice e delle Pandette un posto davvero troppo esiguo: "in all judicial proceeding the life or death of a citizen is determined with less caution and delay than the most ordinary question of covenant or inheritance". Tutte queste considerazioni, come pure il principio che bisogna proporzionare la pena al delitto, non venivano al Gibbon dal suo Heinecke o dal Godefroy, ma da ben altre fonti. Con tutta la sua cura di imparzialità storica, egli non era rimasto insensibile - come si vede - ai più generali motivi critici degli avversari della codificazione giustinianea e alle ragioni dei filantropi. Un'ultima questione: mancano del tutto nell'epistolario tracce di rapporti con uomini di cultura italiani: neppure con il principal traduttore della History: Angelo Fabroni. Eppure di questa versione (che si cominciò a pubblicare in Pisa nel 1779, tre anni dopo l'edizione inglese del primo volume) egli non solo ebbe conoscenza, ma la giudicava così ben riuscita da preferirla, per la finezza interpretativa e per l'eleganza della lingua, alla traduzione francese: "The superior merit of the interpreter, or his language, inclines me to prefer the Italian version" (AA, 339, n. 63; 32.2 n. 44) [9]. Non voglio arrischiar profezie: ma non sarà il caso di cercar meglio nei fondi manoscritti delle biblioteche italiane?

11. Il viaggio cominciò il 20 aprile da Genève, "Le plus beau paysage qui soit peut-etre sous le ciel", attraverso le montagne "desertes et escarpées" della Savoia. Il Moncenisio a Lanslebourg, con le cascate dell'Arc, lo provoca a una blanda reverie: "Le plus beau soleil du monde doroit toute cette scene romanesque et ne lui laissoit qu'un coloris sombre qui dispose l'ame à une melancolie agreable" (p. 4). Sono pagine già rese note, in versione inglese, dal Low (E. Gibbon, London 1937, 170). Certamente il de Beer è stato troppo perentorio scrivendo: "chez Gibbon le sentiment de la nature n'existe pas" (M. C., 81). Non è sempre vero ch'egli guardi la natura da scienziato. Piuttosto il suo interesse è limitato allo spettacolare, al pittoresco, al romantic appunto. Si legga la descrizione di un temporale tra le montagne dell'Appennino ligure, che pure - con quella sensazione di intensa frescura ravvivante intorno tutte le cose che la chiude - è tra le più felici del giornale (pp. 69-70): non c'è dubbio che il G., di quel fenomeno naturale, s'è goduto soprattutto la vistosità e la teatralità degli effetti. Il limite della "agreable melancolie" non è mai varcato: il tono della vita sentimentale del G. non conosce le punte estreme. D'altra parte, non era uomo da lasciarsi prendere da fervori o tentazioni d'alpinista: "pour moi j'ai fait le passage tout entier en chaise de Lannebourg jusqu'à Novalese" (p. 5). Almeno il Guise aveva voluto inforcare un muletto. Tutt'altre cavalcature e tutt'altro apparato - ironizzerà più tardi - da quelli di Annibale: "I climbed Mount Cenis, and descended into the plain of Piedmont, not on the back of an Elephant, but on a light osier seat, in the hands of the dextrous and intrepid chairmen of the Alps" (A,1, 266). In discesa costoro andavano quasi di corsa, a passetti svelti e serrati molto simili "au pas double de nos soldats" (p. 5): l'unica nota militaresca di tutta la scena. Il 26 aprile i due amici sono a Torino; ne ripartiranno il 12 maggio. L'impressione generale, alla fine del soggiorno, sarà quella della noia: quasi che la tetraggine del vecchio sovrano stingesse su tutta la città ("a repandu sur la ville le coloris de l'ennui", p. 41). L'aveva sentenziato sin dai primi giorni. dopo aver frequentato la "triste" assemblea - l'unica della città - di M.me San Gillio: "Turin n'est pas la ville des amusemens" (p. 20).

12. A Carlo Emanuele III era stato presentato il 3 aprile dal Dutens. Il secondo, dopo l'incomparabile Federico, tra i sovrani d'Europa (come dirà più tardi) gli era apparso nell'aspetto di "un bourgeois qui a assez mauvaise façon", un vecchino intristito e inaridito dai rimorsi: "Malheureusement pour lui son pere est mort dans ses prisons" (p. 18). Quella "demarche", anche se giustificabile, aveva segnato per sempre il suo carattere: la bigotteria e soprattutto la sospettosità gelosa verso il figlio non avevano, per G., altra origine. Padre e figlio, due infelici: quest'ultimo, a trentotto anni, era "le premier esclave de la cour". Per la vita di corte il G. non ha, nella History, che parole di disprezzo: si era già capito che non aveva l'animo del cortigiano. In occasione della visita al re di Sardegna quest'avversione esplode per la prima volta con tutta la sua forza nativa: "Une cour est à la fois pour moi objet de curiositè et de degout". La rivolta dell'uomo libero e considerazioni d'ordine sociale concorrevano in quest'odio: "La servilité des courtisans me revolte, et je vois avec horreur la magnificence des palais qui sont cimentès du sang des peuples" [10] . Particolarmente nello stato piemontese, piccolo e povero, era necessario "ecraser le peuple pour aller de pair avec les autres tetes couronnées [...]". E concludeva con un'eloquenza che non lascia dubbi sulla sincerità della sua indignazione: "Dans chaque lambris dorè je crois voir un village de Savoyards préts à perir de faim, de froid et de misère". Qualche mese dopo generalizzava: "j'ai etè presentè aux Rois d'Angleterre et de Sardaigne. J'ai vu de près celui de France et je les ai vus avec autant d'indifference que le plus petit bourgeois. Il y en a meme eu pour qui je n'ai qu'un mepris des plus legitimes" (p. 222). Mi pare che non ci sia luogo a scelta: il disprezzo andava al sovrano piemontese.
Malgrado ciò, il G. era pronto a riconoscergli qualità eminenti di politico: egli sapeva far regnare "un ordre admirable dans ses etats et la paix generale en Italie" (p. 18). La casa di Savoia continuava a sostenersi, come s'era accresciuta, "par la sagesse, l'ordre et l'economie" (p. 41). Il paese offriva lo spettacolo di una disciplinata alacrità: "on voit dans chaque departement un esprit d'activitè, moderè par l'economie, qui cherche à tirer parti de ses avantages ou à les faire naitre" (ivi). In questo modo, senza grandi risorse, lo stato sardo era riuscito a diventare una potenza: ora tentava perfino le vie del mare. Ordine, regolarità: c'era, per G., un evidente parallelismo tra l'aspetto esteriore della capitale e lo spirito del suo governo: "The architecture and government of Turin presented the same aspect of tame and tiresome uniformity [...] " (AA, 266). Il rovescio di quell'ordine era, irrimediabilmente, la noia.
Quanto alle classi sociali, la nobiltà ostentava "une hauteur plus qu'allemande" (p. 41). Forse l'alta borghesia era migliore: "On dit que la bonne bourgeoisie est d'un meilleur commerce" (ivi). Sui rapporti tra le classi, sulla loro posizione nello stato neppure una parola. Probabilmente mancò di buoni informatori. Il solo che frequentò con assiduità tra i torinesi fu Giuseppe Bartoli, un antiquario[11]. Gli altri con cui ebbe contatti occasionali - come il giovane conte di Saluzzo - erano scienziati puri[12]. L'unico che poteva dirgliene qualcosa era il chargé d'affaires, l'amabile cosmopolita Dutens. Ma vien da pensare che, in Piemonte, la questione interessasse meno il Gibbon: la sua attenzione era polarizzata a osservare da vicino il miracolo della potenza militare piemontese, a cercarne il segreto (come una certa politica d'incoraggiamento verso inventori e ricercatori pratici), ad accertarne l'entità e la consistenza (pp. 41-44). Attraverso il vercellese e il novarese - "la plus belle plaine du monde" (p. 45),  il 13 maggio sono a Milano. Il giorno dopo, visita del duomo. L'ultimo grande sforzo dell'architettura gotica incuriosisce straordinariamente il nostro turista: lo studia in tutte le parti, lo misura in lungo e in largo, e gli dedica cinque pagine del suo quaderno (pp. 45-48). La monumentale fabbrica non era, si sa, ancora finita. Il G. profetizza: non lo sarà mai. E spiega: i milanesi "sont actuellement moins riches et moins superstitieux" di quanto fossero nel secolo XIV (p. 45). Malgrado la profusione d'ornamenti, l'esterno aveva "l'air petit et mesquin", un aspetto decrepito: come tutte le costruzioni gotiche, che non risvegliano "qu'une idée de ruine et de foiblesse" (ivi). E così via. Si vede bene che l'osservatore è prevenuto. Ma dal punto di vista strettamente architettonico doveva riconoscere l' "immensità" dell'opera[13]. Dall'alto del duomo contempla la città "qui paroit presque ronde et d'une etendue immense" (p. 48). La vastità sarà in effetti l'unico attributo ch'egli sarà disposto a concedere a Milano: "Milan est une ville plutot vaste que belle" (p. 59). Ma vi si era fermato pochissimo: la diversione di due giorni alle isole Borromee ridusse la sua permanenza nella città a soli tre giorni (pp. 53-58). Non essendosi munito di lettere di presentazione, non aveva visto che le "cose" (tra queste, la biblioteca Ambrosiana e il museo, pp. 50.51). Il soggiorno milanese del G. fu dunque una bella occasione mancata: la Milano dei Verri e di Beccaria, che allora vivevano i loro anni eroici, gli rimase sconosciuta. Ma tra i suoi libri c'è, come ho detto, l'edizione livornese del 1766 del De' delitti e delle pene.

13. Eppure, quando il Gibbon giungeva a Milano, il suo nome non era ignoto nella cerchia degli illuministi lombardi. Nel 1762 l' "Estratto della Letteratura Europea" aveva accolto nella maniera più calorosa l'Essai sur l'étude de la Littérature: "Quest'opera parci essere una delle migliori che l'Inghilterra abbia prodotto in genere di letteratura", anzi "una delle migliori opere di letteratura che siansi vedute nel secol nostro". Quell'opera "bellissima" faceva "onore all'Inghilterra" e, naturalmente, al suo autore: "Il Sig. Gibbon è uomo di un talento meraviglioso; egli ha studiato diligentissimamente gli Antichi, ne parla con sentimento, e gli ammira senza fanatismo" ("Estratto della Letteratura Europea", 1762, T. 1, 24-25). Il lungo articolo sfuggì probabilmente al Gibbon, che dell' "Estratto della Letteratura Europea" possedeva solo i primi otto volumi, 1758-1760 (G.'s Library cit., 120). Ed è sfuggito al Bonnard, che si è limitato a rintracciare le riviste segnalate dal Gibbon stesso (G. A. BONNARD, G.'S "Essai sur l'étude de la littérature" as judged by contemporary reviewers and by G. himself, in: "English Studies", XXXII, 1951, 145-153)[14].
Il disegno era di spingersi sino a Venezia per godervi il carnevale; ma l'ignoranza della lingua e qualche difficoltà finanziaria indussero i due a ripiegare su Genova. Durante il viaggio, sosta alla Certosa di Pavia: il G. non voleva perdere neppure un'occasione di esaminare un monumento "gotico". Anche la Certosa lo delude: si trattava di un gotico "très ordinaire", del tutto privo di quelle "belles hardiesse qui font l'unique merite de cet ordre" (p. 59). Tuttavia l'osserverà con la solita cura meticolosa (pp. 5962). Il Po, ingrossato dalle ultime piogge, li costringe a passar la notte a Pavia. Prima di ripartirne, fanno un breve giro della città: "assez mal batie" è il giudizio (pp. 62-64). Il mattino del 22 sono finalmente a Genova: vi si fermeranno venti giorni, fino al 12 giugno. A Genova il G. ritrova un amico degli anni londinesi: Pier Paolo Celesia, un uomo di formazione illuministica e affiatato cori gli ambienti illuministici di mezza Europa[15]. Le conversazioni genovesi avute con lui attireranno l'attenzione del G. sui problemi politici della vecchia repubblica. Sono pagine del tutto ignote, e tra le più importanti o quanto meno tra le più stimolanti dell'intero diario. Il Celesia, tipico rappresentante di quella borghesia che aveva cercato nel 1746 di sfruttare il movimento popolare per assicurarsi una partecipazione al governo dello stato, sarà per il G. un prezioso informatore. Incaricato qualche anno prima di comporre uno scritto in difesa delle ragioni della repubblica nella questione di S. Remo, aveva avuto modo di ripercorrere dalle origini la formazione del dominio genovese. La questione giuridica era divenuta nelle sue mani un problema storico e politico: l'erudizione muratoriana s'era innestata sopra l'insegnamento giusnaturalistico ricevuto in Olanda. Uomo politico a parte degli affari pubblici, poteva fornir ragguagli sulla situazione interna, oltre che sulle strutture costituzionali e sulle vicende storiche - antiche e recenti - della Repubblica. Il G., per parte sua, contribuirà alla discussione con una serie di dubbi e problemi, d'ordine insieme storico e politico, sui quali da tempo andava esercitandosi la sua riflessione: dubbi e problemi che non lasciavano indifferente l'animo del suo interlocutore. La penetrazione, la vitalità delle osservazioni gibboniane nasce proprio da questa convergenza: dalla convergenza, voglio dire, tra gli interessi teorici del G. e le aspirazioni pratiche di quei gruppi politici genovesi che erano più o meno desiderosi di riformare lo stato.
Le repubbliche - il G. ne era convinto - "meritent toujours de l'attention": esse offrivano un campo larghissimo d'osservazione allo studioso delle forme politiche: "Elles sont aussi differentes que les Monarchies sont semblables les unes aux autres" (p. 226). In particolare, quelle repubbliche, come Venezia e Genova, che con la loro "gradation of patricians and plebeians, of strangers and subjects" ricordavano, come dirà nella History, l'antica Roma (cap. XLIV). L'interesse per le forme politiche repubblicane s'era manifestato precocemente nel 1755, al tempo del suo viaggio svizzero. Aveva allora avuto modo di osservare cantoni democratici, dove "chacun est à la fois Souverain et sujet", e cantoni aristocratici, nei quali il paese era il patrimonio della città principale. Ma più che su i cantoni democratici, l'attenzione dell'eccezionale adolescente aveva indugiato su quelli aristocratici: Basilea, e soprattutto Berna. Quest'ultimo era anche il più cospicuo all'interno del corpo politico elvetico. Se aveva deplorato la libertà, "ou pour mieux dire licence effrenée" dei cantoni democratici, neppure era stato tenero verso la politica di gelosa tutela del diritto di "bourgeoisie" perseguita da quelle aristocrazie. Nel caso di Berna, aveva cercato anche di ricostruire la formazione dell'oligarchia dominante. Spontaneo gli era venuto in mente il paragone con Roma: "Il me paroit qu'en vous faisant ce petit recit des differentes revolutions de la bourgeosie bernoise, je vous fasse en meme tems celui de Rome" (M.G., 1.6. 33, 53) [16].
Ma la denuncia più decisa del regime bernese come regime non libero sotto l'apparenza di una "administration douce", il G. l'affiderà a un pamphlet, pubblicato postumo, che è certamente una delle cose più singolari uscite dalla sua penna. La data di composizione della Lettre sur le gouvernement de Berne è incerta: il suo più recente editore, Louis Junod, vorrebbe collocarla negli anni 1763-1764; il Giarrizzo, d'accordo con Low, ripropone la data tradizionale del 1753. Qui non è il caso di fermarsi su tale questione. Tuttavia la presenza di motivi roussoiani, e sembra proprio del Rousseau del Contrat (perfino la nozione di "volonté générale", che - è però vero - il Rousseau cominciò ad adoperare sin dal 1755) e altri indizi mi fanno inclinare verso l'ipotesi del Junod[17]. Comunque sia, nella Lettre, è il nucleo d'idee politiche che ci interessa: la critica cioè delle strutture aristocratiche e lo sforzo per individuare le condizioni di una concreta libertà. Tre sono i punti su i quali egli batte con la maggior energia: la necessità di "partager" il potere legislativo con la creazione di un consiglio rappresentativo di ogni ordine di cittadini e di ogni parte del dominio; la necessità di abbattere il privilegio aristocratico o, come altrove dirà, il "mur d'airain" che divideva il paese in due "nazioni", l'una composta di trecento famiglie nate a comandare, l'altra dei centomila destinati a obbedire; la necessità di attuare una rigorosa separazione dei poteri, impedendo che il senato legislatore fosse anche l'esecutore delle leggi (M.G., 123-141). Soltanto nell'indicazione dei mezzi politici per far passare nei fatti queste proposte di riforma il G. è reticente. Rifiuta però con orrore la parte di "tribun seditieux": "je ne chercherai jamais à faire secouer aux peuples le joug de l'autorité" (MA, 141). Le sue meditazioni storiche di questo periodo gli ripresentavano, nel passato romano, gli stessi problemi (JB, 126-127). Si direbbe anzi che la riflessione politica nasca in lui sempre da un problema storico: più sovente, ma non sempre, di storia romana. Il G. vuole essenzialmente capire, confrontandole ai problemi della società del suo tempo, situazioni storiche del passato. Perciò la Lettre, dopo una così serrata denuncia dei mali della comunità bernese, sul terreno politico non conclude: malgrado il piglio aggressivo, non si era prospettato un problema d'azione. Più che altro aveva tentato l'anatomia di un governo aristocratico e la discussione di un problema teorico: la determinazione della volonté générale[18]. Ma la Lettre resta lo stesso un documento illuminante dei suoi ideali politici, un serio tentativo di definizione di questi ideali. Innanzi tutto, l'avversione per la monarchia assoluta, per il despotismo. Compiange quei popoli la cui vita è sacrificata a ogni momento al "caprice" di un sol uomo, che "lorsqu'il entend parler de vint-mille de ses semblables morts dans le service de son ambition, dira froidement, ils ont fait leur devoir" (M.G., 124). Talvolta il principe assoluto può assicurare la felicità del suo popolo: i romani erano felici sotto Tito, erano tuttavia "de vils esclaves". La felicità attuale del cittadino e dello schiavo può essere uguale "mais celle du dernier est precaire puisqu'elle est fondée sur les passions des hommes, pendant que celle du premier est assurée" (MA, 130). È dunque rischioso affidare la determinazione della volonté générale a un uomo solo, o a un gruppo d'uomini privilegiati: tutto il paese deve poter fare sentire la propria voce. L'unico regime che dà delle garanzie ai cittadini è un regime largamente rappresentativo. E tutti devono poter partecipare all'amministrazione dello stato: i "talens" devono essere valorizzati (M.G., 136). Nel giornale losannese, leggendo Giovenale (uno dei suoi autori favoriti), s'era posto esplicitamente il problema dell'origine della nobiltà: "on a de la peine à concevoir la naissance et l'etablissement de ce prejugé general". Ma quale principio aveva per primo posto la innaturale distinzione "entre le noble et le roturier"? E aveva risposto, ma esitante; la religione (JB, 16). Più tardi, nella History, queste inquietanti domande saranno messe a tacere dall'accettazione piena della dottrina montesquiana: "The distinction of ranks and persons is the firmest basis of a mixed and limited government" (cap. XLIV): degli atteggiamenti giovanili, indubbiamente più radicali, solo l'esigenza antidespotica è rimasta viva. Infine, distinzione dei poteri e tolleranza religiosa. Più in generale: un regime fondato sul consenso popolare, libertà sotto la protezione della legge. Non è un caso che, come autore della Lettre, il G. si travesta da gentiluomo svedese: egli aveva evidentemente captato tra i primi il mito della nazione felice che aveva saputo temperare le istituzioni monarchiche con le leggi repubblicane, e bilanciare ammirevolmente i poteri; mito che, per opera di P. H. Mallet, andava proprio in quegli anni cristallizzando nel pensiero politico europeo[19].
Tra forza e consenso il G. non esita: solo governo degno dell'uomo è il governo consensuale. L'aveva enunciato in maniera appassionata concludendo le sue Recherches critiques sur le titre qu'avoit Charles VIII à la couronne de Naples, che sono del 1761: "Le droit du consentement des sujets, le plus beau de tous les droits [...] Le droit de conquete n'est fait que pour les betes féroces [...] Le seul droit au-dessus de toutes les objections, est celui qui sort de la voix d'un peuple libre" (M.W. 111, 17). Tutti questi spunti e riflessioni riaffluiscono e si rifanno attuali nelle conversazioni genovesi. Genova, anch'essa uno stato-città, gli si presentava come un caso affine a quello di Berna. Alla tendenza gibboniana a identificare troppo strettamente le due situazioni, il Celesia reagirà e sarà costretto a insistere sulle differenze. Fin troppo: tanto che nel racconto gibboniano egli finisce per apparire al lettore non attento quello che certamente non era: un apologista dei metodi di governo della repubblica. Sappiamo invece ch'egli aveva centrato un suo progetto di riforma dello stato, preparato per incarico di ambienti governativi, poco prima o poco dopo le conversazioni con il G. (sarebbe interessante determinarlo con precisione), proprio sulla necessità di liquidare le anacronistiche strutture dello stato cittadino. E sappiamo che giudicava l'ambiente genovese un "magnifico infernetto". Ma se il "patriottismo" neutralizzava i suoi istinti di rivolta, sua moglie non faceva mistero con nessuno della propria insofferenza: "Ce n'est pas sa faute si son pays m'est insupportable. Mais il est un peu trop indulgent sur ses defauts [...] il plie sous le joug [...] et ne le déteste pas assez et moi, je le sens, je le déteste plus tous les jours [...]".
A differenza di Berna, dove le cose andavano quiete, Genova era tormentata da continue crisi e ribellioni: ultima nel tempo, e la più grave, quella di Corsica. Segno - pensava il G. - che il suo regime era più duro, la sua costituzione ancor più imperfetta. Il Celesia riuscirà a convincerlo che, in realtà, i legislatori della Repubblica avevano cercato, con tutti i mezzi, di temperare i rigori dell'aristocrazia. Ma ammesso questo, non ne derivava necessariamente per il G. che il giudizio sul governo genovese dovesse essere meno aspro: "Ces institutions sont bonnes, mais je ne connois aucun pays, où les gouverneurs ayent reduit plus souvent les peuples à la disperation et à la revolte" (p. 79). I rapporti tra Dominante e popoli soggetti, nonostante il minuto sistema di controlli amministrativi, finivano per essere ugualmente caratterizzati dalla oppressione politica e dallo sfruttamento. Lo stato di endemica rivolta che serpeggiava nei suoi domini provava all'evidenza che il "mur d'airain" che spezzava in due "nazioni" le repubbliche aristocratiche, a Genova non era stato abbattuto. La costituzione bernese era forse, per certi lati, più difettosa; ma la sua amministrazione era "plus sage et douce" di quella genovese. Non era dunque questione di leggi, o soltanto di leggi: bisognava guardare ai rapporti politici e amministrativi nella loro concretezza: com'egli diceva. servendosi del termine vago che la sociologia montesquiana metteva a sua disposizione, era questione di "moeurs" (ivi).
Il caso più clamoroso di rivolta provocata dal malgoverno era la Corsica. Il Celesia guardava allo sforzo compiuto dai còrsi per rendersi liberi dai legami politici con Genova, con imparzialità e anche con simpatia: scrivendo al Galiani parlerà di loro come di un "popolo eroico". E nutriva una sincera ammirazione per il capo militare e politico di quella rivolta: Pasquale Paoli. Non trovava da paragonarlo che al Cromwell (p. 661). E il G. giudicava quel paragone ben trovato: "Comme lui, l'ambition lui tient lieu des richesses qu'il meprise et des plaisirs dont il ignore l'usage; comme lui dictateur perpetuel d'une republique naissante il sait la gouverner par un fantome de Senat dont il est maitre; comme lui il a su remplír ses troupes d'un fanatisme religieux qui les rend invincibles". Tanto più abile in questo dello stesso Crornwell, poichè la religione non era stata nè il motivo nè il pretesto della rivolta. Secondo lui, G., il Paoli uguagliava per i suoi talenti naturali "les grands hommes de l'antiquité"[20]. In passato la politica genovese in Corsica era stata certamente, ammetteva il Celesia, poco illuminata; ma negli ultimi tempi erano state prese dalla Repubblica iniziative di distensione. E ricordava al G. il tentativo compiuto nel 1761 durante il dogato di Agostino Lomellini - il doge-filosofo, l'amico e traduttore del D'Alembert - di trovare un accordo onorevole con gli insorti. La responsabilità del fallimento della deputazione inviata dal senato nell'isola per trattare le condizioni dell'accordo era, dal Celesia, cercata - e non a torto - nella matura, irriducibile volontà d'indipendenza di un popolo che prendeva per la prima volta coscienza della propria individualità storica ("se souviennent à peine qu'ils ont etè sujets des Genois") e dei propri diritti. Ma la classe dirigente genovese aveva avuto pure la sua parte di responsabilità: tanto aveva indugiato nell'eseguire il piano, l'aveva sottoposto a tale limitazioni, si era condotta con tale ambiguità da non dare alcuna sicura garanzia agli insorti. Paoli aveva avuto buon giuoco a denunciare quell'iniziativa della Repubblica come un nuovo e più pericoloso tentativo di dividere i còrsi, o di sfruttare le divisioni già esistenti. Tuttavia il Lomellini non aveva perduto le speranze e aveva continuato, da senatore, la sua battaglia: ancòra nel febbraio di quello stesso 1764 era tornato sul problema centrale, ribadendo la necessità di "faire entrer les Corses dans le gouvernement, à fin de n'en former qu'un seul et meme peuple avec les Genois". Ma questo partito (aggiungeva il Boyer, in lettera allo Choiseul) "choque trop la vanité des nobles de ce pays ici, pour qu'ils veuillent jamais l'embrasser et je suis persuadé qu'ils aimeroient mieux perdre la Corse que de la conserver à ce prix". Il Celesia confermava questa volontà di rinuncia: "La partie plus saine du Senat est lasse d'une guerre qui ne lui'a valu que des depenses immenses et des disgraces". Ma dimenticava di aggiungere che il desiderio di disfarsi della Corsica era il partito estremo, perché si era rifiutata, quand'era ancòra possibile, una soluzione politica del problema. C'è da rammaricarsi che il G. avesse visitato la famosa villa del Lomellini, "bel esprit actuel de Gènes", in un momento - almeno così pare - che il proprietario era assente (p. 82). Appare chiara, a ogni modo, la diversità delle concezioni politiche: conservatore illuminato, il Lomellini vuol riformare per conservare; il Celesia, proprio perché meglio avvertiva la carica profonda della rivolta còrsa e perché giudicava il governo del Paoli come il solo governo adatto a quel popolo "feroce" - il solo che potesse elevarlo a dignità politica -, credeva meno  nella possibilità di riuscita delle iniziative genovesi di pacificazione: ormai, per lui, il solo gesto politicamente saggio che Genova potesse fare era di concedere ai còrsi l'indipendenza assoluta.
   Anche nel regolare i rapporti tra l'aristocrazia e l'alta borghesia i legislatori del 1576 erano stati moderati: i nobili avevano avuto la "grandeur d'ame" di contentarsi degli onori e dell'autorità, lasciando ai "principaux de la bourgeoisie" - al "secondo ordine" - gli impieghi lucrativi. Ma la direzione politica dello stato restava gelosamente nelle mani del ceto nobiliare, che si era mostrato negli ultimi tempi sempre meno propenso ad assorbire, attraverso il sistema delle nobilitazioni venali, membri dell'altro ordine. Alla borghesia, anche all'alta borghesia, veniva in tutti i casi negata ogni rappresentanza politica, ogni partecipazione alle funzioni direttive dello stato. Che per il G. era - lo sappiamo - la prima condizione per assicurare l'equilibrio delle forze sociali, e quindi la vitalità di un corpo politico. La borghesia genovese sopportava però con impazienza la sua posizione subalterna nello stato; e lo aveva dimostrato nel 1746. Sarà proprio il Celesia a richiamare l'attenzione dell'amico inglese su questo aspetto della rivolta "patriottica", scoprendogli la realtà dei conflitti di classe che stavano dietro a quella vicenda tanto gloriosa, o - come s'esprimeva il G. - a quell' "effort digne des Romains". Nel racconto di Celesia quella vicenda riacquistava le sue dimensioni: appariva cioè, quale in effetti fu, come una vasta crisi politico-sociale, che aveva minacciato direttamente le strutture aristocratiche della repubblica ed era stata sul punto di modificare i rapporti di classe all'interno dello stato. Da questo punto di vista l'episodio più significativo era stato la creazione di un'assemblea, diretta emanazione del popolo insorto, che aveva continuato per quasi un anno a esercitare il potere, avocando a sé una parte delle funzioni della sovranità: "le Senat regissoit comme à l'ordinaire toutes les affaires etrangeres, et il abandonnoit à cette assemblée tout l'interieur de la republique" (p. 65). E un episodio sul quale sappiamo, in effetti, assai poco: la storiografia tradizionale operava con altre chiavi prospettiche. Quel che il G. voleva spiegarsi, e che resta ancòra da spiegare, era come mai "le peuple qui avoit pris ce gout de l'autorité supreme, se degouta bientot de ses propres chefs, laissa tomber peu à peu son assemblée, et rendit les renes du gouvernment à la noblesse sans dispute et sans conditions". L'alleanza delle classi popolari con la borghesia, creatasi spontaneamente al momento della lotta insurrezionale, non era ancora matura evidentemente sul piano politico (cfr. [Salvatore Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in] "Movim. operaio e socialista in Liguria", VII, [n. 3-4, luglio-dicembre] 1961, [pp. 205-84, p.] 206 sgg.). Invogliato da questi discorsi, il G. volle allargare la sua conoscenza della storia interna di Genova, e prese a leggere la Histoire des révolutions de Gênes del de Bréquigny (1750); ma ne fu deluso: "dans une histoire politique j'aurois voulu des idées plus exactes de la constitution de Gènes, de ses loix et de ses moeurs, (p. 81). Non aveva trovato quel che cercava.

14. Se Genova gli ricordava Berna, la situazione politica di Lucca gli richiamerà alla mente, qualche mese dopo, quella di Ginevra: "L'industrie fait leur richesse, et leur force se tire de leur foiblesse mème, qui leur concilie la bienvieillance de tout le monde sans exciter l'ambition de personne" (pp. 225-226). Gli sembrava un paese bellissimo, perfettamente coltivato, "et qui porte tous les caractères de la liberté et de l'abondance" (p. 225). Ma si rammaricherà di non averne potuto studiare, come desiderava, la costituzione politica ("j'aurois voulu passer quelque tems à Lucques pour etudier la constitution de l'Etat"). Venezia, visitata alla fine del viaggio quando il giornale da tempo taceva, par bene che non gli abbia ispirato considerazioni politiche, probabilmente per la mancanza assoluta d'informatori: "Here are no English, and all communication with the natives of the place is strictly forbid"), (LL, I. 193). All'origine del "disappointment", anzi "disgust" veneziano metterei anche questa ragione. Tra le repubbliche italiane, soltanto Genova egli ebbe dunque agio di studiare quanto voleva. Non ne trasse certamente l'idea di una comunità perfetta e felice. Tra l'altro, non gli era sfuggita la durissima condizione d'esistenza dei "villageois" liguri. Ma lo slancio pietoso - quel "mouvement d'humanité" che sempre si manifestava in lui in presenza dell'uomo oppresso e degradato - si appagò, questa volta, della constatazione ch'essi non avevano coscienza alcuna della loro infelicità (p. 70). Del resto, egli non fu mai tra quei "novateurs trop hardis" che volevano "eclairer le peuple sur de certains objets ou l'erreur fait son bonheur" (M.G. 134).
Il 6 giugno contavano d'imbarcarsi per Lerici, ma il vento contrario impedì la partenza: passeranno a Genova, loro malgrado, ancòra sei giorni, rodendosi nell'inerzia forzata: "Nous passames dans l'attente, l'impatience, l'ennui et la mauvaise humeur, incapables de nous fixer à rien, n'ayant plus rien à voir, nous avons perdu cette portion de notre existence pour les plaisirs, les etudes et les voyages" (p. 86). Non che la società genovese fosse noiosa; tutt'altro: "La societè de Gènes seroit certainement fort agreable" (p. 84). Ma aveva troppe cose ancòra da vedere. Alla fine, stanchi del contrattempo, i due si risolsero a raggiunger la Toscana per la strada di Piacenza. Il paese tra Piacenza e Bologna gli parve il più "delicieux" che mai avesse visto: aveva l'impressione di traversare "un beau jardin" tagliato da un viale a perdita d'occhio. La campagna intorno, più fertile di quella lombarda, e senza il suo aspetto umido e paludoso (pp. 91-92). In sette giorni - tra il 12 e il 19 - visitano Piacenza, Parma, Reggio, Modena; traversano Bologna senza fermarsi (vi sosteranno nel viaggio di ritorno), e giungono la sera del 19 a Firenze. Dovevano fermarvisi due mesi: vi trascorreranno l'estate intera. Ne ripartiranno il 22 settembre alla volta di Roma.

15. Le giornate fiorentine saranno egualmente divise tra la vita di società e la visita a gallerie e monumenti. Gli Uffizi da soli lo impegneranno per quasi tutto il mese di luglio: in totale quattordici visite. Intanto porta avanti lo studio della lingua e la lettura dei classici italiani: mai un accenno però, in tutto il diario, se non generico a questa sorta di occupazioni[21]. Frequenta la società fiorentina, ma preferisce la piccola colonia inglese. Ogni volta che qualcuno dei suoi amici inglesi si allontana da Firenze, anche per poco tempo, è costernato (p. 152, 206). È deluso infatti, e non se lo nasconde, del languore della società fiorentina: "nous ne trouvons pas dans Florence tous les agrèmens auxquels nous nous etions attendus" (p. 152). La sua preoccupazione costante: anche in mezzo agli studi più seri, il G. non vuol privarsi degli "agrèmens" della vita. Che consistevano, per lui, il più delle volte in una conversazione intelligente e briosa, e in giochi di società. Voleva credere che il tedio fiorentino non avesse altra causa che la propria ignoranza della lingua; ma insomma non vedeva l'ora di ripartire. Eppure non avrebbe potuto trovar per Firenze guida migliore, e più servizievole, di sir Horace Mann: oltre vent'anni di soggiorno nella città ne avevano fatto quasi un fiorentino. Il Gibbon sarà sinceramente grato, per le molte gentilezze usategli, a quell'uomo degnissimo, ma (così aveva lasciato scritto al primo incontro) "un peu renfermè dans un cercle de bagatelles importantes" (p. 120). Che è una caratterizzazione indimenticabile. Tra le passeggiate fiorentine, quella di porta S. Gallo non gli era piaciuta per nulla: "C'est le rendez vous general et ennuyeux de la noblesse fiorentine qui y vient prendre de l'air ou plutot de la poussiere" (p. 119). Molto più belle come sito gli erano parse le Cascine. Ma non erano alla moda: vi si ritrovavano solo gli inglesi (p. 122).
La cultura fiorentina del tempo lo interessa poco. Avrà tuttavia occasione di avvicinare due personaggi in vista di quel mondo: il vecchio Lami e Raimondo Cocchi. Fu il Lami stesso che, prevenuto dal Bartoli, venne a cercarlo. La sua apparizione, la mattina del 27 giugno, lasciò i due amici esterrefatti: non potevano immaginarsi figura più sordida, più ripugnante (pp. 122, 254). Lo rivedrà una sola volta, allorché andrà a visitare la Riccardiana (p. 154). Vide, invece, più volte il Cocchi. Lo conobbe, sembra, in una compagnia d'inglesi, il 28 luglio; ma gli fece così fiacca impressione da neppur nominarlo (p. 187 n. 2). Lo rivide necessariamente quando volle visitare il gabinetto delle medaglie: il Cocchi era "antiquario nella R. Galleria". Ma non amava le medaglie, anzi le disprezzava: amava assai più la professione di medico. La sua indifferenza e addirittura estraneità al museo che era affidato alle sue cure, le negligenze, i modi svagati irritarono fortemente il Gibbon (pp. 193, 194, 204). Anche l' "esprit" che tutti gli riconoscevano era di un genere che non gli piaceva: "Au reste l'air gredin, les manieres presque extravagantes et les propos singuliers annoncent un philosophe, si l'on veut distinguer un philosophe d'un homme raisonnable" (p. 193). Si trattava, anche ai suoi occhi, di una incompatibilità istintiva, di un'avversione irreducibile: "je ne lui trouve point le genie qu'on lui attribue; c'est peut-etre parce que les notres ne sont pas analogues" (p. 197). Osservandolo meglio, vale a dire con più malignità, finì per rinvenire in lui addirittura sentimenti bassi e mancanza di dignità: "J'entrevois de l'extravagance dans ses idées, de l'affectation dans ses manieres et de la bassesse dans ses sentimens. Il se plaint à tout moment de sa pauvretè. Il connoit peu la veritable dignitè de l'homme de lettres" (p. 204). Non gli sembrava di averne già detto male abbastanza. Peccato che il G. si tenga così nel vago a proposito delle "stravaganti" idee del suo interlocutore: tanto più che l'ultima conversazione, da quanto ne lascia intravedere, aveva contenuto politico, toccava anzi aspetti della vita politica inglese. Si sa che il Cocchi era ancor più anglofilo di suo padre; ed è ben nota la sua amicizia per Paoli e il suo attivo aiuto alla causa còrsa[22]. Alcuni elementi del ritratto gibboniano - quell'appassionatezza per le proprie idee, quell'insoddisfazione, quell'inquietudine - acuiscono la curiosità. Su quest'uomo singolare si vorrebbe, conveniamone, saperne di più.
Un'altra figura notevole del Settecento toscano era il Niccolini: basti ricordare quale stima avesse fatto di lui il Montesquieu. Il G., dalla maniera come ne discorre, non solo si curò poco di conoscerlo, ma fors'anche lo evitò: "Un certain abbè Nicolini fameux bel esprit et tyran de la Crusca et bavard impitoyable [...] " (p. 211). A Pisa neppure fece visita alla celebre università. L'unica personalità del mondo culturale fiorentino tra Sei e Settecento che lo incuriosì e lo lasciò ammirato fu il Magliabechi, quando vide la sua biblioteca e maneggiò il suo immenso carteggio. Tremiladuecento corrispondenti: c'era di che riempire tutti gli istanti di una vita ordinaria (p. 212). Si augurava che qualche uomo abile facesse una scelta giudiziosa in quel "repertoire immense": avrebbe arricchito la storia letteraria del secolo passato. Egli non sapeva, e nessuno si curò di dirglielo, che una impresa del genere aveva già compiuto, vent'anni prima, il Targioni[23].
Anche la situazione interna, politica della Toscana lo interessava mediocremente: divenuta dominio austriaco, era governata con i soliti sistemi dispotici propri di quel paese. Gli cagioneranno indignazione, non sorpresa - durante il palio - le violenze poliziesche su i cittadini: "Les coups de baton que les grenadiers faisoint pleuvoir sur la multitude, et surtout trois ou quatre coups de canne que l'officier a donnè à un bourgeois des plus etoffès nous ont fait prendre quelque idée du despotisme autrichien". L'indifferenza del popolo faceva pensare che fosse abituato a simili maniere (p. 129). Più avanti farà tuttavia l'elogio dell'opera del Richecourt, soprattutto della sua coraggiosa politica in campo ecclesiastico: questi aveva osato "briser le joug" dell'inquisizione, di quel "tribunal de sang" che in Toscana era severissimo, sicché sussisteva appena un'ombra di esso (pp. 213-214); aveva concluso un trattato vantaggioso con Roma, e limitato il numero e la ricchezza dei conventi con una legge su le manimorte; aveva aperto la grande strada per Bologna; e così via (p. 221). Ben diverso uomo dunque dall'attuale capo della reggenza: il maresciallo Botta, unicamente preoccupato di inviare molto denaro a Vienna e che in sette od otto anni di governo "n'a rien fait pour le bien du pays" (ivi). Dei due, il primo aveva "dignement representè" il suo sovrano. Della parte che nell'opera del Richecourt aveva avuto la classe politica indigena, della sua maturità a cooperare con il potere centrale quand'esso, qualche anno dopo, darà il via alle riforme (Neri, Rucellai, Bertolini, Pagnini, Tavanti ecc.); insomma di tutto quel lavorio di preparazione intellettuale e amministrativa che precede l'età leopoldiana, come pure dei problemi che le riforme dovranno affrontare il G. non si accorse. L'unica volta ch'egli osservò con curiosità il popolo di Firenze non fu per rendersi conto dei suoi problemi: fu in occasione del Palio dei Berberi, per studiare la realtà di una grande emozione collettiva: "C'est une fureur momentanée qui s'empare de tous les esprits; et depuis les jeux des anciens c'est peut-etre le seul spectacle [...] de tout un Etat reuni pour s'amuser par les soins et sous les yeux de ses magistrats" (p. 128). È vero ch'egli dava a questa manifestazione un contenuto vagamente politico, che la rendeva ai suoi occhi molto più "maestosa" delle corse ippiche inglesi: "On voit que les Florentins cherissent cet usage comme le seul vestige de leur liberté ancienne" (ivi). Sia pure: eravamo però in diritto di aspettarci dal G. qualcosa di più che un'osservazione di folklore. Nel gennaio 1765, la miseria incredibile della popolazione di Napoli lo obbligherà infine a constatare la gravità delle conseguenze sociali della carestia degli anni 1763-1764 - una delle più gravi crisi economiche dell'ancien régime, e che provocherà com'è noto il gran dibattito su la liberalizzazione del commercio granario (LL, 184, 191). Firenze non era Napoli; ma in Toscana come altrove, le conseguenze di quella crisi si erano fatte duramente sentire. La volontà di riforma si preciserà e si metterà in moto, di lì a due anni, proprio mentre durava ancòra quell'atmosfera di disagio, per rimuoverne le cause profonde. Ma il G. non percepì né il disagio né l'eco delle discussioni che da esso nascevano. Nel Journey Pompeo Neri appare nelle funzioni molto decorative di membro del consiglio della reggenza, seduto accanto allo scranno vuoto dell'imperatore durante la "festa degli omaggi"; e, poco dopo, annunziante alla folla silenziosa la vittoria immancabile del solito vecchio cavallo inglese (pp. 125, 127).
Solo nel caso di Livorno si fece più attento: ma era un caso particolarissimo, che lo colpiva proprio per la sua eccezionalità. Lasciata Pisa - una città morta, nonostante le provvidenze dei granduchi - gli si aprì l'animo a veder quella "jolie petite ville". L'eccesso di popolazione, stretta in poco spazio, le dava un'aria ancòra più viva, animata, eccitante. Grazie al regime di portofranco, le persone vi godevano di una "liberté entiere"; gli stranieri di ogni nazione potevano viverci "dans l'exercice de leur religion et sous la protection de leurs propres loix". Soprattutto, era la "veritable terre de Canaan" per gli ebrei, "qui y eprouvent des douceurs inconnues dans le reste de l'Italie" (p. 230). Gli interessi commerciali vi avevano quasi fatto tacere "l'esprit convertisseur" della chiesa di Roma (p. 231). Ma recentemente la libertà di coscienza, che è di una "nature si delicate et jalouse", era stata violata proprio a danno della nazione inglese (ivi). Toccava al governo tutelare gelosamente il principio di tolleranza: "C'est surtout dans un pays où il n'est pas etabli dans l'esprit du peuple que le gouvernement lui doit une attention sans relache". Gli ultimi tumulti anti-ebraici confermavano che l'odio religioso e contro gli stranieri covava sempre sotto le ceneri e che esso non attendeva che "la permission" per divampare. Ma la più grave minaccia alla "libertà" di Livorno era stata la sua trasformazione in piazzaforte: una città non può essere nello stesso tempo portofranco e piazzaforte: "Les deux esprits sont si fort incompatibles"; "Le despotisme d'un gouverneur" si allea malamente "avec la douce independence d'un commerçant" (p. 231).
Non si può chiudere il resoconto delle giornate fiorentine del G. senza ricordarne ancora due episodi: due momenti "commossi". Il primo è la visita a palazzo Riccardi: "Je n'ai pû entrer sans une reverence secrette dans ce berceau des arts, dans une maison d'où la lumière s'est repandue dans tout l'occident, où sous les yeux d'un Laurent le Magnifique, un Politien, un Lascaris, un Gaza, un Pic de la Mirandole, un Marsile Ficin faisoient revivre les grands hommes de la Grece et de Rome pour instruire leurs contemporains" (p. 204). Un po' di questa intima emozione vibrerà ancora, oltre vent'anni dopo, in uno degli ultimi capitoli della History, cap. LXVI, quando rievocherà appunto, con lo stesso fervore. il "revival of learning" della Firenze medicea. L'altro momento è la visita alle tombe di Santa Croce. Anche questa volta il G. si raccoglie nella meditazione, si fa pensoso e solenne: "ce n'a pas etè sans un respect secret que j'ai considerè les tombeaux de Galilée et de Michel-Ange, du restaurateur des arts et de celui de la philosophie. Genies vrayment puissans et originaux, ils ont illustré leur patrie mieux que les conquerans et les politiques. Les Tartares ont eu un Jenghiz Khan, et les Goths un Alaric, mais nous detournons nos yeux des desertes ensanglantès de la Scythie pour les fixer avee plaisir sur Athenes et sur Florence" (p. 213). Lo storico aveva pronunciato, come dire, la sua professione di fede. Ma nella History - val la pena di notarlo - Gengis Khan apparirà quale maestro di tolleranza all'Europa cattolica, come un anticipatore delle "lessons of philosophy": per l'esattezza, della legislazione religiosa che il Locke aveva disegnato nelle Constitutions of Carolina (cap. LXIV). Sarebbe istruttivo ricercare in giudizi espressi occasionalmente nel diario il germe, la prima formulazione di più meditati giudizi della History. Mi limiterò a un caso solo: quello su Nerone. "Dois je le dire & le dire ici? - scrive nel giornale fiorentino - Neron ne m'a jamais revoltè autant que Tibère, Caligula ou Domitien. Il avoit beaucoup de vices, mais il n'etoit pas sans vertus. Je vois dans son histoire peu de traits d'une mechancetè etudiée. Il etoit cruel mais il l'etoit plutot par crainte que par gout" (p. 168). Si apra la History al cap. VI: "In the first and golden years of the reign of Nero, that prince, from a desire of popularity, and perhaps from a blind impulse of benevolence [...] ". La continuità dall'uno all'altro giudizio è evidente.

16. Non si può allungare all'infinito questa nota: ma bisogna pur dire qualcosa di una lunga digressione - la più importante - del diario di questo periodo (pp. 159-165). Occasionata dalla lettura dell'introduzione e di uno dei capitoli finali della Histoire de Danemarc di P. H. Mallet, riprendeva il filo di meditazioni cominciate a Losanna sulla religione dei primitivi scandinavi (JB, 214-216). Cercava tra l'altro di spiegarsi perché i popoli nordici avessero rifiutato con tanta ostinatezza il cristianesimo mentre i loro fratelli stabiliti dentro i confini dell'impero gli si erano arresi con tanta facilità. Tenterà una spiegazione francamente materialistica, anche se d'un materialismo raffinato: trattandosi non di processi razionali, ma di oscure emozioni vitali, il clima, il modo d'esistenza, le sollecitazioni ambientali spiegavano tutto (pp. 163-165). La sociologia religiosa del G. è già formata (cfr. History, capp. XV e XXXVII). Le considerazioni su Odino, "the Mahomet of the north", istitutore in Scandinavia di una religione "adapted to the climate and to the people" saranno riprese nella loro sostanza nel cap. X della History. Ma nel 1787, componendo l'ultimo capitolo, si ritratterà: "I take this opportunity of declaring that in the course of the twelve years, I have forgotten, or renounced, the flight of Odin from Azoph to Sweden, which I never very seriously believed". E concluderà con una nota pessimistica sulla possibilità di una esatta conoscenza storica delle antichità germaniche: "The Goths are apparently Germans; but all beyond Caesar and Tacitus is darkness or fable in the antiquities of Germany" (History, LXXI, n. 45).

17. Nonostante che il G. dicesse di non esser riuscito a legare con l'ambiente dei salotti fiorentini, e ostentasse anche indifferenza e disprezzo verso quel mondo (pp. 221-222), alla fine, con il prolungarsi del soggiorno, riuscì pure a farsi, come lui diceva, "une inclination". Si trattava di M.me Gianni nata Medici: una principessa (p. 223). Era, dal punto di vista del diario, una cattiva inclinazione: per venti giorni non lo riaprirà più. Quando lo riprenderà, il 22 settembre, al momento di lasciar Firenze, si mostrerà ben deciso a non lasciarsene più tiranneggiare (p. 224). Attraverso Lucca, Pisa, Livorno, Siena (ancora un monumento gotico, ma bello questa volta: la cattedrale) e Viterbo entrò il 2 ottobre nella campagna romana. Già cominciava a smaniare; ma dopo ponte Milvio entrò "dans un songe d'antiquitè" ininterrotto fino all'incontro con i doganieri (p. 235). Il G. ci ha raccontato altrove l'eccitazione straordinaria di quella memorabile notte: ancora venticinque anni dopo si meravigliava che un uomo di tempra fredda come lui avesse potuto, in quell'occasione, accendersi di un tal fuoco d'entusiasmo (AA, 267). Cominciò il giorno dopo una frenetica visita alle rovine. Quella "intoxication" durò parecchi giorni. Poi cominciò l'investigazione calma e minuta con la guida dell'antiquario scozzese Byers. L'ipotesi del Keynes - che il Gibbon procedesse nella sua esplorazione "doubtless assisted by Tosi's description" - è da scartare (G.'s Library, cit., 19). Non tanto perché di Lo stato presente della Corte di Roma il Gibbon possedeva un'edizione del 1765 (ce n'è una del 1764), bensì perché l'opera del veneziano era una descrizione non delle rovine di Roma, ma delle cerimonie della corte pontificia. E il Gibbon, si sa non la volle visitare. Che ne era intanto del diario? Libro dell'ordinaria amministrazione delle proprie giornate, non aveva potuto tener dietro a quel fiotto di emozioni troppo impetuose e tumultuose. Solo due mesi dopo vi segna questa laconica annotazione: "J'ai fini avec Byers mon antiquaire" (p. 238). Avrebbe ora rivisitato da solo le cose più importanti. E con un brusco "à propos parlons un peu anglois" torna alla lingua natale. Le notazioni si fanno sempre più secche e svogliate, molte pagine restano bianche: poco dopo, stanco del tutto, lo tronca. Era ormai scoccata la scintilla che gli aveva rivelato il suo destino di storico: la ricerca di sé era finita.

18. Se il diario non dirà più nulla, parlerà al suo posto la History: nell'ultimo capitolo si leggerà non solo una descrizione delle rovine di Roma nel secolo XV (era un ritorno - come ha osservato il Falco - al principio ideale della History, alle sorgenti sentimentali della sua ispirazione) ma un ben preciso giudizio, e tutt'altro che benevolo, del governo ecclesiastico della città (cap. LXXI). Una breve escursione a Napoli nel gennaio del 1765 gli metterà sotto gli occhi "the wretched state of this fine country": lo spettacolo di quegli "oppressed inhabitants" lo rattristerà (LL, 1, 191). E parlerà con sarcasmo del quindicenne Ferdinando: "la farsa del re fanciullo" (ivi). Alla fine di marzo lascerà Roma e percorrendo la via Emilia lungo l'Adriatico sarà in aprile a Venezia. Anche questa parte della penisola gli parve florida e popolosa: una nuova smentita al paradosso di Montesquieu, che l'Italia moderna fosse un deserto (AA, 268; Persanes, CXII). Ma ormai l'interesse del viaggiatore s'era raffreddato: "After Rome has kindled and satisfied the enthusiasm of the Classic pilgrim, his curiosity for all meaner objects insensibly subside" (AA, 406). Conosciamo la sua linea di marcia: Padova, Vicenza, Verona, Moncenisio. Il 29 maggio scrive al padre da Lyon. Il viaggio italiano, che lo aveva occupato un anno intero, era finito: rientrava in patria "enriched with a new stock of images and ideas" (AA, 302). Quelle immagini (che, a sentir lui, erano sempre vive nel suo ricordo: "are still present to my imagination", AA, 406), quelle idee lievitarono nella costruzione del suo magnum opus. Dei suoi meriti e dei suoi limiti come osservatore della realtà italiana ho già detto. Ma val la pena di ricapitolare. Se vide talvolta acuto nella trama delle situazioni ambientali, gli sfuggirono però le forze di rinnovamento, gli elementi creativi di una nuova realtà sociale e politica che pur già si manifestavano all'interno dei vecchi stati e che spesso erano messi in movimento dalla diffusione di quella filosofia, di quella light di cui egli pure era adepto convinto. Poteva darci il quadro di un'Italia alla vigilia delle riforme; ma di quella spinta che da ogni parte montava non seppe rendersi conto. I suoi musei, i suoi benedetti salotti e altri accidenti pratici lo distolsero o lo tennero lontano dalle correnti più vive del pensiero italiano dell'epoca. Ma più ancora gli fece schermo la sua concezione dei lumi. L'aveva pur detto: "éclairer le peuple", eccitare gli uomini a scuotere "le joug de l'autorité", impegnarsi in grandi battaglie politiche non era affar suo.

Note

* Gibbon's Journey from Geneva to Rome. His Journal from 20 April to 2 October 1764, ed. by Georges A. Bonnard, London-Edinburgh-Paris-Melbourne-Johannesburg-Toronto and New York 1961, Thomas Nelson and Sons Ldt, pp. XXIV, 268. Per comodità userò in seguito le seguenti abbreviazioni: AA = The Autobiographies of E. G., ed. by J. Murray, London 1896; JA = G.'S Journal to January 28 th, 1763. My Journal I, II & III and Ephemerides, ed. by D. M. Low, London 1929; JB = Le Journal de G. à Lausanne, par G. Bonnard, Lausanne 1945; LL = The Letters of E. G., ed. by J. E. Norton, London 1956; M.G. = Miscellanea Gibboniana, Lausanne 1952; M.W. = Miscellaneous Works, Basil 1796 (tutte le volte che adopererò l'ed. londinese del 1814 avrò cura di indicarlo). Le citazioni con la sola indicazione della pagina sono tolte dal Journey. Le citazioni francesi sono riprodotte nella forma grafica originale. Mi sono soltanto permesso di modernizzare l'uso delle maiuscole.

[1] Agli autori citati dal Bonnard va aggiunto il Giarrizzo, che nella sua ottima monografia gibboniana ha egli pure riprodotto qua e là qualche frammento del Journey: cinque, se non ho contato male (G. GIARRIZZO, E. G. e la cultura europea del Settecento, Napoli 1954, 10, 50 n. 113, 183 n. 16 , 188-190).

[2] Il Mazzei, a Londra in questi anni, aveva iniziato l'insegnamento per danaro (al prezzo di tre ghinee per dodici lezioni) della sua lingua natale per esortazione proprio del Maty, che gli aveva mostrato che in Inghilterra "non era stimato l'uomo ozioso". "Mi lasciai persuadere - scrive il Mazzei - e ben presto conobbi che non poteva insegnare a tanti, e dovei limitarmi agli amici dei miei amici" (F. MAZZEI, Memorie, Lugano 1845, I, 177-178). Di solito il Mazzei sceglieva per la lettura testi poetici (al Maty aveva fatto leggere l'Ariosto). La scelta del Machiavelli fu probabilmente desiderata dal Gibbon. Il Mazzei menzionò alcuni suoi allievi illustri (Richard Neave, Mylady Talbot). Non fece però il nome del Gibbon. Il basso numero delle lezioni non gli permise evidentemente di identificare, a distanza d'anni, l'antico allievo nell'acclamato autore della History.

[3] Aveva tradotto l'importante Essay on criticism. Nel 1777 tradurrà la Storia d'America del Robertson, versione sfuggita al Bonnard.

[4] Dello scritto del Gravina si ricorderà quando stenderà l'ultimo capitolo della History. Ma avanzerà il dubbio sulla sua autenticità: "[...] ascribed (I believe falsed) to the celebrated Gravina", (History, LXXI, n. 35).

[5] Parlando del Petrarca serive: "Whatever may be the private taste of a stranger, his slight and superficial knowledge should humbly acquiesce in the taste of a learned nation; yet I may hope or presume that the Italians do not compare the tedious uniformity of sonnets and elegies with the sublime compositions of their epic muse, the original wildness of Dante, the regular beauties of Tasso, and the boundless variety of the incomparable Ariosto" (History, LXX). Del Tasso - e del suo "fabulous hero", "the brave and amorous Rinaldo" - il G. discorre più volte nelle note e anche nel testo del cap. LVIII, narrando della prima crociata. Al proposito cita anche l'Ariosto (0. F.,111, 30). Una prova, mi pare, di quale attento lettore egli fosse del poema ariosteo.

[6] La presenza di queste opere barettiane nella libreria del G. mi induce ad attribuirgli il resoconto di Manners and Customs of Italy (London 1768), apparso nel secondo (ed ultimo) volume dei "Mémoires littéraires de la Grande-Bretagne", il periodico che il G. redigeva con il Deyverdun ("Mémoires littéraires de la Grande-Bretagne pour l'année 1768", Londres MDCCLXIX, 36-57; V. P. HELMING, E. G. and Georges Deyverdun Collaborators in the "Mémoires, littéraires de la Grande-Bretagne", in: PMLA, XLVII, 1932, 1047). La rarità dell'opera (il British Museum possiede solo il primo volume) mi ha impedito di esaminare il contenuto dell'articolo suddetto. Non è da escludere che il G. avesse incontrato il Baretti a Venezia. Il Baretti ammirava, da parte sua, in G. lo scrittore: "La [langue] anglaise est admirable - scriveva, si badi, nel 1777 - chez le docteur Johnson et chez monsieur Gibbon" (G. Baretti, Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari 1911, 284).

[7] Oltre alle Rivoluzioni d'Italia (1769-1770), il G. possedeva anche il Discorso sopra le vicende della letteratura nell'edizione di Glasgow del 1763, che aveva qua e là postillato (G.'s Library cit., 109). Nel Journey il Denina non è nominato ed è improbabile che il G. l'abbia incontrato a Torino. Forse fu dono del Dutens, buon amico dell'abate. Nell'ed. di Glasgow il Denina aveva aggiunto al suo Discorso un suggestivo confronto tra la contemporanea storiografia scozzese e la grande storiografia italiana cinque-seicentesca: "La Scozia letterata quasi mi richiama alla memoria l'Italia a' tempi di Guicciardino" (Riformatori lombardi piemontesi e toscani, a c. di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, 705). Il G. congiungerà egli pure e metterà a confronto le due tradizioni storiografiche: Machiavelli e Guicciardini, con i loro successori Sarpi e Davila "were justly estemeed - scriverà - the first historians of modern languages, till, in the present age, Scotland arose to dispute the prize with Italy herself" (History, LXX).

[8] Il nome del Muratori e l'importanza della sua opera di raccoglitore di testi medievali erano già noti al G. diciottenne, che ne aveva sfogliato le opere nell'abbazia di St. Urbain presso Lucerna (M.G., 48). Ma non mi risulta che l'avesse preso a studiare prima del suo viaggio italiano. A Parma aveva visitato la biblioteca del granduca, guidato da F. A. Zaccaria successore del "fameux" Muratori nella carica di bibliotecario: "s'il n'a pas l'erudition de ce grand homme (quoiqu'il me paroisse très instruit) fait honneur au choix du prince par la politesse avec laquelle il recoit dea Etrangers" (p. 105). Ma è solo a Firenze che prenderà a leggere una sua dissertazione sulla tavola di bronzo di Velleia, apparsa nel t. V (1748) delle Symbolae Litterariae del Gori. "M. Muratori - scriverà - n'est point un simple Erudit". Tuttavia, gli sembrava che non avesse tratto da quella preziosa iscrizione tutte le indicazioni che si poteva trarne per illuminare la situazione storica ed economica del principio del sec. II d. C. (pp. 121-122, 129). Qualche tempo dopo riuscì a consultare il Novus Thesaurus, e giudicò questa raccolta di iscrizioni utilissima per i suoi "desseins" sulla geografia dell'Italia (p. 221). Come si vede, è l'opera del Muratori epigrafista che per ora suscita il suo interesse. Fu probabilmente durante i mesi romani ch'egli si familiarizzò con il medievista, al quale rese, in una nota del cap. LXX della History, un omaggio dei più fervidi chiamandolo "my guide and master in the history of Italy": in tutte le sue opere egli si era mostrato "a diligent and laborious writer, who aspires above the prejudices of a Catholic priest".

[9] "The history of this edition is obscure" (J. E. Norton, A Bibliography of the Works of E. G., Oxford Univ. Press 1940, 130). Innanzi tutto, vi sono ancòra incertezze sulla persona del traduttore o, meglio, dei traduttori. Il Bertolotti nella prefazione alla sua traduzione della History (ma è il caso di ricordare che egli fece opera di traduttore originale solo per i capp. XLII-LXXI, limitandosi a emendare per i primi 41 capitoli la traduzione pisana) asserì che il primo volume (capp. I-VII) era stato tradotto da un Gonnella, e i voll. II-X dal Foggi (E. G., Storia, I, Milano, 1820, X). Tale affermazione è creduta vera ancòra dal Mccloy (S. T. McCloy, G.'s Antagonism to Christianity, The Univ. of North Carolina Press 1933, 299 n. I). La diligente Norton ha invece trovato, nell'esemplare conservato al B.M., una lettera firmata G. P. Vinssen (probabilmente il libraio presso il quale l'esemplare fu acquistato) che attribuisce la traduzione in parte al Fabroni in parte al Foggi (A Bibliography cit., 131). Che l'impresa facesse capo al Fabroni era detto, del resto, esplicitamente dal Bertolotti. Gli editori furono non tre, come crede la Norton, ma quattro: Carlo Ginesi (voll. I-III), Jacopo Grazioli (IV-VIII), Luigi Raffaelli (IX), Gaetano Mugnaini (X). Tolgo la notizia riguardante il tomo X da un lungo estratto apparso sul "Giornale" del Fabroni: "Continua dunque [...] il Traduttore Italiano in questo tomo X il suo lavoro, intorno al quale v'è da osservare una variazione di metodo quanto alla confutazione di quelle massime ed espressioni dell'Autore, che son contrarie alla dottrina e al decoro della Chiesa Cattolica, verso la quale l'eterodosso Scrittore dimostrasi mal prevenuto, aspro, ed ingiusto" ("Giornale de' Letterati", T. LXXXVI, Pisa 1792, 278-279). E dava due campioni delle note correttive suddette: la nota h e la i (ibid., 284-289). Il volume fu dunque stampato e cominciò pure a essere diffuso, come prova la lettera scritta dalla principessa Maria Beatrice al Fabroni, il 17 settembre 1792: "La ringrazio della sua bella traduzione del tomo decimo del Gibbon, che con molto piacere ho ricevuto unitamente all'altra opera, e che aspettava con una impazienza corrispondente alla soddisfazione con cui ho letto gli antecedenti volumi, ed alla stima particolare che fo dell'eccellente scrittore" (A. Fabroni, Vitae italorum doctrina excellentium, XX, Lucae, 1805, 94). Tutto ciò intacca, ma non distrugge del tutto gli argomenti della Norton, la quale avendo fatto invano ricerca del suddetto volume, ha concluso che probabilmente - se mai fu stampato - ne fu vietata la circolazione. È un fatto che il suddetto tomo ebbe diffusione più limitata degli altri: il B. M. possiede solo i primi nove volumi, e tanti ne possedeva il Gibbon (G.'s Library cit., 134). Anche contemporanei bene informati ignoravano l'esistenza del tomo in questione: " [...] Del Gibbon non vi sono che nove tomi tradotti e stampati in Pisa [...]" (G. Perini a C. Rosmini, Firenze 7 giugno 1794, in: L'Epistolario ossia scelta di lettere inedite, Venezia 1795, P. 1, Num. XLII, 336).

L'edizione della Storia che fu stampata in Pisa a partire dal 1789 "a spese di Silvestro e fratelli Gatti stampatori in Venezia" in dodici volumi (dedicata a Pietro Donà) altro non è che una ristampa, forse abusiva, della prima cdizione pisana (Norton, Bibliography cit., 132-133: "Probably the Gatti edition is a piracy"). Il vol. XII apparve nel 1794. Un altro problema sollevato dalla versione Fabroni riguarda la paternità delle Riflessioni aggiunte ai tomi V e VII usciti nel 1783. La Norton avanza cautamente l'ipotesi che fossero opera dello stesso Fabroni (ibid., 131; AA, 322 n. 44). L'aggiunta di questo antidoto al veleno dell'originale era una tempestiva misura prudenziale per salvare l'edizione: nello stesso 1783 la History venne infatti posta all'Indice. Ancòra: che il Saggio di confutazione stampato anonimo nel 1782 e aggiunto al t. III, impresso - ma non diffuso - due anni prima dal Ginesi) fosse opera dello Spedalieri è detto esplicitamente dallo Spedalieri stesso: "L'Opera [la Confutazione] già da due anni matura, uscir dovea dalle stampe di Pisa unitamente a tutta la Storia del Gibbon tradotta in Italiano. Esce ora a Roma sotto gli occhi miei; ma per disimpegnar la mia fede, fui già costretto a consentire che se ne imprimesse ivi anticipatamente un brevissimo estratto a lato de' due capi del Gibbon [...] " (Confutazione dell'esame del Cristianesimo fatto dal Signor Edoardo Gibbon [...]. Roma 1784, 1, 20). Poco importa che fosse stato l'autore stesso o un'altra persona a stender l'estratto ("It [Saggio] is an epitome of Spedalieri's Confutazione [...] but it is not clear whether he wrote himself or not"). Mi pare invece di maggiore interesse notare che il Gibbon conosceva il nome dell'autore del Saggio; e poiché non poteva trattarsi di una sua congettura suggerita dalla constatata affinità tra il Saggio e la Confutazione, essendosi egli rifiutato di leggerla, mi sembra ragionevole supporre che il Fabroni stesso o qualche altro suo corrispondente a parte dell'edizione glielo avesse rivelato (AA, 322 n. 44). Del tutto fantomatica è un'edizione 1779 del Saggio ("Riv. d'Italia", 1903, 793; contra Norton, 132, 2,38).

In conclusione, il Fabroni riuscì - malgrado le difficoltà - a far apparire con una certa regolarità 'e continuità la sua traduzione: vol. I, 1779 (capp. I-VII); II 1779 (VIII-XIII); III, 1780 (XIV-XVI); IV, 1782 (XVII-XIX); V, 1783 (XX-XXIII); VI, 1783 (XXIV-XXVI); VII, 1783 (XXVII-XXX); VIII, 1785 (XXXI-XXXIV); IX, 1786 (XXXV-XXXVIII); X, 1792 (XXXIX-XLI). La traduzione dei voll. II e III della History (apparsi nel 1781) fu completata, dunque, tra il 1782 e il 1786. Soltanto quella del vol. IV, uscito nel 1788, fu iniziata con un certo ritardo, nel 1792, e non fu continuata. Ma se si pone mente al fatto che la traduzione francese dei voll. Il e III riprese solo nel 1789 si riconoscerà tutto il merito del Fabroni. Sarebbe perciò il caso di riprendere e allargare le indagini intorno a qnest'impresa editoriale. Le due edizioni pisane non sono però le uniche traduzioni italiane della History; qualche mese prima che cominciasse a uscire l'edizione Fabroni s'era cominciato e stampare a Losanna, cioè a Firenze (cfr. "Giornale de' Letterati", T. XXXIV, Pisa 1779, 169) una versione condotta però non sull'originale ma sulla traduzione francese del Septchenes; versione che si arrestò al III volume, cioè al cap. XVI. La causa dell'interruzione è ovvia: era stato tradotto tutto quanto il G. aveva sino allora pubblicato. Quando nel 1781 videro la luce i voll. II e III della History (ma la trad. francese apparve solo nel 1789) il successo della trad. Fabroni sconsigliò probabilmente una ripresa dell'iniziativa. Poiché la Norton si rammarica di non aver potuto rinvenire copia di questa versione (NORTON, 130), credo opportuno segnalare un esemplare posseduto dalla Bibl. Univ. di Genova, collocato: 2. N. II. 1-3.

[10] La stessa frase sarà ripresa alla lettera, molti anni dopo, per esprimere l' "orrore" per i "prodigies" di Versailles e di Marly, "which have been cemented with the blood of the people" (AA, 263).

[11] Nel 1762, leggendo nel Journal des Savans del gennaio di quell'anno, il resoconto della memoria bartoliana sull'Antro Eleusino, aveva annotato: "ingenious, but very doubtful" (JA, 92). Al primo incontro l'antiquario del re gli era sembrato gentile sì, e dottissimo, ma "un peu charlatan" (p. 22). Tuttavia quelle ciarle gli avevano fatto "une grande lumiere", soprattutto sulle antichità del museo reale: "Un examen approfondi [del Museo d'Antichità] avec cet Antiquaire vaudroit bien un cours l'antiquités" (ivi). Frequentandolo gli si legò sempre più e non riuscì a spiegarsi l'ostilità dei suoi "confrères" (p. 316), cioè della cerchia di dotti - se non intendo male - radunati intorno al conte di Saluzzo. Nella gran disputa che il Bartoli aveva avuto con il Needham a proposito del "marmo effigiato ed iscritto", dopo aver esaminato le "pièces du procès" il G. prese senz'altro partito per il Bartoli, che gliene fu gratissimo e che divenne da allora ancor più gentile, promettendogli lettere di presentazione per Verona, Bologna, Firenze, Roma, Napoli (pp. 35-38).

[12] Il trentenne conte di Saluzzo, che al Dutens era sembrato un "jeune seigneur d'une figure agréable", fece al G. l'opposta impressione: "C'est un jeune homme d'une figure des plus rebutantes" (p. 16). Frequentò la sua società scientifica? Parebbe di sì: "La societé du comte de Saluce qui est composée des amis de Needham se dispute avec Bartoli le plaisir de me remettre toutes les pièces du procès" (pp. 35-36), cioè della disputa sul marmo "egiziano" del Museo reale (cfr. nota precedente). Ma il G. stette per il Bartoli. Questa presa di posizione, e fors'anche il fatto che il G. non doveva sentirsi del tutto a suo agío tra chimici e matematici, fece sì che del conte, nel Journey, non si parla più.

[13] Tutt'altro giudizio dava del castello di Windsor, visitato il 20 aprile 1762. "I saw the Castle with infinite pleasure, such an awful majesty in the old Gothic pile [...]" (JA, 62). Va però notato che la nozione di gotico ha in G. contorni imprecisi: chiamerà gotici non solo il duomo di Milano e la cattedrale di Siena, ma anche la Certosa di Pavia e il duomo di S. Lorenzo di Genova. In quello di Pisa scorgerà "un melange singulier du gout grec et de l'architecture gothique" (p. 228). Errori, se si vuole, questi due ultimi, che dimostrano tuttavia l'acutezza di osservazione del G. (si pensi, p.e., alla presenza di elementi del gotico francese in S. Lorenzo).

[14] Della giovanile opera gibboniana si ricorderà molti anni dopo Gregorio Fontana, i cui legami con l'illuminismo lombardo sono noti (A. ZIEGER, G. F. Idee e vicende politiche, in: "Bibl. della Soc. Stor. Subalpina", CXXX, 1932, 89 s.). In appendice alla sua traduzione dell'operetta di John Hill (Saggio sopra i principi della composizione storica e loro applicazione alle opere di Tacito [...], Pavia 1789) e,gli metteva una sua dissertazioncella, che si apriva con un elogio di Gibbon: "Quel grand'uomo, che con sì profonda filosofia ha scritto ora in Londra la storia della rovina dell'Impero Romano, dice a ragione, ch'egli non conosce altri che Tacito il quale abbia perfettamente adempiuto quest'idea di storico filosofo" (Op. cit., 91). Era un evidente rinvio all'Essai (M. W., IV, 177). La cosa più piccante è che, nella discussione sull'opportunità di conservare i "piccoli fatti" per agevolare la rico struzione storica di un epoca, il Fontana non si accontentava di ormeggiare l'argomentazione del Gibbon, ma finiva per lodarlo con le sue stesse parole. Il G. aveva scritto: "Conservons les [petits faits] tous précieusement. Un Montesquieu démélera dans les plus chétifs, des rapports inconnus au vulgaire. Imitons les botanistes [...] " (M. W, IV, 178). Fontana gli fa eco amplificando: "Conchiudiamo pertanto, che per riguardo ai piccoli avvenimenti particolari della Storia, non sarà che ben fatto di conservarli tutti preziosamente. Un Macchiavello, un Bossuet, un Montesquieu, un Voltaire, un Hooke, un Hume, un Robertson, un Watson, un Gibbon scopriranno ne' più piccoli avvenimenti de' rapporti e delle combinazioni sconosciute al comune degli uomini. Imitiamo i Botanici [...]" (op. cit., 98).

La fama di miscredenza creatasi intorno all'autore della History finirà per gettar ombra anche sull'Essai: "Gibbon visse inoltre qualche tempo a Ferney in casa di Voltaire - scriveva J. Panzani componendone il necrologio -, e a Ferney appunto e sotto gli occhi di quell'apostolo di miscredenza scrisse il suo Essai [...] con delle buone vedute, ma con uno stile incompetente alla lingua di cui aveva fatto uso" ("Memorie per servire alla storia letteraria e civile", XVIII, Venezia 1794, 27). Non è la sola inesattezza dell'articolo: l'idea prima della History vien fatta risalire a un giovanile viaggio a La Brède (ivi). Le linee del ritratto non sempre convengono al G. reale: "Uomo di carattere estremamente severo, ostinato nelle sue massime, dotato di eloquenza e di tutto il necessario coraggio per sostenerle, fu sempre del partito degli opponenti, e i suoi discorsi alla camera solevano essere altrettante filippiche" (ibid. 28). Una specie di Fox insomma, presentato del resto come amicissimo del G. e riordinatore della sua biblioteca. Tutto l'articolo oscilla tra la deprecazione della miscredenza gibboniana (pienamente sconfessata però in punto di morte) e l'ammirazione dei meriti letterari dello scrittore: del suo modo nuovo e "leale" di "coordinare" i fatti, della tessitura giudiziosa e del personalissimo stile della sua opera.

Ma la ricerca sull'eco dell'opera gibboniana in Italia è ancora da fare. La Norton segnala qualche articolo apparso sulle riviste dell'epoca (Bibliography cit., 77); ma il suo elenco è ben lontano dall'essere completo (si può aggiungere, p. e., la recensione alla seconda ed. pisana apparsa sul "Giornale Letterario di Napoli", vol. XVIII, 1° gennaio 1795, e il necrologio sulla stessa rivista, vol. XL, 1° dic. 1795, 80). È evidente la necessità di allargare le indagini. Ma ancòra più interessante sarebbe una ricerca sulla efficacia della History. Il De Felice ha sottolineato la "grande importanza" che ebbe in Italia la sua diffusione per la formazione tra i cattolici di un atteggiamento critico verso i miracoli e la superstiziosa religiosità popolare (R. De Felice, L'evangelismo giacobino e l'abate Claudio Della Valle, in: RSI, LXIX, 1957, 205 n. 3). Un caso cospicuo d'influenza diretta del pensiero storico gibboniano è costituito da Francescantonio Grimaldi che nel t. IV dei suoi Annali di Napoli, uscito nel 1782, nell'affrontare il gran problema dei rapporti tra la corrotta civiltà romana e i barbari invasori, accettò senza riserve le conclusioni dell' "immortale Gibbon" (Riformatori napoletani, a c. di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, 523-524).

[15] Il G. afferma di aver "beaucoup connus en Angleterre" i Celesia, cioè Pier Paolo e sua moglie, Dorothy Mallet (p. 65). Figlia del poeta scozzese David Mallet, la tirannia della matrigna l'aveva gettata nelle braccia del Celesia, allora inviato della Repubblica in Inghilterra. Il G. confesserà d'avere per lei "une amitiè qui tient de la tendresse". Gli sembrava, rivedendola dopo cinque anni, che l'età e l'uso del mondo l'avessero guarita "d'un tour un peu romanesque qu'elle avoit autrefois". Quel "tour romanesque" colpisce in effetti chi legge le tante lettere d'amore ch'ella aveva indirizzato al Celesia tra il 1757 e il 1758 conservate tra le carte del Celesia alla Bibl. Mazziniana di Genova (Autogr. 1007, fase. XI); e doveva sgomentare lo stesso Celesia, il carissimo Horatio ("O my Horatio, how good you are! How worthy to be loved") perché Dorothy protestava: " [...] non posso tollerare i vostri sospetti e le vostre riflessioni su quelle che voi chiamate le mie leggi romantiche (upon what call my romantick laws"). Lei stessa cercava un equilibrio tra passione e ragione,: "O my Horatio, how pure the joys of a rational and tendre love, such that of sine for thee, where Reason and fondness go hand in hand and Truth is the inspirer of every sentiment, as she is of ony worts [...] ".

Il Celesia era, per parte sua, un "uomo angelico" (come diceva il Mazzei), una "anima bella". Al G. Dorothy dirà di essere "fort heureuse" con lui; molti anni dopo, scrivendo alla principessa di Monaco, dirà la stessa cosa: "il est d'une douceur inaltérable; depuis vingt ans il ne m'a jamais donné un moment de chagin volontairement [...]" (F. Mazzei, Memorie, cit., 1, 192, 452454). Il matrimonio tra il Celesia e la giovanissima Mallet aveva provocato uno scandaletto mondano di una certa risonanza per le pretese di M.me de Vaucluse, che qui sarebbe troppo lungo narrare. Il G. aveva conosciuto il Celesia (che gli fece un'ottima impressione: "He has wit and learning, and speaks French like a Parisian") il 21 dicembre 1758, proprio nel forte di questa contesa; e diede piena ragione a lui condannando le "shoking pretensions" di Madame. (LL, 1, 315). Tuttavia si mostrò curioso di leggere il pamphIet che costei aveva messo a stampa, e andava diffondendo in giro, ben decisa a far valere le proprie ragioni (ivi). Il titolo di questo scritterello calunnioso (nel quale il Celesia viene presentato come un mostro, anche nel fisico: "M. C.[elesia] ioint à une taille petite & contrefaite, un visagge, qu'on ne peut soupçonner d'étre un visage, que parce qu'on sait, que l'intention de la Nature a été de placer un arrangement de traits, qui porte ce nom dans un endroit fixe") è il seguente: Mémoire l de l Madame De F.[augues] de l la C.[epedes] / contre / Mr. C. [elesia] / M. [inistre] de la R.[épublique] de G.[énes], Imprimé à Londres en l'Année MDCCLVIII. La Norton afferma che di esso non vi è copia al B. M. (LL., 1. 115 n. 4). Vi si trova invece, collocato: P. B. 1080. K. 17.

Nei mesi successivi il G. e Celesia rimasero in contatto. Il 19 aprile 1759 quest'ultimo scriveva aWarnico: "J'ai requ la lettre que vous m'avez fait l'honneur de m'ecrire le 16 de ce mois avec tout le plaisir qui devoit me donner une marque si obligeante de votrie souvenir". Poiché i Gibbon, padre e figlio, prendevano così viva parte ai fatti suoi, il Celesia li pregava "d'avoir la complaisance de me donner une relation detaillée de la manière plus avantageuse de la quelle on pourroit faire des envoys de froment de Hampshire en droiture à Genes" (13. M., Add. Mss. 34- 886, 34-35). Purtroppo tra le carte Celesia la lettera del G. non c'è; e neppure quella indirizzata a Dorothy da Firenze il 22 giugno 1764 (p. 121). Il Celesia aveva lasciato Londra nel settembre 1759. Sul Celesia cfr. Miscellanea di storia ligure,I, Genova 1958, 277-279; "Il movimento operaio e socialista in Liguria", VII, 1961, 208, 233-234.

[16] A Berna aveva fatto allusione il Montesquieu, trattando delle cause della rovina di Roma: "il y a à présent, dans le monde, une république que presque personne ne connoit, et qui dans le secret et le silence, augmente ses forces chaque jour. Il est certain que, si elle parvient jamais à l'état de grandeur où la sagesse la destine, elle changera nécessairement ses loix; et ce ne sera point l'ouvrage d'un legislateur, mais celui de la corruption meme" (Considérations, IX). Le buone leggi che hanno fatto divenir grande una piccola repubblica "lui deviennent à charge lorsqu'elle s'est agrandie".

[17] Il Giarrizzo ammonisce a non confondere la volonté générale del G. con quella del Rousseau, "anche se la comune fonte di G. e Rousseau va ricercata forse nel giusnaturalismo svizzero di Barbeyrac e Burlamaqui" (Op. cit., 40). Sappiamo in effetti che il G. lesse del Barbeyrac i commenti a Grozio e al Pufendorf (AA, 234). Ma l'espressione "volonté générale" in tali opere non c'è. Il G. aveva scritto: per creare le società civili "il a fallu que toutes les volontés particulieres se fondissent dans une Volonté generale [...]" ( M.G., 125), In Pufendorf-Barbeyrac l' "union des volontez" si realizza mediante la sottomissione di ciascuno alla volontà di una sola persona o di una assemblea, "en sorte que toutes les resolutions de cette personne ou de cette Assemblée, au sujet des choses nécessaires pour la sureté & l'utilité commune, passent pour la volonté de tous en général & de chacun en particulier: car on est censé vouloir ce que veut un autre, à la volonté de qui on a soumis la sienne" (Pufendorf, Le Droit de la Nature ci des Gens, trad. du latin p. J. Barbeyrac, 5e éd., Amsterdam 1734, T. II, 283-285; Les devoirs de l'homme et du citoyen [...] trad. Barbeyrac, 5e éd., Amsterdam 1735, 296). Che il G. avesse letto il Burlamaqui non c'è prova. Ammesso pure che il concetto è più maturo per la sua formulazione, l'espressione anche in lui non c'è: "Toute Société se forma par le concours ou la réunion des volontez de plusieurs personnes [...] De-là vient que l'on conside're les Sociétez comme des Corps, & qu'on leur donne le nom de Personnes Morales; parce que ces Corps ne sont en effet animés que par une seule volonté [...]" (J. J. Burlamaqui, Principes du droit naturel, Nouv. éd., Gèneve-Copenhague, 1762). Sui rapporti tra Rousseau, Barbeyrac e Burlamaqui, cfr. Derathé, J. J. Rousseau et la science politique de son temps, Paris 1950, 84-92 e passim. A chi era indirizzata la Lettre? Si trattava di un interlocutore immaginario o di un personaggio reale? Mi pare di aver trovato un accenno che permette di identificarlo nella lettera del 23 settembre 1766 a Victor de Saussure. Il de Saussure era appena tornato da Gottinga dove la famiglia l'aveva mandato nell'ottobre 1763. Il G., riprendendo dopo un lungo silenzio (verisimilmente di anni), il commercio con l'antico amico losannese lo esorta a non disprezzare una carica politica nella sua piccola patria: "Je respecterai - lo assicura - le premier magistrat d'un peuple libre, cent fois plus que le premier des esclaves dorés d'un despote. Mais à propos vous n'étes pas libres, - c'est un malheur qui me gâte une belle phrase; passons outre" (LL., 1, 205). Un accenno ironico alle conclusioni della Lettre? Che questa non fosse la communis opinio a Losanna è detto dal G. esplicitamente, contraddicendo le proprie impressioni del primo soggiorno: "Aujourd'hui j'y vois une ville mal-batie au milieu d'un pays delicieux qui jouit de la paix et du repos, et qui les prend pour la liberté", UB, 263). Se il destinatario della lettera fosse il de Saussure, non sarebbe difficile datare lo scritto. Il G. si era legato di amicizia con lui nei primi mesi del secondo soggiorno losannese; in ottobre costui era partito (UB, 81). È vero che, pur avendolo carissimo, il G. si lamenta spesso di lui - del "fainéant Saussure" - che gli fa perder tempo (UB, 27, 189). Ma hanno insieme lunghe conversazioni: "Je ne suis pas sorti de tout le jour - annota il 30 settembre -. Saussure a veillé avec moi: une conversation pleine de confiance et d'amitié nous a conduit jusqu'à une heure du matin" (JB, 70). È probabile che i due ragionassero delle loro pene d'amore; ma ne avranno ragionato tutto il tempo? Del Contrat social, è vero, il G. non parla nei giornali; ma nella sua biblioteca c'era di quest'opera l'ed. 1762 (G.'s Library cit., 241). Si ricordi poi quali ambienti il G. aveva frequentato a Parigi, ai primi del 1763: d'Holbach, Helvétius, Duclos etc.

[18] È caso di ricordare la tesi del Contrat social: "Après les avoir comparées [le forme di governo] par leurs avantages et par leurs inconvénients, je donne la préference à celle qui est intermediaire entre les deux extremes, et qui porte le nom d'aristocratie [...] Le meilleur des Gouvernements est l'aristocratique; la pire des souverainetés est l'aristocratique" (Lettres de la Montagne, Lettre VI). Anche il Burlamaqui vantava come una delle forme di governo migliori l'aristocrazia elettiva (Principes du droit politique, s. l., MDCCLIV, P. II, ch. II, § XLI).

[19] [P. H. Mallet], Forme du gouvernement de Suède [...], à Copenhague & à Genève 1756, 6, 11. Alla ammirazione politica il Mably aggiungerà l'ammirazione per la "povertà virtuosa" del popolo svedese: " [...] plus les loix nous apprendront à nous contenter de peu - sostiene il filosofo svedese, portavoce del Mabby - plus elles resserreront les liens de la société, parce qu'elles developperont et entretiendront nos qualités sociales [...]". E lodava il regime di "austérité pédantesque" instaurato dai riformatori svedesi, perché cercava di riavvicinare alle "intentions" della natura, cioè all'uguaglianza delle fortune (De la Legislation ou Principes des Loix [1776], in Mably, Oeuvres complètes, Londres 1789, IX, 26-37). "Spontanea nacque in Svezia la libertà,  e l'uguaglianza", dirà l'irenico Guglielmo Della Valle, sincero ammiratore dei Goti ("Il nome de' Goti è tutt'ora nell'opinione di alcuni italiani immeritatamente odioso"). In quel regno lontano, la natura umana si era conservata "quasi intatta dai molti vizi, che l'infinito andirivieni dell'altre parti del Globo [...] produce ed accumula": tentava di creare il mito del "buon svedese" (G. Della Valle, Elogio di Gustavo III [...], Roma, 1794, 7, 14). Sull'ideale della "monarchia mista" nel pensiero politico svedese di metà '600 cfr. N. Runeby, Monarchia mixta. Maktfordelningsdebatt i Sverige under den tidigare stormaktstiden, Stockholm 1962.

[20] Del Paoli il G. ebbe occasione di riparlare recensendo nel vol. II dei "Mémoires Littéraires de la Grande Bretagne" (1769) il Journal of a Tour to Corsica del Boswell e il parallelo tra P. Paoli e John Wilkes del Kenrik ("Mémoires littéraires", II, 1769, 135-163; 164-167). Lo Helming attribuisce il primo estratto al Deyverdun (art. cit., 1044-1109); ma il Low inclina ad attribuirlo al Gibbon (E. G. cit., 204). Non ho visto, ripeto, il volume in questione; ma dalle citazioni dello Helming mi sembra che, in mezzo alle puntate antiboswelliane e antijohnsoniane, il Paoli venisse risparmiato: "à travers certain brouillard formé par l'enthousiasm (sic), le Philosophe aura entrevu avec satisfaction les traits d'un Grand Homme dans Paoli" (art. cit., 1045). Nel secondo articoletto erano invece messe in dubbio le sue virtù coniugali: "Paoli had not the conjugal virtues, no more had Wilkes" (Low, op. cit., 204).

[21] Si pensi invece alla quantità di dettagli sull'apprendimento del greco negli anni 1761-1762 (in JA).

[22] In Raimondo Cocchi il risentimento proprio si cumulava con il risentimento per gli "scarsi premj" che aveva ricevuto suo padre (P. Neri a A. Cocchi da Milano, 15 nov. 1757: Firenze, Archivio Baldasseroni, Carteggio Cocchi). Sui rapporti con P. Paoli cfr. D. Spadoni, Gli amici toscani di P. P., in: "Arch. Stor. di Corsica", XVI, 1940, 354-356; ID., R. Cocchi e le sue "Lettere italiane sopra la Corsica, in: ASC, XVIII, 1942, 241-256. L'attribuzione delle Lettere al Cocchi è però errata: le Lettere italiane sono di Luca Magnanima (cfr. "Novelle Letterarie", Firenze 1775, col. 503). Il Paoli nella lettera al Cocchi da Londra del 13 settembre 1770 ("Oh qual piacere avrei di abbracciarla! per dimandarle ragione a cazzotti di non avermi mandato il libro che ha dato fuori sull'infelice mio paese") alludeva con molta probabilità alle Osservazioni di un viaggiatore inglese sopra l'Isola di Corsica scritte in Inglese sul luogo nel 1767 ed ora tradotte in Italiano (Londra 1769), che sono certamente opera del Cocchi (G. Livi, Lettere inedite di P. Paoli, in: "Arch. Stor. Italiano", 175, 1890, 268; G. Lessi, Elogio di R. Cocchi, in: "Atti dell'Imp. e Reale Acc. d. Crusca", I, 1819, 80). Composto in occasione di una "commissione politica" che il Cocchi svolse in Corsica per conto del governo inglese, questo interessante opuscolo è in gran parte una descrizione delle strutture politiche della Corsica di Pasquale Paoli, il governo "forse il più libero, dopo il nostro [chi parla è, si ricordi, un 'viaggiatore inglese'] che sia nel Mondo [...] " (Osservazioni, 10, Livi, 71-76). Poiché tutti i còrsi avevano preso parte alla lotta di liberazione, il Paoli era stato "in obbligo di dare a ciascun uomo il suo destino d'esser membro dello Stato", di creare cioè un governo popolare (Osserv., 15). Il fondamento della democrazia còrsa era la piccola proprietà agricola: "Vi ha una divisione agraria de' Territorj, non istabilita per legge, ma così di fatto sussistente. Vivono come se fossero in comune [...] " (Ibid., 36). Era proprio questa "idea di proprietà", oltre all'odio implacabile dei genovesi, che animava i còrsi e li faceva "disperati" nella lotta. Lo scopo pratico che il Cocchi perseguiva è rivelato senza ambagi alla fine dell'opuscolo: rimuovere l'editto, emanato dal governo inglese nel 1764, che proibiva a qualunque suddito inglese di commerciare con i còrsi. Tal divieto era incompatibile per i "principj di libertà". Il Cocchi riprendeva ancòra una volta il paragone con l'Inghilterra: "I Còrsi rappresentano oggidì la parte gloriosa, che noi rappresentammo al tempo della nostra rivoluzione. Sono essi infiammati dai medesimi giusti motivi, ed animati dal medesimo spirito di libertà [...] " (lbid., 39). Anglofilo dunque fino ad accettare delicati incarichi politici dal governo inglese, il Cocchi aveva composto per Horace Mann, "suo amicissimo", una Relazione della costituzione fisica, civile, ed economica della Toscana granducale che rimase inedita (Lessi, 80). Non mancano tra i suoi progetti intellettuali le stranezze: penso a quel suo tentativo, che risale forse al 1764, di epica popolare e cantabile che è il poema di Luni, presentato compiacentemente dal suo eulogista come una prova dell' "interesse ch'ei [Cocchi] prendeva a migliorare per ogni modo la sorte degli uomini" (Lessi, 76, 79).

[23] Alludo ai cinque volumi pubblicati da G. Targioni Tozzetti tra il 1745 e il 1746 a Firenze: Clarorum Belgarum ad A. Magliabechium [...] epistolae, 1745, 2 tomi; Clarorum Venetorum ad A. Magliabechium epistolae, 1745, 2 tomi; Clarorum Germanorum [...] epistolae, 1746, 1 tomo.