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Salvatore Rotta

I gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova

S. Rotta, "I gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova", in
Scritti scelti di Salvatore Rotta,
<testi/900/rotta/rotta_gesuiti.html>

E’ ben nota la simpatia della nobiltà genovese verso la Compagnia di Gesù. Questa era, si può dire, appena nata che già i Signori (non ancora Serenissimi) sollecitarono, istantaneamente, Sant’Ignazio – era il 1547 – affinché installasse nella città un collegio, anzi due. Salvo poi, pressati dal Laynez in persona, a rifiutarsi di assumere un qualunque onere finanziario, per mantenere in piedi un tale istituto; ed a rimettersi, in tutto, alla privata liberalità. E se Ignazio, indottovi dal Polanco, finì, nel 1554, per acconsentirvi, rimase, poi, scontentissimo della sua arrendevolezza.

Il fatto che non fosse stata ordinata "provvisione ferma", continuò ad angustiarlo fino alla morte. I collegi della Società – ribadiva – per statuto non erano soliti mendicare, e neppure fare pagare rette agli studenti, come pareva che fosse intenzione della Deputazione agli Studi: nei collegi, l’insegnamento doveva essere gratuito. Si diceva, perciò, risoluto, a meno che la situazione non venisse sanata, a togliere quel collegio da Genova ed a metterlo ad Avignone, od a Salerno, o in Boemia: "non vi essendo in quello [di Genova] la comodità di casa, né chiesa, né scuola, né altre cose, sarà meglio – sono parole sue – mutare il collegio in un’altra parte, insino a tanto che in Genova si veda altra disposizione". Così diceva, nel 1556, alla vigilia della morte.

Il Collegio visse, ma di vita stentata, e sempre e solo per la liberalità di privati. E sempre per la generosità di privati venne, via via, crescendo, fino a ricevere una sede degna, in via Balbi, e una chiesa (quella dei santi Gerolamo e Francesco Saverio), fino ad assumere, nel 1665, il rango di università ed a ricevere dalla Repubblica, nel 1676, la facoltà di conferire lauree ai suoi studenti, ma soltanto nelle arti, non in diritto né in medicina, e di fatto neppure in teologia.

Mentre il collegio andava peregrinando, di sede in sede, e stentava ad elevarsi alla dignità universitaria, la Compagnia andava però piantando profonde le sue radici nella società genovese. Nel 1581, aveva acquistato la vecchia casa di Sant’Ambrogio ed aveva cominciato ad edificarvi sopra una chiesa nuova; nel 1588, aveva deciso di costruirvi accanto la casa professa (destinata a ospitare i padri solennemente professi) e, già nel 1595, grazie alla munificenza di Marcello Pallavicini, ne aveva posto la prima pietra. Intanto, nel 1593, Bernardo Onza aveva provveduto alla fondazione di un Noviziato sul lido di Sampierdarena, che, essendosi trovato luogo meglio adatto sulla collina di San Giovanni di Paverano verso Sturla divenne luogo di villeggiatura della casa professa. Ed a Paverano durò, dal 1595 al 1659, allorché fu trasferito sul colle di Carignano. Per l’occasione, accanto alla nuova casa dei novizi, fu eretta, nel 1726, la chiesa dedicata a Sant’Ignazio. Il Paverano fu venduto, nel 1689, ai padri scolopi, da poco (1669) ristabiliti.

Nel giugno del 1611, Giovanni Giacomo Del Bene aveva lasciato i fondi per l’erezione, nelle vicinanze della chiesa di San Pancrazio, di un collegio – il collegio Del Bene, per l’appunto – in sostanza un seminario per quelle diocesi, comprese nel territorio della Repubblica, che per la loro povertà non avevano modo di mantenersene uno (pensava, soprattutto, alla Corsica); e ne fu affidata la cura ai reverendi Padri.

A questo collegio si affiancò nel 1738 il collegio Soleri, istituito il 9 dicembre 1669, che aveva la stessa finalità, ma che era riservato agli abitanti del Ponente (da Savona a Ventimiglia). Tra l’altro, vi si studiava il canto gregoriano.

Ancora ai gesuiti venne affidata, nel 1642, la direzione di un collegio di nobili, la cui creazione era stata decisa dal senato l’anno precedente; ma durò poco, perché nel [12] 1648, essendogli mancate le rendite di Napoli, a causa della "rivoluzione" di Masaniello, fu costretto a chiudere. Infaticabili, i Padri istituirono di lì a poco, nel 1660, un circolo ricreativo, detto il Casino (che nel 1670 si trasferì in Carignano), per fornire onesto divertimento e beneficio spirituale agli scolari esterni, e lo diedero a governare ai Padri del collegio di San Girolamo.

Più tardi, nel 1746, allorché fu aperta, sempre in Carignano, la grandiosa Casa d’esercizi, destinata agli esercizi spirituali per gli esterni (ottanta e più stanze libere e nobilmente comode) il Casino vi si trasferì. Di tutto questo grande complesso di opere: le quattro chiese (quella del Gesù, quella dei Santi Girolamo e Francesco Saverio, presso il Collegio, quella di Sant’Ignazio, presso il Noviziato, quella di San Pietro, a Sampierdarena); i grandi edifici (il Noviziato, la Casa degli esercizi, il Collegio, la Casa professa) si ragionerà diffusamente nen convegno; e non soltanto delle realizzazioni, ma anche dei progetti, e dei restauri. Oltre che delle opere genovesi, si parlerà di alcune di quelle della Liguria.

E verrà illustrata anche l’incidenza del gusto gesuitico nelle arti plastiche e figurative, compresi gli effimeri. Convegno di studio e non celebrazione, una parte di esso verrà dedicata, com’è giusto, a illustrare qualche figura della Società, eminente per la sua opera in campo scientifico e missionario. A cominciare da Padre Gian Paolo Oliva, l’undicesimo generale dell’Ordine, che resse la Compagnia, di fatto, per un ventennio – un ventennio molto agitato – dal 1661 al 1681.

Talune relazioni costituiscono piccanti novità. Alludo a quelle del padre Hugo Storni, su Nicolò Mascardi, il primo esploratore delle regioni attorno allo stretto di Magellano, delle montagne andine e della zona torrida, compresa tra l’uno e l’altro oceano. Finora, si conosceva soltanto il titolo di un suo manoscritto, depositato presso il Museo Kircheriano di Roma. Altrettanto si dica di quella del padre Giuseppe Mellinato, su Lazzaro Cattaneo, il fondatore della cristianità di Shangai.

La mostra, che fa corona al convegno, di opere tratte dal fondo gesuitico della Biblioteca Universitaria di Genova, esibisce il manoscritto (purtroppo malamente restaurato) della traduzione latina del Corano, eseguita tra il 1618 e il 1622 ad uso del cardinale Orsini del gesuita Ignazio (Nicolò) Lomellini: la prima completa di tutte le 114 sure e lavorata su più di un codice arabico. Di Silvestro Landini ci parlerà Armando Giudetti: due nomi – sia quello del Lomellini, sia quello del Landini – ignorati dal Sommervogel.

Particolare attenzione sarà prestata al collegio come istituzione scientifica, in particolare in campo matematico. Ma si tratterà anche di gesuiti liguri, che si sono illustrati in altri istituti della Compagnia: Saverio Corradino parlerà di Girolamo Saccheri. Si sarebbe desiderato che qualcuno illustrasse l’opera, finora sconosciuta, di quei gesuiti astronomi, attivi nell’osservatorio di Brera, alla fine del Settecento: Gian Domenico Gerra, che lo aveva fondato, Pasquale Bovio, Francesco Raggio.

Questo accenno valga come invito. Abbiamo fatto quel che si è potuto. E dobbiamo essere grati agli storici della Compagnia, che ci hanno prestato concreto aiuto. Un particolare ringraziamento a don Claudio Paolocci, che ha saputo fare, della Franzoniana, un centro attivo di ricerche e che ha, in questo caso, ideato e retto con tatto e perseveranza l’organizzazione del convegno.

Un aspetto, e tutt’altro che secondario, è però rimasto in ombra: che tipo di religiosità diffusero, o imposero, i Reverendi Padri? L’amico Cosentino, espertissimo nella storia dell’università gesuitica, ci aveva pur messo in guardia. I collegi non erano soltanto un centro di vita scientifica: essi incarnavano un nuovo orientamento della vita reli[13]giosa, rivolta, non tanto alla ricerca di una personale perfezione, quanto alla riforma cristiana della società. Da questo punto di vista, il collegio genovese è addirittura in anticipo sugli altri d’Europa.

Non per nulla, operò a lungo in Genova, come rettore appunto del Collegio, lo spagnolo Gaspar Loarte, l’autore dell’Esercizio della vita cristiana (un manuale importante), che in patria si era nutrito dell’insegnamento del beato Giovanni d’Avila. Che cosa raccomandava il Loarte nei suoi Esercizi? In breve: la frequente comunione. Questa assiduità al divino sacramento non è – beninteso – una specialità gesuitica: tutti i chierici regolari – Teatini, Barnabiti, Cappuccini, Oratoriani e così via – vi battono sopra. Ma i gesuiti si distinsero per il loro fervore.

Il Loarte, nel discorso che soleva fare dopo l’offerorio della Messa, non mancò mai – dice una fonte – di eccitare gli astanti "a ricevere assiduamente il divino sacramento, il maggior dono dato agli uomini, anzi il maggiore che nella sua onnipotenza potesse loro largire". Nella quaresima del 1588 si era ingegnato di ammonire

e far anche ammonire tutti i predicatori famosi che hanno qui [a Genova] predicato che nelle sue prediche toccasse sempre qualche punto della frequentazione del Santissimo Sacramento dell’altare, et esortassero i suoi audienti a quella; et acciò meglio si facesse questo, si è fatto che l’ultime prediche della quaresima fossero quasi tutte sopra questa materia, acciò restasse più impressa nel cuore degli huomini. […] Il simile si è fatto con i predicatori secreti, cioè li confessori, massime con quelli che confessano gran parte de’ cittadini.

Non è un caso che a Genova abbia vigoreggiato, nel Settecento, il giansenismo, avversissimo – si sa – alla frequente comunione. Assieme alla frequente comunione, il culto di Maria. La tradizione vuole che il padre Jean Leunis avesse cominciato, nel 1563, a riunire, al termine delle lezioni serali, per gli esercizi devozionali, i migliori allievi del collegio romano. A Genova questa prassi era stata inaugurata sei anni avanti:

Questi giovani – scrive il padre Bernardo d’Ottono il 1° luglio 1557 – s’adunano ogni festa alla mattina in una delle schole nostre, e quindi a hora debita recitano l’ufficio della Madonna in tono basso per più devotione et anche acciò non sian uditi da forestieri; e poi, quando è tempo, sentono la Messa; la quale finita, si comunicano tutti insieme con molta devotione, né anche (quando possono) lascian d’udire la parola d’Iddio. Doppo desinare vanno a insegnare le cose più principali della dottrina, come il Pater noster, Ave Maria, Credo, comandamenti etc. Qua [a Genova] vedresti alcuni di questi nobili et richi insegnare a poverissimi insegnare con tanta umanità e chiarità, che è cosa per laudare Iddio. Doppo d’haver insegnato, sentito il vespero, et la lettione, si ritornano a congregare insieme; et poi, quando è tempo, ciascuno se ne va a casa sua, benché non se ne anderebbero, se non ne fossero certo modo discacciati; tanto è grande il loro fervore.

Non è una prefigurazione di quelle famose "congregazioni mariane" che inondarono tutta l’Europa cattolica, nei secoli XVI e XVII, e la cui storia e tipologia è stata così ben ricostruita da Louis Châtellier nella sua Europe des dévots (Paris 1987)?

La devozione alla Vergine, promossa dalle congregazioni mariane gesuitiche, è all’origine di tante consacrazioni di città o di regni interi alla Madonna. L’imperatore Ferdinando II, nel 1620, alla vigilia dell’entrata in guerra, contro i cechi in rivolta, la proclama generalissima delle sue armate; Luigi XIII di Francia, nel 1637, la chiama protettrice e signora dei suoi stati; la Repubblica di Genova in quello stesso anno la proclama regina dei suoi domini e pretende per sé onori regali. E la serie di queste solennissime dedizioni non finisce qui. Nel 1638, il duca Massimiliano I le fa alzare in una piazza di Monaco, ora Marienplatz, una colonna e le affida, in ginocchio, la tutela della sua Baviera. Nel 1640, l’imperatore Massimiliano III la dichiara, lui che poteva, [14] imperatrice di tutte le sue terre. E si potrebbe continuare con le città: Colmar, Anversa, Friburgo in Svizzera e così via di seguito. Dietro tutte queste investiture di regalità terrene alla regina del cielo c’è sempre, lontana o vicina, l’ispirazione di una congregazione mariana di marca gesuitica. Per tornare a Genova: il doge che fece il "fortunato vassallaggio" nelle mani del cardinale di Santa Cecilia era Giovan Francesco Brignole-Sale; il figlio di costui, Anton Giulio, finirà i suoi giorni (come tutti sanno) nelle file della Compagnia. Devozione mariana, e devozione eucaristica. Nel 1558,

tenendosi la solenne processione del Corpus Domini, i gesuiti di Santa Maria delle Grazie [la prima sede del collegio] fecero insolito onore al divino Sacramento. All'’ddobbo esteriore delle pareti del collegio aggiunsero [l’idea era stata del Loarte] cartelli con scritti a caratteri enormi detti e sentenze intorno al ministero eucaristico.

E quando il Santissimo faceva sosta nei tre altari, alzati per l’occasione lungo la via, i ragazzi delle scuole si mettevano a recitare carmi eucaristici, in volgare, per dichiarare i testi esposti alla vista pubblica.

I gesuiti predicavano. Predicavano – s’intende – la pace, l’armonia dei vari ordini speciali. Però, molti stati, a cominciare da Venezia, vietarono loro di denunziare con troppa violenza i vizi dei nobili. E proprio un quaresimale, predicato a Genova dal padre Segneri (il virtuoso atleta che soleva percorrere, a piedi nudi, ottocento miglia all’anno, superato soltanto da John Wesley, il fondatore del metodismo, che ne percorreva, servendosi però di cavalcature, dalle quattro alle cinquemila), eccitò a tal punto la plebe da suscitare in città tumulti anti-aristocratici.

I gesuiti confessavano. Erano confessori indulgenti? La questione è delicata, data la fama di lassismo della Compagnia. Paolo Mattia Doria, nel suo Gesuita tiranno (circa del 1740), rimproverava ai confessori gesuiti "d’adulare tutti i vizi", tranne uno: quello di lussuria, per lui, Doria, pure filosofo cattolicissimo, il meno grave di tutti: "il peccato di senso – così diceva – non si vede che abbia cagionata altra guerra che quella di Troia [...] guerra però la quale si dubbita se sia mai stata, ovver sia favolosa". Molto peggiori, per le loro conseguenze sociali, i peccati che procedono dall’odio che quelli "dal senso del piacere cagionati".

La sessuofobia, l’esaltazione iperbolica della verginità e della castità era, dunque, un tratto tipico della sensibilità gesuitica? Il ogni caso, se erano sessuofobi, i padri lo erano in una maniera intrepida. Il confessore gesuita di Luigi XV – il padre de Sacy – escluse, ostinatamente, dai sacramenti per i suoi "peccati di senso" il sovrano, malgrado che la situazione della Compagnia nella Francia di quegli anni – la fine del 1757 – per le pressioni dei parlamentari, dei giansenisti, dei philosophes, andasse rapidamente deteriorandosi. Pombal li espellerà brutalmente, com’era nel suo stile, dal Portogallo e dalle colonie portoghesi, di lì a poco, nel 1759; Luigi XV seguirà ben presto il suo esempio nel 1762. Eppure il de Sacy non si lasciò intimidire; né i passi compiuti dalla Pompadour presso la corte di Roma riuscirono a mitigare la sua rigidezza.

Una leggenda diffusa li voleva non soltanto straordinariamente ricchi, ma, anche, posseduti da un violento spirito di commercio. La loro stessa prodigiosa attività missionaria era, agli occhi di molti, solo una copertura. Paolo Mattia Doria era perentorio: "le Missioni poi alle Indie Occidentali, alle Orientali, ed alle altre parti della Terra, sono compagnie di commercio, come sono quelle degli Olandesi, e degl’Inglesi". In realtà, l’unico gesuita che avesse avviato, in quegli anni, nella sua missione della Martinique un florido commercio di caffè, zucchero, spezie, indaco e avesse usato (tra l’altro) nelle sue piantagioni degli schiavi, fu Antoine de Lavallette. Ma il 17° generale della compagnia, il padre Luigi Centurione – ancora un genovese – aveva promosso a suo carico [15] una rigorosa inchiesta, lo aveva sospeso a sacris e privato dell’amministrazione della colonia. Dobbiamo conservare il vecchio clichè?

In realtà, la storia della pietà genovese, e la storia stessa della spiritualità gesuitica, sono ancora da scrivere. Il nostro convegno non è che un primo passo, verso la riconsiderazione critica del peso e del senso della presenza della Compagnia nella nostra città [Genova, N.d.C.]. Mi auguro che esso valga, se non altro, a sgombrare il terreno dai pregiudizi.

Nota editoriale

Apparso una prima volta, privo peraltro di titolo e come prolusione agli Atti del Convegno, in "Quaderni Franzoniani", V, 1992, pp. 11-15. Per la trascrizione ci si è valsi, in questa sede, di alcuni accorgimenti, che si è ritenuto necessario adottare per ragioni di uniformità testuale e coerenza interna. Ogni nome – di persona, cosa o luogo – è stato qui riportato per esteso, a differenza di quanto, talvolta, si è verificato nel caso dell’originale. Si tratta, ad ogni modo, di modifiche minime e non certo sostanziali. La paginazione originale è stata riportata qui in grassetto, tra parentesi quadre [Davide Arecco].

Bibliografia minima

G. Cosentino, Le matematiche nella "Ratio studiorum" della Compagnia di Gesù, in Miscellanea storica ligure, II, Genova – Firenze 1970, p. 216.

G. Cosentino, L’insegnamento delle matematiche nei collegi gesuitici dell'Italia settentrionale. Nota introduttiva, in "Physis", XIII, 1971, pp. 205-217.