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Salvatore Rotta

Economia e società in Montesquieu[*]

S. Rotta, «Economia e società in Montesquieu»,
Cromohs, 7 (2002): 1-10, <URL:http://www.cromohs.unifi.it/7_2002/rotta_economia_societa.html> e in Scritti scelti di Salvatore Rotta, in Eliohs©, 2002 <testi/900/rotta/rotta_economia_societa.html>

1. Il segreto dello sviluppo è la disuguaglianza? Questa è in effetti la situazione delle moderne società occidentali:

nei nostri stati di oggi, le proprietà terriere sono inegualmente distribuite; esse producono una quantità di prodotti superiore a quella che può venir consumata da coloro che coltivano la terra; e se vi si trascurano le arti e ci si dedica soltanto all'agricoltura, il paese non può essere molto popolato.

L'esistenza di un eccedente non utilizzato della produzione agricola farebbe diminuire lo stesso sfruttamento del suolo e l'agricoltura per prima ne riceverebbe un danno. Se la massa dei beni consumabili accumulata nel settore agricolo potesse invece essere scambiata con altri beni l'equilibrio sarebbe ristabilito: «occorre dunque creare le arti affinché i prodotti siano consumati dai contadini e dagli artigiani». Ma perché questa condizione si produca bisogna far nascere nei contadini il desiderio dei «superfluo»; e «non vi sono che gli artigiani che lo diano». Si crea dunque una situazione nella quale il regime della proprietà terriera, avendo bisogno di «molta gente che produca oltre lo stretto necessario», crea il sovrappiù indispensabile all'esistenza di altre attività e favorisce in tal modo lo sviluppo economico: «più braccia sono impiegate nelle arti più ve ne sono nell'agricoltura» (Correspondence [lettre n. 539], 1296) (1). Il prodotto netto dell'agricoltura è alto: «un contadino può nutrire dieci operai». La complementarità del settore agricolo e del settore manufatturiero impone però dei limiti allo stesso sviluppo manufatturiero. La semplificazione dei processi produttivi per mezzo di macchine è deplorata in termini forti a causa della disoccupazione tecnologica che provocherebbe:

se un oggetto ha un prezzo mediocre, che conviene ugualmente a chi lo compra e all'operaio che lo ha fatto, le macchine che ne semplificassero la fabbricazione, cioè che riducessero il numero degli operai, sarebbero perniciose.

Montesquieu dubita perfino dell'utilità dei mulini ad acqua: «lasciano inoperose un'infinità di braccia, hanno privato molta gente dell'uso delle acque e hanno provocato l'isterilimento di molti terreni» (EL, XXIII, 15). Possibile che non si rendesse conto che la riduzione dei costi di produzione aumentava la competitività dei prodotti industriali sul mercato internazionale e poteva ampliare il mercato interno? Sarebbe far torto alla sua intelligenza. Se egli prospetta l'aumento della produttività del lavoro a seguito dell'introduzione di macchine come immediatamente riduttiva del volume della manodopera è perché pensa che la giornata lavorativa debba restare invariabile e invariabili i salari operai. D'altra parte, il miglioramento dei metodi di fabbricazione non portava necessariamente all'abbassamento del prezzo di vendita dei prodotti industriali - Réamur, un uomo di scienza, se ne era reso conto nel corso delle sue intelligenti sperimentazioni nel settore metallurgico - se si conservava il regime del monopolio corporativo:

non c'è altro mezzo - aveva scritto - per rendere le cose a buon mercato che quello di mettere gli artigiani nella necessità di vendere liberamente (2) .

2. Un regime di libera concorrenza era il più adatto, a parer suo, a rompere l'immobilismo, la mancanza di spirito d'innovazione, tanto degli operai quanto dei proprietari. Ma sul regime della produzione manufatturiera, sulle sue condizioni d'espansione, sulla sua regolamentazione giuridica Montesquieu non ha creduto opportuno fermare neppure un momento la sua attenzione. Nelle Persanes si era limitato ad accennare al livello straordinariamente alto dei profitti industriali:

fa bene attenzione - è Usbek che parla - fino a che punto arrivano i redditi dell'industria: un fondo non produce annualmente al suo proprietario che la ventesima parte del suo valore, ma con una pistola di colore un pittore farà un quadro che ne varrà cinquanta.

Il prezzo del lavoro artigiano e operaio era altrettanto elevato? Montesquieu non sembra avere dubbi: «si può dire lo stesso degli orafi, degli operai in lana, in seta, e di ogni sorta di artigiani» (LP, 106).
Se Montesquieu teme il macchinismo non è perché ha, come si dice, lo sguardo lungo; ma perché non riesce neppure a immaginare condizioni più vantaggiose di lavoro per gli operai manufatturieri. Partito da queste premesse, coscienti o inconsce, non sa vedere in una trasformazione tecnica della produzione «industriale» nient'altro che un fattore di disturbo dell'equilibrio esistente a un dato momento in una determinata società tra popolazione attiva nel settore manufatturiero e popolazione attiva nel settore agricolo. Ma è possibile all'epoca sua fare distinzioni così nette? Sembra che Montesquieu ignori l'estensione, anzi la predominanza dell'industria rurale, il fatto che tutti o quasi i manufatti d'esportazione francesi del tempo - tessili soprattutto - uscivano da mani contadine; che gran parte del processo produttivo si faceva in campagna. Ad ogni modo: il sistema sociale ed economico che Montesquieu ha in mente comporta sì la valorizzazione del sovrappiù delle derrate consumabili con la creazione di nuove attività; comporta sì la solidarietà dei diversi settori produttivi; ma non può conservare (di migliorare non si parla) il livello di vita esistente e di conseguenza la propria struttura demografica se non a condizione di evitare fattori troppo energici di turbamento. Non dimentichiamo che Montesquieu è sempre alla ricerca di misure atte a rimediare alla penuria d'uomini. L'importante è che l'obiettivo popolazionistico sia raggiunto, o meglio sia reso raggiungibile, una volta che l'incremento di popolazione appaia necessario. Le miniere d'oro, d'argento, di rame della bassa Germania (Hannover) e dell'Ungheria riescono appena a coprire le spese; ma sono ugualmente utilissime:

situate in un paese abbondante di grano e di vino, tengono occupati 10.000 uomini che consumano una parte dì queste derrate e fanno vivere tre o quattro regioni (Cónsidérations sur les richesses de l'Espagne, 151; EL, XXII, 21).

In questo caso, dato il rendimento decrescente delle miniere, era opportuno utilizzare per prosciugarle la «macchina inglese che agisce per mezzo dei fuoco»: la famosa fire-engine, la pompa a vapore, di Newcomen (Mémoires sur les mines, 440; EL, XV, 8). I bassi rendimenti avrebbero altrimenti costretto a sospenderne lo sfruttamento, provocando una crisi nella stessa produzione agricola della regioni limitrofe.

3. Il primo interesse è, dunque, l'aumento della popolazione. La natura, per parte sua, inclina al matrimonio: «dovunque si verifichi una situazione nella quale due persone possano vivere comodamente si fa un matrimonio». Soltanto le difficoltà di «sostentamento» possono ostacolare l'impulso naturale. Wallace tradurrà: «dovunque si vive a buon mercato e dove è più facile mantenere una famiglia i matrimoni saranno più frequenti» (3) . E sosterrà una politica di basso prezzo del grano, un miglioramento del tenore di vita dei giornalieri e degli «inferiori artefici», un allungamento della durata delle affittanze agrarie. Montesquieu avesse o no letto Boisguillebert, è contrario ai bassi prezzi delle granaglie, «cattivo principio»: «niente eccita maggiormente l'ardore del padrone e del colono quanto la speranza di un prezzo ragionevole per il proprio grano» (Pensées, n. 177; Voyages, 1042). Tra l'altro, era l'unico modo per sostenere i salari agricoli:

c'è sempre un rapporto naturale tra il prezzo dei prodotti della terra e il salario che si dà a coloro che la lavorano; se i prodotti che se ne ricavano valgono poco, si dà poco; se valgono molto, si dà molto.

Nell'ultimo caso, i lavoratori sono messi in grado di pagare maggiori tributi. In genere però i livelli salariali dei manouvres, lavoratori «liberi» o servi di fattoria, non dovevano essere troppo alti. Il vigneron che era Montesquieu si rallegrava nel 1726 del fatto che, dopo le punte massime toccate al tempo di Law, le «ricompense» del lavoro dei giornalieri fossero ridiscese a livelli di sussistenza (Mémoire sur l'arrêt du Conseil du 27 février 1725, 270-71). Dei salari degli ouvriers delle manifatture dice chiaramente che devono essere bassi (EL, XXII, 16). Dei contratti colonici tace. C'è di più. Tra le varie specie di tributi preferisce le imposte sui consumi popolari: le imposte «invisibili». Il cittadino «non si accorgerà quasi di pagarle», purché sia il venditore a riscuotere il diritto e purché ci sia una certa proporzione tra quest'ultimo e la merce. Altrimenti - pensava alla gabelle del sale - l'«illusione», che fa confondere il tributo col prezzo, andrebbe distrutta (XIII, 7-8). Ma insiste, ed è già molto, sul dovere dello Stato di assicurare a tutti i cittadini occasioni di lavoro: «lo Stato [...] deve a tutti i cittadini una sussistenza sicura, il vitto, un vestito conveniente e un genere di vita che non sia contrario alla salute». Ciò comporta per esso anche doveri assistenziali. Montesquieu raccomanda formalmente di «mettere, tra i primi articoli della sua spesa, una somma stabilita per i casi fortuiti» (XIII, 18). Si dichiara però contrario agli ospizi, che incoraggiano l'ozio, e pensa piuttosto ad aiuti temporanei ai disoccupati «sia per impedire al popolo di soffrire, sia per evitare che si rivolti» (XXIII, 29). L'importante è che tutti lavorino, anzi che «non vi sia un minuto perduto per il lavoro» (XXIII, 28). Pensa perfino d'impiegare in occupazioni appropriate vecchi e ammalati cronici (XXVIII, 29). Hobbes era stato più brutale, ma più umano: almeno aveva riservato l'obbligo del lavoro agli individui robusti. Il fondo del pensiero è comunque lo stesso:

per toglier valore alla giustificazione che non si trova lavoro, debbono essere formulate leggi che diano incremento a qualunque genere di attività, come la navigazione, l'agricoltura, la pesca e qualunque altra specie di produzione che richieda l'impiego di manodopera (Leviathan, cap. XXX).

Soltanto il tono è diverso. Quello di Montesquieu è così mellifluo da trarre in inganno anche i lettori più intelligenti: Jean Jaurès fiutò in queste pagine non so quale aroma di socialismo (4) . Almeno Saint-Pierre aveva osato affermare che «colui che è nell'estrema povertà ha un diritto reale e positivo, un'azione di diritto naturale sul ricco» (5) .

4. Principale cura di uno Stato ben amministrato deve essere quella di offrire a tutti i cittadini che lavorano l'occasione di esercitare la loro arte, una ricchezza suscettibile di moltiplicarsi: «l'operaio che ha insegnato ai figli il suo mestiere, ha lasciato loro un bene che si è moltiplicato a proporzione del loro numero». Lo stesso non accade al proprietario di terre (EL, XXIII, 29). L'elemosina manuale è dannosa: moltiplica i mendicanti, questi prolifici per mestiere. Nell'odio verso i mendicanti e vagabondi Montesquieu non è solo: persino Meslier, che pure aveva tanto declamato contro le ingiustizie sociali, non era stato verso di loro più tenero (6) . Dei «contadini» Montesquieu parla a più riprese. Lamenta soprattutto che l'eccessivo carico fiscale li costringa a ridurre l'andamento di fecondità matrimoniale per evitare una pressione eccessiva sulla base alimentare:

coloro che vivono sotto un governo duro, che considerano il loro campo più come un pretesto alla vessazione che come il fondamento della loro sussistenza, costoro, dico, hanno pochi figli.

Infatti: «non dispongono nemmeno dei mezzi per vivere: come potrebbero pensare a dividerli con altri esseri?» (XXIII, 11). Diversamente pensava, come si è visto, al tempo delle Persanes. L'osservatore della «capillarità sociale», del comportamento matrimoniale delle diverse classi, si è fatto più sottile: ammette l'esistenza di una pianificazione familiare anche tra le classi inferiori della gerarchia sociale. E' chiaro tuttavia che non allude al giornaliero, ma al piccolo proprietario o all'«utilista»:

la natura è giusta con gli uomini; essa li ricompensa delle loro fatiche, li rende laboriosi, perché al lavoro maggiore unisce maggiori ricompense [ma] se un potere arbitrario priva delle ricompense della natura, sopravviene il disgusto per il lavoro (XIII, 2).

Come molti francesi dell'epoca sua, come i contadini stessi, protestava non contro i prelievi signorili o, se si preferisce, «feudali» (la confusione terminologica è nel linguaggio del tempo); ma contro la fiscalità di Stato. L'imposta fondiaria, la «taglia reale» (ma erano poche le province di Francia a pagarla: Linguadoca, Provenza, Delfinato...) era tollerabile soltanto a patto che non fosse eccessiva. Al contadino, il principale contribuente nel sistema fiscale d'ancien régime, bisognava lasciare un «necessario abbondante». Se non gli si lasciava altro che il «necessario per vivere», «la minima sproporzione avrà le più gravi conseguenze» (XIII, 7).

5. Ma poteva Montesquieu farsi grandi illusioni sulla capacità d'assorbimento dei prodotti di lusso, non dico dei «beni superflui» ma degli stessi prodotti della metallurgia, da parte dei produttori agricoli, ad eccezione della ristretta minoranza costituita dai contadini «indipendenti», poco importa che fossero proprietari o no, provvisti di un buon capitale d'investimento e di molta terra da lavorare (o piuttosto da far lavorare)? Quanto sappiamo sulle condizioni del mondo rurale dell'epoca - un mondo dalla moneta rara, che andava appena aprendosi al commercio e spesso proprio per far fronte alla fiscalità statale - non lascia dubbi. Sappiamo però un'altra cosa: le grandi fortune francesi del tempo erano in massima parte il frutto di vari tipi di rendita rurale. Era attraverso il «lusso» di coloro che maggiormente profittavano della rendita fondiaria che avveniva la sua redistribuzione sociale. Lo stesso Montesquieu, per dire la verità, non nascondeva la realtà delle cose. La spesa di lusso era possibile soltanto a individui che godevano di un alto tenore di vita grazie al drenaggio della rendita fondiaria: «il lusso è sempre in proporzione con l'ineguaglianza delle fortune». E spiegava:

se in uno Stato le ricchezze sono egualmente distribuite, niente lusso, perché esso non è fondato che sulle comodità che ci procuriamo grazie al lavoro degli altri (EL, VII, 1).

Ecco come lo calcolava in base alla classe dei redditi:

supponiamo il necessario fisico uguale a una somma data; il lusso di coloro che non avranno che il necessario sarà uguale a 0; quello che avrà il doppio avrà un lusso uguale a 1; quello che avrà il doppio del bene di quest'ultimo avrà un lusso uguale a 3 [ ... ]. Il lusso crescerà del doppio più una unità in questa progressione: 0, 1, 3, 7, 15, 31, 63, 127 (ibid.).

In «ragione composta» con la disuguaglianza dei patrimoni dei diversi cittadini, esso era in proporzione diretta con la grandezza delle città e soprattutto della capitale, che agivano in tal modo - si direbbe oggi - da poli di sviluppo, posto che il processo di sviluppo fosse già in atto. Una cosa è però chiara: la popolazione di un territorio dipende dal livello di vita dei proprietari di terre. È dall'orientamento dei consumi della classe dominante che dipende l'innalzamento della norma di vita dei gruppi subalterni.

Accorciare le distanze sociali non è un articolo del programma di Montesquieu. Come si potrebbe? Una nuova distribuzione delle terre era impresa appena possibile in una repubblica, il regime dell'uguaglianza, e carica sempre di gravi incognite: «togliendo d'improvviso le ricchezze agli uni e aumentando quelle degli altri» si provocherebbe «una rivoluzione in ogni famiglia e una generale nello Stato» (EL, VII, 2). La confisca dei latifondi incolti e la loro lottizzazione a beneficio di famiglie nullatenenti era forse l'unica misura da prendersi in un paese despotico, per ripopolare quei deserti (XXIII, 28). Non era certo misura conveniente a una monarchia, il regime della proprietà non soltanto disuguale ma inviolabile. Espropriare le categorie superiori di reddito con un'imposta non già proporzionale ma progressiva, più «giusta» della prima perché segue non la «proporzione dei beni» ma quella dei «bisogni»? Un'imposta del genere era stata applicata ad Atene:

si giudicò che tutti avevano un necessario fisico uguale, che questo necessario non doveva essere tassato; che in seguito veniva l'utile, che doveva essere tassato ma meno del superfluo; che la gravità della tassa sul superfluo annullava il superfluo (XIII, 7).

Ma Atene era una repubblica. Per la Francia, Stato «moderato», il «tributo naturale» era l'imposizione indiretta, anche sulle merci di consumo corrente. Era l'unico modo, tra l'altro, di evitare l'invasione della sfera privata da parte del potere pubblico. L'imposta, reale o personale, esigeva operazioni d'accatastamento, dichiarazione di redditi, controlli: «affinché il cittadino paghi occorrono ricerche perpetue in casa sua». E «niente è più contrario alla libertà» (ibid.).

L'ostilità di Montesquieu alle imposte dirette, a cominciare dalla più antica - la taglia personale (dalla quale il nobile era esonerato) - alle più recenti - la «capitazione» graduata di pagamento universale introdotta da Pontchartrain nel 1695, poi il decimo, creato la prima volta nel 1710 (prelievo di un decimo di tutti i beni, tanto mobiliari quanto immobiliari, tanto nobili quanto borghesi) che ancora si pagava nel 1748 (sarà alleggerito nel 1749 della metà: diverrà il ventesimo) - scoppiava in termini aperti: «l'imposta pro capite è più naturale alla schiavitù; l'imposta sulle merci è più naturale alla libertà perché si riferisce in maniera meno diretta alla persona» (EL, XIII, 4). Tutta la lunga tradizione riformistica che va dal maresciallo di Fabert (1660) a Paul II Hay du Chastelet (7) a Vauban (8) a Saint-Pierre (9) è sconfessata in tre righe. Saint-Pierre aveva esordito:

il fine di questo progetto è di dimostrare che il difetto di consumo è la rovina del commercio, che il male nasce dal difetto di circolazione e che la causa di questo difetto è meno l'effetto della quotità delle esazioni quanto piuttosto della loro moltiplicazione e dell'ineguaglianza nella loro distribuzione.

È vero che nella indicazione dei rimedi l'abate esiterà: proporrà in principio una tassa immobiliare proporzionale al capitale e da ultimo un'imposta cedolare ripartita non più sul capitale ma sul reddito (10). Ma la sua intenzione resta immutata: far ricadere il maggior peso del prelievo fiscale sui più ricchi, perfezionare il sistema dell'imposizione diretta. Montesquieu si colloca sull'altra sponda: tale sistema è illiberale. Concediamolo. La questione è un'altra: l'imposizione indiretta giova alla produzione? Montesquieu non se lo domanda. Saranno i fisiocratici a domandarselo e risponderanno nettamente di no. Essa rappresenta un ostacolo serio allo sviluppo perché, facendo salire il prezzo, diminuisce la domanda e disincentiva perciò la produzione.

6. Imposte indirette, dunque. Ma qual è il miglior sistema della loro percezione? La «regìa» o l'appalto? La prima, evidentemente: «la regìa è l'amministrazione di un buon padre di famiglia che riscuote lui stesso, con economia e con ordine, i propri redditi» (EL, XIII, 19). Montesquieu non fa che rinnovare puramente e semplicemente le proposte di Boulainvilliers (11), La Jonchère (12) etc. Anche la ostilità violenta che manifestava verso i financiers, gli appaltatori, era un sentimento diffusissimo (si pensi al Turcaret di Lesage) (13) che si attenuerà soltanto verso gli anni Sessanta. Di suo c'era soltanto la motivazione ideologica: quell'attività lucrativa non doveva diventare in una monarchia una professione onorata: sarebbe stato uno svilire l'«onore» (XIII, 20). In altre parole: non dovevano essere nobilitati.
In generale, in materia d'imposta, Montesquieu resta molto più indietro dei contemporanei. Asserire che lo Stato doveva commisurare le imposizioni alla capacità contributiva dei cittadini era ormai, nel 1748, un principio ammesso comunemente dai più modesti riformatori. Al contrario, pochi avevano conservato la concezione arcaica, della quale egli è ancora sostenitore, che il sovrano doveva vivere del suo domaine (EL, XXVI, 16). Gli altri temi più scottanti - il problema delle esenzioni, quello di un'equa ripartizione del carico fiscale, la rivendicazione del consenso della «nazione» all'imposta, il controllo della spesa pubblica - erano elusi. L'imposta consentita andava bene, secondo lui, soltanto nelle repubbliche: partecipe del potere, il cittadino credeva di pagare a se stesso (XIII, 13). Questa volta, non sono le repubbliche antiche che ha in mente: Atene o Roma preferirono sempre - a parte certe contribuzioni straordinarie, di guerra - il sistema da lui raccomandato per la monarchia francese dell'imposizione indiretta. È il principio della self-taxation - uno dei cardini della «libertà» inglese - che egli rifiuta come «repubblicano». Che valeva allora deplorare la «nuova malattia» diffusasi in Europa di tenere in piedi troppo grandi eserciti professionali o di «comprarsi» le alleanze, se alla denuncia non seguiva alcun suggerimento di come assicurare il controllo efficace, da parte dei cittadini, della spesa pubblica (XIII, 17)? Fénelon, quando nel 1711 aveva elaborato insieme al duca di Chevreuse a Chaulnes il suo piano di riforma, era andato molto più avanti di lui ed era stato più esplicito nella richiesta di organi di controllo del potere pubblico: stati provinciali, stati generali autoconvocantisi  ogni tre anni con funzione non puramente consultiva - come di solito erroneamente si dice - ma deliberativa, e con poteri ben più estesi di quelli dello stesso Parlamento britannico (14) . Tra le materie più gelose sulle quali gli stati erano chiamati a deliberare c'erano in prima linea le imposte.
L'ideale statale di Montesquieu sembra essere quello liberale dello Stato-poliziotto: «i redditi di uno Stato sono una porzione che ogni cittadino dà dei propri beni per avere la sicurezza dell'altra porzione o per goderne piacevolmente [agréablement]» (EL, XIII, 1). Il suo servizio essenziale nei regimi moderati, dove esiste cioè la proprietà individuale, è la tutela delle fortune private: «la legge civile è il palladio della proprietà» (XXVI, 15). In questi stati, la contropartita al peso dei tributi è appunto la «libertà», la tranquilla fruizione e disponibilità dei propri beni. Negli stati despotici, regimi d'insicurezza, vige la regola opposta: la modicità dei tributi è l'«equivalente» della libertà, compensa cioè della sua mancanza (XIII, 12).

7. È ancora la salvaguardia degli interessi privati a sconsigliare i debiti pubblici. L'idea che l'aumento della circolazione monetaria aumenti le ricchezze è illusoria. Law lo aveva creduto; ma per Law la moneta non era che uno strumento onnipotente per creare ricchezza (15) . Montesquieu non era disposto a seguirlo. Aveva giudicato a suo tempo e continuerà a giudicare tutta la vita il «sistema», quel grandioso esperimento che aveva sconvolto da cima a fondo le strutture tradizionali della società francese, un'iniziativa rovinosa. Lo «straniero» aveva «rivoltato» lo Stato come un rigattiere rivolta un abito: «tutti quelli che erano ricchi sei mesi fa versano ora nella povertà, e quelli che non avevano pane scoppiano di ricchezza» (LP, 138). Per Montesquieu la moneta «è un segno che rappresenta il valore di tutte le merci, e la carta è un segno dei valore del denaro» (EL, XXII, 2). Il debito pubblico non crea denaro.  È un errore confondere carta moneta o effetti di commercio - di valori reali, esistenti - con titoli che non rappresentano che debiti e che non hanno nessuno dei vantaggi dei due primi (XXII, 7). Questi titoli costituiscono in realtà soltanto un impegno sul debito e garantiscono ai privati il rimborso dei crediti e il pagamento degli interessi. Fra gli inconvenienti che comportano in se stessi i debiti pubblici Montesquieu ne enumera espressamente quattro: a e b) se il creditore è straniero e se il debito non è rapidamente estinto queste uscite di denaro comportano un abbassamento del cambio, e quindi un danno per il commercio; c) anche se il prestito è interno, l'imposta levata per il pagamento degli interessi provoca l'aumento del costo della vita e quindi dei salari, danneggiando la manifattura; d) «si tolgono i veri redditi di uno Stato a coloro che sono attivi e industriosi per trasferirli agli oziosi, cioè si offrono facilitazioni per lavorare a chi non lavora, e si creano difficoltà di lavorare a chi lavora» (ibid.). Queste spese sono, insomma, improduttive. Vengono distratte per dare ai rentiers, ai «capitalisti», somme che avrebbero potuto essere impiegate da agricoltori, commercianti o manufatturieri per creare nuove ricchezze. L'emissione di un prestito, anche quando è impossibile affrontare con le entrate normali una spesa indispensabile, non è per Montesquieu in nessun modo giustificata. Egli ne vede soltanto gli effetti negativi: il prelievo di una parte della ricchezza privata, che potrebbe essere produttiva, a favore di gente oziosa, di una «classe interamente passiva in uno Stato» (XXII, 18). L'idea che i rentiers non siano necessariamente inattivi e che potrebbero benissimo impiegare il prodotto delle loro rendite a fini produttivi non lo sfiora neppure. Malgrado ciò, è contrario a colpirli più severamente delle altre classi, che pure costituiscono la «forza attiva dello Stato». Lo Stato distruggerebbe la fiducia: se infatti venisse meno ai propri impegni con una parte dei cittadini potrebbe disattenderli con tutti (ibid.).

8. L'oro e l'argento sono, essi pure, «una ricchezza di finzione o di segno». Il grande errore degli Spagnoli, al tempo della conquista dell'America, è di aver abbandonato la produzione delle «ricchezze naturali» per procurarsi «ricchezze di segno che invilivano di per se stesse» (EL, XXI, 22). Il pensiero di Montesquieu è molto esplicito su questo punto: «il re di Spagna, che ricava grandi somme dalla dogana di Cadice, non è che un privato ricchissimo in un paese poverissimo». La sua potenza sarebbe ben maggiore «se qualche provincia della Castiglia gli rendesse una somma pari a quella della dogana di Cadice: le sue ricchezze sarebbero il prodotto di quelle del paese». Tutta l'economia del regno ne sarebbe rianimata: «invece di un grande tesoro si avrebbe un gran popolo». Ma non osa pronunziarsi sul problema che sarà al centro del dibattito economico spagnolo negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione delle Lois (il Proyecto económico dell'irlandese Bernard Ward è del 1754) (16): la totale liberalizzazione del commercio americano. Si limitava a dire che alla Spagna conveniva «mettere a questo commercio il minor numero di ostacoli che la sua politica potrà permetterle» (XXI, 23). Gli Spagnoli la romperanno con tante cautele. Jovellanos porrà come «primo principio politico» la maggior libertà possibile degli uomini, la sola via per far aumentare il volume del commercio, la popolazione e la ricchezza: «rompamos las cadenas» (17). L'altra direttiva indicata genericamente da Montesquieu per risanare la situazione spagnola - incrementare nel paese la produzione di ricchezze reali, rimediare al sottosviluppo - diverrà, come è noto, il principale obiettivo del riformismo borbonico settecentesco. Facendo eco a Montesquieu, nel 1792 il «Diario de Barcelona» ammoniva i suoi lettori: «non bisogna confondere la ricchezza con il suo segno» (18) .

9. Fu gran fortuna per la Francia non aver avuto ricchezze minera­rie tali da distoglierla dal procurarsi le «derrate vere». Sono la «bontà e la coltura delle terre» ad attirare in un paese i metalli preziosi: è il tema delle Considérations sur les richesses d'Espagne, se non composto certamente rimaneggiato verso il 1731. Nella prima versione (1718?) si legge: «non c'è Stato più favorito dal cielo della Francia». Infatti:

le sue principali derrate si consumano e rinascono press'a poco tutti gli anni; sempre una nuova abbondanza per nuovi bisogni: il che non si può dire dell'oro e dell'argento di Spagna, del piombo e sta­gno d'Inghilterra e di Germania, del rame e dell'ottone del Nord.

Nella seconda versione è anche più deciso:

quanto a noi, godiamo della nostra terra e del nostro sole; le nostre ricchezze saranno più solide, perché un'abbondanza sempre rinnovantesi verrà a soddisfare bisogni sempre nuovi (Consídérations sur les richesses de l'Espagne, 154‑55).

La vera ricchezza della Francia è dunque la sua terra e il lavoro dei suoi abitanti, l'abbondanza delle sue esportazioni. Non è il caso di esagerare la novità di queste prese di posizione: era almeno mezzo secolo che le tesi crisoedoniche erano state abbandonate dai mercantilisti inglesi. La vera ricchezza dello Stato era la produzione nazionale, intesa nel senso più largo. Davenant l'aveva definita «tutto ciò che contribuisce al benessere e alla sicurezza della nazio­ne» (19). Formule simili si leggevano già del resto nel Détail de la Fran­ce di Boisguillebert, il primo autore importante apparso in Francia dopo un letargo di quasi un secolo del pensiero economico (20). Le stesse idee ritroviamo in certe memorie anonime degli anni 1710-­1715. In una di esse si legge:

La vera ricchezza di uno Stato consi­stendo nella produzione abbondante di tutte le cose necessarie alla vita, si può dire che non c'è paese d'Europa più ricco della Francia (21) .

Un'altra asserisce:

è certo del resto che la vera ricchezza del regno consiste nella buona coltura delle terre e nella prosperità delle industrie (22) .

Montesquieu non fa dunque che riecheggiare un'opi­nione comune dei riformatori degli ultimi anni del regno di Luigi XIV. Nelle Lois il pensiero si precisa, ma non muta:

è un cattivo genere di ricchezza quello dato da un tributo accidentale, che non deriva dall'attività della nazione, dal numero dei suoi abitanti o dalla coltivazione delle sue terre (EL, XXI, 22).

L'Inghilterra e l'Olanda sono i paesi più ricchi del mondo perché hanno ottenuto una «quantità immensa» di effetti mobiliari «con le proprie merci, con il lavoro dei propri operai, con la loro industriosità, con le loro sco­perte, talvolta grazie al caso» (XX, 23).
Quanto al prezzo delle merci, posto il valore di segno della mone­ta, esso si fisserà in «ragion composta del totale delle cose con il tota­le dei segni pure in circolazione» (EL, XXII, 7). Lo Stato non può quindi fissare arbitrariamente il prezzo delle merci «più di quanto non possa stabilire con un'ordinanza che il rapporto tra uno e dieci è uguale a quello tra uno e venti» (ibid.). Montesquieu deduce rigorosamente tutte le conseguenze politiche della vecchia teoria quanti­tativa della moneta. Lo Stato non deve intervenire nella formazione dei prezzi, che deve effettuarsi liberamente. Suo unico ufficio, in questo campo, è la fissazione del segno monetario. La moneta è sacra:

niente deve essere altrettanto esente da variazioni quanto ciò che è la comune misura di tutto (XXII, 3).

La moneta di pagamento non deve essere inferiore alla moneta di conto. Il commercio è già per se stesso incertissimo: «è un gran male aggiungere una nuova incertezza a quella che esiste nella natura della cosa». Criterio del valore reale delle monete dei diversi paesi è il cambio, istituzione che favorisce il libero gioco delle transazioni commerciali internazionali (XXII, 10). Il legislatore deve dunque limitarsi ad assicurare e garan­tire il valore legale di ogni pezzo quale tende a stabilirsi per effetto di fattori «naturali»: a conservare insomma alla moneta la sua funzione di strumento degli scambi (XXII, 10, 13). E astenersi per converso rigorosamente da ogni manipolazione monetaria di qualunque tipo: taglio del peso, alterazione del titolo, inflazione con emissione di moneta cartacea non garantita (XXII, 3; XXIX, 6). In breve: il pote­re pubblico non deve alterare con coups d'autoríté il libero gioco degli scambi e delle transazioni internazionali (XXII, 11). Se lo fa, scattano dei meccanismi che ristabiliscono l'ordine naturale turbato. Quest'ordine, che lo Stato deve rispettare, si fa rispettare da sé. L'eccesso delle imposte genera la frode fiscale (XXII, 11); il divieto del prestito a interesse o la fissazione di un tasso irragionevolmente basso, l'usura (XXII, 19, 21); la proibizione di vendere i propri fondi per trasportare il denaro all'estero - legge «cattiva» perché privilegia indebitamente il capitale mobiliare -, vari modi di eluderla (XXII, 15). C'è in Montesquieu una grande fiducia nella capacità correttiva degli abusi del legislatore da parte dei meccanismi spontanei della vita economica. Ama ripetere: «il faut toujours que les affaires de la société aillent» (XXII, 19, 22). È l'unica e più valida giustificazione del prestito a interesse. Posto che il denaro, che è il prezzo delle cose, non può essere acquistato ma soltanto locato, chi ne ha bisogno deve affittarlo. L'interesse è il prezzo della locazione: «è necessario che il denaro abbia un prezzo, ma che questo prezzo sia poco considerevole» (XXII, 19). Ma a che livello si fissa di volta in volta il tasso d'interesse? Al punto d'intersezione della curva dell'offerta di risparmi e della curva della domanda d'investimento? Oppure esso serve a mantenere in equilibrio non la domanda e l'offerta di nuovi beni capitali, ma la domanda e l'offerta di moneta, ossia la domanda di denaro liquido e i mezzi per soddisfarla? È, quest'ultima, la teoria di Keynes, che proprio a Montesquieu si compiacque - bontà sua - di richiamarsi. Nella prefazione alla versione francese (1939) della sua General Theory (1936) gli tributò un elogio caloroso: «questa verità è stata individuata molto nettamente da Montesquieu, il più grande economista francese, colui che è legittimo porre a confronto con Adam Smith e che supera i fisiocratici di cento cubiti per l'acume, la chiarezza delle idee e il buon senso (qualità che tutti gli economisti dovrebbero possedere)» (23).

10. Primato dunque dell'economico sul politico? A partire da una certa soglia di sviluppo, sì. È per effetto delle trasformazioni in atto nella società civile che si modificano le strutture politiche di Roma. Ma Roma era partita da un regime libero, che aveva creato le condizioni del proprio rovesciamento. Questa trasformazione non si verifica invece negli stati despotici. Gli ostacoli creati in questo caso dal regime politico allo sviluppo economico sono insormontabili. I sudditi della zarina Elisabetta non possono dedicarsi al commercio, perché esso contraddice alle leggi dello Stato moscovita (EL, XXII, 14). È un circolo vizioso: il regime despotico è un regime che non può superare se stesso per l'inadeguato sviluppo delle forze economiche, soprattutto per l'inesistenza del settore mercantile-manufatturiero; d'altra. parte, la formazione di questo settore è impedita dal tipo particolare di sovrastruttura politica, dalla forma stessa dello Stato. Morale: è la «durezza del governo» che mantiene i popoli nella povertà e nell'arretratezza economica (XX, 3). Fenomeno tanto più sorprendente in quanto i popoli viventi sotto regimi despotici sono partiti in vantaggio: le loro terre erano in generale le più fertili: «la bontà delle terre di un paese vi stabilisce naturalmente la sottomissione» (XVIII, 1). Colpa dei contadini che quando vivono nell'abbondanza cadono nell'apatia politica; ma colpa anche della configurazione del terreno: i paesi fertili sono in genere pianure aperte alle invasioni (XXIII, 2). Comunque sia, c'è una correlazione positiva tra despotismo e fertilità del paese:

se dividessimo idealmente la terra, rimarremmo sorpresi nel vedere più spesso dei deserti nelle sue regioni più fertili, e grandi popoli in quelle dove il terreno sembra rifiutare ogni cosa (XVIII, 3).

Si potrà dunque enunciare una legge generale: «i paesi non sono coltivati in ragione della loro fertilità ma della loro libertà» (ibid.). In altre parole: è il regime giuridico-politico, la sicurezza della proprietà delle terre, la prima condizione del loro sfruttamento. L'economia dipende direttamente dalla sovrastruttura politica.

Note

(*) Questo saggio è apparso originariamente in «Studi settecenteschi», v. 13 (1992-93), pp. 149-164 (Antropologia e storia. Scritti in memoria di Giuliano Gliozzi). Si ringrazia la Direzione di «Studi Settecenteschi» per aver autorizzato la presente riedizione.

(1) Per le citazioni da Montesquieu utilizzo le Ouvres complètes de Montesquieu, a cura di A. Masson, 3 voll., Paris, Nagel, 1950‑55. Faccio uso delle sigle: EL (per Esprit des lois, ivi t. 1), seguita dal numero del libro e del capitolo; LP (per Lettres Persanes; ivi, t. 1), seguita dal numero della pagina. Indico per esteso Pensées (ivi, t. II), attenendomi alla numerazione Masson, e i titoli di altre opere (Voyages, ivi, t. II; Considératíons sur les richesses de l'Espagne, Correspondence, Mémoire contre 1'arrêt du Conseil..., Mémoires sur les mines, ivi, t. III), rinviando solo alle pagine del volume. Le traduzioni sono in tutti i casi mie (tranne che per la citazione da Hobbes). Il presente saggio si connette strettamente ai quattro pubblicati qualche anno fa (Quattro temi dell'«Esprit des lois», in AA.VV., Studi in onore di Luigi Bulferetti, vol. III, «Miscellanea storica ligure», XIX, 1987, n. 1-2, pp. 1347‑407).

(2) L 'art de convertir le fer forgé en acier, Paris 1722, «Préface».

(3) R. WALLACE, Dissertation on the Numbers of Mankind in Ancient and Modern Tímes, Edinburgh 1753. Di quest'opera esiste una traduzione italiana, eseguita da Giulio Perini di su la versione francese del cav. de Jaucourt e promossa da Giuseppe Bencivenni Pelli con prefazione e copiose note dello stesso Pelli: Saggio sopra la differenza del numero degli uomini nei tempi antichi e moderni [.], Livorno, A. Santini e Compagni, 1757 (il passo cit. è alle pp. 37-38); cfr. C. Amidei, Opere, a cura di A. Rotondò, Torino 1980, p. 108, nota 305). Il Pelli non aderiva all'opinione del Wallace e del Montesquieu circa lo spopolamento del globo: «ciò che ha lasciato scritto [...] il rispettabile Autore delle Lettere Persiane [LP, 112-22] è privo affatto di qualunque verisimiglianza». Più cauto il Montesquieu delle Lois. «Quest'ultimo trattando di ciò nel XXIII libro dello Spirito delle Leggi è assai più moderato ne' suoi giudizj e mostra ben qual differenza vi sia in quello che Rhedi e Usbek avanzano decisivamente nelle loro lettere famigliari, di quello che scrive il Presidente di Montesquieu in un'opera seria, ed importante, la quale è destinata a servire di scorta ai futuri legislatori» (Saggio, p. XXII). Il Pelli faceva proprie le conclusioni di David Hume (Of the Populousness of Ancient Nations, in D. Hume, Political Discourses, Edinburgh 1752, XI): «Il Discorso dei Sig. David Hume sopra la popolazione [...] è diretto a far vedere con grande apparato di una solida erudizione che non è, né probabile, né forse ancora effettivamente vero, che maggiore fosse il numero degli uomini negli antichi tempi, che nei nostri» (Saggio, p. XVII).

(4) J. JAURÈS, L'armée nouvelle, in ID., Ouvres, a cura di M. Bonnafous, IV, Paris 1932, p. 312: «Montesquieu, beaucoup plus hardi que sa légende [ ... ], pressentait l'avènement de démocraties audacieuses qui ne pourraient assurer leur équilibre qu'en prévenant l'extrême inégalité des fortunes».

(5) CH.-I. CASTEL DE SAINT-PIERRE, Sur les Pauvres mandians, Paris [1724]; M. G. BOTTARO PALUMBO, Ch.-I. Castel de Saint-Pierre e la crisi della monarchia di Luigi XIV, 1 (1658-1710), Genova 1983, p. 316.

(6) Mémoires et sentiments de J. Meslier, in J. MESLIER, (Ouvres, II, Paris 1971, pp. 30-31). Il celebre curé d'Etrépigny nelle Ardenne (morto nel 1729) usa toni violentissimi nei confronti di ogni sorta di persone «qui ne sont d'aucune necessité ni d'aucune veritable utilité dans le monde». Tra queste «une infinité de canailles de l'une e de l'autre sexe, qui ne font metier que de gueuser, et mandier lachement leur pain; au lieu qu'ils devroient s'occuper utilement, comme il pourroient faire, à quelque honnete et utile travail». Meslier detesta tutti i parassiti, «gueux ou riches faineans» che «ne vivent et ne subsistent que du travail des autres; ainsi c'est manifestement un abus de souffrir, et d'autoriser une telle oisiveté, et une telle faineantise dans des hommes. Et c'est un abus de souffrir que de gens qui ne font rien, et qui ne veulent rien faire, soient inutilement à charge au public». Questi ultimi non vanno assistiti, ma puniti: «Bien plus sagement étoit ordonné autres fois parmi les Egyptiens que chaqu'un eut à aller declarer devant le magistrat, de quelle art et profession il vivoit, ou pretendoit de vivre, et si quelqu'un se trouvoit mentir ou se trouvoit vivre d'aillieurs que d'un juste, et honnete travail, il étoit severement punit».

(7) Traité de la politique de la France, Cologne, P. du Marteau, 1669.

(8) Projet d'une Dixme Royale, s.l. 1707. E. Cornaert ne ha curato l'edizione critica (Projet d'une Dixme Royale: Suivi de deux écrits financiers par Vauban, publiés d'après l'edition originale et les manuscrits, avec une introduction et des notes, Paris 1933).

(9) Mémoire sur l'établissement de la taille proportionelle, [«27 may 1717»], s.l., s.d. (cfr. M. G. BOTTARO PALUMBO, Ch.-I. Castel de Saint-Pierre, cit., p. 315).

(10) Projet de taille tarifée, pour faire cesser les maux qui causent en France les disproportions ruineuses dans les répartitions de la taille arbitraire, Paris, chez Emery, Saugrain et P. Martin, 1723.

(11) HENRI, COMTE DE BOULAINVILLIERS, Mémoires présentez à Monseigneur le Duc d'Orléans, régent de France, contenant les moyens de rendrele royaume très puissant et d'augmenter considérablement les revenus du roi et du peuple [..], La Haye et Amsterdam, aux dépends de la Compagnie, 1727. Boulainvilliers era morto il 23 gennaio 1722; il 2 dicembre 1723 Philippe d'Orléans.

(12) E. LESCUYER DE LA JONCHÈRE, SIEUR DES VERGERMES, Système d'un nouveau gouvernement en France, Amsterdam, F. Le Bon, 1720.

(13) A.-R. LESAGE, Turcaret, commedia in cinque atti inscenata nel 1709; cfr. Y. DURAND, Les fèrmiers généraux au XVIIIe siècle, Paris 1971, I.ii.

(14) Plans de gouvernement ou Tables de Chaulnes, pour être proposées au Duc de Bourgogne, novembre 1711, in FÉNELON, Ouvres complètes, Paris 1850, VII, pp. 182-88.

(15) J. LAW, Ouvres complètes, a cura di P. Harsin, Paris 1934, 3 voll.

(16) J. VICENS VIVES, Historia económica de España, Barcelona 19643, p. 516.

(17) G. M. DE JOVELLANOS, Informe sobre la ley agraria, Madrid, Sancha, 1795, I, 6. Su Jovellanos (1744-1811) cfr. J. JUDERÍAS, Don Gaspar Melchor de Jovellanos: su vida, su tiempo, sus obras, sa influencia social, Madrid 1913. Tradotto in francese, in tedesco, in inglese, l'Informe ebbe grande diffusione, dentro e fuori di Spagna. Più calorosa che altrove l'accoglienza in Inghilterra. Nel 1812 la liberale «Edinburgh Review» non trovava uno scritto di uomo di Stato o ministro di giustizia inglese di quegli anni da mettergli accanto.

(18) J. VICENS VIVES, Historia, cit., p. 516. Il «Diario de Barcelona» era stato fondato nell'ottobre del 1792 dal napoletano Pedro Pablo Usson. Il nuovo giornale possedeva «verdadera calitad de publicación europea» U. MERCADER RIBA e A. DOMÍNGUEZ ORTIZ, Historia socialy económica de España y América, IV, La época des Despotismo Ilustrado, Barcelona 1974, p. 237).

(19) Ch. DAVENANT, Discourses on the public revenues, London 1698.

(20) P. LE PESANT BOISGUILBERT, Détail de la France, s.l., 1695; cfr. AA.VV., P. de Bois­guilbert ou la naissance de 1'économie po1itique, Paris 1966.

(21) Bibliothèque Nationale, Paris, Fds fr. 7767, f. 53.

(22) Ivi, Fds fr. 7765, f. 82v.

(23) J. M. KEYNES, The General Theory of Employment, Interest and Money, London 1936. La General Theory «è essenzialmente [...] un'analisi in termini di princìpi economici fondamentali delle cause della disoccupazione» (R. F. HARROD, La vita di J. M Keynes, Torino 19652, p. 529).