Nelle note di viaggio a Genova (9-20 novembre 1728),[1]
Montesquieu non fa parola della Corsica. La "paix génoise" vi regnava
da centosessanta anni.[2] Dopo
la pax romana, mai più l'isola godrà di un così
lungo "intervalle de tranquillité".[3]
Nessun còrso si era levato, in tutti quegli anni, a reclamare l'indipendenza
o almeno qualche forma di autonomia. E nessuno, dentro o fuori l'isola,
aveva criticato i metodi coloniali della Repubblica. Più nessuno
– dopo la vittoria su Sampiero e il suo partito, nel 1659, che le
lasciava l'isola in possesso "pieno, intero, incondizionato" – aveva
diritto "de lui demander compte de la façon dont elle traité
ses sujets insulaires".[4] Che
il governo genovese avesse allora saputo "malgré les inimitiés
extérieures et les complots intérieurs [...] sauver à
la fois sa liberté et l'intégrité de ses possessions,
témoigne – riconosce il maggior storico della riconquista
– d'une fermeté d'âme et d'une constance dans les desseins
qui ne manquent pas de grandeur".[5]
L'aver saputo conservare per sé l'isola, eliminando Francia, Spagna
e Toscana, era stato un successo del quale giustamente [148] la
Signoria andava tuttora fiera. Ora, però, quei pretendenti si erano
rifatti accaniti; e, purtroppo, gli equilibri internazionali non permettevano
più il rinnovarsi di quel miracolo. Montesquieu a ogni modo non
metteva in discussione il possesso genovese dell'isola. Ridisegnando per
gioco la carta politica dell'Italia, aveva per un momento preso in considerazione
l'ambizioso progetto accarezzato da Vittorio Amedeo II fino alla morte:
impossessarsi del Finale e di Savona e farsi "re di Liguria".[6]
Abbandonata la riviera di Ponente e collocato nella genovesissima Bonifacio
"le centre de leur puissance", i Genovesi avrebbero potuto formare laggiù
"une grande puissance maritime".[7]
Ma aveva cassato quella fantasticheria.
Il dominio di Genova sulla Corsica avrebbe cominciato a incrinarsi di
lì a poco, alla fine del 1729; e si trasformerà, con il
tempo, in volontà assoluta di secessione.[8]
L'Europa fu inondata, a partire dal 1731, dai manifesti degli insorti.
Le Gazzette diedero puntualmente notizia di quei segnali di malcontento.
Ma neppure ora, verso il 1731, nella velenosa Lettre sur Gênes,
tutt'altro che benevola verso l'oligarchia dominante ("je n'ai pas vu
un seul Génois qui ne déteste ses souverains"), Montesquieu
accenna ai rumori di Corsica.[9]
Silenzio tanto più curioso, in quanto il Saint-Olon, nel suo Mèmoire
(1682), che Montesquieu mostra di conoscere, aveva tanto insistito sul
vantaggio per la Francia di togliere alla Repubblica inetta e impotente
quella gioia rara.[10]
[149] I Còrsi, intanto, si erano mossi in direzione della
Spagna; ma la situazione internazionale non aveva permesso a Filippo V
d'intervenire. Intervenne invece volentieri, e proprio perché inquieto
delle mire spagnole, l'imperatore Carlo VI, che accettò l'invito
di Genova d'inviare nell'isola nell'agosto del 1731 un contingente di
ottomila uomini e artiglieria, a rafforzamento delle scarse milizie genovesi.
L'esercito imperiale, al comando prima del colonnello conte di Wachtendonck
e poi del principe di Württemberg, ottenne, dietro promesse di un
perdono generale e di serie riforme, la sottomissione degli insorti. Fedele
alla parola data e premuto sai suoi più stretti collaboratori (il
conte di Sinzerdorff, il Rialp, il principe Eugenio di Savoia, il governatore
di Milano, conte di Daun), Carlo insisterà, anche personalmente,
per una politica di riforme. Ne seguì una concitata trattativa
tra Genova, Milano e Vienna circa gli articoli da essere garantiti dall'imperatore
e quelli no. Alla fine, il 23 e 28 gennaio 1733, vennero approvate dal
Minor Consiglio rispettivamente le Concessioni graziose fatte dalla
Serenissima Repubblica di Genova a' popoli, e sudditi del Regno di Corsica
colla interposizione della cesarea garantia (diciassette articoli)
e i Nuovi ordini, e decreti della Serenissima Repubblica di Genova
da osservarsi nel Regno di Corsica per il buon regolamento di quell'Isola
(quaranta articoli).[11] Le
Concessioni graziose erano "assez abilement nuancées pour
désarmer la rébellion par des mesures où chaque classe
sociale trouvait son intérêt".[12]
In realtà, non ottennero che una tregua. All'inizio del 1734, l'insurrezione
si riaccende. Nel gennaio del 1735, la Consulta di Corte organizza la
Corsica in Stato sovrano. Questa prima costituzione, confezionata dall'avvocato
Sebastiano Costa, attrasse l'attenzione del Montesquieu, che la fece trascrivere
per intero nel suo Spicilège, così come era stata
riprodotta dalla Gazzetta di Amsterdam il 1° aprile 1735.[13]
Il potere di deliberare e decidere di tutti gli affari, tasse e imposizioni
del Regno era riservato alla dieta generale, composta dai deputati di
ogni città e villaggio del paese. Ogni tre mesi, essa doveva nominare
una giunta sovrana di sei membri, che, assieme ai tre generali –
Andrea Ciaccaldi, Pasquale Paoli, Luigi Giafferi – avrebbe assunto
i poteri di governo. La dieta non poteva [150] essere convocata
che per ordine dei tre generali. Le deliberazioni del Consiglio di guerra,
del magistero dell'abbondanza, di quello dei padri del Comune, di quello
delle monete (tutti composti di quattro membri), dovevano essere approvate
dalla giunta. Grande importanza veniva data ai titoli di ciascun magistrato:
quello di altezza reale competeva ai tre generali e ai capi della dieta;
quello di eccellenza ai membri della giunta; ai membri di tutti gli altri
comitati quello di illustrissimo. La pena di morte era generosamente comminata
non soltanto a coloro che si rifiutassero di accettare incarichi o impieghi
conferiti loro dalla giunta e che venivano perciò dichiarati ribelli,
ma anche a coloro che osassero disprezzare o ridicolizzare i titoli conferiti
ai generali, alla giunta di governo e a tutti gli ufficiali e ministri
della dieta. Una segreteria di Stato, composta da due membri, era incaricata
di vigilare sulla quiete del regno e soprattutto sui traditori della patria
o supposti tali, con il potere di giudicarli con processo segreto e di
condannarli a morte.
Montesquieu, purtroppo, non commenta gli articoli fondanti questo nuovo
Stato, che aveva per protettrice la Vergine e per gonfaloniere Cristo
e che per molti aspetti può essere considerato, almeno nelle intenzioni,
democratico.[14] Probabilmente,
gli articoli sul crimen lesae e quello sui sospetti dovettero suscitargli
qualche perplessità.[15]
Poco più di un anno dopo, il 15 aprile 1736, venne eletto re di
Corsica il westfaliano Teodoro di Neuhoff, deposto da nave inglese il
12 marzo sulla spiaggia di Aleria. La costituzione di Corte venne prontamente
sostituita da una nuova costituzione monarchica, sempre fattura del Costa,
che prevedeva una dieta di ventiquattro membri, un'imposta modesta, un'università,
un ordine di nobiltà, l'accesso dei Còrsi a tutti gli impieghi
pubblici con esclusione dei Genovesi, che avrebbero dovuto lasciare la
Corsica e, con loro, i coloni greci di Paomia, e i loro beni confiscati,
e infine, cosa sorprendente: libertà di coscienza. Ma durò
soltanto sei mesi: resosi conto della rapida disaffezione dei sudditi,
Teodoro lasciò segretamente l'isola l'11 novembre 1736, non senza
però speranza di ritorno (e infatti ritornò nel 1738 e nel
1743).[16]
[151] Il personaggio diventò ben presto un eroe da teatro;
ma Montesquieu non si divertì alle sue spalle, come farà
più tardi Voltaire nel Candide. Quel breve regno era stato
comunque un primo, aperto tentativo di dar corpo all'indipendenza della
Corsica. Indipendenza difficile da ottenere e soprattutto da conservare.
Le maggiori insidie venivano dalla Francia, che, proprio in quegli anni,
aveva manifestato, o meglio stava per manifestare, un interesse violento
per il possesso dell'isola. L'envoyé extraordinaire Campredon
aveva speso molto della sua attività, nel 1735, a ordirvi, con
l'applauso e l'appoggio del segretario di Stato agli affari esteri Chauvelin,
un colpo di mano.[17] Ma,
all'ultimo momento, lo Chauvelin si era tirato indietro: un'azione così
brutale avrebbe messo la Francia in troppa cattiva luce di fronte all'opinione
europea. Meglio una penetrazione lenta e capillare, sempre che (come faceva
sperare il Campredon) i Genovesi non volessero vendere l'isola. Idea,
questa, tipicamente francese, alla quale Genova mai si piegò. Anche
la cessione del 1768 non fu un atto di vendita: tanto è vero che
il governo di Luigi XVI le offrirà, nel 1790, la possibilità
di una retrocessione.[18]
A perseguire dunque quel fine in forme più vellutate provvide il
vecchio Fleury: "L'habilité consista – scrive l'Antonetti
– à associer, sur le papier, le Roi de France et l'Empereur".[19]
Il 12 luglio 1737 Luigi XV e Carlo VI stipularono, infatti, un trattato
che garantiva la sovranità genovese sull'isola. E, a nome dei due
garanti, il 5 agosto successivo, negoziò con Genova l'invio di
un corpo di spedizione di tremila uomini per pacificare l'isola. Il corpo
sbarcò a Bastia l'8 febbraio 1738. Lo comandava il conte di Boissieux,
uomo di pace. Per rendere più efficace la pacificazione, il buon
conte era impaziente di ricevere un nuovo regolamento che ampliasse le
già larghe concessioni fatte dalla Repubblica nel 1733. La Repubblica
vi si piegò; e inviò a Versailles Gian Francesco Brignole
Sale per concordare con i principali ministri francesi (Amelot, Maurepas,
Angervilliers, Orry) il testo definitivo. Avanti l'apertura della prima
conferenza (l'affare fu sbrigato in due sedute) [152] il Brignole
fece pervenire al ministero delle sue Remarche. Tra le osservazioni
spicca una sdegnata denunzia dell'inumanità dell'Ordonnance
criminelle. In armonia con quella, gli estensori della bozza di regolamento
avevano previsto la condanna a morte anche per coloro che avevano ucciso
per legittima difesa o preterintenzionalmente, riservando loro soltanto
l'alea della grazia:
Non può la Repubblica occultare la somma ripugnanza
che pruova in astringere i giudici a condannar di morte chi avesse commesso
un omicidio involontario o fatto a legittima difesa in modo che, a risalva
della grazia, la quale da alcun contigibile accidente può tal volta
essere frastornata, abbia a punirsi di morte un uomo, che dinanzi a Dio
sarebbe innocente.[20]
Ma i ministri francesi non vollero sentir ragioni: obiettarono che "così
praticavasi in Francia onde non fu possibile rimuoverli".[21]
La conoscenza sommaria dell'articolo VI del regolamento, letto però
verso il 1746 nella Gazzetta di Amsterdam del novembre del 1738,
fece esplodere l'ira del Montesquieu. Non su questo punto, come sarebbe
stato ovvio, ma sul comma successivo, nel quale si ritirava al governatore
dell'isola il potere, concessogli nel 1658, di punire ex informata
conscientia a tre anni di galera (portati poi a cinque) falsi testimoni,
falsamonete e complici. Ma egli credette che con quella procedura il governatore
mandasse a morte i suoi governati. Il tono che assume nei confronti di
Genova è sferzante: "Qui l'eût que les maximes [153]
les plus cruelles du despotisme ce seroit un peuple qui se vante d'être
libre qui les auroit établies contre de malheureux sujets?". Oppressi
in quel modo, i Còrsi erano stati costretti a chiedere il rispetto
del diritto naturale: "Les Corses, dans leurs traités, ont été
obligés de stupuler le droit naturel, et la République de
Gênes a signé le traité qui la couvre à jamais
de confusion, par lequel elle s'engage de ne plus faire mourir les Corses
sans procès, ni sur la conscience informée du gouverneur".
La ininterrotta richiesta di aiuto alle corti straniere (tutte, a cominciare
dalla Francia, notoriamente disinteressate), per conservare alla Repubblica
la sovranità dell'isola, faceva dei suoi agenti diplomatici dei
grandi seccatori: "Cette République, dans l'impuissance de reduire
des peuples maltraités, envoye, de cour en cour, importuner tous
les rois et acheter d'eux la vie de ces peuples, après l'avoir
tant de fois vendue".[22]
Montesquieu stava allora lavorando a dare l'ultima mano al suo capolavoro.
Non seppe astenersi dal manifestare la propria indignazione in un capitolo
dell'opera.[23] Nel manoscritto
parigino (che, come prova il passo in questione, rappresenta la penultima
stesura di essa, come aveva congetturato lo Schackleton) troviamo già
il suo j'accuse:
Les Génois tenoient la Corse dans sa sujection; mais
il n'y avoit rien de si corrompu que leur droit politique, ni de si violent
que leur droit civil. On se souvient de ce Traité dans lequel
le Sénat leur promet qu'on ne les feroit plus mourir sur la conscience
informée du gouverneur. On a vu souvent des peuples demander des
privilèges, ici le peuple demande, ici le souverain accorde le
droit naturel même.[24]
Meglio si era condotta – diceva nel capitolo successivo, il nono
– l'Inghilterra nei confronti dell'Irlanda. L'aveva sì soggiogata
per pura gelosia commerciale e la teneva alla sua stretta dipendenza ("l'accable
par le droit des gens"); ma le aveva dato almeno un "bon gouvernement
politique et un bon gouvernement civil", ossia le sue proprie leggi, di
modo che "l'Etat est esclave et les citoyens sont libres".[25]
Non poteva scegliere esempio più infelice: l'Irlanda del Settecento
era "il popolo più oppresso dell'Europa occidentale".[26]
[154] Buona regola, a ogni modo, del diritto di conquista era evitare
la distruzione del popolo vinto. La violenza era stata troppo necessaria
al momento della conquista; ma, una volta fatta, toccava al conquistatore
riparare una parte dei mali che essa aveva causato. Il diritto di conquista
era, insomma, "un droit nécéssaire, légitime et malheureux,
qui laisse toujours à payer une dette immense pour s'acquitter
envers la nature humaine".[27]
Il relativismo portava Montesquieu a distinguere gli obblighi di ogni
forma politica che si faceva conquistatrice: monarchie, repubbliche, Stati
dispotici. Nel caso della repubblica, la differenza tra quelle aristocratiche
e quelle democratiche non era sensibile: "ce que j'ai dit de l'Etat populaire,
se peut appliquer à l'aristocratie". Era il caso di Genova. Enunciava,
dunque, la regola: "Quand une république tient quelque peuple sous
sa dépendance, il faut qu'elle cherche à réparer
les inconvénients qui naissent de la nature de la chose, en lui
donnant un bon droit politique et de bonnes lois civiles". Proprio quello
che la Repubblica di Genova, a parer suo, non aveva saputo fare, continuando
ad abusare del diritto di conquista.
Nell'edizione ginevrina del 1748 si registrano tre piccole varianti: "Les
Génois" è diventato "une république d'Italie"; la
parola "Sénat" è stata sostituita con "elle" (la République);
"le droit naturel même" è diventato "le droit de toutes les
nations". Ecco dunque, per comodità del lettore, il testo quale
si legge (o piuttosto, come vedremo, si leggeva) nell'editio princeps
(Genève, Barillot, 1748):
Une république d'Italie tenoit des insulaires sous son
obéissance. Mais son droit politique et civil à leur égard
étoit vicieux. On se souvient de ce traité dans lequel elle
leur promet qu'on ne les feroit plus mourir sur la conscience informée
du gouverneur. On a vu souvent des peuples demander des privilèges;
ici le peuple demande, ici le souverain accorde le droit de toutes les
nations.
L'opera era appena giunta nelle mani di Madame de Tencin (fu la prima
copia a giungere a Parigi), allorché due frequentatori assidui
del suo salotto, che proprio nelle sue mani l'avevano rivoltata, la pregarono
di comunicare all'Autore le loro osservazioni su due passi dell'opera:
quello riguardante il Banco si San Giorgio,[28]
e quello relativo appunto alla Corsica. Si trattava di due coetanei, i
quali avevano ricoperto entrambi, in tempi diversi, incarichi diplomatici
a Parigi: Agostino Lomellini e Gian Francesco Pallavicini. Il Pallavicini
era ancora, all'epoca, ministro plenipotenziario alla corte di Versailles.
Erano entrambi intellettuali eminenti, il Lomellini [155] soprattutto.[29]
Ma anche Pallavicini (1709-1792) era uomo di buona cultura. Il Galiani,
che del fratello cardinale, Lazzaro Opizio, era amicissimo, lo portava
alle stelle.[30] Frequentatori
assidui sia del salotto di Madame de Tencin sia di quello da poco aperto
di Madame Geoffrin trovarono facilmente il canale per raggiungere Montesquieu.
A uscire in sovracoperta fu, il 28 marzo 1749, Madame Geoffrin. Si può
ammirarne il tatto:
Monsieur de Lomellini et Monsieur de Pallavicini sont au nombre
de vos plus grands admirateurs: ce dernier est, comme vous savez, ministre
de la République. C'est un home qui a beaucoup d'esprit et de droiture
et qui est fort attaché à sa patrie; il croit que les François
doivent être contents des Génois [nella recente guerra] et
par conséquent, il est très persuadé que votre intention
n'a pas été d'offenser une république qui s'est sacrifiée
pour nous et dont nous avons reçu bien réellement des services
et des secours bien essentiels. Ayant entendu dire qu'on alloit faire
une seconde édition de l'Esprit des lois, il m'a priée
de vous envoyer le petit mémoire ci-joint. Je vous supplie, mon
cher Président, de ne sçavoir aucun mauvais gré de
m'être chargée de cette commission. J'ai assuré Monsieur
de Pallavicini que vous recevriez cette représentation avec la
douceur et la politesse qui ne vous abandonnent jamais dans les disputes
les plus vives et que les lumières de votre esprit et la droiture
de votre coeur vous feroient sentir tout d'un coup la justice de sa cause.[31]
[156] Il 2 aprile era la volta di Madame de Tencin: "Je vous
envoye, mon cher Romain, les remarques de Monsieur de Pallavicini; peut-être
les avez-vous déja. Il y a longtemps qu'il les a donné à
Madame Geoffrin". Questa memorietta era rimasta tra le carte conservate
a La Brède, che soltanto di recente sono state depositate presso
la Bibliothèque Municipale di Bordeaux.[32]
Ne do in appendice la trascrizione. Eccone, in ogni modo, il succo.
Quello che l'Autore citava non era un trattato: era il testo di un'amnistia
e delle concessioni che la Repubblica aveva fatto ai Còrsi nel
1738. Tra i Còrsi e i Genovesi non c'era stato, né poteva
esserci, trattato, data la loro posizione di sudditi. In questo editto
non era stato promesso ai Còrsi "qu'on ne les feroit plus mourir
sur la coscience informée du gouverneur"; soltanto era stato tolto
al governatore il potere di condannare i Còrsi ex informata
conscientia a pene afflittive. Errore tanto più grave, quello
del Montesquieu, in quanto avrebbe potuto far credere che in passato egli
fosse stato autorizzato a mandare a morte i Còrsi "sur sa conscience
informée". Inoltre, il potere di procedere ex informata conscientia
in occasione di certi delitti, concesso ai tribunali di Genova, non aveva
mai escluso, né in Corsica né altrove, la necessità
d'istruire un processo scritto e di osservarsi tutte le formalità
ordinarie: la sola differenza consisteva nell'esigere più o meno
prove o nel dispensarne, ma mai quando si trattava di infliggere la pena
di morte.[33] Ne conseguiva
che mai i Còrsi erano stati nelle condizioni di [157] "démander"
né la Repubblica "d'accorder le droit de toutes les nations". Ergo:
non si poteva dire che "le droit politique et civil à l'égard
de ces insulaires étoit vicieux". Montesquieu non accettò
la conclusione di questo sillogismo, ma fu sensibile alle altre osservazioni:
Vous ne devez – rispondeva a Madame Geoffrin, forse il
25 aprile – nullement douter que je donne à Messieurs les
marquis Pallavicini et Lomellini toute la satisfation qu'ils souhaitent,
que je ne fasse usage du mémoire et qu'en conséquence dans
les nouvelles éditions que je pourrai découvrir [...] et
je vous prie de les assurer et du respect infini que j'ai pour leurs personnes
et de l'envie que j'ai de conserver leurs bonté et leurs amitié.
Cette amitié m'est d'autant plus précieuse qu'elle nous
est comme avec la votre et qu'elle forme pour ainsi dire un tout dont
il ne faut pas ôter l'intégrité.[34]
In realtà, Montesquieu fece di più. Non attese una seconda
edizione, ma intervenne già sulla prima. Inserì, cioè,
uno dei tredici cartons nell'opera già stampata. Diede dunque
atto al Pallavicini che il "trattato" del quale aveva parlato non era
un trattato, bensì un "acte d'amnistie"; non fece più morire
i Còrsi "sur la conscience informée du gouverneur"; rinunziò
ad un efficace antitesi ("ici le peuple demande, ici le souverain accorde"),
che poteva apparire una giustificazione della ribellione; fece risaltare,
al contrario, la clemenza della Repubblica; l'abuso c'era stato ("son
droit [...] étoit vicieux"), ma la Signoria, con l'editto di pacificazione
(del quale, nell'edizione del 1750, fornirà la data e il testo
italiano) lo aveva di sua iniziativa corretto.
Ecco dunque il brano che, eseguita la toilette, i lettori dell'editio
princeps (tranne i possessori dei tre esemplari non cartonnés)
ebbero sotto gli occhi:
Une république d'Italie tenoit des insulaires sous son
obéissance; mais son droit politique et civil à leur égard
étoit vicieux. On se souvient de cet acte d'amnistie, qui porte
qu'on ne les condamneroit plus à des peines afflictives sur la
conscience informée du gouverneur. On a vu souvent des peuples
demander des privilèges; ici le souverain accorde le droit de toutes
les nations.
Il capitoletto perdeva un po' della sua enfasi; ma, almeno, fugava ogni
sospetto che l'Autore volesse incoraggiare le rivolte, anche quelle nobilmente
motivate.
[158] Va tuttavia notato che in anni nei quali, soprattutto in
Francia, l'opinione sui Còrsi era pessima, Montesquieu costituisce
una felice eccezione per la sua sensibilità all'oppressione che
Genova aveva fatto pesare sull'isola e "à l'aspiration à
la liberté de ce petit peuple": così l'Antonetti, forzando
un po' i testi.[35] E' quest'accenno
lusinghiero verso il suo popolo, che rese Montesquieu caro a Pasquale
Paoli? La risposta non è facile. Innanzi tutto, bisogna dimostrare
che, nel novembre del 1754, allorché da Longone scrisse al padre
per avere quell'opera come una "delle più necessarie in Corsica",
l'avesse letta.[36] Cosa difficile
a credersi, visto che sperava di trovare in essa schemi e progetti di
costituzione, del genere di quelli che andava, in quel tempo, febbrilmente
fabbricando lui stesso. In ogni caso, il 16 marzo 1755, non era stato
ancora accontentato, e rinnovò la richiesta. Ammesso pure che quel
libro gli arrivasse tra le mani, non ebbe certo il tempo di farne tesoro
nella confezione dei testi costituzionali da lui redatti nel luglio e
nel novembre del 1755. Né vi fece mai più accenno. Eppure,
da molti si dice che da Montesquieu il Paoli apprese la teoria della separazione
dei poteri. Ancora Franco Venturi sacrifica a questo mito.[37]
In realtà – osserva giustamente l'Ettori – "la théorie
comme la pratique du Général a toujours ignoré de
telles distintions, inconcevables d'ailleurs dans un état de guerre
où tous les ressorts du pouvoir devaient être tendus [?]
par la même main". Quanto al potere giudiziario, è nota la
spietatezza della sua giustizia. Le garanzie elementari non erano rispettate:
"une demi-preuve suffit – confidò al Boswell – un peu
de sang versé en épargne beaucoup". Se si identificasse
il giacobinismo con il terrore, questo degno rappresentante di un governo
"virtuoso" potrebbe a buon diritto figurare tra gli antenati. Per trovare
un liberale (e ben di liberali andiamo in cerca, trattandosi di Montesquieu),
in quell'ambiente tendenzialmente umanistico, bisogna rivolgersi al suo
amico e poi antagonista Matteo Buttafoco, che apriva la sua memoria, presentata
alla consulta di Corsica nel 1764, con queste parole: "Perciò bisogna,
come dice il celebre Montesquieu, che il potere arresti il potere".[38]
[159]
Appendice
Bibliothèque Municipale di Bordeaux, Fonds de La
Brède, ms. 2526.
Remarque sur le chapitre VIII du Xe livre de l'Esprit des
loix où il est dit:
Une Republique d'Italie tenoit des insulaires sous son obeissance. Mais
son droit politique et civil à leur ègard étoit vicieux.
On se souvient de ce traité dans lequel elle leur promet qu'on
ne les feroit plus mourir sur la conscience informée du Gouverneur.
On a vu souvent des peuples demander des Privilèges; ici le peuple
demande, ici le souverain accorde le droit de toutes les nations.
Ce qu'on croit que l'autheur veut citer n'est point un traité;
c'est une publication de l'amnistie et des concessions, que la Republique
de Genes accorde aux Corses en 1738. Cependant non seulement l'autheur
le nomme un traité, mais il donne lieu à des gens peu instruits
de croire que c'en est un entre la Republique de Genes et les Corses par
ces mots: «ici le peuple demande, ici le souverain accorde».
On n'a pas promis aux Corses dans ces Concessions qu'on ne les feroit
plus mourir sur la conscience informée du Gouverneur, mais on a
deffendu au Gouverneur de l'Isle de condamner les Corses ex informata
conscientia à des peines afflictives. Cette difference est d'autant
plus essentielle que l'erreur dans la quelle est tombé l'autheur
prouveroit que le Gouverneur de Corse à été autorisé
autrefois a punir les Corses de mort sur sa consciense informée,
ce qui n'est point.
L'autheur ignore peut-etre que le pouvoir de proceder ex informata coscientia
à l'occasion de certains delits est accordé par les loix
de Genes à d'autres tribunaux qu'à ceux de Corse, mais que
cette maniere de proceder n'a jamais exclu ni en Corse ni ailleurs la
necessité d'instruire un procès par écrit, et d'y
observer toutes les formalités ordinaires, et que la difference
ne consiste qu'à exiger plus ou moins de preuves, ou à en
dispenser, mais jamais pour la peine de mort.
Il s'en suit que les Corses n'ont jamais été dans le cas
de demander, ou la Republique dans le cas d'accorder le droit de toutes
les nations, ce qu'on ne sauroit dire pas le droit politique et civil
à l'égard de ces insulaires etoit vicieux.
|
Note
[*] Contributo inserito in
Appendice al volume Poteri, democrazia, virtù. Montesquieu nei
movimenti repubblicani all'epoca della Rivoluzione francese, Milano,
Angeli, 1999, pp. 147-158, in quanto, benché tematicamente connesso
all'argomento della tavola rotonda, è incentrato su un periodo
storico anteriore a quello della Rivoluzione francese. Qui, rispetto alla
versione cartacea, sono state sciolte le abbreviazioni e sfrondate le
maiuscole nelle fonti citate. La paginazione originale viene inoltre riportata
in grassetto tra parentesi quadre [Davide Arecco].
[1] MONTESQUIEU, Oeuvres
complètes, ed. A. MASSON, III voll., Paris, Nagel, 1950-1955,
vol. II, pp. 1052-1064.
[2] F. ETTORI, La paix génoise,
in Histoire de la Corse, ed. P. ARRIGHI, Toulouse, Privat, 1971,
pp. 245-306.
[3] R. EMANUELLI, Gênes
et l'Espagne dans la guerre de Corse (1559-1569), Paris, Picard, 1964,
p. 446.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] O. PASTINE, La Repubblica
di Genova e le Gazzette, Genova, Fratelli Walser & C., 1923, p.
81.
[7] Pensée 313
(MONTESQUIEU, Oeuvres complètes, cit., vol. II, p. 133).
[8] G. ORESTE, "La prima insurrezione
còrsa del secolo XVIII (1730-1733)", Archivio storico di Corsica,
XVI, 1940, pp. 1-12, 147-164, 292-315, 393-430; XVII, 1941, pp. 32-79,
159-209. Ingannato dalle sue fonti, l'Oreste anticipa al 1731 la volontà
di secessione, datando a quell'anno la costituzione, che fu invece votata
a Corte quattro anni dopo (XVI, p. 418). Quanto alla consulta dei teologi
a Orezza (Ibid., p. 420), non era stata affatto proclamata in essa
la guerra "giusta e santa". I Còrsi erano stati invitati, anzi,
ad aspettare l'esito dei negoziati aperti con Genova (F. ETTORI, "Le congrès
des théologiens à Orezza, 4 mars 1731. Mythe et réalité",
Etudes corses, I, 1973, pp. 77 e segg.). E' vero, tuttavia, che,
dal dicembre 1730, la rivolta si dà dei capi, poco entusiasti in
verità e accomodanti con Genova (P. ANTONETTI, Histoire de la
Corse, Paris, Laffont, 1902, pp. 312-313). E' dei primi mesi del 1731
il manifesto che s'intitola: Ragioni che vengono allegate dai popoli
della Corsica per la loro sollevazione (Copia: Archivio di Stato,
Genova, Ribellione Corsica, Ms. F. 3/3001). Vi sono riassunti i
ventinove capitoli, ossia i cahiers de doléances presentati
in aprile dai capi della rivolta al nuovo commissario generale Veneroso
(F. Pomponi).
[9] MONTESQUIEU, Oeuvres
complètes, cit., vol. II, pp. 1303-1312.
[10] Ibid., vol. II,
pp. 1058, 1311. Il Mémoire des revenues et des forces de la
République de Gennes (décembre 1682) si legge
in: Recueil des instructions, XIX, ed. E. DRIAULT, Paris, Alcan,
1912, pp. 185-199, châpitre VI, De la Corse, pp. 197-199.
[11] La storia minuta di queste
trattative è stata tessuta da G. ORESTE, La prima insurrezione
còrsa del secolo XVIII, cit., XVII, 1941, pp. 159-209.
[12] Biblioteca Civica Berio,
Genova, Ms. r. XIV, 5, 13-14. Il testo è riprodotto da G.G. CAMBIAGI,
Istoria del Regno di Corsica, Firenze, 1771, vol. III, pp. 46-51.
Cfr. P. ANTONETTI, Histoire, cit., p. 137.
[13] Oeuvres complètes
de Montesquieu, XIII, Spicilège, a cura di R. MINUTI
- SALVATORE ROTTA, Oxford - Napoli, Voltaire Foundation - Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici, 2002, n° 611. Il testo intero (ma con i
nomi storpiati) si legge [anche] nell'edizione curata da L. DESGRAVES,
Paris, Laffont, 1991.
[14] Su questo testo "obscur
et informe" (F. Ettori), cfr. R. EMANUELLI, Précis d'histoire
de Corse, Ajaccio, Editions Cyrnos et Méditerranée,
1970, pp. 80-82; F. ETTORI, Histoire de la Corse, cit., pp. 319-321.
In questa occasione, fu varato l'inno nazionale Dio vi salvi regina
(S.B. CASANOVA, Histoire de l'Eglise de Corse, Ajaccio, Imprimérie
Typographyque, 1932, vol. II, pp. 76-77); a mia conoscenza il primo inno
nazionale. Il God save the King fu cantato a Drury Lane il 25 settembre
1745 (P.P. SCHOLES, "Gode save the King": its History and its Romance,
Oxford, Oxford University Press, 1943).
[15] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, XII, 12.
[16] A. LE CLAY, Théodore
de Neuhoff, roi de Corse, Monaco-Paris, 1907; S. COSTA, Mémoires,
ed. R. LUCIANI, Paris - Aix en Provence, 1972-1975; P. ANTONETTI, Histoire
de la Corse, cit., pp. 322-327.
[17] D. SPADONI, "La trama
di un ambasciatore in Genova per dar la Corsica alla Francia (1735)",
Archivio storico di Corsica, XVII, 1941, pp. 145-158; S. ROTTA,
"Une aussi perfide nation. La Relation de Gênes di
Jacques de Campredon (1737)", Quaderni Franzoniani, XI, 1998, pp.
609-708.
[18] N. SAVELLI, "La Corsica
non fu venduta alla Francia", Archivio storico di Corsica, XIII,
1937, pp. 351-360; R. EMANUELLI, "Le gouvernement de Louis XVI offre à
la République de Gênes la rétrocession de la Corse
(1790)", Annales historiques de la Révolution française,
XLVII, 1974, pp. 623-640.
[19] P. ANTONETTI, Histoire
de la Corse, cit., p. 239.
[20] Archivio di Stato, Genova,
Archivio segreto, Ms. 2222 (G.F. Brignole Sale ai Serenissimi,
Fontainebleau, 18 ottobre 1738. Annesso A. Il Brignole Sale sarà
eletto doge in anni difficili (1746-1748).
[21] Ibid. Il testo
dell'Editto per i popoli dell'isola di Corsica, stampato dal Franchelli,
[si trova] in: Biblioteca Civica Berio, Genova, Ms. r. XIV, 3. L'Editto
è firmato dall'Amelot, dal principe Joseph von Lichtenstein e naturalmente
dal Brignole. L'articolo VI citato dal Montesquieu recita: "VI. Affine
di estirpar li omicidi tanto frequenti nell'Isola, noi fissiamo la pena
di morte contro i rei di tal delitto, e ancora contro quelli, che faranno
qualunque attentato all'altrui vita, benché la morte non succeda;
e per impedire così le grazie che potrebbero loro accordare, noi
dichiariamo senza recare alcun pregiudizio alla sovrana autorità
della nostra Repubblica, di non voler giammai per l'avvenire accordare
alcuna grazia ai rei d'omicidio, eccettuati quelli che avessero ciò
fatto involontariamente, o nel caso di una legittima difesa, e secondo
ciò che noi giudicheremo espediente. Si proibisce espressamente
al nostro governator generale dell'Isola di condannare in appresso ex
informata conscientia qualunque persona della nazione a veruna pena
afflittiva, ma soltanto di fare arrestare, e mettere in forze quelli che
gli sembrassero sospetti, rendendosene esatto conto. Parimente proibiamo
al medesimo governatore la facoltà di avocare le cause civili,
e criminali, affinché il corso della giustizia resti libero in
tutti i respettivi tribunali, ove saranno portate".
[22] MONTESQUIEU, Pensée
1490 (Oeuvres complètes, cit., vol. II, pp. 427-428).
La datazione di questo frammento non è ardua: tre numeri dopo,
compare un'epigrafe per la morte dell'abbé de Vaudrun, che accadde
appunto nel 1746 (n° 1493). La fonte è stata indicata dallo
stesso Montesquieu, in calce alla sua citazione (fino al 1757). Fu soppressa
non, come pensa Derathé, perché errata (lo era), ma perché
superflua.
[23] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, X, 8.
[24] Bibliothèque Nationale,
Paris, Fonds Français, Nouvelles Acquisitions, Ms. 12833,
f. 135.
[25] Ibid., f. 136;
MONTESQUIEU, Esprit des lois, XIX, 27.
[26] R. PALMER, R. COLTON,
Storia del mondo moderno [1984], Roma, Editori Riuniti, 19982,
vol. I, p. 174.
[27] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, X, 4.
[28] MONTESQUIEU, Esprit
des lois, II, 3.
[29] Cfr. S. ROTTA, "Documenti
per la storia dell'Illuminismo a Genova: lettere di Agostino Lomellini
a Paolo Frisi", Miscellanea di storia ligure, I, 1958, pp. 189-329.
Envoyé extraordinaire alla corte di Versailles dal 1739
al 1742, aveva aperto liberalmente la sua casa e vissuto in intimità
con i più promettenti giovani scienziati: Alex Fontaine, Alexis
Clairaut, e soprattutto il giovanissimo d'Alembert (C.Y. COUSIN D'AVALON,
D'Alembertiana, 1913, pp. 36-37, cit. da E. BADINTER, Les passions
intellectuelles, I, Désires de gloire (1735-1751), Paris,
Fayand, 1999, p. 200). Amicizia, quest'ultima, che durerà nel tempo.
Nel luglio del 1749, d'Alembert dedicherà a quel generoso signore
e "profond géomètre" una delle sue più ardue opere
astronomiche: le Recherches sur la précession des équinoxes.
E di nuovo parlerà di lui con lode, nel 1754, nell'Essai sur
la société des gens de lettres et des grands (Saggio
sui rapporti tra intellettuali e potenti, a cura di F. BRUNETTI, Torino,
Einaudi, 1977, pp. 34-35, n. 1). L'anno prima, il Lomellini aveva elegantemente
tradotto, nelle sue parti essenziali, il suo Discours préliminaire
(1751) dell'Encyclopédie. Rimasto con lui in assidua corrispondenza
(purtroppo perduta), gli fece inutilmente sperare, tra il 1758 e il 1770,
una sua visita a Genova. A Parigi, il Lomellini aveva frequentato il Montesquieu,
sia all'epoca del suo primo soggiorno sia durante la sua seconda dimora
(1748-1749). Cfr. Oeuvres complètes de Montesquieu, cit.,
vol. II, p. 455; vol. III, p. 113.
[30] Cfr. S. ROTTA, L'Illuminismo
a Genova. Lettere di P.P. Celesia a F. Galiani, Firenze, La Nuova
Italia, 1971 [stampa 1974] – 1973 [stampa 1976], vol. I, p. 219;
vol. II, pp. 7, 10, 28, 43, 93, 96, 98, 113, 139, 148, 164, 166, 250,
252, 267; "Gli archivi Pallavicini di Genova, I, Archivi propri. Inventario",
a cura di M. BOLOGNA, Atti della Società Ligure di Storia Patria,
XXXIV, 1, 1994, p. 139. Gian Francesco III morì celibe (Ibid.,
pp. 28-29).
[31] Oeuvres complètes
de Montesquieu, cit., vol. III, pp. 1213-1214.
[32] Bibliothèque Municipale,
Bordeaux, Fonds de La Brède, Ms. 2526.
[33] Il primo storico a mettere
in discussione l'uso della procedura ex informata conscientia è
stato l'Ettori: "La procédure ex informata conscientia,
mieux comprise, n'est pas, en son principe, la monstreuse barbarie qu'on
a denoncée" (La paix génoise, cit., p. 287). A far
velo a molti storici filofrancesi della Corsica fu forse l'esperienza
dell'età della Restaurazione. Malgrado l'articolo LXV della carta
del 1814, la giuria non fu ripristinata e la corte criminale di Bastia
giudicò ex informata conscientia condannando a morte: "Quindi
si videro cadere sul palco dell'infamia teste innocenti" (F. RANUCCI,
Storia di Corsica, Bastia, 1834, pp. 368-369, 409). Il governatore
di Corsica aveva ricevuto il potere di condannare ex informata conscientia
nel 1658. Poteva condannare da uno fino a tre anni (poi a cinque) a suo
arbitrio non solo i testimoni i quali, nelle cause, deponessero il falso,
ma anche quelli che li producessero o presentassero per esaminare. La
stessa facoltà di condannare a pena di galera gli era stata concessa
per i coniatori di monete false e anche [per] quelli che le prendessero
e dessero o tenessero mano a spenderle (Statuti civili e criminali
di Corsica, a cura di G.C. GREGORI, Lyon, 1843, vol. II, p. 139).
A Genova, una sistematica ricognizione, eseguita dall'amico Rodolfo Savelli,
delle sentenze delle cause criminali, conservate nella Biblioteca dell'Archivio
di Stato e nel fondo Manoscritti, ha rivelato che tali pene erano
state irrogate dal Magistrato degli Inquisitori di Stato, da quello dei
Censori e da quello di Guerra. Cfr. G. FORCHERI, Doge, governatori,
procuratori, consigli e magistrati della Repubblica di Genova, Genova,
Società Ligure di Storia Patria, 1968, pp. 117-118: "[...] in talune
materie, nonostante l'avvenuta assoluzione da parte della Rota, era
possibile agli Inquisitori di Stato di condannare egualmente ex informata
conscientia o anche commutare le pene inflitte dal giudice ordinario
in altre più gravi". Procedura praticata anche da parte del governatore
di Corsica, ma ora espressamente vietata dall'ultimo comma dell'articolo
VI dell'Editto del 18 ottobre 1738 (vedi supra, n. 21).
[34] Oeuvres complètes
de Montesquieu, cit., vol. III, pp. 1222-1223.
[35] P. ANTONETTI, Histoire
de la Corse, cit., p. 361.
[36] F. ETTORI, "La formation
intellectuelle de Pasquale Paoli (1725-1755)", Annales historiques
de la Révolution française, XLVIII, 1974, pp. 485-507.
Indagine esemplare.
[37] F. VENTURI, Settecento
riformatore, V, L'Italia dei Lumi, I, Torino, Einaudi, 1987,
p. 25.
[38] Bibliothèque Publique
et Universitaire, Neuchâtel, Ms. 7940 (cit. da F. ETTORI, "La formation",
cit., p. 497 n. 63).
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