Nacque a Verona il 9 settembre 1704 da Chiara Gaetani, bresciana, e da
Giambattista, fratello di Francesco. Quest’ultimo si addossò
la cura della sua educazione.
Il Bianchini rimase devotissimo alla memoria dello zio: provvide
a mettere in luce alcune sue opere inedite e, se lasciate imperfette,
a dar loro l’ultima mano; di due grandi imprese da lui iniziate
si fece continuatore: l’edizione del Liber
pontificalis e la Historia
ecclesiastica. Non riuscì invece a portar a termine
l’edizione del carteggio e della “superba” raccolta
di iscrizioni messa insieme dall’infaticabile monsignore.
Era ancora convittore nel seminario di Montefiascone (la celebre
fondazione del vescovo M.A. Barbarigo), allorché, nel 1725, gli
fu conferito dal capitolo veronese un canonicato nella chiesa cattedrale
e dal pontefice, con bolla del 20 marzo, la prebenda di San Luca. Ritornato
a Verona, prese possesso, il 23 maggio, del canonicato. Cominciò
a lavorare nella libreria del capitolo: “la nobil cava de’
manoscritti”, appena un tredicennio innanzi “resuscitata”
per le diligenze di Scipione Maffei.
Gran parte di quelle ricchezze era ancora intatta. Della Bibliotheca
Veron. manuscripta, preparata in un settennio di lavoro dal
Maffei, era uscito nel 1721 solo un saggio: l’edizione tutt’altro
che impeccabile delle Complexiones
di Cassiodoro. Fu lo stesso Maffei a raccomandar al Bianchini
lo studio di quei manoscritti. Raccomandazione probabilmente superflua:
che cosa valessero quei codici il Bianchini sapeva bene dallo zio, che
nel 1720 li aveva esaminati e aveva estratto da essi un Ordo
Romanus per il suo Anastasio. Guastatosi con i canonici del
capitolo, il marchese voleva evidentemente addestrare un ricercatore fidato
che disponesse di quella libreria. Il Bianchini possedeva già una
buona preparazione teologico-giuridica: in quei primi mesi di stage
acquisì la necessaria esperienza paleografica. Il suo centro d’interesse
s’andò rapidamente fissando nello studio dell’antichità
sacra.
Ma si darebbe un’immagine incompleta della fisionomia intellettuale
del Bianchini a quest’epoca, se non si tenesse conto della vivacità
dei suoi interessi per le scienze sperimentali. Una larga e aggiornatissima
cultura scientifica dimostra di possedere l’autore del Parere
sulle cause della strana morte della contessa Zangari: uno
scritto d’occasione, steso nel 1731 per compiacere al conte veronese
O. Ottolini.
Di un fenomeno apparentemente preternaturale il Bianchini cercava,
da buon meccanicista, le cause fisiche: la natura - è l’assioma
che guida l’indagine -, a guardar ben “al di dentro delle
cose”, “non preterisce giammai quegli ordini delle vere leggi
meccaniche che ad essa furono dal Divino Facitore prescritte” (Parere
[...], 1731, p. IV). Il libriccino ebbe fortuna: onorato
da lusinghieri resoconti della Bibliothèque
raisonnée des ouvrages des savans de l’Europe,
Amsterdam, XXXIX, e di P. Rolli (Philosophical
transactions, L, Londra, 1745, pp. 447 e segg.), fu in men
di vent’anni ristampato quattro volte. Il Bianchini vi aveva sostenuto
la possibilità di autocombustione di un vivente. Se ne ricorderà
il Dickens in Bleak House
(capitolo XXXIII e prefazione).
Ben presto però tali interessi verranno, se non proprio accantonati
del tutto, respinti in secondo piano dagli studi di storia ecclesiastica
e di filologia biblica, e dalla passione antiquaria. Larga sarà,
in quest’ultimo campo di ricerche, l’attività del Bianchini:
riprenderà e porterà avanti il progetto di Francesco di
“provare” la storia ecclesiastica con i monumenti; formerà
il piano di illustrare, in occasione dell’anno santo, in collaborazione
con l’incisore Vasi, le magnificenze di Roma antica e moderna in
dieci volumi; di antichità profane e sacre discorrerà più
volte nelle accademie pontificie; di moltissime iscrizioni fornirà
copie al Maffei e al Muratori; sarà lui infine a spingere Benedetto
XIV a creare, nel 1756, il Museo Cristiano Vaticano, che era stato il
gran sogno dello zio. [201] Con
tutto questo, nei suoi ultimi anni affiorerà in lui un interesse
nuovo, quello per l'economia politica: tra le sue carte è una raccolta
di editti e opuscoli con estratti di economisti antichi e moderni dal
titolo Del commercio d'Europa,
un rifacimento aggiornato - si direbbe - del Traité
général du commerce di Samuel Ricard (codice
Vallicelliano U
45).
Qualche mese appena dopo il ritorno a Verona, il Bianchini ricevette
in custodia, grazie alla protezione dell'arciprete Muselli, la tanto preziosa
libreria del capitolo. Quei codici di venerabile antichità erano
ora a sua completa disposizione.
Cercò di evitare per quanto poteva la collisione con il Maffei.
Collaborò da principio con lui, e fu il Bianchini a collazionare
due antichissimi codici capitolari (secolo V), contenenti i libri De
Trinitate e i Commentaria
in Psalmos di Sant’Ilario, per la riedizione delle
opere del santo che D. Vallarsi e A. Bonifacio andavano curando sotto
la direzione del marchese. Ma ben presto gli passò avanti con l'edizione,
nel 1735, del Psalterium.
Il Maffei si dolse con lui non tanto del fatto quanto della scorrettezza
usatagli: “Avrei voluto solamente che me ne dicesse una parola innanzi”
(S. Maffei, Epistolario,
p. 745). Ancor più gli spiacque che il Bianchini avesse comunicato
a G. Cenni un testo che egli, come il Bianchini ben sapeva, aveva in animo
di pubblicare (Concilium Lateranense
Stephani III A. 769..., Romae 1735). Nella stessa lettera,
con un tratto da gran signore, si diceva pronto, tuttavia, ad aiutarlo
nella sua opera di editore, partecipandogli i risultati delle proprie
rícerche. Ma in cuor suo sospettava, o gli fecero credere, che
il Bianchini facesse parte della “lega” formata a Roma contro
di lui. Più tardi si ricredette e lo volle amico. Il Bianchini
per parte sua cercò di propiziarselo in tutti i modi; ma temé
sempre che il marchese, prima o poi, prendesse la penna contro di lui:
sarebbe stato penoso il dover scendere in polemica con il vecchio studioso.
Le primizie dei propri studi il Bianchini offrì, come doveva,
allo zio: due lettere inedite di papa Gelasio (Ad
Succonium e Ad Natalem),
che Francesco molto volentieri inserì nel suo Anastasio (Gelasii
I. R. P., Epistulae duae antehac
ineditae in Anastasii Bibliothecarii, Vitae
RR. PP., III, pp. LI-LIV). Avrebbe voluto unire ad esse un
trattato di Felice III; ma le schede non giunsero in tempo. Le lettere
gelasiane e il trattato feliciano il Maffei pubblicò in quello
stesso anno (Sacros. Concilia,
V, Venetiis 1728, coll. 180-207, ovvero Supplem.
Acacianum, Venetiis 1728). Il Bianchini si affrettò
a ripubblicare a sua volta tutti e tre quegli scritti; attribuì
però la lunga lettera-trattato ai vescovi d'Oriente “de evitanda
communione Acacii” non già a Felice III, ma al suo successore
Gelasio (Gelasii I. R. P., Epistulae
tres, in I. Sirmondi, Opera
varia, Venetiis 1728, IV, pp. 545-560); nella stessa raccolta
aveva migliorato il testo del Pro
defensione di Facondo d'Ermiana (II, pp. 296-585). Per l'attribuzione
della lettera contro Acacio a Felice prese posizione il dotto domenicano
B. M. de Rubeis (De una sententia
damnationis in Acacium [...], Venetiis 1729). Ristampando
anni dopo quei testi, il Maffei ribadì il proprio punto di vista
(Opusc. Eccl., Trento
1742, p. 220 n.). L'opinione moderna (Thiel, Epistolae
Romanorum Pontificum [...], Brunsbergae 1868) ha dato ragione
al Bianchini.
Nel 1732 uscì finalmente con dedica al cardinal Quirini la
raccolta annunciata come imminente quattro anni avanti da Francesco. Conteneva
vari testi tolti tutti dalla Capitolare veronese riguardanti la storia
religiosa dei secoli IV-VI. Il Muratori lodò la raccolta (“È
cosa da fare onore all'Italia ”) e ne inserì un pezzo - una
vita inedita di papa Simmaco - nel volume II della sua edizione del Liber
Pontificalis (Epistolario,
a cura di M. Campori, VII, Modena 1904, pp. 2916, 3027 e segg., 3072 e
segg.).
L'operetta uscì che già il Bianchini aveva dimesso
la custodia della Capitolare e s'era portato a Roma per entrare nella
Congregazione dell'Oratorio della Chiesa Nuova. Vi fu ammesso il 14 luglio.
Il giorno successivo rinunziò nelle mani del papa alla prebenda
di San Luca a favore di L. Ottolini. Il Bianchini era stato attratto senza
dubbio dall'ideale di devozione semplice e profonda dell'istituto di San
Filippo Neri, da quel tipo di convivenza sacerdotale a mezza strada tra
il clero secolare e il regolare; ma anche dal desiderio irresistibile
di lasciar Verona e di metter fine ai contrasti con i fratelli, che invece
con suo vivo dolore dovevano trascinarsi ancora per anni.
A Roma, come aveva pronosticato il Muratori, fu più facile
al Bianchini “proseguire nello studio dell'erudizione”. Vi
trovò naturalmente nuove biblioteche da sfruttare. In primo luogo
la Vallicelliana. La rovistò per lungo e per largo: formò
un catalogo (codice Vallicelliano S 70) e una silloge dei suoi monumenti
manoscritti (codici Vallicelliani S 71-73), nonché un indice delle
cose contenute nei suoi manoscritti greci (codice Vallicelliano S 62);
preparò schede e appunti per il catalogo delle sue opere a stampa
(codice Vallicelliano V 90). Se ne servì probabilmente il [202]
padre V. Vettori per comporre, nel 1749, i suoi cataloghi. Trovò
ricchissime biblioteche private: quelle del cardinal Passionei e del suo
consanguineo A. Chigi; l'Ottoboniana; la Barberina; infine la Vaticana.
Da Roma riuscì a crearsi con più facilità una rete
di corrispondenti eruditi in Italia e in Europa. A Roma trovò protettori
e stampatori volenterosi che gli permisero di dar corpo ai suoi vasti
disegni editoriali.
Poco dopo il suo arrivo il Bianchini assunse il compito di portar
a termine l'edizione del Liber
pontificalis intrapresa dallo zio. Formò un “collegium
continuatorum” che lavorò con lui a utilizzare i materiali
lasciati dal monsignore: G. F. Baldini, G. Cenni, L. Maffei. La collaborazione
dei due ultimi soprattutto gli fu preziosa: il Cenni curò la cronologia
cesareo-pontiflcia e stese le note cronologiche; il Maffei annotò
sistematicamente il testo delle Vitae.
L'edizione non presenta grandi novità testuali: il Bianchini
continuò la collazione del Farnesianus
e, a partire da San Gregorio Magno, cominciò a servirsi del codice
Vallicelliano C 79, un manoscritto di classe E, copia del Vaticano 3762.
Le novità maggiori, come nei volumi precedenti, si trovano soprattutto
nelle note, nelle tavole e soprattutto nei prolegomeni. In questi ultimi
il Bianchini incluse un manipolo di testi inediti tolti per la maggior
parte dalla Capitolare veronese, molti dei quali - son parole del Duchesne
(Liber pontificalis,
II, Paris 1955, p. LVIII) - “n'ont avec le Liber
pontificalis qu'un rapport très éloigné”.
Sono nell'ordine: a) il ristretto cononiano del Liber
pontificalis, secondo un manoscritto veronese; b) il sacramentario
leoniano; c) il decreto di Gelasio I De
recipiendis, et non recipiendis libris (tre recensioni su
colonne parallele); d) il frammento del Liber
pontificalis laurenziano terminante con papa Vigilio; e)
l'invettiva contro Roma pro Formoso
papa scritta al tempo di Giovanni X; f) una collazione del
martirologio di Beda nel testo degli Acta
SS., marzo II, comparato col manoscritto di Verona; g) il
salterio grecolatino di Verona. Voleva mettere, in luogo di prefazioni,
sette dissertazioni epistolari (fra gli altri, a G. Cenni, a G. Orsi,
a L. A. Muratori e a L. Ottolini), ma, poiché avrebbero ingrossato
di troppo il volume, vi rinunciò. Ne pubblicò soltanto due:
la prima all'indirizzo di S. Maffei, l'altra a F. Garbellí. I pezzi
più rari della raccolta sono il secondo e il settimo: due monumenti
pregevolissimi della Capitolare veronese. Con essi il Bianchini si meritò
la gratitudine dei liturgisti.
Il codice Capitolino LXXXV (80) in lettere onciali, eseguito nel
secolo VII o addirittura nella seconda metà del VI alla scuola
di Verona (E.A. Lowe, Codices
Latini Antiquiores,
IV, Italy: Perugia-Verona,
Oxonii 1947, p. 32), oppure secondo altri (Beer, Traube, Bishop, Cabrol)
in Spagna, in Africa, a Bobbio, a Luxeuil è uno dei più
antichi sacramentari che si posseggano. L'edizione bianchiniana, ricca
di un folto apparato, era ammirevole. La denominazione, conservata dall'ultimo
editore (Sacramentarium Leonianum,
a cura di C.L. Feltoe, Cambridge 1896), è però doppiamente
impropria; non si tratta infatti di un sacramentario destinato all'uso
dell'altare ma di una raccolta fatta da un privato per uso personale di
materiali di diversa provenienza; né il suo autore è San
Leone Magno, benché vi si trovino qua e là espressioni che
risentono del suo stile e del suo frasario. Dubbi e problemi che si erano
affacciati tutti al momento della pubblicazione (G. Acami, Autore,
e pregi del Sagramentario Veronese pubblicati dal M.R.P. G.B.,
Roma 1748). L'edizione apprestata dal Bianchini godette nel Sette-Ottocento,
fino a quella del Feltoe, una meritata autorità. La ripubblicarono
senza migliorie il Muratori (che giudicò il leoniano una compilazione
del tempo di Felice III) e G. A. Assemani; con qualche miglioria i fratelli
Ballerini, i quali - eseguita una revisione del testo - inserirono il
sacramentario tra le opere del santo (S. Leonis Magni, Opera,
II, Veronae 1756, pp. I-60; Migne, Patrologia
latina, LV, pp. 22-156). Il Psalterium
bilingue greco-latino (secolo VI) con elementi pregeronimiani
era la parte che più stava a cuore al Bianchini: s'era andato convincendo
infatti di aver trovato un anello utile alla ricostruzione della più
perfetta delle versioni latine pregeronimiane della Bibbia, la cosiddetta
Itala di cui - almeno
così si credeva - è menzione in Agostino. La restaurazione
di quell'antica versione, giudicata perduta, diventerà ormai il
suo pensiero dominante. Progetto ambizioso, senza dubbio. Ma le imprese
difficili - non lo nascondeva - lo attraevano: “Genus hoc est voluptatis
meae - spiegava al Garbelli - quae pene deperdita sunt, ea quaero”
(Vitae, IV, Prolegomena).
Ripubblicandolo nelle Vindiciae
stampò su due colonne parallele il testo dell'Itala
e in caratteri latini il greco dei Settanta, in una versione esemplare.
Il volume anastasiano era riuscito dunque un'opera abnorme ma considerevole:
“Les editeurs ont donné beaucoup (asserisce il Leclerq);
ils eussent donné plus et mieux s'ils avaient pu exploiter la Vaticane”
(Dictionnaire d'archeologie crhrétienne
[...], IX, col. 452). “Mais la Vaticane - aveva scritte
il Duchesne - était gardée contre eux” (Liber
pontificalis, II, p. LIX). Lo rimase per poco.
Grazie al cardinale Quirini, l'anno dopo il Bianchini poté
tuffarsi in quel gran mare di manoscritti. Molto lo aiutarono nelle ricerche
i custodi S. Assernani e, dal 1738, G. Bottari. Il Maffei raccomandava
di fare [203] delle
nuove scoperte edizioni separate, e di non ingrossare tutto sull'Anastasio:
già si diceva in giro che fosse l'arca di Noè. Il Bianchini
stava dunque lavorando al tomo quinto e ultimo. C'è di più:
in una lettera al fratello Gaspare del 16 gennaio 1745 diceva di averlo
già sotto i torchi. Come mai non venisse pubblicato resta da scoprire.
La novità maggiore del volume sarebbe stata, questa volta, nel
testo: il Bianchini aveva finalmente messo le mani sull'autorevolissimo
codice della Capitolare di Lucca (Lucensis 490). Una collazione sommaria
di esso comunicò infatti a P.G. Ugolini che la pubblicò
alla fine del volume III dell'edizione già intrapresa dallo zio,
G. Vignoli (Liber Pontificalis,
III, Romae 1751). Di lì a qualche anno G.D. Mansi ebbe cura di
aggiungere alla sua edizione del Liber
Pontificalis le varianti del testo di Lucca.
Lo studio dei manoscritti vallicelliani fece nascere al Bianchini
l'idea, all'indomani della pubblicazione dell'Anastasio, di mettere in
luce qualche operetta inedita del Baronio e di raccogliere il suo carteggio.
Il lavoro da lui fatto sarà utilizzato dall'Alberico. Nel 1738,
morto il men che mediocre Laderchi, i padri dell'Oratorio deputarono il
Bianchini a continuare gli annali del Baronio. I moltissimi lavori e tutti
di grande impegno che aveva allora sul telaio lo distolsero per qualche
anno dall'entrare in quell'impresa. Il Muratori non si stancava di esortarlo
a finirli e dedicarsi tutto al suo compito di annalista. Poteva essere
la più grande impresa della sua carriera. Aveva in realtà
cominciato a lavorarvi intorno sin dal luglio del 1744: “Questa
è la grand'opera - scriveva al fratello Gaspare - in cui travaglio.
Per riuscirvi ho bisogno di molte orazioni”. Non vi riuscì:
gli annali saranno continuati un secolo dopo (1856) da un altro filippino,
A. Theiner. Tra le carte bianchiniane non si trovano tracce, come per
altre opere, di lavoro preparatorio. Fu per suo merito tuttavia che, nel
1745, il Baronio ricevette il titolo di venerabile.
La presenza del Bianchini a Roma, ridotta in quegli anni “a
poco per conto dell'erudizione”, aveva ravvivato l'ambiente culturale
romano: era questa l'opinione del Muratori. Gli studi biblici ricevettero
da lui nuova linfa. Finalmente uno che riusciva ad uguagliare in quel
campo di studi l'opera dei maurini: del vecchio Martianay e del Sabatier,
che da circa un trentennio andava lavorando egli pure attorno alle antiche
versioni latine della Bibbia. Sarà proprio nell'ambiente maurino
che l'opera bianchiniana riceverà ì più calorosi
e autorevoli consensi. Il Bianchini divise in effetti con il Sabatier
l'errore dì credere in una sola versione pregerominiana, l'Itala:
errore del quale i benedettini di Beuron, riprendendo l'opera di quest'ultimo
su basi moderne, hanno fatto giustizia (Vetus
latina, Freiburg-Br. 1949).
Stimolato da quell'ipotesi di lavoro, che eccitava il suo zelo religioso
(“Si tratta la causa di Dio, si tratta delle Divine Scritture”),
il Bianchini tese tutte le proprie forze. Riuscì a prendere visione
di molti tra i più importanti codici contenenti la versione latina
dei Vangeli avanti San Girolamo: il Vercellensis,
a (secolo IV); il
Veronensis, b
(secolo V); il Brixianum,
f (secolo VI); il
Corboiensis n. 21,
ff1
(secoli VVI); il Sangermanensis,
g1; il Vindobonensis,
i. Questi codici,
assieme ad altri di minor valore, saranno alla base della stupenda edizione,
stupenda anche per l'esecuzione tipografica dell'Evangeliarium
quadruplex Latinae versionis
antiquae seu veteris Italicae,
approntata già nel 1744, ma apparsa soltanto ai primi del 1749.
Valga per tutti il giudizio di uno specialista, il Mangenot: “ouvrage
[...] le plus considérable, le mieux conçu et le mieux exécuté
au point de vue critique sur les Evangiles de l'Italique”. Giudizio
implicitamente confermato dalle due ristampe romane del 1904 e del 1914
(Collect. Biblica Lat.,
III). In tale opera il Bianchini esibiva anche gli specimini e le descrizioni
di un gran numero di codici greci, latini (tra gli altri del Foroiuliensis
e del Porusinus),
ebraici, siriaci ed arabi della Bibbia. Giustamente fiero delle sue scoperte,
egli le attribuiva non tanto alla sua abilità e tenacia di ricercatore
quanto piuttosto a una speciale assistenza celeste: quella versione, eseguita
per l'uso dell'Italia nei tempi apostolici, “si credeva dagli eruditi
perduta; ma il Signore me l'ha fatta ritrovare ”. In un'aria di
miracolo rivivevano quelle scoperte nel racconto che faceva ad A.M. Quirini
(che per primo l'aveva incoraggiato allo studio delle Scritture), dedicandogli
(1740) le Vindiciae:
“mihi occurrere, et quasi lucere visi sunt non pauci IV. V. VI.
sacculi codices mss. Divinae Scripturae qui [...] Antiquam Latinam Italam
mirifice repraesentant”. Egli era, dunque, il predestinato a strappare
l'Itala dalle tenebre.
La pubblicazione dei quattro Vangeli
non era che una parte del programma esposto in un'opera precedente, le
Vindiciae canonicarum scripturarum,
approntata nel 1739 e uscita l'anno dopo. Il piano del Bianchini era di
rintuzzare sul terreno filologico [204]
gli attacchi dei protestanti alla Volgata:
in particolare quelli dell'espertissimo conoscitore della tradizione manoscritta
della Bibbia, Humphrey Hody, “hostis acerrimus” della versione
dei Settanta.
Aveva divisato perciò di mettere insieme un grande corpus
in sei parti, contenente: I) frammenti inediti delle esaple originali;
2) i libri del Vecchio Testamento tradotti da San Girolamo sul testo esaplare
dei Settanta; 3) una “ingens sylva” di variantes
lectiones della versione geronimiana; 4) molti libri del
Vecchio e del Nuovo Testamento dell'Itala;
5) i libri del Vecchio Testamento tradotti dal caldaico in latino da San
Girolamo; 6) l'apologia del canone delle Sacre Scritture “quem affiante
Numine condiderunt Patres Concilii Tridentini” (Vindiciae,
p. CCLIII). Nel primo tomo, il solo pubblicato, trovano posto, un po'
alla rinfusa, dopo una prefazione generale nella quale è ritracciata
la storia dei testi originali e delle versioni greca e latina della Bibbia,
alcuni anticipi dell'opera futura. I più importanti sono: alcuni
frammenti delle esaple estratti dal Chisianus
R. VII. 45; le varianti della volgata geronimiana raccolte sia dal Toletanus
da C. Palomares sia dal Vallicellanus
e dal Paullinus
dallo stesso Bianchini; frammenti della medesima versione tolti da manoscritti
vaticani; parti del Vecchio Testamento dell'Itala
estratti da manoscritti di diversa provenienza. L'opera ebbe successo
(Novelle letterrarie,
Firenze 1741, coll. 132, 149, 164, 261, 278, 358, 373, 387, 525, 530,
549; Novelle della repubblica
letteraria, Venezia 1741, p. 283; Journal
des Savants, 1743, pp. 117-124), anche dal punto di vista
editoriale: in un anno l'edizione era quasi esaurita.
Negli stessi anni il Bianchini andava pure occupandosi di cose liturgiche.
Nel 1738 era sul punto di dare un'intera biblioteca Rerum
liturgicarum “in guisa che - gli diceva il Muratori
- nulla di più resterà da sperare intorno a questo argomento”.
Una parte minima del materiale adunato pubblicò nell'edizione delle
opere del venerabile Tommasi, intrapresa per sollecitazione del Passionei.
Il testo che il Bianchini fece conoscere in tale occasione è uno
dei più preziosi: il Libellus
orationum (fine secolo VIII) della Capitolare veronese, il
più antico degli orazionali mozarabici provenienti dalla chiesa
di Tarragona.
Il primo volume - l'unico apparso - contiene: il trattato del bollandista
Ioannes Pinius sulla liturgia mozarabica, i prolegomeni al breviario mozarabico,
note del Cenni e del Bianchini al Libellus
orationum. Nella seconda parte: il testo del Libellus,
le opere del Tommasi e, sotto il titolo Supplem.
Thomasianum, la prefazione del Passionei agli abati della
Congregazione elvetica, i Flores
psalmorum (un'operetta di Prudenzio di Troyes), un'esplicazione
dell'orazione domenicale e del simbolo, e alcune collette d'orazioni.
Il Cabrol non ha torto: “l'édition manque un peu d'ordre,
il faut le dire”. La vastità del piano e gli intrighi dei
teatini fecero sì che l'opera s'arrestasse a quel primo tomo. La
ripubblicazione delle opere del Tommasi sarà di lì a poco
ripresa e portata a termine meno bene dal Vezzosi (Roma 1747-1758).
Premuto da tante preoccupazioni (non là perché fosse
morto, come afferma S. Bertelli, Erudizione
e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli 1960, p. 463,
n. 55), il Bianchini non poté ultimare la sua biblioteca liturgica,
e passò i materiali al Muratori. Tra essi, c'erano le collazioni
del Vat. Reg. 337 e dell'Ott. 313 per il testo del sacramentario gregoriano:
due codici importanti, che già avevano attirato l'attenzione del
Tommasi.
Congedato il manoscritto dell'Evangeliarium
quadruplex, liberatosi dall'impegno della raccolta di antichità
liturgiche, volse tutto il proprio pensiero, rimettendo ancora una volta
ad altro tempo il lavoro degli annali, alla Historia
ecclesiastica. Ai primi del 1746 ne divulgò il prospetto
(Methodus historiae ecclesiasticae
quadripartitae et in XVI saecula distributae, Romae 1746).
Intorno ad essa spese moltissima fatica: prova ne sia l'enorme fascio
di materiali e di appunti che si ritrovò tra le sue carte (codici
Vallicelliani T 1-27). Riprendeva un'idea dello zio (illustrare la storia
ecclesiastica sulla base dei dati archeologici), il quale non era riuscito
tuttavia ad andare più in là del I sec. Il nipote voleva
proseguir l'opera fino ai suoi giorni. Ne uscì nel 1752 la parte
prima; nel 1753, la seconda; nel 1754, la terza: in tutto tre tomi in
folio (oppure sette in ottavo per due secoli di storia). Nel 1757 l'editore
Barbazza annunziò che i secoli III-IV sarebbero “indispensabilmente”
usciti nell'anno successivo (Novelle
letterarie, Firenze, 1757, coll. 624-628). Ma l'edizione
non andò più avanti. Probabilmente, l'alto costo dell'opera
tenne basso il numero degli associati.
Il 1754 - l'anno della crisi nella pubblicazione della Historia
- era stato per il Bianchini funesto. Sin dai primi anni romani egli aveva
lavorato con accanimento eccessivo, incurante dei consigli degli amici
che, come il Muratori, cercavano di porre un freno al suo troppo studiare.
All'enorme lavoro editoriale si era aggiunta nel 1748 la segreteria dell'Accademia
[205] di storia ecclesiastica,
creata da Benedetto XIV (che, singolarmente, amava e stimava il Bianchini),
con sede nella Chiesa Nuova. Sono numerose le dissertazioni da lui lette
in questa sede e nell'accademia antiquaria che si riuniva nei palazzi
apostolici alla presenza del papa (codici Vallicelliani U 5-8, 11, T 53
e 86). Verso il 1747, incaricato di riordinare l'archivio di Santa Maria
Maggiore, ne profittò per estrarne tutti quei documenti che potevano
interessare la storia della basilica; mise insieme ventidue volumi (codici
Vallicelliani T 74-95). Per intercessione dei cardinale de Rohan, Benedetto
XIV gli venne incontro accordandogli nel settembre del 1740 una pensione
mensile di dieci scudi per pagarsi un copista. Questa attività
frenetica e autodemolitrice minò, irreparabilmente, la salute del
Bianchini. Colpito da un grave collasso, giunse, nel novembre del 1754,
in punto di morte. Da questo momento la sua produttività declina
e sembra, anzi, cessare del tutto. In realtà egli aveva continuato,
sia pure con maggiore moderazione, i suoi studi prediletti, e stava lavorando
in particolare attorno alle versioni greche del libro di Daniele. L'opera
dal titolo: Tetraplon, in quo
Δανιηλ κατα Θεοδοτινα
cum versione Latina, item, Δανιηλ κατα
Ο’, pariter cum versione Latina, era pronta alla
metà del 1763. Nel luglio aveva ottenuto dal Tanucci l'autorizzazione
a dedicarla al re di Napoli. La morte, sopraggiunta il 13 ottobre 1764,
gli impedì di mandare a fine il suo disegno. Anni prima, nel 1760,
s'era molto interessato a una nuova edizione della Bibbia
poliglotta, a proposito della quale ebbe un fittissimo carteggio
con il cardinale V.A. delle Lanze. In precedenza, nel 1756, era intervenuto
autorevolmente circa la ristampa del messale armeno fatta da Propaganda.
La sua opera imponente è senza dubbio uno dei maggiori contributi
della Congregazione filippina alla cultura italiana. È, tuttavia,
incerto se fosse stato toccato in profondità dalle idee giansenistiche
largamente diffuse nell’ambiente della Chiesa Nuova. I suoi rapporti
con i più segnalati giansenisti dell'epoca (fra gli altri Passionei,
De Gros, Bottari, delle Lanze Foggini) sono in realtà rapporti
tutti di carattere erudito.
Opere
Parere sopra la cagione della morte
della Signora Contessa Cornelia Zangari ne' Bandi, Verona 1731
e 1733, Roma 1743 e 1758; Enarratio
Pseudo-Athanasiana in Symbolum antehac inedita, et Vigilii Tapsitani de
Trinitate ad Theophilum l. VI. Accedit Symbolum Nicaenum cum Symmachi
PP. Vita, Veronae 1732; ANASTASII BIBLIOTHECARII, Vitae
RR. PP., IV, Romae 1735; Vindiciae
Canonicarum Scripturarum vulgatae latinae editionis, Romae 1740;
J.M. THOMASII, Opera omnia, I,
Romae 1745; Delle magnificenze di Roma
antica e moderna L.I. che contiene le porte e le mura di Roma [...],
Roma 1747; Evangeliarium quadruplex
[...], Romae 1749, due tomi in folio; Historia
calchographica septemdecim annorum M. Iubilaei [...], Romae 1750;
Historia calcographica veteris tituli
SS. Marcellini et Petri [...], Romae 1751; Demonstratio
Historiae Ecclesiasticae quadripartita, I, Romae 1752; II, ibid.
1753; III, ibid. 1754; Idea
della Venerabile Arciconfraternita di Santa Maria della Morte di Roma
[...], Roma 1763.
Fonti e bibliografia
Copiosissimi di carte bianchiniane i fondi manoscritti vallicelliani
(293 voll., compresi quelli di Francesco, Catalogo alfabetico MSS). Di
particolare interesse le settanta lettere del Bianchini al Muratori nell'Archivio
Muratori presso la Biblioteca Estense di Modena; le trentacinque al Quirini
nella Nazionale di Parigi; quelle al Lami nella Riccardiana di Firenze;
quelle al Bottari nella Corsiniana di Roma, quelle al Muselli nella Biblioteca
Capitolare di Verona, cod. CCCCXXXVII, ecc. Brevi memorie e discorsi nella
Vaticana, Vat. lat. 565-8081, ff. 103-107, 113-119, 121-138; cod. 573-8113,
ff. 1-111; cod. 574-8116, ff. 89-101. Sei lettere al Sarti (1743-1761,
nella Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna, B. 316, e nell'Università
di Bologna, Caps. CXVIII, alcune lettere sopra la storia calcolgrafica
dei SS. Marcellino e Pietro; S. MAFFEI, Epistolario,
a cura di C. GARIBOTTO, Milano 1955, pp. 745, 790 e segg., 1031; G.M.
MAZZUCHELLI, Gli Scrittori d'Italia,
II, 2, Brescia 1760, pp. 1182-1185; I.B.
presbyteri congregationis Oratorii Romani Elogium historicum, Romae
1764; F.A. ZACCARIA, Bibliotheca ritualis,
Romae 1778, II, p. 135; C.A. DE ROSA DI VILLAROSA, Memorie
degli scrittori filippini, Napoli 1837, pp. 60-67; P. GUERANGER,
Institutions liturgiques, II,
Paris 1880, p. 489; E. MANGENOT, Joseph
Bianchini et les anciennes versions de la Bible, in “Revue
des Sciences Ecclésiastiques”, s. 7, V, 1892, pp. 150-175;
San Filippo Neri e il contributo degli
Oratoriani alla cultura italiana nei secoli XVII-XVIII, Roma 1950;
H. HURTER, Nomenclator literarius,
pp. 71-76; Dictionnaire de la Bible,
I, coll. 1774-1775; F. CABROL, in Dictionnaire
d'archéologie chrétienne et de liturgie, II, 1,
coll. 838-839.
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