Francesco Bianchini, primogenito di Gaspare e di Cornelia Vailetti, nacque
a Verona il 13 dicembre 1662. Compì la propria formazione presso
il collegio di San Luigi dei padri gesuiti in Bologna, dove rimase dal
1673 al 1680. Ebbe a maestro Giuseppe Ferroni, filogalileiano. Con lui
compi qualche studio della sfera. In un suo Dialogo
fisico astronomico contro il sistema copernicano, del 1680, il
Bianchini figura come uno dei due interlocutori. Si trattava - è
quasi certo - di un espediente per esporre ai giovani allievi le linee
generali del sistema condannato. Del resto, il sistema insegnato ufficialmente
nel collegio non era il tolemaico ma, come rivelano le Theses
discusse dal Bianchini nel 1679, il sistema semiticonico del Riccioli.
Conservò degli anni del collegio un buon ricordo, e gratitudine
per i maestri gesuiti. All’uscita dal San Luigi era stato persino
tentato di entrare nella Compagnia. Fu il padre e uno dei suoi maestri
di Padova a dissuaderlo. Alla fine del 1680 fu inviato a studiare teologia
a Padova.
Fu qui che il Bianchini incontrò l’uomo che marcò
più profondamente la sua personalità e verso il quale egli
si professò più largamente debitore: Geminiano Montanari.
Non insegnava però la teologia: occupava da due anni la cattedra,
espressamente per lui istituita, di astronomia e meteore. La sua fama
di astronomo era soprattutto dovuta alla scoperta della variazione delle
fisse. Quelle promettenti ricerche furono riprese e portate avanti dal
Bianchini. Questi si distinse nei primi anni come osservatore delle comete:
quella dell’84 porta il suo nome. L’amicizia stretta con il
Montanari valse al Bianchini la frequentazione degli uomini di scienza
più in vista dell’ateneo patavino: Carlo Rinaldini, Stefano
degli Angeli, Iacopo Pighi, Charles Patin. Tutte, in un modo o nell’altro,
personalità d’avanguardia. Fu probabilmente quest’ultimo,
oltre al Correr, a convincerlo della possibilità di una storiografia
“scientifica”, fondata, più che sulle infide fonti
letterarie, sulle testimonianze archeologico-numismatiche.
Alla metà del 1684 il Bianchini lasciò Padova e si portò
iussu parentum a Roma. Il cardinale
Ottoboni aveva promesso al padre di occuparsi di lui. Vi andava per addottorarvisi
nei due diritti. Il Bianchini non amava quello studio, ma riuscì
ugualmente a conseguire il titolo desiderato. Una volta almeno nella sua
vita, nel 1706, esercitò il mestiere di avvocato. Buone conoscenze
giuridiche mostrano molti dei suoi pareri sui conflitti giurisdizionali
insorti ai primi del secolo XVIII tra la Sede apostolica e il Regno di
Napoli, tra la Camera apostolica e quella estense e imperiale a proposito
di Comacchio. Accanto agli studi di giure, continuò con il massimo
fervore le sue ricerche astronomiche. Furono probabilmente le commendatizie
del Montanari a introdurlo in quel gruppo di “virtuosi” romani
che si riunivano, al principio di ogni mese, in casa di monsignor Ciampini
in Sant’Agnese, l’Accademia fisico-matematica, costituitasi
con un programma rigorosamente sperimentale nell’estate del 1677.
In essa il Bianchini illustrò nell’85 il nuovo metodo cassiniano
per misurare da una stazione unica la parallasse dei pianeti. Ma i valori
trovati sono molto lontani da quelli attuali.
Accanto alla ricerca scientifica vera e propria il Bianchini portò
avanti la riflessione metodologica. Nel congresso medico romano lesse,
nello steso anno, un’importante dissertazione: De
methodo philosophandi in rebus physicis (inedita), un entusiastico
encomio delle conquiste della scienza moderna e del nuovo metodo sperimentale.
Di metodologia scientifica si occuperà prevalentemente negli anni
successivi, allorché, portatosi a Verona per affari di famiglia,
si mescolerà ai giovani medici neoterici che avevano creato in
quegli anni l’Accademia degli Aletofili. Di particolare interesse
la dissertazione letta nell’86 o ‘87 a dimostrazione dell’applicabilità
ai fenomeni biologici dei principi meccanicistici. Nel 1687 compose, ma
lasciò inedito, un lungo dialogo sulla gravità, nel quale
si rinvengono forti tracce del sistema fisico cartesiano.
Ritornato a Roma nell’88, il Bianchini divenne, con l’elezione
di Alessandro VIII, uno dei suoi protetti. Sembrava promesso ad una brillante
carriera in Curia. Il Leibniz, che lo frequentò alla fine dell’89,
pronosticò di lui grandi cose come astronomo e cercò di
impegnarlo per la riabilitazione del copernicanesimo. La morte del pontefice,
lo scandalo degli “ateisti” napoletani, resero purtroppo molto
difficile a Roma negli anni immediatamente successivi la situazione degli
scienziati. Fu già grande successo l’essere riusciti ad evitare
più gravi restrizioni e condanne. Custode della Biblioteca Ottoboniana,
il Bianchini preparò un esatto indice dei suoi manoscritti, prezioso
per chi si accinge a ricostruire la formazione dei fondi manoscritti della
Vaticana. La ricca suppellettile libraria che aveva a disposizione e la
speranza di una custodia della Vaticana lo indussero a disertare per [188]
un quinquennio gli studi astronomici e a concentrarsi tutto nella
stesura di una Storia universale.
Partiva con grosse ambizioni: “cerco di stabilire, e di ordinare,
per me, e per altrui la verità delle istorie”. Dalla creazione
del mondo ai suoi giorni; e non limitandosi all’Europa, ma stendendo
lo sguardo al mondo intero. Voleva “ben comprendere” tutto
“il sistema di quella vasta Città, ch’è la terra,
e di quel popolo innumerabile, che l’ha frequentata per cinquantasette
secoli”, formare “una idea chiara, intiera, e connessa dell’istoria
del Mondo” (La istoria universale,
Roma 1697, p. 97). L’America, la Cina non erano più sconosciute:
le relazioni dei viaggiatori, l’opera dei missionari gesuiti avevano
messo a disposizione degli studiosi un materiale prezioso. Bastava soltanto
darsi la pena di interpretarlo. La conoscenza del mondo occidentale ci
avrebbe guadagnato. La storia doveva promuovere nell’uomo la coscienza
cosmopolitica, aiutarlo a sentirsi “cittadino del mondo, ed uno
della repubblica di tutti gli uomini, nato ad estendersi, e conversare
con ogni secolo per mezzo dell’animo, se bene obbligato a restringersi
a vivere tra’ più vicini d’un luogo, o d’una
età, per l’abitazione del corpo”. Storia universale,
dunque: il sostantivo non è meno importante dell’aggettivo.
Immensa l’opera dei cronologisti degli ultimi due secoli. Dalla
lettura delle loro opere non restava tuttavia “quell’idea
generale del tutto, che lasci un’organizzazione, e sistema, per
così dire, de’ secoli ”. Lo stesso difetto si riscontrava
nelle pur pregevolissime raccolte degli antiquari. Il “dilicato
genio del secolo” sentiva il bisogno di un “tutto”,
di un ampio e ordinato quadro dell’intera vicenda storica dell’uomo.
Per ottenere il “sistema” non c’era altra strada da
battere che quella di pensare i fatti, di afferrar la logica della storia.
Il Bianchini si accingeva dunque animosamente a trar partito, ai fini
della vera comprensione storica, di due secoli di ricerche antiquarie
e cronologiche: a comporre - per servirci di una sua immagine - da quelle
slegate battute una musica.
Confrontata all’opera dei cronologisti, in discussione con i quali
era nata, la Istoria appare in
effetti dominata da una preoccupazione conservatrice: ristabilire indirettamente
l’autorità storica delle Scritture. Conosce e stima, per
esempio, l’opera di John Marsham; ma non condivide minimamente con
lui le simpatie per l’Egitto; né affaccia con lui il minimo
dubbio sulla tradizione biblica. Per vantare la propria antichità,
gli Egiziani calcolavano trentamila anni dalla creazione del mondo ad
Augusto, quarantamila i Cinesi, quattrocentomila i Caldei: cifre vertiginose
e incontrollate. A un computo più preciso, tutti quegli anni si
riducevano a non più di quaranta secoli. Quattromila anni era il
termine fissato dalla Volgata: Isaac Vossius, Riccioli, Pezron avevano
scoperto però che la versione dei Settanta faceva il mondo più
vecchio di millecinquecento anni. Il Bianchini, ben a conoscenza di quelle
dispute che turbavano le coscienze di molti, si schierò con i tradizionalisti.
Se in cronologia navigava controcorrente, il Bianchini era invece in linea
con i tempi in metodologia. È tipica di questi anni la preoccupazione
di fondar il racconto su una documentazione oggettiva. Ed è la
prima preoccupazione del Bianchini: “L’oggetto, più
ricercato da noi nell’ordinare quest’opera, è stata
la pruova delle istorie”. L’attendibilità delle fonti
letterarie era stata messa in dubbio dalla critica storica di quell’“esquisitissimo”
secolo. Per sfuggire al “pirronismo” c’era solo un mezzo,
ricorrere alle fonti archeologico-numismatiche, e per le età preistoriche
non soltanto alla mitologia, ma alla etnologia, alla linguistica, all’onomastica,
alla geologia. Con questi dati certi a disposizione si poteva “storicizzare”
i miti, ritrovare sotto il denso travestimento favoloso l’originario
nucleo di verità storica. I miti erano, infatti, nient’altro
che finzioni consapevoli. Non c’era nel Bianchini neppur il presagio
di una nuova teoria del mito, di una nuova gnoseologia che gli consentisse
di cogliere le dimensioni del mondo primitivo. È la conclusione
degli studiosi che hanno esaminato l’Istoria
in rapporto con la Scienza Nuova.
Il Bianchini precedette tuttavia di almeno vent’anni il Vico (che
ebbe, del resto, ben presenti quelle pagine), nel tentativo di fornire
una interpretazione storica dei poemi omerici. I capitoli dedicati alla
ricostruzione del mondo greco arcaico sono in effetti i più riusciti
dell’opera: quelli nei quali meglio si rivela l’acume del
Bianchini nell’indagare il viluppo di ragioni tutte umane che muovono
la storia.
Nel momento in cui scriveva l’introduzione il Bianchini pensava
di giungere con il racconto fino ad Augusto, ma la narrazione s’interrompe
alle soglie del “tempo istorico”, all’“eccidio”
dell’impero assiro. La ragione di quest’interruzione non è
misteriosa. Il Bianchini si affrettò a dar fuori prematuramente
l’opera per farsene un titolo nel concorso alla carica di primo
custode della Vaticana, vacante dopo la promozione del Noris al cardinalato:
il suo vecchio sogno. Intanto andava componendo, in occasione probabilmente
dell’editto imperiale di quell’anno, un trattato in tre libri
de re beneficiaria dal titolo:
Libertas Ditionis Ecclesiasticae a servitute
beneficiaria et feudali Principum exterorum, di cui restano alcuni
frammenti. In essi si fa menzione di un Opus
feudale composto [189]
quattro o cinque anni prima (frammento della Istoria
od opera diversa?). Nel gennaio del 1698, sempre per compiacere il pontefice,
compose un’operetta sugli scavi ultimi di Anzio (De
lapide Antiati epistola, Romae 1698). Pene e fatiche inutili. Il
Casanata, cardinal bibliotecario, fece assegnare, il 25 gennaio 1698,
l’incarico al suo protetto Lorenzo Zaccagni.
Un lutto familiare - la morte dei padre - costringe il Bianchini di lì
a poco, verso il maggio del 1698, a un viaggio in “Lombardia”.
Ne approfitta per prender contatto con qualche gran letterato. Al Magliabechi
- “il compendio delle Muse e delle Grazie” - lo presentò
il Noris. Lo vedrà sia all’andata sia al ritorno; gli farà
naturalmente dono dell’Istoria.
Nel viaggio da Piacenza a Bergamo spera di poter fare una diversione a
Milano per riverirvi il Muratori; altrettanto conta di fare nel partire
da Lodi. Non potendo recapitargliela a mano, gli invia comunque copia
della sua opera. La risposta del Muratori lo trova nel settembre a Brescia.
Non sperava in un’accoglienza così calorosa: “non ho
già sperata all’opera tal protezione e commendazione”.
A Venezia, nell’agosto, aveva conosciuto lo Zeno; a Padova il Vallisnieri.
A Pisa, nel viaggio di ritorno, prende contatti con l’ambiente universitario.
Con i letterati napoletani entrò in rapporto qualche anno dopo,
nel 1702, allorché seguirà in qualità di storiografo
la legazione del cardinale Barberini a Filippo V. Frequentò soprattutto
Giuseppe Valletta, che gli comunicò manoscritte la sua difesa della
filosofia moderna e la sua storia dell’Inquisizione. Non è
escluso che in casa del celebre bibliofilo incontrasse anche il Vico.
Certo è che nel 1709 questi fece recapitare “riverentemente”
al Bianchini una copia della sua prima importante opera a stampa: il De
ratione. Resterà in relazione con alcuni di quegli uomini:
monsignor Vidania, Matteo Egizio, Domenico Ausilio. A Roma stringerà
una “amicizia germana” con Celestino Galiani.
Di nuovo a Roma nei primi mesi del 1699, il Bianchini si rimette alacremente
alla stesura della Istoria. Riprende
dalla cronologia, “e mi veggo nascere - confida al Muratori - qualche
pensiero non del tutto immeritevole di applicazione”. Di sue “fatiche
intorno alla cronologia” parla alla fine del giugno al Cassini.
Sta studiando il Kanon basileion e
ha bisogno di sapere con esattezza il grado dell’afelio di Venere
al tempo di Tolomeo. Le molte congregazioni alle quali è tenuto
a partecipare lo distolgono ben presto da quelle occupazioni. Ne è
contrariato al massimo: “se non ho tempo libero temo assai che i
secoli non si fermino”. Per sua disgrazia, nel maggio dell’anno
seguente, l’Ottoboni lo trasferisce dalla biblioteca all’anticamera,
“onore poco per sé connesso al tavolino”. Non vede
l’ora che finisca il conclave per farsene esonerare.
Gran fortuna fu per il Bianchini che da quel conclave uscisse eletto l’Albani,
suo antico estimatore. Il nuovo pontefice gli offrì la scelta tra
la nomina a cameriere d’onore e quella a secondo custode della Vaticana.
Il Bianchini avrebbe finalmente potuto realizzare la sua antica aspirazione,
ma preferì rifiutare. Non voleva rinunziare alle ottime prospettive
che gli apriva dinnanzi la carica di cameriere d’onore.
“È un gran vantaggio - spiegava - servire al Papa così
da vicino, ed essergli tutto giorno avanti a gli occhi”. Per allora
puramente onorifico (gli emolumenti non arrivavano a sessanta scudi l’anno),
quell’impiego era riuscito a molti “in pochi anni di vantaggio
tale che ora non danno incomodo alcuno alle case loro”. Un’occasione
unica: “Si tratta di dar sesto a tutta la vita”. Andò
dunque ad abitare nei palazzi vaticani.
Benché la sua situazione economica non fosse brillante (non lo
sarà mai), il Bianchini era lusingato dagli onori che gli conferiva
il pontefice: in pochi mesi l’aveva creato cameriere d’onore,
segretario della Congregazione del Calendario e di quella dell’Acqua
Paola e dell’Acqua Vergine, e gli aveva commissionato l’erezione
di una meridiana nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, molto più
grande di quella costruita qualche decennio avanti dal Cassini in San
Petronio.
Sarebbe servita non soltanto per il Sole come quella bolognese, ma per
tutti i pianeti e per le stelle fisse; ed essendo costruita su un edificio
vecchio di quattordici secoli (le terme di Diocleziano), c’era da
sperare che non andasse soggetta ai cambiamenti che in quella si registravano.
Nel settembre 1701 erano cominciate le osservazioni celesti; di lì
a poco avevano avuto inizio i lavori. Subiranno una lunga interruzione
nei primi mesi del 1702 per il viaggio del Bianchini a Napoli. Ripresi
nel luglio, erano a buon termine il 20 agosto: in quel giorno il papa
in persona si recò a visitarli. Saranno terminati nel dicembre.
Il Bianchini ebbe compagno nella sua impresa il Maraldi, nipote ex
matre del Cassini, che a Parigi la difese dalle critiche dei malevoli.
I contemporanei molto ammirarono quell’opera: a cominciare dal Leibniz,
che non si stancava di vantarla ai suoi amici, al Römer a Berlino,
al Marinoni a Vienna. Quell’ottima iniziativa - insisteva a dire
- andava imitata. [190] Sull’esempio
della romana fu eretta in effetti quella di St. Sulpice e, nel 1730, quella
dell’Observatoire di Parigi. Ma fino a quando se ne costruirono,
rimase insuperata.
La costruzione della meridiana della Certosa era in relazione con il progetto
della correzione gregoriana. Nominato nel 1701 segretario della Congregazione
per la Riforma del Calendario (ne era prefetto il cardinale Noris), il
Bianchini escogitò un suo ciclo ottogrammo che gli sembrava la
miglior soluzione del problema di un cielo pasquale composto d’anni
gregoriani (Solutio problematis paschalis,
Romae 1703).
A quella sua proposta giunsero consensi da ogni parte, e principalmente
dal Leibniz, interessatissimo a tale riforma. Tutti gli interpellati -
dal Magliabechi all’Aulisio, dal Sacheri al Muratori, dall’Intieri
al Mezzavacca - furono unanimi nel lodarla. L’opera della Congregazione
era, dunque, ben avviata: non corrispondevano assolutamente a verità
- il Bianchini protestava sdegnato - le insinuazioni fatte dai giornalisti
di Trévoux di dissensi
irrimediabili tra i suoi membri. L’intesa perfetta tra il Bianchini
e il prefetto stesso della Congregazione da una parte, e il Leibniz e
i suoi matematici luterani dall’altra, aveva però messo in
allarme gli spiriti più fanatici di Roma. Ormai tra costoro si
parlava correntemente di “calendario leibniziano”. Giusto
Fontanini andava confabulando con Domenico Quartironi, professore di matematica
alla Sapienza, contro quei progetti: “il Leibnizio - gli diceva
in tutta segretezza - è uno de’ più scaltri, e maliziosi
luterani, che si possa trovare”. La riforma non poteva arrecare
che danni. Di lì a poco la morte del Noris e lo stato di guerra
generale fecero dimenticare del tutto gli affari del calendario. Solo
con il ritorno della pace - affermava nel 1707 senza troppa fiducia il
Bianchini al Leibniz - si poteva sperare in una ripresa di quel progetto.
La morte del Noris rattristò grandemente il Bianchini: dal 1692
- da quando cioè il gran veronese era giunto, con la più
viva avversione, a Roma - gli era stato molto vicino. Ne tracciò,
per il voto unanime degli Arcadi romani, un affettuoso ritratto, e nel
1727, allorché il Maffei si accinse a ristampare le opere, intervenne
con autorevoli consigli.
Il Bianchini era andato internandosi sempre più in quegli anni
nelle questioni di cronologia e di computo. Alle supputazioni astronorniche
alternava - come al solito - indagini storiche. Studiò con particolare
attenzione un documento difficilissimo, fino allora da nessuno decifrato:
le tavole e il ciclo pasquale di 112 anni che si legge inciso in lettere
greche sulla cattedra della famosa statua di Sant’Ippolito scavata
nel 1551 (oggi nei Musei Lateranensì). La riscoperta nel 1704 di
un frammento marmoreo, già studiato nel secolo XVI da Manuzio,
Sigonio, Gruter, Scaligero e poi smarrito, gli offri l’occasione
per una sottilissima ricostruzione del calendario giuliano. L’una
e l’altra dissertazione, assieme a una descrizione della meridiana
della Certosa, pubblicò a Roma nel 1705 (De
Kalendario et cyclo Caesaris...). Una parte di quella su Sant’Ippolito
il Fabricius ristampò nel 1716 innanzi agli Opera
omnia del santo.
Il Bianchini aveva ripreso intanto le osservazioni astronomiche, che dal
1702 in poi prese a comunicare regolarmente alla Académie des Sciences.
Nominato il 4 marzo 1699 membro corrispondente, alla morte di Jacques
Bernoulli, il 9 gennaio 1706 diventò uno degli otto associati stranieri.
Erano ancora in piedi gli affari del calendario quando, nel 1703, Clemente
XI lo nominò “presidente delle antichità di Roma”.
Il Bianchini svolse in tal carica un’attività altamente meritoria
a tutela del patrimonio archeologico della città: almeno in teoria,
nessuna delle antichità scavate poteva esser rimossa senza il suo
permesso scritto.
Encomiabile la sua opera di salvataggio, fortunata o sfortunata che fosse,
di rarissimi pezzi antichi. Nel 1724, per esempio, ritrovata la preziosa
tavola marmorea rappresentante la pianta di Roma antica (Forma
Urbis Romae), si adoperò perché venisse salvata dalla
sicura rovina (Del Palazzo de’
Cesari, Roma 1738, pp. 14 e segg.; La
pianta marmorea di Roma antica, a cura di G. Carettoni, A. M. Colini,
L. Cozza, G. Gatti, I, Roma 1960, pp. 17, 26, 32). Nella sua veste di
sovrintendente alle antichità, diresse nel 1705 i primi scavi sistematici
sull’Aventino. Con grande fiuto, intuiva il valore dei monumenti
messi in luce. Ritrovò, nel corso di questa campagna, m planisfero
egizio posteriore forse al II secolo dell’era cristiana.
Stimolato dalla nuova scoperta, il Bianchini tornò a riconsiderare
l’atlante farnesiano il più antico dei tanti globi celesti
costruiti nell’antichità che ci sia rimasto (oggi al Museo
Nazionale di Napoli). Non era un documento venuto alla luce in quegli
anni: era stato infatti disseppellito al principio del secolo XVI. Ma
nessuno aveva pensato di trame profitto per la storia dell’astronomia
antica. Cominciò a lavorare a un’operetta dal titolo: Globus
Farnesianus, pubblicata nel 1752 dal nipote Giuseppe nel tomo IV
della Historia ecclesiastica.
Col calcolo della precessione degli equinozi, il Bianchini riuscì
a determinare che il globo era [191]
stato eseguito nel secolo degli Antonini (coevo dunque dell’Almagestum
di Tolomeo): è la datazione oggi comunemente accettata. Il Bianchini
aveva però studiato quel globo non soltanto per se stesso, ma per
trovarvi i “rudimenti “della cronologia e della storia dell’età
eroica”: aveva cioè ripreso e ampliato gli spunti della Istoria.
Aveva ora nelle mani un filo sicuro per addentrarsi nel labirinto di quel
tempo remoto: la regressione dell’equinozio di primavera. E’
evidente l’affinità nel tema e nel metodo delle ricerche
bianchiniane con la Chronology
(1728) del Newton. Il Bianchini stesso l’aveva notata con il più
vivo piacere appena gli fu comunicata da Thomas Dereham quella fatica
postuma del grand’uomo. L’aver trovato le proprie riflessioni
“secondate” da quelle del Newton lo aveva anzi incoraggiato
a dar fuori quel suo scritto, contenente “le dimostrazioni della
cronologia sulla precessione degli equinozi”. Lo scritto bianchiniano
merita a buon diritto una parte degli elogi che vennero fatti a quello
del suo maggior contemporaneo. La ricerca di documenti più sicuri
delle fonti letterarie per la storia delle epoche più antiche aveva
indotto il Bianchini ad appoggiarsi in un primo tempo alle fonti archeologiche
(dal Newton invece disprezzate) e quindi a pensare (indipendentemente
da lui e prima di lui) a una possibile utilizzazione dei calcoli astronomici
per l’accertamento e l’emendamento della cronologia tradizionale.
Il Bianchini era ormai in Europa un uomo celebre: il suo parere d’antiquario
era ricercato e autorevole. Fu lui a condurre i primi scavi sistematici
del Palatino, portando alla luce in particolare le sale della Domus Flavia
e le costruzioni ad essa sottostanti. Queste fabbriche, da lui diligentemente
disegnate nell’opera postuma Del
Palazzo dei Cesari, andarono in seguito nuovamente ricoperte. Solo
un cinquantennio dopo, gli scavi furono ripresi dall’abate Rancoureuil.
Su invito del Davia lavorò a un’operetta sui colombari scoperti
nel 1725 sulla via Appia (Camera ed
inscrizioni sepulcrali de’ liberti, servi ed ufficiali della casa
d’Augusto, Roma 1727). È’ tra le opere antiquarie
del Bianchini la più fresca di tutte, quella dove meglio appare
la sua abilità nel rianimare le testimonianze archeologiche. Con
poche, secche epigrafi funerarie seppe far luce su un insieme di destini
umani e rivelare l’alienante lavoro quotidiano dei servi, liberti
e ufficiali della casa di Augusto.
Uno dei suoi primi progetti come “presidente” era stata la
creazione di un museo d’antichità sacra. Il pontefice gli
aveva dato la sua approvazione. Il Bianchini non risparmiò fatica
per mandare ad effetto quell’idea. Nel febbraio del 1706 credeva
di esser vicino alla realizzazione. Ma la creazione di tal museo sarebbe
costata troppo: ottantamila scudi. La Camera era esausta. Nel 1710 il
segretario di Stato gli comunicò l’ordine di sospendere ogni
cosa. Come premio di tanta attività il 10 aprile gli venne conferito
un canonicato in Santa Maria Maggiore. A prova della modernità
delle vedute del Bianchini si può portare l’idea della pubblicazione
di periodiche “notizie degli scavi ”. Ne aveva parlato nel
1717 al Montfaucon: e “per disporre uno di questi nostri stampatori
a fare ogni anno una specie di Giornale delle Antichità che si
vanno cavando: e crederei che vi fosse materia per darne ogni anno un
giusto volume in quarto”. Purtroppo i librai romani non intrattenevano
rapporti di commercio con quelli fuori d’Italia; egli temeva perciò,
ed era timore, il suo, fondato, che l’editore si tirasse indietro.
Ghiotto dei tesori che il suolo di Roma andava giorno per giorno restituendo,
e coscienzioso com’era, prendeva di tutti quei reperti esatta nota
nei suoi quaderni. Talvolta, abbozzava trattatelli che poi lasciava imperfetti:
come quello De clivo Citorio,
utilizzato a suo tempo dallo Hülsen.
Alla fine del 1704 fu interpellato dalla Congregazione per il trasporto
della colonna antonina nella piazza di Montecitorio. Era la più
antica delle colonne monolitiche che si trovassero allora in Roma. Due
anni prima era venuta alla luce la base istoriata e il Bianchini l’aveva
dottamente illustrata (De Kalendario,
capitolo VII). I tentativi per alzarla compiuti nell’ottobre non
avevano avuto successo. Era ovviamente un problema di meccanica (momenti
delle trazioni, resistenze dei solidi): il Bianchini lo risolse con l’aiuto
del Borelli. Non aveva fatto che una “roza applicazione” -
si schermiva con il Cassini - di “dottrine, che ne’ suoi fonti
meritano ogni considerazione, ma derivate nel mio torbido, e disadatto
canale perdono assai della nativa chiarezza, con cui sorgevano illustri
dal Galileo e dal Borelli” (Parigi, Bibliothèque de l’Observatoire,
AB 49). I capomastri seguirono le sue istruzioni: salutata dal suono di
pifferi e tamburi, e da salve di cannone, la colonna fu issata nel 1705.
Questa passione per l’antichità il Bianchini andava comunicando
a un giovanissimo e precoce nipote del papa: Alessandro Albani, il futuro
protettore del Winckelmann. In suo onore aveva creato, sin dal 1700, un’accademia
che aveva intitolato degli Antiquari alessandrini. La piccola accademia
che si adunava nelle stanze del Quirinale non si occupava soltanto di
antichità, ma volentieri anche di scienza. Fu qui che, probabilmente
nel 1707, il Bianchini rifece con successo gli esperimenti newtoniani
di rifrazione prismatica della luce. Aveva avuto l’Opticks
appena uscì la traduzione latina del Clarke (1706) e l’aveva
trovata [192] “bellissima
”. Fu senza dubbio il primo in Europa a rifare quelle esperienze:
in Francia si cominciò soltanto nel 1715. Ne parlò con soddisfazione
allo stesso Newton: avevano confermato “ad amussim” le sue
ipotesi. Le rifece più di una volta al suo ritorno dall’Inghilterra
nell’accademia che si riuniva nel 1714 intorno al cardinale Gualtieri.
Nel 1728 al Rizzetti, che, nel suo trattato De
luminis affectionibus, aveva impugnato le conclusioni del Newton,
disse apertamente il suo disaccordo: aveva per parte sua ritrovate così
esatte quelle esperienze che “o nel fatto delle pruove, o nel discorso
che deduce non credo sia in istato d’essere corretto”.
La fama alla quale il Bianchini era salito in quegli anni, la fiducia
che aveva in lui il pontefice indussero nell’autunno del 1704 il
Muratori e Bernardo Trevisan a porlo a capo della loro “Repubblica
letteraria d’Italia”, e a mandare in giro in suo nome - senza
averlo prima interpellato - la circolare d’invito. Il Bianchini
reagì energicamente in una lettera del 7 febbraio 1705 al Muratori
(e al Bacchini) contro quella soperchieria. Più grave il dissidio
di fondo. In breve: il progetto muratoriano gli pareva infetto da boria
nazionale. Di fronte alle primissime manifestazioni di nazionalismo “risorgimentale”
il Bianchini si metteva in guardia: sentiva molto più vicine al
suo cuore di umanista cristiano le aspirazioni cosmopolitiche del secolo
nascente.
Dopo questo incidente il Bianchini interruppe per sempre i rapporti con
il Muratori, e conservò una irriducibile diffidenza per tutte le
iniziative che partivano da lui o a lui facevano capo. Si mantenne freddo
all’inizio verso il Giornale de’
Letterati perché temeva - giudicando dalle sue insistenti
rivendicazioni del nome italiano - che fosse l’organo della “repubblica
degli arconti”. Mutò atteggiamento, pur continuando a disapprovare
quella polemica, quando seppe dal Maffei che il Muratori non vi aveva
la minima parte.
Non avrebbe però mai avvilito se stesso col farsi persecutore.
Le sue riserve all’edizione del Liber
pontificalis di Agnello del Bacchini non furono dettate dal risentimento:
lo dimostra il semplice calcolo delle date. Le censure rese al principio
del 1704 dal Bianchini in veste di qualificatore del Sant’Uffizio
erano moderate nel contenuto e nel tono: sinceramente ammirava la perizia
filologica del benedettino e vantava, in apertura, le sue molte benemerenze
scientifiche. Altrettanto moderato era stato anni prima, nel 1702, nei
confronti dell’epistola del Mabillon De
cultu SS. ignotorum; e il Mabillon gliene era stato gratissimo.
Il Bianchini conveniva, infatti, sull’opportunità di quella
polemica. Invitato una seconda volta a riferire, il 10 aprile 1705, della
nuova edizione emendata di quella scottante epistola, il Bianchini, dopo
pazientissimo esame, concluse che il Mabillon aveva “religiosamente
eseguito quanto da lui veniva desiderato”. Nessuna meraviglia invece
che anni dopo, invitato a riferire sulla terza deca dell’Istoria
del Giannone, concludesse, visto “lo spirito d’arroganza e
di sedizione” del suo autore, per la condanna.
Il 18 maggio 1712 il Bianchini apprese con gioia di esser stato deputato
a recar la berretta cardinalizia al Rohan. Quel viaggio gli offriva la
possibilità di visitare una gran corte (troverà splendida
la tetra Versailles degli ultimi anni di Luigi XIV) e di conoscere di
persona i confrères dell’Académie
des Sciences.
“Questo viaggio - confidava al Manfredi - mi darà occasione
di apprendere colà molte belle cognizioni che mi animeranno come
io spero a ripigliare gli studi astronomici”. Non perderà
in effetti occasione di visitare, dovunque passava, raccolte di medaglie
e gabinetti scientifici. Al viaggio si preparò coscienziosamente:
cominciò a tenere, appena gli giunse la nomina, un esatto diario
dei suoi movimenti e dei suoi incontri. Non lo smetterà che al
suo ritorno a Roma, il 31 maggio dell’anno seguente.
Dalla Francia farà un’escursione in Alsazia, nei paesi renani,
in Belgio e in Olanda. Tornato a Parigi per trascorrervi il Natale, il
14 gennaio 1713 salpa per l’Inghilterra. Fu uno dei primi italiani
che, nel nuovo secolo, mettesse piede nell’isola: lo stato di guerra
era stato, nel decennio precedente, un ostacolo insormontabile per i visitatori
continentali.
Al momento che vi giunse il Bianchini la pace era imminente. Le notizie
di pace “che si offerivano di giorno in giorno” resero “tanto
più grato” il suo soggiorno. Era l’annus
mirabilis della cultura inglese: lo Swift, l’Arbuthnot, il
Pope, l’Addison, lo Steele erano allo zenit del loro genio. Il Bianchini
avvicinerà i primi due, ma cercherà d’incontrare di
preferenza gli uomini di scienza, Flamsteed, Halley, Newton soprattutto.
Tre volte ebbe con lui lunghi colloqui. Il Newton stava, in quell’anno,
ripubblicando con importanti aggiunte i suoi Principia.
Da poco aveva iniziato la gran polemica con il Leibniz a proposito del
calculus: le prime copie del
Commercium epistolicum erano
state presentate alla Royal Society il giorno stesso dell’arrivo
del Bianchini. Gliene saranno consegnate cinque copie da distribuire ai
matematici suoi amici (Grandi, i due Manfredi, Galiani). Erano i primi
esemplari del celebre libello a varcare la Manica. Non potendo dargli
i Principia, il Newton gli donò
due esemplari dell’Optiks,
uno [193] per sé e l’altro
per la Biblioteca Vaticana (dove tuttora si conserva), assieme alla raccolta
curata due anni prima da William Jones dei suoi rarissimi scritti matematici,
uno dei quali - la Methodus differentialis
- fino allora inedito. In cambio ricevette dal Bianchini il De
Kalendario, la Solutio problematis
paschalis e le tavole del globo farnesiano. Il Newton conservò
dello scienziato italiano un buon ricordo. Parlava spesso di lui a un
amico comune, Alexander Cunningham (lo storico), con “stima ed affetto”.
Allorché il Bianchini, ritornato in Italia, gli inviò nell’aprile
del 1714 due sue osservazioni astronomiche, il Newton si affrettò
a comunicarle alla Royal Society, e le fece inserire, l’una e l’altra
accompagnata da parole di lode, nel numero di luglio-settembre delle Philosophical
Transactions. Era stato il Newton del resto a proporre la sua candidatura
alla Royal Society. Il Bianchini partecipò a due meetings
della società. In quello del 2 febbraio assistette agli esperimenti
elettrici di Francis Hauksbee, che tanto gli piacquero da farsene, al
suo ritorno in Italia, attivissimo propagandista. Per sua ispirazione
uscirà nel 1716 la traduzione italiana dei Physico-mechanical
experiments, che efficacemente contribuì a divulgare in
Europa quelle importanti esperienze. Fece pure la visita di rito a Oxford:
delle accoglienze calorose che vi ricevette nei due giorni che vi rimase
è testimonianza, oltre che nel suo Iter
in Britanniam, nei diari dello Hearne.
Conservò da quel “fortunatissimo viaggio” l’immagine
di un paese prospero, ricco, civilissimo. Rimase soprattutto affascinato
dai modi dell’intelligenza britannica. Verso il 1720, cominciò
a prendere in compagnia della moglie del pretendente - l’infelice
Clementina Sobieski - lezioni di lingua inglese. Fece tali progressi da
riuscire a maneggiare quella lingua non soltanto in prosa ma in versi.
A Urbino e a Roma frequentò assiduamente la corte stuartiana, e
divenne familiare di quell’“angelo” che era per lui
Giacomo III. Nel 1719, al tempo dello sbarco di Bristol, sperò
vivamente nella possibilità di un suo ritorno sul trono inglese.
Giacomo era intervenuto, tra l’altro, in suo favore allorché,
nell’autunno del 1717, nell’eventualità che venisse
creata una nunziatura in Moscovia, era stato fatto il suo nome. Il Bianchini
non ambiva quella dignità: “Conosco almeno in parte la mia
inabilità - diceva alla sorella Mattea a pericolo scongiurato -
per non azzardarmi ad imprese così importanti; e se bene il Signore
può fare miracoli, nondimeno l’ordine della provvidenza vuole
che noi non tentiamo il Signore a farli, per così dire, per forza”.
Come s’era ripromesso, il viaggio europeo gli aveva fatto nascere
nuove idee, un nuovo ardore di studi. La grande meridiana tracciata, con
il lavoro di sedici anni, attraverso la Francia dai Cassini gli fece nascere
il desiderio di far qualcosa del genere per l’Italia: di misurare
cioè tutto l’arco di meridiano dall’uno all’altro
mare “onde risulta poi la cognizione di tutto il sito d’Italia,
anzi di tutto il giro del Globo terrestre”. Le discussioni sulla
grandezza e figura della Terra (cominciavano allora ad essere e rimarranno
per tutto il secolo d’attualità) avevano rinnovato lo studio
della geografia. Con il maggiore di questi nuovi geografi, il Delisle,
entrò infatti in rapporto attraverso il Polignac. Cominciò
le proprie misurazioni nel 1717; nel 1724, nell’atto di pubblicare
una parte minima dei suoi risultati, prometteva di dare al più
presto fuori l’opera ultimata. Non poté mantenere la promessa.
I risultati di tante costose fatiche saranno resi noti dopo la sua morte
dal Manfredi, che dovette durare una pena incredibile a metter in ordine
“migliaia di fogliuzzi”. Benché l’opera del Bianchini
non fosse riuscita troppo esatta, era stato bene - pensava il Bottari
- averla accozzata “perché i mattematici facilmente potranno
fame una esattissima” (cfr. Nicolini). Sarà utile infatti
a Cristopher Maire e Ruggero Boscovich quando nel 1755 si posero, d’ordine
del pontefice Benedetto XIV, a riformare due gradi del meridiano attraversante
gli Stati della Chiesa.
L’anno prima, il Bianchini aveva intrapreso con cannocchiale reticolato
a osservare due stelle di prima grandezza (Capella
e Lyra) allo scopo di
determinarne la parallassi stellare. Cercava la prova astronomica del
moto orbitale della Terra. Scoprì, con nove anni di anticipo sul
Bradley, l’aberrazione della luce. Contemporaneamente aveva iniziato
le osservazioni di Venere, che proseguirà fino ai suoi ultimi anni.
Si servì per queste osservazioni di telescopi di lunghissima portata
(dagli 80 ai 100 metri), che, con uno speciale dispositivo da lui escogitato
e comunicato nel 1713 all’Académie des Sciences, era riuscito
a render maneggevoli (nel 1727 comincerà però a servirsi
di un telescopio a riflessione, newtoniano, e se ne dichiarerà
soddisfattissimo). Con quei grandi cannocchiali si illuse di aver scoperto,
dopo tanti tentativi di astronomi anche valentissimi come Huygens, le
macchie di Venere. Le sue carte della superficie di questo pianeta non
hanno però che un valore storico quanto quelle posteriori del Niessen
(1891) e del Lowell (1896). Quelle macchie (estremamente labili, forse
per la densa atmosfera che circonda il pianeta) rimasero a lui, e rimangono
tuttora, inafferrabili. Grazie alla “scoperta”, di esse poté
fissare il tempo [194] di rotazione
del pianeta in 24 giorni e 8 ore. Ancor oggi non si è riusciti
a ottenere valori certi: lo Schiapparelli concluse per un periodo di 225
giorni, lo Jarry nel 1928 lo ridusse a 23 ore; F.E. Ross, mediante ricerche
fotografiche eseguite con filtri selettori di varia trasmissione spettrale,
inclinò verso un periodo di una trentina di giorni: si riavvicinò
dunque ai valori trovati dal Bianchini.
Il Bianchini non aveva dimenticato gli studi storico-fliologici. Sono
di questi anni alcune dissertazioni storiche sulla Chiesa dei primi due
secoli destinate a far parte di una Historia
ecclesiastica concepita con gli stessi metodi della Istoria
universale; ed è di questi anni la più grossa impresa
filologica della sua vita: la ristampa del Liber
pontificalis. Pur conoscendo e approvando le conclusioni dello
Schelstrate, continuò nel frontespizio ad attribuire l’opera
ad Anastasio Bibliotecario.
Il progetto del Bianchini era di pubblicare cinque volumi in folio: tre
soli vedranno la luce nella sua vita, un quarto sarà edito dal
nipote Giuseppe. Si tratta - è giudizio concorde di Duchesne, Mommsen
e Leclercq - di un monurnento di “dimensions respectables”.
Tuttora utilissime le prefazioni e le copiosissime note. Il Bianchini
vi descrisse tra le altre cose con maggior cura le iscrizioni contenenti
le serie papali allora visibili in San Paolo fuori le Mura e andate poi
quasi interamente distrutte.
Colpito da idropisia, il Bianchini chiuse la sua operosissima e limpida
esistenza a Roma, il 2 marzo 1729. Sul suo corpo fu trovato, alla morte,
un cilizio.
Opere
Opere: Alle opere registrate da G.M. MAZZUCHELLI (Gli
scrittori d’Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1172-1177) vanno
aggiunte: Theses physicae, Bononiae
1679; Poetico-Astrologicum Vaticinium,
in appendice a L. BACCHETTI, De Angelica D.
Thomae doctrina ac puritate, Patavii 1681; Giove
osservato ne’ segni di Leone e di Vergine gli anni 1682 e 1683 [...],
Verona 1683; Dissertazione [...] (1687),
in Nuova raccolta di opuscoli scientifici e
filologici, a cura di A. CALOGERÀ, XLI, Venezia 1785, n.
2; Sulle stelle cangianti ed in particolare
su la stella della Balena, in Giornale
astronomico ad uso comune, Parma 1841, p. 55; Rel.
delle cose più erudite e rare de’ Principi di Firenze e di
Parma e nell’Istituto di Bologna mandata a S. M. Giovanni V Re di
Portogallo, a cura di G. GIULIARI, Verona 1882; Lettera
[...] agli eccell. Provveditori della Repubblica Veneta intorno alla fortezza
di Guastalla, a cura di G. GIULIARI, Verona 1883; Relazione
della fortezza di Guastalla, a cura di G. GIULIARI, Verona 1885;
Observationes circa fixas, a cura di
F. PORRO, Genova 1902; Iter in Britanniam,
in S. ROTTA, Francesco Bianchini in Inghilterra,
Brescia 1966. Lettere in A. VALLISNERI, pistolario,
I, 1679-1710, a cura di D. GENERALI,
Milano 1991, pp. 289, 329-330, 356.
Bibliografia
Tra i contributi più recenti sull’opera del Bianchini sono
da segnalare: I. CARINI, L’Arcadia,
Roma 1891, pp. 84-100; E. DE BROGLIE, B. de
Montfaucon, I, Paris 1891, p. 336; A. SPAGNOLO, Francesco
Bianchini e le sue opere, in “Memorie dell’Acc. d’agricoltura,
scienze e lettere di Verona”, s. 3, LXXXIV, 1898, pp. 81-122; B.
CROCE, Francesco Bianchini e Gian Battista
Vico, in Conversazioni critiche,
II, Bari 1950, pp. 101-109; G.V. CALLEGARI, L’astronomo
Francesco Bianchini, in “Garda”, giugno-luglio 1929;
A. ALBERTI POJA, La Meridiana della Chiesa
di Santa Maria degli Angeli, Roma [1947], passim;
F. NICOLINI, Un grande educatore italiano.
Celestino Galiani, Napoli 1951, pp. 25, 29, 182 e segg., 222-224;
H.C. KING, The Histoty of the Telescope,
London 1955, pp. 64 e segg.; A. MOMIGLIANO, Contributo
alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 85-87; F. LANZA,
L’“Historia Universale” del
Bianchini e la “Scienza Nuova”, in “Lettere italiane”,
X, 1958, pp. 339-348; S. ROTTA, Sulla costruzione
e diffusione in Italia dei telescopi a riflessione, in “Le
Machine”, II-III, 1967-1968, pp. 90-102; S. ROTTA, Francesco
Giuseppe Borri, in Dizionario biografico
degli italiani, XIII, Roma 1970, pp. 4-13; S. ROTTA, Montesquieu
nel Settecento italiano: note e ricerche, in “Materiali per
una storia della cultura giuridica”, I, 1971, pp. 55-209; S. ROTTA,
Scienza e “pubblica felicità”
in Geminiano Montanari, in Miscellanea
Seicento, II, Firenze 1971, pp. 65-208; V. FERRONE, Scienza,
natura e religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento,
Napoli 1982, pp. 14 e segg.; P. CASINI, Newton
e la coscienza europea, Bologna 1983, pp. 33, 144, 177, 181-182,
192, 226; G. MONACO, Un parere di Francesco
Bianchini sui telescopi di Giuseppe Campani, in “Physis”,
XXV, 1983, pp. 413-431; F. UGLIETTI, Un erudito
veronese alle soglie del Settecento. Monsignor Francesco Bianchini (1662-1729),
Verona 1986; C. GALIANI – G. GRANDI, Carteggio
(1714-1729), a cura di F. PALLADINO – L. SIMONUTTI, Firenze
1989, pp. 12 e segg.; S. ROTTA, L’Accademia
fisico-matematica ciampiniana, in Cristina
di Svezia. Scienza e alchimia nella Roma barocca, Bari 1990, pp.
99-186 (recensione di C. FARINELLA, in “Nuncius”, VI, 1991,
pp. 228-233); A. BETTINI, Cosmo e apocalisse.
Teorie del Millennio e storie della
Terra nell’Inghilterra del Seicento, Firenze 1997, pp. 200,
280; S. GOMEZ LOPEZ, Le passioni degli atomi.
Montanari e Rossetti: una polemica tra galileiani, Firenze 1997,
pp. 214, 222-224; G. FANTONI, La grande meridiana
in Santa Maria degli Angeli a Roma, Roma 1999; M.C. FANIGLIULO,
Sullo Gnomone clementino di Santa Maria degli
Angeli a Roma, in “Giornale di astronomia”, XXVI, 2000,
pp. 35-41; D. ARECCO, Scienziati e accademie
nel secondo Seicento. Giovanni Giustino Ciampini tra scienza e storia,
in “In Novitate”, II, novembre 2002, pp. 69-78. Sullo sfondo
storico e ideologico: S. ROTTA, Sette lettere
inedite di Scipione Maffei, in “Rassegna della letteratura
italiana”, III, 1958, pp. 345-364; W.E.K. MIDDLETON, Science
in Rome 1685-1700, in “The British Journal for the History
of Science”, VIII, 1975, pp. 138-153; A. ROBINET, Il
soggiorno di Leibniz a Firenze, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, LXV, 1986, pp. 399-454; M. FIRPO, Inquisizione
romana e controriforma, Bologna 1992; D. ARECCO, Accadenie
scientifiche e vita intellettuale tra Seicento e Settecento, in
“Nuova Secondaria”, III, 2003, pp. 55-57, 91-93.
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