| AmiciziaDavvero l’amicizia era la virtù principale dei Romani; se ne trovano 
        aspetti anche nella storia dei loro secoli più corrotti: mai furono più 
        eroici di quando furono amici.
 Fra noi, chi può far del bene agli altri è per l’appunto 
        chi non ha e non può avere amici. Parlo dei principi e di una terza categoria 
        d’uomini che occupano una posizione intermedia fra i sovrani e i sudditi, 
        ossia i ministri: persone che godono soltanto delle sventure della condizione 
        dei principi, ma senza i vantaggi della vita privata, né quelli della 
        sovranità.
 
 Dicevo: “Sono innamorato dell’amicizia”.
 
 L’amicizia è un contratto con il quale c’impegniamo a rendere 
        piccoli favori a qualcuno perché ce li contraccambi con favori grandi.
 
 Gli Stoici dicevano che il Saggio non ama nessuno. Ma portavano troppo lontano 
        il ragionamento. Credo tuttavia sia vero che, se gli uomini fossero perfettamente 
        virtuosi, non avrebbero amici.
 
 Si parlava di una battuta spiritosa rivolta contro qualcuno. Chiesero chi l’avesse 
        detta e io replicai: “Può essere soltanto un suo amico”, 
        ed era vero.
 
 Sugli amici tirannici e vanesii dicevo: “L’amore ha delle compensazioni 
      che l’amicizia non ha”.
 
 
 AmoreMi mandate a dire che mi amate un poco. Se vi è occorso un anno per 
        amarmi un poco, quanto tempo vi occorrerà per amarmi molto? 
 Avete appena perso vostro marito; non mi amerete più.
 
 Voi dunque mi lasciate, e mi lasciate per un uomo senza merito. Sono davvero 
        sfortunato! Che mi poteva capitare di più triste del vedermi costretto 
        ad arrossire per avervi amato. Di solito, quando non ci si ama più, nello 
        spirito resta sempre un ricordo piacevole delle passate dolcezze. Ma in questo 
        caso il presente reca vergogna e il passato disperazione.
 
 Avendo una relazione con una donna, previdi in anticipo che stavo per avere 
        un successore, e ben presto ne ebbi conferma. Le restituii le sue lettere e 
        le scrissi: “Nel ricevere queste lettere forse proverete lo stesso piacere 
        che avete provato nello scriverle”.
 
 Il vantaggio dell’amore sulla dissolutezza consiste nella moltiplicazione 
        dei piaceri. Tutti i pensieri, i gusti, i sentimenti divengono reciproci. Nell’amore 
        avete due corpi e due anime, nella dissolutezza avete un’anima che prova 
        disgusto finanche per il proprio corpo.
 
 “Le persone perdutamente innamorate”, diceva qualcuno, “in 
        generale sono riservate”.
 
 È indubbio che l’amore abbia un carattere diverso dall’amicizia: 
      quest’ultima non ha mai mandato nessuno in manicomio.
 
 
 Amor proprioNicole[1] afferma assai giustamente che Dio 
        ha dato all’uomo l’amor proprio così come ha dato il gusto 
      alle vivande.  Quando un uomo manca di una qualità che non può avere, la vanità 
          supplisce e gli fa immaginare di possederla. Così una donna brutta 
          crede di esser bella e uno sciocco di avere dello spirito. Quando un uomo 
          sente che gli manca una qualità che potrebbe avere, vi supplisce con 
          l’invidia. Così s’invidiano i ricchi ed i nobili. La vera ragione è che la vanità non riesce ad ingannarsi sulla 
          ricchezza e sulla nobiltà. 
 Il desiderio di piacere crea i legami sociali, ed è stata la fortuna 
          del genere umano che l’amor proprio, che avrebbe dovuto dissolvere la 
          società, invece la rafforzi e la renda indistruttibile.
 
 Gli uomini sono davvero originali: sono più attaccati alle loro opinioni 
          che alle cose.
 
 Non stupisce che si provi tanta antipatia per le persone che hanno troppa 
          considerazione di sé: non c’è gran differenza fra lo stimar 
          molto se stessi e il disprezzare molto gli altri.
 
 L’umiltà cristiana non è meno un dogma della filosofia 
          che della religione. Ciò non significa che un uomo virtuoso debba credersi 
          più disonesto di un furfante, né che un uomo di genio debba 
          credere di non averne, perché è un giudizio che la mente non 
          può formulare. Tale umiltà consiste nel farci considerare la 
          reale natura dei nostri vizi e le imperfezioni delle nostre virtù.
 
 Ci piace esser stimati ed amati dalle persone che ci stanno vicine, perché 
          ci fanno sentire più spesso e, per dir così, in ogni momento 
          il loro amore o la loro stima: vantaggio che non traiamo da quella delle persone 
          lontane.
 
 Leggendo i libri, vi si trovano gli uomini migliori di quanto non siano, perché 
          ogni autore, non mancando di vanità, cerca di far credere d’essere 
          più onesto di quanto non sia, giudicando sempre in favore della virtù. 
          Insomma, gli autori sono personaggi di teatro.
 
 Lodiamo le persone in proporzione alla stima ch’esse hanno per noi.
 
 Dicevo: “Non si sa proprio come fare a compiere una grande azione: se 
          gli altri ci vedono un nostro interesse, dicono che è amor proprio; 
          se non lo trovano, dicono che è fanatismo”.
 
 Tutte le persone timorose minacciano con facilità: sentono che le minacce 
          avrebbero un grande effetto su di loro.
 
 Dicevo: “Non stimo gli uomini perché non hanno difetti, ma perché 
          hanno corretto i difetti che avevano”.
 
 
 ArtiNel tempo in cui le arti erano sconosciute, gli uomini ancor privi di buon 
          gusto chiamavano bello tutto ciò 
          ch’era grande, difficile, e tutto quello che era stato fatto da un gran 
          numero di braccia. 
 Molte professioni si distruggono con l’imitazione: gli oratori si son 
          rovinati imitando i poeti, così come hanno fatto gli scultori copiando 
          i pittori.
 
 Ciò che fa sembrar grande la maggior parte delle chiese italiane è 
          la loro oscurità: in effetti, con la luce i limiti si vedono meglio. 
          Dicono che quella susciti più raccoglimento e rispetto. Anche le vetrate 
          dipinte riducono la luce. Ma non val la pena di lasciarvele, giacché 
          sono dipinte male, non essendo gli italiani mai riusciti, come invece i francesi, 
          in quest’arte, che è anteriore al rinnovamento della pittura 
          in Italia.
 
 L’eccessiva regolarità risulta talvolta, e non di rado, sgradevole. 
          Niente è più bello del cielo, eppure è disseminato di 
          stelle senza un ordine. Le case e i giardini dei dintorni di Parigi hanno 
          il solo difetto di rassomigliarsi troppo: sono continue copie di Le Nôtre[2]. 
          Vedete sempre il medesimo aspetto, qualem 
            decet esse sororum[3]. Se un terreno 
          aveva un andamento irregolare, anziché utilizzarlo così com’era, 
          l’hanno spianato, per costruirvi una casa che fosse uguale alle altre. 
          Le nostre case somigliano ai nostri caratteri.
 Resto più colpito se vedo un bel dipinto di
        Raffaello che mi rappresenta una donna nuda nel bagno che se vedessi Venere
        uscire dalle onde. Il fatto è che la pittura ci rappresenta soltanto le
        bellezze delle donne, senza alcun difetto. Vi si può vedere tutto
        ciò che piace e nulla di quanto può risultare sgradito.
        D’altra parte, nella pittura, l’immaginazione gioca sempre un certo
        ruolo, e si tratta di un pittore che tende sempre ad abbellire.
 
 Nei pittori della scuola di
        Firenze ho scoperto una tecnica del disegno che non avevo mai visto altrove.
        Essi pongono i corpi in atteggiamenti inconsueti, ma che non appaiono mai
        impacciati. Talvolta il colore è un po’ freddo, ma il disegno
        risalta tanto che sempre vi sorprende. I fiorentini non pongono i corpi
        nell’oscurità, non ricorrono ad ombre finte, ma li rappresentano
        alla luce del sole.
 
 È impossibile trovare
        un quadro del Domenichino, di Guido o dei Carracci mal disegnato. Sono come
        Rousseau[4], che non può scrivere brutti
        versi. Mentre è quasi impossibile trovare un quadro della scuola
        veneziana ove non ci sia qualcosa da ridire, quanto al disegno.
 
 In Italia c’è
        sempre stato un re di Francia che voleva coprir d’oro un loro quadro, e un
        certo signore inglese che voleva
        acquistare una loro galleria per venti, venticinque, cinquantamila scudi!
        Dopodiché non si può, per essi, offrire o stimarli poco. Ma non
        sono mai riuscito ad incontrare quel certo
          signore inglese, ch’era pieno di
            danaro.
 
 Quanti abusano della propria
        reputazione! Ad un famoso pittore rimproveravano certi suoi brutti quadri.
  “Via! via!” replicò quello, “Non crederanno mai che li
        abbia fatti io”.
 Uno dei motivi per cui i nostri scultori non fanno più drappeggi
        belli come quelli degli antichi è che il marmo di Carrara di cui si
        servono oggi è più duro di quello degli antichi. è quasi
        una pietra focaia, e lo è ancor più di quanto non fosse
        quarant’anni fa. Le cave hanno ceduto e si è persa la vena.
        Così il marmo non consente il lavoro degli operai.
 
 Confesso
        che a Roma l’Apollo mi avrebbe
        davvero sedotto, se non avessi avuto la fortuna di passare per Firenze, ove
        giurai fedeltà eterna alla Venere dei
          Medici, che io considero il miglior predicatore che i fiorentini abbiano
        mai avuto, anche se non ne conosco bene la riuscita. Tutto questo non
        m’impedisce di compiere un gran salto per arrivare alla basilica di San
        Pietro, e passare dal meraviglioso che piace al meraviglioso che sconvolge.
 
 Durante il mio soggiorno in
        Italia, mi sono totalmente convertito alla musica italiana. Nella musica
        francese, mi pare che gli strumenti accompagnino la voce, mentre
        nell’italiana mi sembra che l’afferrino e l’innalzino. La
        musica italiana è più flessibile della francese, che invece appare
        rigida. È una sorta di lottatore più agile. L’una entra
        nell’orecchio, l’altra lo anima.
 Non riuscirei ad abituarmi alla voce dei castrati, in quanto credo che, se 
          un castrato canta bene, la cosa non mi sorprenda affatto poiché è 
          predisposto per tale scopo, indipendentemente dal talento, e perciò 
          non ne sono più sorpreso di quando vedo che un bue ha le corna o un 
          asino delle grandi orecchie. D’altronde, mi pare che la voce di tutti 
          i castrati sia uguale. I castrati (credo) sono arrivati a Venezia per via 
          del commercio che tale città intrattenne con Costantinopoli. Sono venuti 
          dagli imperatori greci che ne facevano gran uso nell’amministrazione 
          del loro palazzo, sicché talvolta diventavano persino generali dell’esercito. 
 Dicevo: “Rameau è Corneille; e Lully Racine”.
 
 Lully compone musica come un angelo, Rameau compone musica come un diavolo.
 
 
 Autobiografia: Montesquieu su MontesquieuHo l’ambizione che occorre per partecipare alle cose di questa vita; 
          non ho invece quella che potrebbe farmi provare avversione verso la posizione 
          in cui la natura mi ha collocato. 
 In gioventù, sono stato ben contento di legarmi a donne che credevo 
          m’amassero. Da quando ho smesso di crederlo, di botto me ne sono distaccato.
 
 Lo studio è stato per me il rimedio sovrano contro i dispiaceri della 
          vita, giacché non ho mai avuto un dolore tale che non mi sia passato 
          con un’ora di lettura.
 
 Mi sveglio la mattina con una gioia segreta: vedo la luce in una sorta di 
          rapimento, e son contento per tutto il resto del giorno.
 
 Mi piace la compagnia degli sciocchi quasi quanto quella delle persone d’ingegno, 
          e ci sono pochi uomini così noiosi da non avermi assai spesso divertito: 
          nulla è più divertente di un uomo ridicolo.
 
 In un primo momento, di fronte alla maggior parte dei potenti, ho provato 
          un timore puerile. Da quando li ho conosciuti meglio, sono passato, quasi 
          senza transizione, al disprezzo.
 
 Mi è piaciuto dire stupidaggini alle donne e render loro dei servizi 
          che costano tanto poco.
 
 Per natura ho amato il bene e l’onore della mia patria, ma ho amato 
          poco quel che si chiama la gloria; 
          ho sempre provato una segreta gioia quando è stato introdotto un ordinamento 
          rivolto al bene comune.
 
 Spesso m’è parso di trovare dell’ingegno in persone che 
          ne erano considerate del tutto prive.
 
 Niente mi diverte di più del vedere un narratore noioso raccontare 
          una storia dettagliata, senza risparmio; non sono interessato alla storia, 
          ma al modo di narrarla.
 
 Non ho mai potuto sopportare che un uomo di spirito si permettesse di canzonarmi 
          per due giorni di seguito.
 
 Ho amato la mia famiglia abbastanza perché facessi quel ch’era 
          opportuno nelle cose fondamentali; ma mi sono tenuto fuori dai dettagli.
 
 Per quanto il nome che porto non sia né buono né cattivo – 
          ha solo trecentocinquant’anni di nobiltà dimostrata –, 
          tuttavia io gli sono molto affezionato, e non sarei disposto a fare sostituzioni.
 
 Quando mi fido di qualcuno, lo faccio senza riserve; ma mi fido di pochi.
 
 Quanto al mio lavoro di presidente, io lo svolgevo con lealtà; comprendevo 
          le questioni in sé, ma, per ciò che concerne le procedure, non 
          ne capivo nulla. Tuttavia mi ci applicavo; ma quel che mi disturbava maggiormente 
          era vedere degli stolti possedere quella stessa capacità che, per così 
          dire, mi sfuggiva.
 
 Quanto alle conversazioni di ragionamento, ove gli argomenti sempre si troncano 
          e s’intersecano, me la cavo abbastanza bene.
 
 Non ho mai visto versare lacrime senza esserne intenerito.
 
 Perdono facilmente, poiché non sono capace di odiare. L’odio 
          mi pare penoso. Quando qualcuno ha voluto riconciliarsi con me, ho sentito 
          soddisfatta la mia vanità, e non ho più considerato un nemico 
          colui che mi faceva la cortesia di darmi una buona opinione di me stesso.
 
 Nelle mie terre, con i miei vassalli, non ho mai tollerato che mi s’inasprisse 
          contro qualcuno. Quando mi hanno detto: “Se sapeste i discorsi che hanno 
          fatto!”. “Non voglio saperli”, ho risposto. Se quanto volevano 
          riferirmi era falso, non volevo correre il rischio di crederlo. Se era vero, 
          non volevo prendermi la pena di detestare un gaglioffo.
 
 Quando ho vissuto in società, la cosa mi è piaciuta come se 
          non potessi sopportare la vita ritirata. Quando mi son trovato nelle mie terre, 
          non ho più pensato alla vita di società.
 
 Credo di essere quasi l’unico autore di libri che abbia costantemente 
          temuto la reputazione di bello spirito. Chi mi ha conosciuto sa che, nelle 
          conversazioni, cercavo di non apparirlo troppo, e avevo una certa abilità 
          nell’assumere il linguaggio di quelli con cui vivevo.
 
 Ho sempre seguito il principio di non incaricare mai altri per quel che potevo 
          fare da solo. Questo mi ha condotto a far la mia fortuna con i mezzi di cui 
          disponevo: la moderazione e la frugalità; e non con mezzi estranei, 
          che sono sempre meschini o ingiusti.
 
 Ho vissuto con i miei figli come con degli amici.
 
 Credo di non aver trascurato di accrescere i miei beni: ho apportato notevoli 
          migliorie nelle mie terre. Ma ero consapevole che lo facevo per una certa 
          opinione delle mie capacità che ciò mi dava piuttosto che al 
          fine di diventar più ricco.
 
 Mi ha molto nuociuto l’aver sempre disprezzato troppo coloro che non 
          stimavo.
 
 Quando ero in Piemonte, re Vittorio mi domandò: “Signore, siete 
          per caso parente dell’abate di Montesquieu[5] che ho incontrato qui insieme con l’abate d’Estrades[6], 
          ai tempi della mia signora madre?” “Sire, gli risposi, Vostra 
          maestà è come Cesare, che non dimenticava mai un nome”.
 Non mi è mai piaciuto godere degli aspetti ridicoli degli altri.
 
 La timidezza è stata il flagello di tutta la mia vita; pareva ottenebrarmi 
          persino i sensi, legarmi la lingua, annebbiarmi i pensieri, sconvolgere la 
          mia espressione. Ero meno soggetto a tali manchevolezze dinanzi alle persone 
          d’ingegno che non dinanzi agli sciocchi, poiché speravo che quelli 
          mi capissero, e questo mi rassicurava.
 
 Se conoscessi una cosa utile alla mia nazione che però fosse deleteria 
          per un’altra, non la proporrei al mio principe, poiché, prima 
          d’essere un francese, sono un uomo, (o meglio) perché sono necessariamente 
          un uomo, mentre sono francese solo per caso.
 
 Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile, ma risultasse pregiudizievole 
          per la mia famiglia, la scaccerei dalla mia mente. Se conoscessi qualcosa 
          di utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo. 
          Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all’Europa, 
          oppure di utile all’Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo 
          considererei un delitto.
 
 Ho fatto molte sciocchezze in vita mia, ma mai delle cattiverie.
 
 Quando vedo un uomo di merito, non lo scompongo mai nelle sue caratteristiche; 
          mentre scompongo sempre un uomo mediocre che possieda alcune buone qualità.
 
 Invidia. Ovunque io la trovi, mi 
          diverto ad esasperarla. Dinanzi ad un invidioso lodo sempre coloro che lo 
          fanno impallidire... Che meschinità sentirsi scoraggiato dalla felicità 
          degli altri ed oppresso dalla loro buona sorte!
 
 Non sposo le opinioni, all’infuori di quelle dei libri d’Euclide.
 
 Avrei agevolmente messo in pratica i dettami della religione pagana: bastava 
          inginocchiarsi dinanzi a qualche statua.
 
 Che cosa vuol dire essere moderati nei propri principi! In Francia sono considerato 
          poco religioso, e in Inghilterra troppo.
 
 Se avessi l’onore di esser papa, manderei a quel paese tutti i maestri 
          di cerimonie, e preferirei essere un uomo piuttosto che un Dio.
 
 Ad uno che parlava male di un mio amico, dicevo: “Criticate me, ma lasciate 
          in pace i miei amici”.
 
 Detesto Versailles, perché là tutti sono piccini. Amo Parigi, 
          perché là tutti son grandi.
 
 Mi piace stare a La Brède, perché a La Brède mi par di 
          avere il mio denaro sotto i piedi. A Parigi, invece, mi par di averlo sulle 
          spalle. A Parigi, dico: “Devo spendere solo questo”. Nelle mie 
          campagne invece dico: “Devo spendere tutto questo”.
 
 Ci sono persone che per conservarsi in salute usano purgarsi, farsi salassi 
          etc. Il mio regime, invece, è solo quello di stare a dieta se ho fatto 
          degli eccessi, di dormire se ho vegliato, e di non preoccuparmi troppo né 
          per i dispiaceri, né per i piaceri, né per il lavoro, né 
          per l’inattività.
 
 Dio mi ha dato il bene ed io mi sono procurato il superfluo.
 
 Se fossi nato in Inghilterra, non mi consolerei di non aver fatto fortuna. 
          In Francia, non sono assolutamente dispiaciuto di non averla fatta.
 
 Non chiedo alla mia patria pensioni, onori, privilegi; mi trovo ampiamente 
          ricompensato dall’aria che vi respiro, e vorrei soltanto che non la 
          si alterasse.
 
 Quando giunsi a Vienna, il conte Kinski mi disse: “Troverete molto brutto 
          il palazzo dell’imperatore”. Io gli risposi: “Signore, non 
          dispiace vedere il brutto palazzo di un principe quando sono belle le case 
          dei suoi sudditi”.
 
 Mi rimangono soltanto due impegni: l’uno, saper essere malato; l’altro, 
          saper morire.
 
 Mi piace leggere un libro nuovo dopo che il pubblico ha espresso il suo giudizio; 
          ossia preferisco giudicare dentro di me il pubblico piuttosto che il libro.
 
 Ho la malattia di scriver libri e di vergognarmene una volta che li ho scritti.
 
 Dicevo: “Vorrei essere il confessore della verità, non il martire”.
 
 Dicevo: “Ho capito una cosa che già sospettavo, ossia che per 
          viver bene con tutti non bisogna aver troppe pretese. Se uscite dai quattro 
          muri della vostra camera, vi sparano. Se tornassi al mondo, vorrei soltanto 
          scaldarmi d’inverno e mangiar gelati d’estate”.
 
 Porrei sempre fra i miei precetti di non parlare mai di sé inutilmente.
 
 Massima mirabile: non parlar più delle cose quando sono state fatte.
 
 Quanto all’abbigliamento, (dicevo), bisogna sempre mantenersi al di 
          sotto delle proprie possibilità.
 
 
 Condizione umana e costumi delle gentiI Greci dicevano: “Solo a Sparta è bello invecchiare”. 
          Io dicevo: “Solo a Vienna è bello invecchiare”. Avevano 
          amanti anche le sessantenni, e pure quelle brutte! Insomma, a Vienna si muore, 
          ma non s’invecchia mai. La fortuna è una condizione, non un bene;
          è cosa buona solo in quanto ci espone agli sguardi altrui e può
          renderci più attenti; ci porta più testimoni e, di conseguenza,
          più giudici; ci obbliga a renderne conto. Ci si viene a trovare in una
          casa dalle porte sempre aperte, in palazzi di cristallo, scomodi perché
          fragili, e scomodi perché trasparenti. 
  Un uomo di umili
        origini si tormenta allo stremo per far fortuna, ossia per ritrovarsi nella
        condizione in cui arrossirà per tutta la vita delle sue origini e del
        tormento di quest’idea. 
 È positivo che al mondo vi
        siano beni e mali: altrimenti ci dispereremmo nel lasciare questa vita.
 
 Procuste: “Proseguo con la mia riforma. Sapete che tutti gli
        uomini che acchiappo li pongo lunghi distesi sul mio letto. Si allungano quelli
        troppo bassi, e si accorciano le gambe di quelli che sono troppo alti. Vedete!
        Voglio che tutti gli uomini siano fatti come me. Ma essi sono così
        testardi che pretendono tutti di conservare la propria statura...”.
 
 Un uomo non è infelice perché ha
        dell’ambizione, ma perché ne è divorato.
 
 L’orgoglio è uno specchio sempre favorevole:
        diminuisce i nostri difetti e accresce le nostre virtù; è un altro
        senso dell’anima, che le procura ad ogni istante nuove soddisfazioni.
 
 Cerchiamo di adattarci a questa vita, a cui non spetta di adattarsi
        a noi. Cerchiamo di non essere troppo vuoti, né troppo pieni.
 
 Osservate come la maggior parte delle cose che ci fanno piacere
        siano irragionevoli.
 
 L’attesa è una catena che unisce
        tutti i nostri piaceri.
 
 Il timore accresce le nostre pene,
        così come il desiderio accresce i nostri piaceri.
 
 A nessuno
        piace essere considerato un nulla in società.
 
 Non devono
        ferirci i segni d’indifferenza, ma piuttosto quelli di disprezzo.
 
 Di solito, è così poca la differenza tra uomo e uomo
        che non c’è motivo d’esser vanitosi: alcuni hanno la gotta,
        altri il mal della pietra. Alcuni muoiono, gli altri moriranno. Hanno una stessa
        anima per tutta l’eternità, e tali anime sono diverse soltanto per
        lo spazio d’un quarto d’ora, ossia finché restano unite ad un
        corpo.
 
 Sono convinto che gli angeli non disprezzino tanto gli
        uomini quanto questi ultimi si disprezzano a vicenda.
 
 Le persone
        estremamente fortunate ed estremamente sfortunate sono in egual misura inclini
        alla durezza: lo testimoniano i monaci ed i conquistatori. Solo il giusto mezzo
        o la mescolanza di buona e cattiva sorte possono muovere alla pietà.
 
 Gli ambiziosi. La loro
        ambizione è come l’orizzonte, che procede sempre davanti a loro.
 
 In generale, è facile cogliere quel che è ridicolo,
        ma si possiede un tatto raffinato quando si coglie ciò che è
        ridicolo ad un certo punto, ossia
        dinanzi ad ogni compagnia e ad ogni persona.
 
 Ho conosciuto un
        ecclesiastico che si faceva apprezzare perché grande e grosso. Mostrava
        un’aria seria diffusa in tutte le dimensioni del suo corpo, e parlava
        così poco che gli occorreva quasi un’intera giornata per dire tre
        fesserie.
 
 Si parla molto dell’esperienza della vecchiaia. La
        vecchiaia ci libera dalle stoltezze e dai vizi della giovinezza, ma non ci
        dà nulla.
 
 È un vero peccato che sia troppo breve
        l’intervallo fra il tempo in cui siamo troppo giovani e il tempo in cui
        siamo troppo vecchi.
 
 Triste è la condizione degli uomini!
        Non appena lo spirito è al culmine della sua maturità, il corpo
        comincia a indebolirsi.
 
 La vita non è una commedia, che deve
        avere necessariamente cinque atti: c’è chi ne ha uno, chi tre, chi
        cinque.
 
 Un capitale di modestia frutta ingenti interessi.
 
 I nipoti sono figli quando lo vogliamo noi; i figli lo sono nostro
        malgrado.
 
 Un uomo onesto è un uomo che regola la sua vita
        sui principi del dovere. Se Catone fosse nato sotto una monarchia fondata sulla
        legge, sarebbe stato fedele al suo principe come lo fu alla repubblica.
 
 Conosco un uomo che, se avesse impiegato nello studio il tempo e la
        fatica che gli sono occorsi per farsi considerare sapiente, sarebbe uno degli
        uomini più sapienti d’Europa.
 
 Dissi: “Quando un
        uomo s’è fatto una reputazione d’onestà e di
        bontà, capita che si cerchi d’abusarne. Gli si fanno proposte che
        mai si oserebbe fare ad un altro. Si conta sulla sua generosità”.
 
 Il mondo è pieno di persone simili al Giano del mito, che
        veniva rappresentato con due facce.
 
 L’adulatore è uno
        schiavo che non è buono per nessun padrone.
 
 L’autorità
        paterna ha in sé i propri limiti, perché man mano che i figli
        escono dalla giovinezza, i padri entrano nella vecchiaia, e la forza dei figli
        aumenta man mano che il padre s’indebolisce.
 
 
        Il modo di vestire e di alloggiare sono cose alle
        quali non si deve riservare un’ostentazione eccessiva, né
        un’eccessiva negligenza. 
 La tavola contribuisce non poco a
        darci quella gaiezza che, unita ad una certa moderata familiarità,
  è chiamata cortesia.
 
 La
    cortesia. Questa disposizione interiore ha prodotto in tutti i popoli un
        cerimoniale esteriore che si chiama cortesia e amabilità, una sorta di codice
        di leggi non scritte che gli uomini si ripropongono di osservare fra loro, ed
        hanno convenuto di prendere come segno di stima l’uso che se ne faccia nei
        loro confronti, e di offendersi qualora non le si osservino.
 
 
        La regola principale è cercar di piacere
        per quanto è possibile, senza sacrificare la propria onestà:
  è infatti utile alla società che gli uomini conquistino credito e
        ascendente gli uni sugli altri, cosa alla quale non si giungerà mai con
        un umore austero e scorbutico. E la disposizione delle cose e delle menti in una
        nazione civile è tale che un uomo, per quanto virtuoso, se fosse soltanto
        rozzo, risulterebbe pressoché incapace di ogni cosa buona, e non
        riuscirebbe, se non in pochissime occasioni, a mettere in pratica la propria
        virtù. 
 L’amore del danaro avvilisce a tal punto un
        principe da non lasciar più scorgere in lui nessuna virtù.
  È ciò che fece diventare il padre del gran Condé la favola
        d’Europa. Si raccontava, infatti, dell’avidità del padre
        quanto delle azioni eroiche del figlio.
 
 L’Avarizia.
  È così sciocca che non sa neppure contare.
 
 L’avaro ama il danaro in sé, non a
        motivo dell’utilità che ne può ricavare. Ciò si
        chiama appetere malum quia malum.
 
 Dicevo ad un avaro:
  “Fate bene ad ammassare danaro in questa vita, perché non si sa
        quel che accadrà dopo la morte”.
 
 L’avarizia si rafforza con
        l’età, perché vogliamo godere sempre. Ora, in
        gioventù possiamo godere dissipando, mentre nella vecchiaia possiamo
        farlo solo conservando.
 
 Del danaro dirò quel che si diceva
        di Caligola, ossia che non c’era mai stato schiavo così buono e
        padrone così cattivo.
 
 Si deve conoscere il valore del
        danaro: i prodighi non lo sanno, ma gli avari ancor meno.
 
 Le
        ricchezze rappresentano un torto che dobbiamo riparare, e potremmo dire:
  “Scusatemi, se sono tanto ricco”.
 
 Ci sono molte persone
        che considerano necessario soltanto il superfluo.
 
 Quei sapienti che
        hanno tutta la loro scienza fuori dall’anima, e annunciano la saggezza
        degli altri senza essere saggi essi stessi!
 
 Non so come
        capitò che un turco s’incontrasse, un giorno, con un cannibale.
  “Siete molto crudele”, gli disse il maomettano, “voi mangiate
        i prigionieri catturati in guerra”. “Che fate voi dei
        vostri?”, replicò il cannibale. “Ah! noi li uccidiamo, ma,
        una volta morti, non li mangiamo”.
 Pare non esista popolo che non
        abbia una sua particolare crudeltà, e ogni nazione sia impressionata
        soltanto da quella delle altre nazioni, quasi la barbarie fosse un fatto di
        costume, come le mode e gli abiti.
 
 È sbagliato non dire la
        verità quando si può: non sempre infatti la si dice quando si
        vuole o quando la si cerca.
 
 Quanto alle mode, le persone
        ragionevoli devono essere le ultime a cambiare, ma non devono farsi attendere.
 
 La guerra di Spartaco fu la più legittima che mai sia stata
        intrapresa.
 
 Gli Spagnoli dimenticarono i doveri dell’uomo ad ogni passo che fecero 
        nella conquista delle Indie, e il papa, che mise loro le armi in mano, che 
        consegnò loro il sangue di tanti popoli, li dimenticò ancor 
        di più.
 
 
 Conversazione Le conversazioni. Quasi tutti conoscono 
        gli inconvenienti in cui di solito s’incorre durante le conversazioni. 
        Mi limiterò a dire che dobbiamo aver presenti tre cose:
  La prima è che parliamo dinanzi a persone che hanno una certa vanità, 
          proprio come noi, e che la loro soffre man mano che si soddisfa la nostra;La seconda è che ci sono poche verità talmente importanti che 
          valga la pena di mortificare qualcuno e rimproverarlo di non conoscerle;
 E, infine, che ogni uomo che s’impadronisce di tutte le conversazioni 
          è uno sciocco, oppure è uno che sarebbe felice di esserlo.
 
 Lo spirito della conversazione è uno spirito particolare che consiste 
          in ragionamenti e vaneggiamenti brevi.
 
 Non posso sopportare le persone che riportano continui trionfi sulla riservatezza 
          degli altri. (Insolenti.)
 
 Oggi l’unico merito è quello di riuscir graditi nelle conversazioni 
          frivole e inutili. A tale scopo il magistrato lascia lo studio delle leggi, 
          e il medico si sentirebbe sminuito da quello della medicina. Si rifugge, quasi 
          fosse un male pernicioso, da ogni studio che possa allontanare dallo scherzo.
 
 Il bon ton nei discorsi e nei modi 
          è (dicevo) il corrispettivo del non 
            avere accento nel parlare.
 
 Nelle conversazioni, non ci si deve sovrapporre di continuo: sarebbero faticose. 
          Bisogna procedere insieme. Anche se non si procede fianco a fianco, né 
          sulla stessa linea, si compie tuttavia lo stesso percorso.
 
 Lo spirito della conversazione è quello che viene definito spirito dai Francesi. Consiste in un dialogo generalmente allegro, in cui ciascuno, 
          senza ascoltarsi troppo, parla e risponde, e in cui tutto è trattato 
          in modo rapsodico, immediato e vivace. Lo stile ed il tono della conversazione 
          s’imparano, ossia s’impara lo stile del dialogo. Ci sono popoli 
          presso i quali lo spirito della conversazione è affatto sconosciuto: 
          sono quelli ove non si vive insieme, o i cui costumi sono basati sulla massima 
          austerità.
 Quello che viene definito dai Francesi spirito non è dunque spirito, bensì un suo genere particolare. Lo spirito, 
          in sé, è il buon senso unito alla chiarezza. Il buon senso è 
          il giusto confronto delle cose, e la distinzione delle medesime nel loro stato 
          effettivo e nel loro stato relativo.
 
 Mi adatto alle persone a cui piace far ridere tutti, e che s’incaricano 
          del divertimento generale.
 
 Si scherza su tutto, perché tutto ha il suo rovescio.
 
 In generale, un uomo che non parla non pensa. Mi riferisco a chi non ha motivi 
          per non parlare. Ciascuno è ben contento di esprimere quel che reputa 
          un pensiero valido; gli uomini sono fatti così.
 
 Bisogna lasciare i salotti un attimo prima di rendersi ridicoli. Così 
        si usa in società.
 
 
 CristianesimoReligione cristiana. Invano il 
          paganesimo si sforzò di distruggerla. Essa divenne dominante perché 
          superiore alla genialità dei principi, alla severità dei magistrati, 
          alla gelosia dei preti e alla superstizione dei popoli. Nell’impero romano, i
          primi cristiani apparivano bizzarri come oggi i quaccheri. Costantino commise un errore
          concedendo l’autorizzazione alla giurisdizione ecclesiastica, che i
          cristiani avevano introdotto fra loro dai tempi degli imperatori
          pagani. Per i loro processi, i cristiani non potevano sostenere una causa
          in giudizio dinanzi ai pagani: avrebbero infatti dato una cattiva impressione
          circa lo spirito di carità esistente fra loro.  A proposito degli orrori e delle tirannie degli imperatori romani, turchi 
          e persiani, dicevo ch’è ammirevole come la religione cristiana, 
          che tende solo a renderci felici nell’altra vita, possa renderci felici 
          anche in questa. Un re non teme più che il fratello gli tolga la corona, 
          e il fratello non ci pensa affatto. Ciò deriva dal fatto che i sudditi, 
          in generale, sono divenuti più disciplinati e i principi meno crudeli. 
 Benché la religione cristiana non abbia prodotto molti principi virtuosi, 
          ha nondimeno mitigato la natura umana: ha fatto sparire i Tiberi, i Caligola, 
          i Neroni, i Domiziani, i Commodi e gli Eliogabali.
 
 Cristiano è, di solito, chi conosce la storia della propria setta (sia 
          cattolico, calvinista o luterano), ma non chi osserva i precetti della propria 
          setta. È come essere spagnoli o francesi: si appartiene ad una patria, 
          ma non si sa preferire il bene di quella patria al proprio.
 
 
 CriticiDi alcuni autorucoli che mi criticavano, dissi: “Io sono una grande 
          quercia ai piedi della quale i ranocchi vengono a spargere il loro veleno”. 
 Mi lamentavo di un’infinità di critiche malevoli sul mio Spirito 
            delle leggi, critiche che derivavano dal fatto che non mi avevano capito. 
          Ma m’ingannavo: esse derivavano dal fatto che non volevano capirmi. 
          Un’infinità di menti meschine aveva da spacciare dei luoghi comuni 
          di morale.
 
 Sull’abate Laporte[7], che aveva scritto 
          contro lo Spirito delle leggi per 
          ricavarne qualche pezzo da ventiquattro soldi da un editore, dicevo: “Un 
          uomo che lotta per chiarire le proprie idee non si compromette con un uomo 
      che lotta per vivere”.
 
   Le opere non prodotte dall’ingegno provano
        soltanto la memoria o la pazienza dell’autore. 
 I critici
        hanno il vantaggio di scegliere il proprio nemico, di attaccare nel punto debole
        tralasciando quello forte, e di rendere quanto meno problematico ciò che
        l’altro aveva affermato come certo.
 Si comportano come quei cattivi
        generali che, se non riescono a conquistare un paese, ne inquinano le acque.
 
 Nelle critiche, bisogna aiutarsi, non distruggersi: cercare il
        vero, il buono, il bello, illuminare o riflettere (riflettere e restituire) la
        luce secondo la sua natura, e non eclissare, se non per caso.
 
 Non consiglierei di dedicarsi completamente
        alla critica. Contro Catone Cesare ne aveva scritto tre libri, che sono andati
        perduti e non hanno potuto esser strappati al disprezzo che i posteri sempre
        riservano a questo genere di opere, né per la gran fama di Cesare,
        né per quella di Catone:
 Hoc
    miserae plebi stabat comune sepulcrum[8].
 
 
          Quando ci si dedica all’arte della critica, e si vuole orientare il 
          gusto o il giudizio del pubblico, bisogna esaminare se, una volta che il pubblico 
          abbia ben riflettuto e deciso, ne abbiamo spesso condiviso il parere: i giudizi 
          del pubblico, infatti, suggellati dal tempo, sono quasi sempre validi. 
 Più si esigeva dagli autori, meno si esigeva dai critici.
 Non si devono criticare i poeti per i difetti della poesia, né i metafisici 
          per le difficoltà della metafisica, né i fisici per le incertezze 
          della fisica o i geometri per l’aridità della geometria.
 
 Abbiamo visto certi intellettuali denigrarsi reciprocamente con libelli tanto 
          abominevoli che non esistono, in natura, talenti così grandi che possano 
          salvare un uomo dall’umiliazione di averli scritti.
 
 Alla fine il pubblico rende giustizia. Eccone la ragione: il plauso delle 
          persone sagge è costante, ma i consensi dei folli sono mutevoli, variano 
          di continuo e si distruggono vicendevolmente.
 
 I critici sono come quel pittore che aveva dipinto un gallo e proibiva che 
          i suoi apprendisti lasciassero avvicinare i galli al suo quadro.
 
 
 DioDio c’inganna forse perché i sensi, testimoni infedeli, ad ogni 
          istante ci tradiscono? No di certo! Forse Dio non ha voluto che avessimo una 
          maggior certezza delle cose perché conoscessimo meglio la nostra debolezza. Quanto agli atei di Bayle, ben poca riflessione è sufficiente all’uomo 
          per guarire dall’ateismo. Basta che consideri il cielo, e vi troverà 
          una prova inoppugnabile dell’esistenza di Dio [...]. Quel ch’è 
          certo è che l’ipotesi di Epicuro è insostenibile, perché 
          attacca l’esistenza di un essere il cui nome è scritto dappertutto.
 
 Dio, puro spirito, non poteva farsi conoscere dagli uomini mediante un’idea 
          o un’immagine che lo rappresentasse. Non poteva neppure farsi conoscere 
          se non mediante il sentimento, allo stesso modo in cui si fa percepire dagli 
          Angeli e dai Beati del Cielo. Ma poiché una letizia così grande, 
          ch’è la gioia suprema, era una grazia che l’uomo doveva 
          meritare prima d’ottenerla, e che pure poteva acquisire solo attraverso 
          pene e sofferenze, Dio scelse un terzo mezzo per farsi conoscere, ossia quello 
          della fede e, con essa, se all’uomo non diede delle conoscenze chiare, 
          per lo meno gl’impedì di cadere nell’errore.
 
 Tutte le persone infelici hanno fatto ricorso a Dio, spesso da punti di vista 
          umani. Chi è condotto al supplizio si augura che ci sia un Dio che 
          lo vendichi dei suoi nemici [...]. Le nostre disgrazie ci fanno ricorrere 
          a quell’essere potente, mentre la felicità ce lo fa fuggire o 
          temere. Siamo curiosi di conoscere la sua natura, perché siamo interessati 
          a conoscerla così come i sudditi cercano di sapere che cosa sia il 
          loro re, e come i domestici cercano di conoscere il loro padrone.
 
 Un uomo diceva: “Non amo Dio perché non lo conosco, né 
          il prossimo, perché lo conosco”. Io non dico una tale empietà, 
          ma dico piuttosto che quelli che discutono sull’amor di Dio non sanno 
          quel che dicono, se distinguono tale amore dal sentimento di sottomissione 
          e da quello di riconoscenza verso l’essere onnipotente e benefico.
 
 Mi pare che abbiamo due specie di spiriti forti: i maestrucoli, che negano 
          un Dio in cui credono, e certi predicatori, che predicano un Dio in cui non 
          credono.
 
 Ciò che prova, a mio avviso, la necessità di una rivelazione 
          è l’insufficienza della religione naturale, derivante dal timore 
          e dalla superstizione propri degli uomini: se infatti oggi li poneste semplicemente 
          in uno stato di religione naturale, domani cadrebbero in qualche grossolana 
          superstizione.
 
 DispotismoDispotismo. I re d’Europa 
          non devono esporsi al dispotismo asiatico, poiché quella misera fortuna 
          di poter disporre di decisioni irrevocabili è acquisita a tal prezzo 
          che un uomo di buon senso non può desiderarla.I re d’Europa governano come uomini, ma godono di una condizione inalterabile, 
          analoga a quella degli dei.
 I re dell’Asia governano come dei, ma sono di continuo esposti alla 
          fragilità della condizione umana.
 Monarca d’Oriente, che
          vuole la felicità solo per sé! Pretende tutto il potere e di
          godere da solo dei piaceri; ma spesso non ha il potere, e mai i piaceri: i
          piaceri di un momento e i dispiaceri di un giorno. Infelice, passa la vita con
          se stesso, perché vuole che tutto l’universo passi la sua vita con
          lui; vive nel silenzio di tutto quanto lo circonda, comanda e non può
          parlare, cerca l’obbedienza cieca e trova soltanto una spaventosa
          solitudine. La ragione per cui la maggior
          parte dei governi della terra sono dispotici è che un simile governo
          salta agli occhi ed è ovunque uniforme. Dal momento che, per instaurarlo,
          bastano delle passioni violente, tutti ne sono capaci. Per istituire un governo
          moderato, invece, occorre combinare i poteri, temperarli, farli agire e
          regolarli; rafforzarne uno per consentirgli di resistere ad un altro; insomma,
          occorre realizzare un sistema. Mi dicevano che i principi
          dispotici devono essere migliori perché, essendo gli uomini loro
          proprietà, devono temere di perderli. Rispondo che la perdita è
          poca cosa a confronto della soddisfazione di abbandonarsi alle proprie passioni.
          D’altronde, i vantaggi del dispotismo fanno sì che il principe
          s’immerga nei piaceri, non governi affatto e lasci tutto il potere nelle
      mani dei ministri. Ma gli uomini non appartengono al ministro.  Dirò ai principi:
          “Perché vi affaticate tanto per estendere il vostro dominio?
          È forse per accrescere il vostro potere? Ma l’esperienza di tutti i
          paesi e di tutti i tempi mostra, viceversa, che così l’indebolite.
          È forse per far del bene? Ma quali sono i popoli e le leggi tanto stolti
          da impedirvi di fare il bene? Dunque, è per far del male.
 Qualora
          foste buoni e giusti, d’altronde, non dovreste desiderare un dominio
          illimitato: se siete un buon principe, infatti, amate la vostra patria, e se
          l’amate, dovete temere per essa. Ma qual motivo avete di credere che tutti
          i vostri successori saranno giusti quanto voi?
 Se amate anche il vostro
          successore, non vi affannate a lasciargli un dominio illimitato, così
          come un padre che ama il proprio figlio non cerca di privarlo della presenza di
          un uomo saggio che l’istruisca.
 
 Non bisogna combattere il
          dispotismo con dichiarazioni enfatiche, ma mostrando come esso tiranneggi il
          despota stesso.
 
 Il dispotismo si distrugge da
          solo.
 
 Nelle monarchie dispotiche, le
          leggi rappresentano soltanto la volontà effimera del principe.
 
 Negli Stati dispotici, la
          tranquillità non è pace: somiglia al silenzio delle città
          che stanno per essere occupate dal nemico.
 
 Nel governo dispotico, il commercio è basato sulla necessità 
        contingente di quanto la natura richiede per il nutrimento e il vestiario.
 
 
 DonneMadame de R. si lagnava di qualche brufolo. Le dissi: “Che sono mai 
        dei brufoli su un viso che ha, dietro di sé, un’anima così 
        bella!”
 Una madre ha perduto la sua bellezza? La vedete inorgoglirsi per quella della 
        figlia.
 
 Quanto alla bellezza delle donne, ci sono pochi uomini che, acquietate le 
        loro passioni, non provino maggior trasporto verso un bel ritratto che non 
        alla vista dell’originale.
 
 La galanteria. La mancanza di buone 
        maniere verso le donne è sempre stato il segno più certo della 
        corruzione dei costumi.
 Occorre molto spirito per la galanteria e per preparare alle donne conversazioni 
        ch’esse siano in grado di sostenere.
 
 Secondo me, le donne fanno molto bene ad essere meno brutte possibile. E sarebbe 
        un bene che fossero tutte brutte o tutte belle, onde por fine all’orgoglio 
        della bellezza e alla disperazione della bruttezza.
 
 Nelle donne giovani, la bellezza supplisce allo spirito; nelle vecchie, lo 
        spirito supplisce alla bellezza.
 
 In certi giorni, anche nelle
        donne più graziose, mi par di vedere come saranno quando diverranno
        brutte.
 
 Le donne sono false. Ciò deriva dalla loro
        subordinazione: più aumenta la subordinazione, più aumenta la
        falsità. Accade come per i dazi: più li elevate, più
        aumenta il contrabbando.
 
 Spesso le donne sono avide per
        vanità e per mostrare quanto si spenda per loro.
 
 A una casa
        basta la presenza di una donna gentile per renderla rinomata e porla al livello
        delle case più importanti.
 Ci sono invece case illustri che si
        conoscono appena solo perché, da due o tre secoli, non hanno avuto una
        donna notevole.
 
 Tutti i mariti sono sgradevoli.
 
 Si
        dice che i Turchi hanno torto, e che le donne vanno guidate, non già
        tiranneggiate. Quanto a me, dico che bisogna ch’esse comandino, oppure che
        obbediscano.
 
 Non sono ancora due secoli che le donne francesi hanno
        cominciato a portare le mutande, ma ben presto, peraltro, si sono liberate di
        quell’impedimento.
 
 Le principesse parlano molto
        perché vi sono state abituate fin da piccole.
 
 Mi viene di
        paragonare le dame della regina o della delfina, che si vestono due o tre volte
        per comparire dinanzi a loro, ai commedianti che fanno la parte delle guardie e
        si vestono per sentirsi dire: “Ehilà! Guardie, via!”.
 
 Le Spagnole. La Spagna
  è un paese caldo, ma le donne sono brutte. Il clima è fatto per
        favorire le donne, ma le donne sono fatte per contraddire il clima.
 
 Con le donne si deve rompere di netto: nulla è
        insopportabile quanto trascinare una vecchia storia.
 
 Non
        c’è donna di cinquant’anni che abbia così buona
        memoria da rammentare tutte le persone con cui ha litigato, e con cui si
  è poi riappacificata.
 
 Le donne che [a Corte]
        cambiano abito quattro volte al giorno somigliano a quelle commedianti che, dopo
        aver recitato nel ruolo dell’imperatrice in un’opera teatrale,
        corrono a cambiarsi per recitare quello della servetta in un’altra.
 
 Giacché è
        proibita la poligamia, ed è pure proibito il divorzio da una sola donna,
        si deve necessariamente proibire il concubinato. Chi, infatti, avrebbe voluto
        sposarsi, se fosse stato consentito il concubinato?
 
 Le femmine degli animali hanno una fecondità quasi costante, sicché 
        si può calcolare all’incirca quanti piccoli una femmina procreerà 
        in tutta la sua vita. Nella specie umana, invece, le passioni, le fantasie, 
        i capricci, gl’inconvenienti della gravidanza e quelli di una famiglia 
        troppo numerosa, nonché il timore di perdere il proprio fascino, si 
        oppongono alla moltiplicazione della specie.
 
 
 FelicitàMi pare che la natura abbia lavorato per degli ingrati: siamo felici, ma 
        i nostri discorsi sono tali che sembriamo non rendercene conto.  
 
          Bisognerebbe convincere gli uomini della felicità ch’essi ignorano, 
          anche quando ne godono. 
 Per essere felici, occorre avere un oggetto, poiché è il mezzo 
          onde dar vita alle nostre azioni. Esse divengono ancor più importanti 
          a seconda della natura dell’oggetto e, in tal modo, occupano maggiormente 
          la nostra anima.
 
 Ecco un bel motto di Plutarco: “Sì! Se la felicità fosse 
          in vendita!”.
 
 Coloro che, per condizione, non hanno occupazioni necessarie, devono cercare 
          di procurarsene. La più adeguata alle persone colte è la lettura, 
          che occupa qualche ora la quale, altrimenti, risulterebbe insopportabile nel 
          vuoto di ogni giorno, e che spesso riesce a rendere deliziose le ore che vi 
          s’impegnano.
 
 Si è più felici per i divertimenti che per i piaceri. I divertimenti, 
          infatti, distraggono egualmente dalle pene e dai piaceri.
 
 Se siamo destinati ad annoiarci, facciamolo con cognizione di causa, e per 
          questo valutiamo adeguatamente i piaceri che perdiamo, e non sottovalutiamo 
          quelli che possiamo procurarci.
 
 Non occorre molta filosofia per essere felici: si devono soltanto assumere 
          idee un poco sane.
 
 Ho visto persone morire di dolore perché non venivano affidati loro 
          degli impieghi che sarebbero state costrette a rifiutare, se mai glieli avessero 
          offerti.
 
 Le vere afflizioni hanno le loro delizie; le vere afflizioni non annoiano 
          mai, perché occupano grandemente l’anima. È un piacere 
          quando osano parlare; è un piacere anche quando tacciono, ed è 
          un piacere così grande che non si può distrarre nessuno dal 
          suo dolore senza procurargli un dolore più cocente.
 
 Alla lunga anche la gioia stanca: richiede troppe energie; e non si deve credere 
          che le persone che sono sempre a tavola o a giocare provino più piacere 
          delle altre. Sono là perché non potrebbero stare altrove, e 
          là s’annoiano per annoiarsi meno che da un’altra parte.
 
 Se sono triste, la gioia altrui m’affligge perché mi distoglie 
          dal piacere che provo nell’abbandonarmi alla mia tristezza. Mi si fa 
          dunque una violenza, che è una sorta di dolore.
 
 Chiamiamo piacere solo ciò 
          che non è abituale. Se provassimo di continuo il piacere di mangiare 
          con appetito, non lo chiameremmo piacere, 
          bensì esistenza e natura. 
          Non bisogna dire che la felicità è quel momento che non vorremmo 
          cambiare con un altro. Diciamo piuttosto che la felicità è quel 
          momento che non vorremmo cambiare col non-essere.
 
 Se ci accontentassimo di essere felici, sarebbe presto fatto. Ma pretendiamo 
          d’esser più felici degli altri, e questo è quasi sempre 
          difficile, giacché reputiamo gli altri più felici di quanto 
          non siano.
 
 Chi sono le persone felici? Lo sanno gli Dei, perché leggono nel cuore 
          dei filosofi, dei re e dei pastori.
 
 Ho sentito dire dal cardinal Imperiali[9]: 
          “Non c’è uomo che non venga visitato dalla fortuna almeno 
          una volta nella vita. Ma, quando essa non lo trova pronto a riceverla, entra 
          dalla porta ed esce dalla finestra”.
 
 
          Ho sempre visto che, per riuscire al meglio nel mondo, bisognava avere un’aria 
          stupida, ma esser saggi. 
 Anche se l’immortalità dell’anima fosse un’illusione, 
          mi dispiacerebbe molto non crederci. Non so come la pensino gli atei. (Ammetto 
          di non essere umile come gli atei.) Ma, per quanto mi riguarda, non intendo 
          cambiare (e non la cambierò) l’idea della mia immortalità 
          con quella della felicità di un sol giorno. Mi affascina non poco credermi 
          immortale come Iddio stesso. Indipendentemente dalle verità rivelate, 
          certe idee metafisiche suscitano in me una speranza straordinaria della mia 
          felicità eterna, alla quale non vorrei proprio rinunciare.
 
 
 Filosofi e filosofiaUna volta si era filosofi a buon mercato: così poche erano le verità 
          note, e si ragionava su cose tanto vaghe e generali.Tutto ruotava attorno a tre o quattro quesiti:
 Quale fosse il sommo bene.
 Quale fosse il principio delle cose: il fuoco, l’acqua, i numeri.
 Se l’anima fosse immortale.
 Se gli Dei governassero l’universo.
 Chi si fosse impegnato in qualcuna di siffatte questioni, veniva subito considerato 
          un filosofo, per poca barba che avesse...
 
 Non soltanto le letture serie sono utili, ma anche quelle piacevoli, poiché 
          c’è un momento in cui tutti abbiamo bisogno di un sano divertimento. 
          Anche gli studiosi devono essere ripagati piacevolmente delle loro fatiche. 
          Pure le scienze traggono vantaggio dall’essere trattate in modo elegante 
          e con gusto. È bene dunque scrivere su tutti gli argomenti e in tutti 
          gli stili. La filosofia non deve essere isolata: ha rapporti con tutto.
 
 Non sono i filosofi che destabilizzano gli Stati, bensì quelli che 
          non lo sono abbastanza per conoscere la loro fortuna e goderne.
 
 Dicevo a Madame du Châtelet[10]: “Voi 
          rinunciate a dormire per imparare la filosofia; dovreste invece studiare la 
          filosofia per imparare a dormire”.
 Rimasi incredulo quando,
          leggendo la Politica di Aristotele, vi
          trovai tutti i principi dei teologi sull’usura, parola per parola. Credevo
          li avessero messi loro. Ne ho parlato nello Spirito delle leggi. Ma a quei signori
          non piace che si scoprano le loro fonti: le ignorano persino, così come
          s’ignorava la sorgente del Nilo. Su questo punto, essi hanno protestato
          vivacemente. Gli Stoici credevano che il mondo dovesse perire
          mediante il fuoco. Così gli spiriti furono preparati ad accogliere quella
          profezia di Gesù Cristo, secondo cui la fine del mondo giungerà in
          quel modo. Nella maggior parte degli
          autori, vedo l’uomo che scrive; in Montaigne, vedo l’uomo che pensa. Un gentiluomo mio amico ha
          scritto delle belle osservazioni su Montaigne. Ma io sono convinto che creda di
          aver scritto egli stesso gli Essais:
          invero, quando elogio Montaigne dinanzi a lui, assume un’aria modesta, mi
          fa un breve inchino e arrossisce un poco. È un principio
          completamente falso quello di Hobbes secondo cui, avendo il popolo conferito
          l’autorità al principe, le azioni di quest’ultimo sono le
          azioni del popolo, e di conseguenza il popolo non può lagnarsi del
          principe, né chiedergli conto in alcun modo delle sue azioni,
          perché il popolo non può lagnarsi di se stesso. Così,
          Hobbes ha trascurato il suo principio di diritto naturale, secondo il quale Pacta esse servanda. Il popolo ha
          autorizzato il principe sotto condizione, l’ha nominato sulla base di una
          convenzione. Il principe deve tenervi fede, e rappresenta il popolo solo come il
          popolo ha voluto (o si presume aver voluto) che lo rappresentasse. Per di
          più, è falso che chi viene delegato abbia lo stesso potere di chi
          delega, e non dipenda più da questi.  
 
          Hobbes dice che, essendo il diritto naturale
        null’altro che la libertà di fare quanto serve alla nostra
        conservazione, la condizione naturale dell’uomo è la guerra di
        tutti contro tutti. Ma, oltre ad esser falso che la difesa implichi
        inevitabilmente la necessità dell’attacco, non bisogna supporre,
        come fa lui, gli uomini caduti dal cielo, o usciti dalla terra armati di tutto
        punto, quasi come i soldati di Cadmo, per distruggersi a vicenda: non è
        questa la condizione degli uomini.
 Locke ha detto: “Bisogna
        perdere metà del proprio tempo per poter impiegare utilmente
        l’altra”.
 
 Opere di Voltaire: come quei visi mal
      proporzionati che brillano di giovinezza.
 
 
          Voltaire non scriverà mai buona storia: è come i monaci, che 
          non scrivono per l’argomento che trattano, ma per la gloria del loro 
          ordine; Voltaire scrive per il proprio convento. 
 Qualcuno raccontava tutti i vizi di Voltaire, e sempre rispondevano: “Ha 
          molto spirito!”. Ma qualcun altro, spazientito, esclamò: “Ebbene! 
          È un vizio in più”.
 
 Dicevo che Voltaire era un generale che prendeva sotto la sua protezione tutti 
          i suoi “attendenti”.
 
 Voltaire ha un’immaginazione imitativa: non vede mai una cosa se non 
          glien’è stata mostrata una parte.
 
 
 FrancesiNulla s’avvicina all’ignoranza della corte di Francia se non 
          quella degli ecclesiastici d’Italia. 
 In Italia dicevo: “I Francesi sono avari e prodighi; sono fiorentini 
          e milanesi insieme”.
 
 Dicevo: “I Francesi sono presuntuosi, e gli Spagnoli pure. Gli Spagnoli 
          lo sono perché credono di essere grandi uomini; i Francesi perché 
          credono di essere amabili. I Francesi sanno di non sapere quello che non sanno; 
          gli Spagnoli sanno di sapere quello che, invece, non sanno. I Francesi disprezzano 
          quel che non sanno; gli Spagnoli invece credono di sapere quel che non sanno.
 
 Quando si osservano gli uomini del nostro popolo, ci si stupisce di vedere 
          persone che non si considerano mai rovinate, ma che neppure si considerano 
          mai arricchite.
 Quanto a me, mi reputo contento d’avere... mille lire da una rendita 
          che non devo a nessuno.
 
 È la capitale, soprattutto, che crea i costumi dei popoli: Parigi crea 
          quelli francesi.
 
 Dicevo: “A Parigi, nulla mi colpisce quanto la piacevole indigenza dei 
          gran signori e la noiosa opulenza degli uomini d’affari”.
 
 È bello vivere in Francia: i piatti sono migliori che nei paesi freddi, 
          e l’appetito è migliore che nei paesi caldi.
 
 Voglio fare un elenco delle volte in cui i Francesi sono stati cacciati dall’Italia, 
          e di quelle in cui ne sono stati cacciati per la loro impudenza nei confronti 
          delle donne. Nel mio estratto di Pufendorf, ho stimato che siano stati cacciati 
          nove volte, quasi sempre a causa della loro impudenza, senza contare quella 
          ritirata verso la Francia, dopo la battaglia di Torino, che derivò 
          esclusivamente dalla loro impazienza.
 
 
 GelosiaSolone innalzò un tempio alla Venere del popolo, che non lasciò 
          mai privo di sacerdotesse. Quando i Greci volevano implorare la protezione 
          di Venere, lo facevano mediante l’intervento delle cortigiane. Nella 
          guerra persiana, le cortigiane di Corinto si riunirono in assemblea e pregarono 
          per la salvezza della Grecia. Quando il popolo le chiedeva qualche grazia, 
          le prometteva in cambio di portare altre cortigiane al suo tempio.Non ci si deve perciò stupire che quel genere di donne fosse tanto 
          considerato presso i Greci: esercitavano un ruolo nel mondo, avevano dèi 
          ed altari.
 
 La gelosia era così poco diffusa presso i Romani che gli autori che 
          ci restano quasi mai parlano di tale passione; e l’eccesso giunse a 
          tal segno che il potere pubblico dovette punire i mariti per la loro smodata 
          indulgenza nei confronti delle mogli; e gli imperatori romani, nel continuo 
          abuso che fecero del potere, non si curarono della fedeltà delle proprie 
          mogli, quasi sempre accontentandosi di ripudiarle, e non di rado spingendo 
          oltre la loro tolleranza.
 
 L’amore vuol ricevere quanto dà: è il più personale 
          di tutti gli interessi: si fanno confronti e conti; la vanità è 
          diffidente e mai abbastanza sicura.
 
 Se nell’incertezza o nel timore di non essere amati, giungiamo a sospettare 
          qualcun altro di esserlo, proviamo una pena chiamata gelosia. 
          Ci viene assai più naturale attribuire il disprezzo di cui siamo oggetto 
          all’iniquità di un rivale piuttosto che ai nostri difetti: la 
          nostra vanità, infatti, ci soccorre sempre abbastanza da farci credere 
          che saremmo stati amati, se un altro non avesse agito contro di noi. Odiamo 
          chi si prende quel che crediamo esserci dovuto: in amore, s’immagina 
          che il solo pretenderlo lo legittimi.
 
 Quando le donne sono tenute segregate, inevitabilmente accadrà che 
          ogni giorno si cerchi di segregarle ancor di più; allora l’effetto 
          si trasformerà esso stesso in causa, e la vigilanza diverrà 
          il motivo principale della vigilanza.
 
 La pena di un uomo geloso deriva soprattutto dalla soddisfazione provata nell’esasperarlo. 
          Più un uomo è geloso, più grave è l’affronto 
          che riceve, e, per giusta conseguenza, più è geloso, più 
          ha ragione di esserlo, e più deve diventarlo.
 
 Giova notare che, tranne alcuni casi derivanti da specifiche circostanze, 
          le donne non hanno mai preteso l’uguaglianza: esse, in effetti, godono 
          già di tanti altri vantaggi naturali che, per loro, un potere eguale 
          corrisponde sempre a un dominio.
 
 
 GiustiziaIl modo di raggiungere la perfetta giustizia è quello di farla divenire 
          un’abitudine da osservare sin nelle minime cose, e da adattarvi il proprio 
          modo di pensare. Basti quest’esempio soltanto. È del tutto indifferente 
          alla società in cui viviamo che un uomo di Stoccolma o di Lipsia scriva 
          epigrammi buoni o cattivi, oppure sia un fisico valente o mediocre. Tuttavia, 
          se noi lo valutassimo, dovremmo cercar di dare un giudizio corretto per prepararci 
          a fare lo stesso in un’occasione più importante. 
 Le ricompense. Non intendo parlare 
          dei posteri di quei sei borghesi di Calais che s’offrirono di morire 
          per salvare la loro patria, e che Sacy[11] ha tolto dall’oblio. Non so che ne è stato dei discendenti della 
          donna che, al tempo di Carlo VIII, salvò Amiens. Quei borghesi sono 
          ancora borghesi. Ma, se mai nella nostra Francia c’è stato qualche 
          illustre mascalzone, state pur certi che i suoi posteri vivono fra gli onori.
 La corruzione degli uomini è tale che viene prodigiosamente accresciuta 
          dalla speranza o dal timore che si può concepire nei confronti del 
          principe. Così, la condanna del criminale non è sempre una prova 
          del crimine dell’imputato, e a questo riguardo i principi non possono 
          aver la coscienza tranquilla, se non lasciano agire la giustizia dei tribunali 
          già esistenti senza crearne di speciali. 
 La parola giustizia è spesso 
          molto ambigua: diedero a Luigi XIII l’appellativo di giusto perché vide eseguire a sangue freddo le vendette del suo ministro; 
          era severo, non giusto.
 
 Quasi tutte le virtù sono un particolare rapporto fra un determinato 
          uomo ed un altro; per esempio: l’amicizia, l’amor di patria, la 
          pietà sono rapporti particolari. Ma la giustizia è un rapporto 
          generale. Di conseguenza, tutte le virtù che distruggono tale rapporto 
          generale non sono virtù.
 
 
 InglesiIn Inghilterra, dopo aver visto un cane che giocava con le carte e con esse 
          rispondeva alle domande che gli venivano rivolte – disponendo le lettere 
          e combinando i nomi che gli chiedevano e, per così dire, scrivendo 
          –, quando scoprii i segni da cui dipendeva tutta quell’abilità, 
          ne fui, senza volerlo, dispiaciuto: la cosa mi fa capire quanto gli uomini 
          amino il meraviglioso.Venivano sparse a terra delle lettere; l’istruttore parlava di continuo, 
          ma quando il cane poneva il naso sulla lettera occorrente, l’uomo smetteva 
          di parlare.
 
 Inglesi. Ingegni singolari: non 
          imiteranno gli antichi, che pur ammirano, e le loro opere teatrali non somiglieranno 
          a prodotti regolari della natura, ma piuttosto a quei divertimenti in cui 
          essa ha seguito felici casi fortuiti.
 
 Per esprimere una grande impostura, gli Inglesi dicono: “Ciò 
          è gesuiticamente falso, jesuiticaly 
            false”.
 
 Gli inglesi sono ricchi e liberi, ma tormentati dal loro stesso spirito. Appaiono 
          disgustati e sprezzanti di tutto. Sono davvero infelici, pur avendo tanti 
          motivi per non esserlo.
 
 Uno spiccato carattere degli Inglesi di ogni tempo è una certa impazienza 
          che il clima conferisce loro, e non permette loro di agire a lungo nello stesso 
          modo, né di sopportare a lungo le stesse cose: carattere che, in sé, 
          non è importante, ma che tale può divenire (e molto) quando 
          non è misto a debolezza, bensì a quel coraggio che il clima, 
          la libertà e le leggi gli conferiscono.
 
 In Inghilterra sono convinti che la metà dei Francesi stia alla Bastiglia, 
          e l’altra metà all’Ospizio.
 
 Dicevano che Law avesse in Francia molti nemici. “Sì”, 
          dissi, “e nemici che non aveva mai visto. Con quelli non è possibile 
          riconciliarsi”.
 
 Quella di Enrico VIII è una vicenda assai crudele. Non un onest’uomo 
          durante tutto il suo regno! Fatta eccezione forse per Cranmer[12] e, di certo, per More. In questa congiuntura, si può vedere che i tiranni 
      che vogliono servirsi delle leggi sono tiranni quanto coloro che le calpestano.
 
 
          Durante i diversi mutamenti di religione avvenuti in Inghilterra, gli ecclesiastici 
          delle differenti fazioni a turno si mandavano al rogo. 
 Credo risalga al tempo di Carlo II il processo fatto ad un uomo per aver detto 
          che il re d’Inghilterra non guariva gli scrofolosi.
 
 Non stupisce che Londra s’ingrandisca: è la capitale di tre regni 
          e di tutte le imprese inglesi nelle due Indie.
 
 L’Inghilterra è come il mare, ch’è agitato da venti 
          non fatti per cagionare naufragi, bensì per condurre in porto.
 
 Cicerone, ne La natura degli dei, 
          osserva: “Se in Bretagna si vedessero delle case, non si direbbe forse 
          che ci sono degli uomini? E se si trovasse un orologio solare, non si direbbe 
          forse che là ci sono dei bravi artigiani? Dunque, quando si vede l’ordine 
          che c’è nell’Universo...”[13]. 
          E’ singolare il fatto che, oggi, da quella barbara Bretagna provengano 
          gli orologi migliori del mondo (Pembroke[14]).
 
 
 IslamismoI profeti cristiani, che si segnalarono per la loro umiltà, stabilirono 
          ovunque l’uguaglianza. Maometto, che visse nella gloria, stabilì 
          ovunque la sottomissione.Dopo che la sua religione fu portata in Asia, Africa ed Europa, si crearono 
          prigioni. Metà del mondo s’eclissò. Si videro soltanto 
          inferriate e chiavistelli. Tutto si velò di nero nell’universo, 
          e il bel sesso, sepolto insieme coi suoi incanti, pianse ovunque la propria 
          libertà.
 
 Il 18 febbraio 1742, ho sentito dire dall’ambasciatore turco una cosa 
          davvero divertente. Io gli dicevo (da Locmaria[15], 
          dove cenavamo) che consideravo contrario ai principi del buon governo il fatto 
          che il Gran Signore (il Sultano) facesse strangolare i suoi pascià 
          quando gli pareva. “Li fa strangolare”, egli rispose, “senza 
          dirne il motivo onde non rivelare o far conoscere gli errori dei suoi sottoposti”. 
      Che ne dite di uomini che abbelliscono perfino la statua della tirannide?
 I maomettani hanno tutti i giorni dinanzi agli occhi esempi d’avvenimenti 
          tanto inaspettati, fatti così straordinari, nonché gli effetti 
          di un potere arbitrario, che devono essere naturalmente portati a credere 
          nella dottrina di un destino inflessibile, che tutto governa. Nei nostri climi, 
          ove il potere è moderato, le nostre azioni sono normalmente guidate 
          dalle regole della prudenza, e la nostra buona o cattiva sorte è, generalmente, 
          la conseguenza della nostra capacità d’esser saggi. Non possiamo 
          concepire, dunque, una fatalità cieca. 
 Furono i maomettani (i mori di Spagna) a portare le scienze in Occidente. 
          Da allora non hanno mai voluto riprendersi quel che ci avevano dato.
 
 L’estrema emozione con cui i maomettani considerano le cortigiane e 
          le ballerine bene mostra come li infastidisca la serietà del matrimonio.
 
 
 ItalianiQuando ero a Firenze e vedevo le maniere semplici di quella città 
          – un senatore, il giorno, col suo cappello di paglia, la sera, col lanternino 
          –, ero incantato, facevo come loro e dicevo: “Sono come Cosimo 
          il grande”. Effettivamente, là si è governati da un gran 
          signore che si comporta da borghese, mentre altrove si è governati 
          da borghesi che si comportano da gran signori. 
 Un inglese, un francese, un italiano: tre caratteri.
 
 I Veneziani non sono affatto socievoli. Quando andate a trovarli, non sapete 
          se entrare dalla porta o dalla finestra, se gli fate piacere o meno: la dissolutezza 
          là si chiama libertà.
 Sisto V – col buon
          governo dei suoi cinque anni di pontificato, l’austerità dei
          costumi da lui introdotta, l’annientamento dei banditi e la costante
          difesa delle leggi – si trovò in condizione di realizzare immense
          opere a Roma, nonché di accumulare un ingente tesoro, suscitando
          l’invidia degli Spagnoli. I preti di Roma sono riusciti a rendere deliziosa anche la devozione con la 
          musica, che viene suonata incessantemente nelle chiese, e che è eccellente. 
          Vi sono accolte le opere più belle, e ne traggono profitto. A Roma, 
          gli amori dei due sessi sono vissuti con una libertà che altrove i 
          magistrati non consentono.Quanto al governo, è il più mite possibile.
 Il cardinal Corsini[16] ha detto che l’invenzione 
          delle parrucche ha mandato in rovina Venezia, perché i vecchi, nascondendo 
          i loro capelli bianchi, non si sono più vergognati di corteggiare le 
          donne. Io aggiungo che, nel Consiglio, non si è più distinta 
          l’opinione dei vecchi da quella dei giovani.
 
 Leggi
Non c’è quasi mai stato un legislatore che, per rendere degne 
          di rispetto le sue leggi o la sua religione, non abbia fatto ricorso al mistero. 
          Gli Egiziani, iniziatori di ogni pratica religiosa, celavano con gran cura 
          i loro culti. 
 Non è sensato pretendere che l’autorità del principe sia 
          sacra e che, viceversa, non lo sia quella della legge.
 
 Quello che per lo più rende gli uomini malvagi è che questi 
          vengono a trovarsi in circostanze ove sono più pressati dall’utilità 
          di commettere crimini che non dalla vergogna o dal pericolo di attuarli. Le 
          buone leggi possono rendere infrequenti siffatte circostanze, le cattive le 
          moltiplicano, mentre le leggi indifferenti lasciano tutte quelle che il caso 
          può produrre.
 
 Ci sono tre tribunali che non vanno quasi mai d’accordo: quello delle 
          leggi, quello dell’onore e quello della religione.
 
 Una cosa è giusta non perché è legge, ma deve esser legge 
          perché è giusta.
 
 Il diritto delle genti si stabilisce fra le nazioni che si conoscono, e tale 
          diritto dev’essere esteso a quelle che il caso o le circostanze ci fanno 
          conoscere: si tratta di una regola che spesso è stata violata dai popoli 
          civilizzati.
 
 Il numero infinito di cose che un legislatore ordina o proibisce rende i popoli 
          più infelici, non già più ragionevoli. Ci sono poche 
          cose buone, poche cattive, e un’infinità di cose inutili.
 
 Come non occorrono precetti religiosi puerili, parimenti non occorrono leggi 
          inutili e relative a cose frivole.
 
 Una cattiva legge obbliga sempre il legislatore a produrne molte altre, spesso 
          pessime anch’esse, per evitarne gli effetti negativi o, almeno, per 
          soddisfare il fine della prima.
 
 La natura delle cose è tale che assai spesso l’abuso è 
          preferibile alla correzione, o, almeno, che il bene già stabilito è 
          sempre preferibile al meglio che non lo è ancora.
 
 Come la molteplicità dei trattati fra i principi non fa altro che moltiplicare 
          le occasioni ed i pretesti di guerra, così, nella vita civile, la molteplicità 
          delle leggi non fa altro che dar adito a contestazioni da parte dei singoli 
          individui.
 
 Essendo gli uomini malvagi, le leggi sono obbligate a presupporre ch’essi 
          siano migliori di quel che sono. Così, la deposizione di due testimoni 
          è sufficiente nel perseguimento di tutti i delitti. Così, ogni 
          figlio nato in costanza di matrimonio è considerato legittimo.
 
 In uno Stato le pene saranno moderate, perché ogni pena che non derivi 
          dalla necessità è tirannica.
 La legge non è un semplice atto di potere. Ogni legge inutile è 
          tirannica, come quella che obbligava i Moscoviti a farsi tagliar la barba. 
          Le cose per loro natura indifferenti non competono alla legge. Dal momento 
          che gli uomini amano appassionatamente seguire la propria inclinazione, la 
          legge che li frena è tirannica, perché impedisce la felicità 
          pubblica.
 Ne risulta che le pene moderate hanno lo stesso effetto delle pene atroci 
          sugli spiriti abituati a queste ultime.
 
 Non sono per nulla entusiasta dei privilegi degli ecclesiastici, ma vorrei 
          che non si commettessero ingiustizie nei loro confronti. Vorrei pertanto che 
      si definissero, una buona volta, i limiti della loro giurisdizione.
 
 
 LetteraturaHo preso la decisione di leggere solo buoni libri: chi legge libri senza 
          valore è simile ad un uomo che passa la vita con cattive compagnie. 
 La lettura dei romanzi è indubbiamente pericolosa. Ma che cosa mai 
          non lo è? Volesse Iddio che si dovessero correggere solo i cattivi 
          effetti della lettura dei romanzi!
 
 Si può notare che, nei miei giudizi su autori diversi, tendo a lodare 
          più che a criticare. Quasi mai ho dato valutazioni se non degli autori 
          che stimavo, avendo per lo più letto soltanto, per quanto mi è 
          stato possibile, quelli che consideravo i migliori.
 D’altronde, senza voler qui esibire buoni sentimenti, per tutta la vita 
          sono stato così tormentato da quei piccoli begli spiriti che m’hanno 
          rotto la testa con le loro critiche su quello che avevano letto male, e su 
          quello che non avevano letto, che credo di dovere in parte a loro lo straordinario 
          piacere che provo nel vedere un’opera eccellente, o nel vedere un’opera 
          bella che forse s’avvicina all’eccellenza, ed anche nel vedere 
          un’opera mediocre che si può rendere buona.
 D’altra parte (lo confesso), non ho alcuna predilezione specifica per 
          le opere antiche o per le moderne, e tutte le discussioni a questo riguardo 
          mi dimostrano solo che esistono ottime opere sia fra gli antichi sia fra i 
          moderni.
 
 Da venticinque anni lavoro ad un libro di diciotto pagine, che conterrà 
          tutto quel che sappiamo di metafisica e di teologia, e quel che i nostri moderni 
          hanno dimenticato negli immensi volumi che hanno scritto su quelle scienze.
 
 Confesso il mio amore per gli antichi. M’incanta la civiltà antica 
          e, con Plinio, mi vien sempre da dire: “è ad Atene che andate. 
      Rispettate i loro Dei”[17].
 Omero è stato teologo soltanto per essere
        poeta.
 
 Ammetto che una delle cose che più mi ha affascinato,
        nelle opere degli antichi, è che essi raggiungono la grandiosità e
        la semplicità insieme, mentre accade quasi sempre che i nostri moderni,
        ricercando il grandioso, perdano in semplicità oppure, ricercando la
        semplicità, perdano in grandezza. Negli uni mi par di vedere belle e
        vaste campagne, in grazia della loro semplicità, laddove negli altri i
        giardini di un uomo ricco, adorni di boschetti e di aiuole.
 Osservate la
        maggior parte delle opere degli Italiani e degli Spagnoli. Se cercano il
        grandioso, forzano la natura anziché dipingerla. Se cercano la
        semplicità, ben si vede ch’essa non riesce loro naturale, ma
        voluta, e che non possiedono tale capacità perché mancano di
        genio.
 
 Fra tutti i generi poetici, quello in cui gli autori moderni
        hanno, secondo me, eguagliato gli antichi è la poesia drammatica. Credo
        d’intravederne la ragione nel fatto che la filosofia pagana vi è
        presente in misura assai minore. Per sua natura, questo genere d’opera
  è basato sul movimento. In essa tutto è, per così dire,
        infiammato. Non c’è racconto, né qualcosa di storico che
        necessiti di un intervento esterno. Tutto è azione. Tutto è
        dinanzi agli occhi; non si deve interpretare nulla. La presenza degli dei
        sarebbe urtante e poco verosimile. è uno spettacolo del cuore umano
        piuttosto che delle azioni umane. Così, ha minor bisogno del
        meraviglioso.
 
 Lo stile del Telemaco [di Fénélon]
  è incantevole, anche se carico di epiteti quanto quello di Omero.
 
 Non so se gli antichi avessero menti migliori; ma, col mutare dei
        tempi, capita che talora noi abbiamo opere migliori. E tuttavia, per giudicare
        la bellezza d’Omero, occorre porsi nel campo dei Greci e non in un
        esercito francese.
 
 Può piacerci vedere la rappresentazione
        dei costumi di un popolo barbaro, a condizione che vi si trovino passioni che ci
        attirino e ci commuovano. Ci piace vedere le stesse nostre passioni su uno
        sfondo diverso. Ma ci attira assai più sentire il visir Acomat parlare
        del suo modo d’amare che non un Bajazet naturalizzato francese.
 
 È pressoché
        impossibile far delle buone tragedie nuove, perché quasi tutte le
        situazioni appropriate sono già state sfruttate dagli autori antichi. Per
        noi è una miniera d’oro oramai esaurita. Verrà un popolo che
        sarà, verso di noi, quello che noi siamo nei confronti dei Greci e dei
        Romani. Una lingua nuova, usanze e circostanze nuove produrranno un nuovo
        repertorio di tragedie. Gli autori trarranno dalla natura quanto noi già
        vi abbiamo preso, o anche dai nostri autori, e presto si esauriranno come ci
        siamo esauriti noi.
 
 Sofocle, Euripide, Eschilo
        hanno in primo luogo portato il loro genio inventivo al punto che noi, da
        allora, non abbiamo cambiato nulla delle regole che ci hanno tramandato; ed
        hanno potuto farlo soltanto in virtù di una perfetta conoscenza della
      natura e delle passioni.
 Quelli che hanno una conoscenza superficiale
        dell’antichità vedono nascere i difetti d’Omero insieme con i
        tempi che lo seguirono.
 
 Virgilio è inferiore ad
        Omero (com’è noto) per la grandezza e la varietà dei
        caratteri; è mirabile nell’invenzione ed eguale nella bellezza
        della poesia. Belli sono i suoi primi sei libri [scil.
        dell’Eneide]. Confesso
        però che gli ultimi sei mi piacciono assai meno. Credo che le ragioni
        siano, primo, che sei libri sono
        troppi dopo l’arrivo in Italia: bisognava sbrigare la situazione con una
        formula del tipo: sembra infatti che, quando Enea arriva, tutto finisca. Omero
        non è incorso in questo errore: giunto Ulisse ad Itaca, il poema si
        conclude quasi subito, anche se il lettore arde dal desiderio di sapere
        com’egli verrà accolto. Il matrimonio di Lavinia risulta poco
        interessante per il lettore, e neppure lo è la stessa Lavinia, dal
        carattere freddo e spento, ben diverso da quello di Elena, così
        straordinario sia per le sue avventure, sia per le dispute delle dee, sia per la
        sua bellezza. Reputo che Turno non doveva essere sconfitto da Enea: il poeta ha
        avuto bisogno ch’Enea vincesse, in quanto Enea non ha effettivamente
        dovuto vincere. Mi pare ci siano da fare molte riflessioni su Virgilio,
        lasciandogli peraltro tutto il merito che ha e che tanto giustamente gli
  è stato tributato.
 Virgilio e Orazio sperimentarono, ai tempi loro,
        il peso dell’invidia. Lo sappiamo, ma soltanto dalle opere di quei grandi
        uomini. Le satire che avevano scritto contro di loro sono andate perdute, mentre
        le opere che erano state attaccate rimangono in eterno. Così muoiono gli
        insetti che hanno fatto seccare le foglie degli alberi, i quali, al ritorno
        della primavera, sempre rinverdiscono.
 
 Quello che colpisce
        maggiormente negli autori antichi è che gli episodi da loro narrati si
        rassomigliano quasi tutti: c’è un principe che ha inventato qualche
        arte; un altro che ha consultato un oracolo; un altro ancora che va a cercar la
        figlia...
 
 Difficoltà di
    tradurre. Occorre innanzitutto conoscere bene il latino; poi bisogna
        dimenticarlo.
 
 Si deve sempre scegliere un argomento adeguato: il
        talento che impiegate per un argomento sbagliato è come l’oro
        sparso sull’abito di un mendicante; mentre un buon argomento pare
        sollevarvi sulle sue ali.
 
 S’impara molto fra la gente, ma
        s’impara molto anche nel proprio studio, ove si apprende a scrivere con
        ordine, a ragionare correttamente e a ben formulare i propri ragionamenti: il
        silenzio che c’è intorno fa sì che si possa dare un seguito
        a quanto via via si pensa. Fra la gente, invece, s’impara ad immaginare:
        nelle conversazioni si affrontano tanti argomenti che fanno immaginare delle
        cose; gli uomini vi appaiono allegri e piacevoli; si pensa senza pensare, ossia
        si formulano idee a caso, che spesso, peraltro, sono quelle buone.
 
 La bella prosa è simile a un fiume maestoso che fa scorrere
        le sue acque, e i bei versi ad un getto d’acqua che scaturisca con
        violenza: dall’impaccio dei versi nasce qualcosa che piace.
 
 Le
        trasposizioni sono consentite in poesia: e spesso le danno una certa
        superiorità sulla prosa, perché la parola importante del pensiero
        viene posta là dove colpisce maggiormente, e tutta la frase può
        sostenersi su tale parola.
 
 Occorre capire se un autore ha voluto
        dire una verità o un motto di spirito. Quando Sant’Agostino ha
        detto: “Qui te creavit sine te, non
          te salvabit sine
            te!”[18], ben si vede che
      l’autore ha inteso fare un’antitesi.
 Offrire immagini molto tangibili dà forza,
        laddove presentare idee tratte dalle concezioni dell’animo dà
        finezza.
 
 Per scriver bene, occorre tralasciare le idee intermedie,
        al fine di non apparire noiosi, ma senza esagerare, onde non incorrere nel
        rischio di non essere intesi. Sono quelle felici soppressioni che hanno fatto
        dire a Nicole che tutti i buoni libri sono doppi.
 
 In
        un’opera, l’ironia non dev’essere continua, altrimenti non
        sorprende più.
 
 Non bisogna mettere dell’aceto nei
        propri scritti: bisogna metterci del sale!
 
 Gli scrittori finiscono
        sempre col logorarsi; come i pittori, hanno tre maniere: quella del loro
        maestro, ossia della scuola; quella del loro genio, che fa eseguire loro delle
        belle opere; e quella dell’arte, che nei pittori si chiama maniera.
 
 Un’opera
        originale quasi sempre ne fa comporre cinque o seicento altre; queste ultime si
        servono della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro
        formule.
 
 Fontenelle dice assai bene: “I buoni stili ne formano
        di cattivi”.
 
 Nelle arti, e specie in poesia, ci sono talune
        occasioni felici che non si riesce più a riafferrare.
 
 Un
        autore che scrive molto si considera un gigante e guarda a quelli che scrivono
        poco come a dei pigmei; egli pensa che un autore che abbia scritto solo un
        centinaio di pagine valide sia un uomo comune, che in tutta la sua vita ha
        compiuto l’opera di un giorno.
 
 Approvo la propensione del
        popolo inglese verso le opere brevi, giacché da loro si pensa molto: fin
        da principio si ritiene che sia già stato detto tutto. I popoli presso i
        quali non si pensa affatto, invece, dopo aver parlato avvertono la propria
        povertà, e che c’è ancora qualcosa da dire.
 
 Dicevo: “Solo le opere banali annoiano, le cattive non le si
        contano”.
 
 Un gentiluomo che scriva Caratteri come La Bruyère deve
        sempre fare dei quadri, non già dei ritratti; dipingere gli uomini e non
        un solo uomo. Ciononostante, sarà sempre sospettato d’intenzioni
        malevole, perché le applicazioni particolari sono sempre i primi commenti
        degli stolti: sono facili e se ne fanno quanti se ne vuole, senza dire del fatto
        che la loro malignità è più efficace.
 
 I
        più antichi autori di tutti i popoli sono sempre stati molto ammirati,
        poiché per un certo periodo sono stati superiori a quanti li leggevano.
 
 Che secolo è mai il nostro, in cui ci sono tanti giudici
        (critici) e così pochi lettori!
 
 Trattato sul bello.
        Vitruvio scrive che a Roma gli affari pubblici e privati occupano la gente a tal
        punto che sono pochi ad aver l’agio di leggere un libro, a meno che non
        sia assai breve. Io potrei dire che, nella nostra capitale, tutti sono
        così occupati dalla quantità dei divertimenti che non
        c’è più tempo per leggere.
 
 Sono curioso per
        natura di tutti i frammenti delle opere degli autori antichi, così come
        piace scoprire lungo le rive i relitti dei naufragi, lasciati dal mare.
 A
        mio avviso, Cicerone è uno dei massimi intelletti mai esistiti: anima
        sempre bella, quando non cedeva alla debolezza.
 
 Ovidio è
        magnifico nel dipingere le circostanze e, a riprova del fatto che non è
        prolisso, appare rapido: in questo, può a ragione paragonarsi
        all’Ariosto.
 
 L’Ariosto raccolse i racconti
        cavallereschi del suo tempo e ne fece un universo, così come Ovidio
        raccolse le favole e ne fece un
        universo.
 
 Rabelais. Ogni
        volta che ho letto Rabelais mi sono annoiato: non sono mai riuscito ad
        apprezzarlo. Mi è piaciuto, invece, tutte le volte che l’ho sentito
        citare.
 
 Di Shakespeare dicevo: “Quando vedete un uomo
        innalzarsi come un’aquila, è lui. Quando lo vedete strisciare,
  è il suo secolo”.
 
 Ci sono dieci o dodici
        tragedie di Corneille e di Racine che non permettono mai di scegliere: quella
      che si vuole rappresentare è sempre la migliore.
 Il 6 aprile 1734 ho letto Manon Lescaut, 
          il romanzo del Padre Prévost. Non mi stupisce che quest’opera 
          – il cui eroe è un furfante, mentre l’eroina è una 
          prostituta condotta alla Salpétrière – piaccia, perché 
          tutte le azioni malvagie dell’eroe, il Cavaliere des Grieux, sono causate 
          dall’amore, ch’è sempre un motivo nobile, per quanto il 
          suo comportamento sia vergognoso. Anche Manon ama, e questo le fa perdonare 
          il resto del suo carattere.
 
 Amare la lettura significa trasformare le ore noiose, che inevitabilmente 
          capitano nella vita, in ore deliziose.
 
 
 LibertàCome fra gli asiatici la schiavitù delle donne ha fatto nascere una 
          maggiore schiavitù, così la loro libertà, da noi, ha 
          fatto nascere una maggior libertà. 
 Un popolo libero non è quello che ha questa o quella forma di governo: 
          è bensì quello che gode della forma di governo stabilita dalla 
          legge, ed è indubbio che i Turchi si sarebbero sentiti schiavi se fossero 
          stati sottomessi dalla Repubblica di Venezia, e che i popoli delle Indie considerino 
          una crudele schiavitù l’esser governati dalla Compagnia d’Olanda.
 Da ciò si desume che la libertà politica riguarda tanto le monarchie 
          moderate quanto le repubbliche, e che non è più distante da 
          un trono che da un senato: è libero ogni uomo che abbia un valido motivo 
          di credere che la follia di uno soltanto, o di molti, non lo priverà 
          della vita o della proprietà dei suoi beni.
 
 La libertà, questo bene che fa godere degli altri beni.
 
 La libertà pura è una condizione filosofica piuttosto che una 
          condizione civile. Ciò non impedisce che sussistano governi ottimi 
          e governi pessimi, e neppure che una costituzione sia meno perfetta se si 
          allontana in misura maggiore dall’idea filosofica di libertà 
          che noi possediamo.
 
 Coloro che vivono in una monarchia o in un’aristocrazia saggia e moderata 
          paiono stare in grandi reti, ove sono stati catturati ma si considerano liberi. 
          Quelli che invece vivono in Stati meramente dispotici stanno in reti così 
          strette che subito avvertono d’esser stati catturati.
 La schiavitù è
          contraria al diritto naturale, secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi
      e indipendenti.  La libertà è in noi un’imperfezione: siamo liberi e insicuri, 
          perché non sappiamo con certezza quel che per noi è più 
          conveniente. Non è così per Dio: essendo perfetto al massimo 
          grado, mai può agire se non nella maniera più perfetta.
 
 
 Luigi XIVI preamboli degli editti di Luigi XIV risultarono ai popoli più intollerabili 
          degli editti stessi. 
 Circa la meschinità dei cortigiani di Luigi XIV, dicevo: “Una 
          certa filosofia diffusa ai giorni nostri fa sì che i nobili di oggi 
          forse siano più furfanti, ma non così miserabili”.
 
 Luigi XIV aveva l’anima più grande dello spirito. Madame de Maintenon 
          abbassava costantemente quell’anima per porla al suo livello.
 
 [Luigi XIV] amò la gloria e la religione, ma per tutta la vita gli 
          fu impedito di conoscere l’una e l’altra. Non avrebbe avuto quasi 
          nessuno di tutti quei difetti, se fosse stato educato meglio, o se avesse 
          avuto un po’ più di spirito.
 
 Luigi XIV. Possedeva perfettamente 
          tutte le virtù mediocri e l’inizio di tutte le grandi...; davvero 
          troppo poco spirito per un uomo importante: grande con i cortigiani e gli 
          stranieri, piccolo con i suoi ministri!
 
 Quando vedo Luigi XIV che, guidato dai Gesuiti, ai suoi nemici affida sudditi, 
          soldati, mercanti, artigiani e tutto il commercio, mentre scaccia gli Ugonotti, 
          provo più pietà per lui che per gli Ugonotti.
 
 
 MatrimonioCom’è giusto l’odio che provate per il matrimonio! La 
          ragione vi ha fatto discernere ciò che agli altri solo l’esperienza 
          può far conoscere. 
 Nutriamo un certo timore di quel ridicolo che gli spiritosi di cattivo gusto 
          d’ogni paese hanno sparso sulle noie del matrimonio: tutti si son sempre 
          dilettati a prendere di mira una propensione che, se in un uomo viene rimossa, 
          porta poi a tutte le altre.
 
 Una prova dell’incostanza degli uomini è stata la necessità 
          d’istituire il matrimonio.
 
 Un tale mi consultava riguardo al suo matrimonio. Io gli dissi: “Gli 
          uomini, in generale, ritengono che voi commettereste una sciocchezza; ma la 
          maggior parte degli uomini, in particolare, decide il contrario”.
 
 
 Medici e medicinaI medici sanno che certe malattie rendono l’uomo bizzarro, inquieto 
          e violento: è uno stato deplorevole, che ci dimostra come siamo decaduti 
          da una condizione più perfetta... 
 Il nostro corpo, come qualsiasi altro strumento, dura in proporzione all’uso.
 
 Volentieri sollevo la questione se gli uomini ci abbiano davvero guadagnato 
          acquisendo l’abitudine di mangiare la carne degli animali, anziché 
          nutrirsi del loro latte e dei frutti della terra. Sono convinto che la loro 
          salute sia peggiorata.
 
 Dicevo: “La cena uccide la metà di Parigi; il pranzo, l’altra”.
 
 Dicevo: “I pranzi sono innocenti; le cene sono quasi sempre criminali”.
 
 È singolare che le lane europee, così adatte ai nostri climi 
          più freddi, non siano quasi più in uso da noi per far posto 
          alle sete e ai cotoni del Tonchino, e siano viceversa esportate nel Tonchino, 
          ove la natura ha fornito tanta seta e cotone, di cui ci vestiamo noi a dispetto 
          del nostro clima.
 
 Gli abitanti della Groenlandia si deliziano nel bere olio di balena. Ciò 
          dipende dal fatto che, in paesi tanto freddi, le fibre dello stomaco sono 
          abbastanza forti da tollerare il nutrimento dell’olio, che invece distruggerebbe 
          lo stomaco nei paesi del sud.
 
 Non c’è nulla di meglio, per la salute, dell’andare a cavallo. 
          Così, chi ha inventato le sospensioni delle carrozze ha reso al pubblico 
          un pessimo servizio. Ogni passo di un cavallo produce una pulsazione al diaframma 
          e, nel corso di una lega, si possono contare circa quattromila pulsazioni 
          in più.
 
 Chiedevano a Chirac[19] se i rapporti con 
          le donne fossero dannosi. Egli rispondeva: “No, purché non si 
      assumano droghe; ma avverto che il cambiamento è già una droga”.
 Aveva ragione, com’è provato dai serragli dell’Oriente. 
 Qualcuno ha detto che la medicina cambia col cambiare della cucina.
 
 È stato necessario che Molière facesse parlare Diafoirus per 
          convincere i medici della circolazione del sangue: il ridicolo ha un gran 
          potere, quando viene sparso a proposito.
 
 Al popolo piacciono i ciarlatani, perché gli piace il meraviglioso, 
          e le guarigioni rapide hanno del meraviglioso. Se il guaritore empirico e 
          il medico hanno curato entrambi un malato, della sua morte il popolo assolverà 
          l’empirico, che ama, e accuserà il medico.
 
 Non sono i medici che oggi mancano, bensì la medicina.
 
 È molto divertente il fatto che in Inghilterra, quando non si sapeva 
          se l’inoculazione del vaiolo avrebbe avuto buon esito, tutti vollero 
          farselo inoculare, mentre adesso, che il successo è assicurato, non 
          ci pensa più nessuno. Piace aver fatto una cosa originale, e in più 
          ci si ostina su qualcosa che si vede contraddetto a sproposito o con ragionamenti 
          sbagliati, come in questo caso, nel quale i medici erano favorevoli e i teologi 
          contrari.
 
 I medici sostengono che, per ogni ammalato uomo, ci sono due ammalate donne. 
          Pare che lo stesso si verifichi anche in campagna. Da ciò necessariamente 
          si desume che la metà delle malattie delle donne è immaginaria.
 Non parlo dei parti, che sono incomodi volontari.
 
 
 MetafisicaLa metafisica presenta due aspetti assai seducenti.Ben s’accorda con la pigrizia: la si studia ovunque, a letto, a passeggio, 
          etc.
 D’altronde, la metafisica si occupa soltanto di cose importanti: vi 
          si discute sempre di grandi questioni. Il fisico, il logico, l’oratore 
          si occupano soltanto di argomenti limitati, mentre il metafisico s’impossessa 
          di tutta la natura, la governa a suo piacimento, crea e distrugge gli Dei, 
          dà e toglie l’intelligenza, pone o meno l’uomo nella condizione 
          delle bestie. Tutte le sue nozioni sono interessanti, perché si tratta 
          della tranquillità presente e futura.
 
 Si parlava dell’esistenza di Dio. Io dissi: “Eccone una prova 
          in due parole: c’è un effetto, dunque c’è una causa”.
 
 I teologi, per render chiara la teologia, hanno reso oscura la filosofia. 
          Hanno impiegato molti secoli per imbrogliare la filosofia.
 
 Si vorrebbe non morire. Ogni essere umano è propriamente un susseguirsi 
          d’idee che non si vorrebbe interrompere.
 
 
 Politica Come il mondo fisico si mantiene 
          solo perché ogni parte della materia tende ad allontanarsi dal centro, 
          così anche il mondo politico si regge per l’intimo ed inquieto 
          desiderio che ciascuno ha di uscire dal luogo ove è collocato. Invano 
          una morale austera cercherebbe di cancellare i tratti impressi nelle nostre 
          anime dal più grande di tutti gli artefici. Alla morale, che intende 
          operare sul cuore dell’uomo, compete di regolare i suoi sentimenti, 
          non già di distruggerli. 
 Non c’è male maggiore, e che abbia conseguenze più funeste, 
          della tolleranza nei confronti della tirannide, che le consente di durare 
          indefinitamente.
 
 L’unica differenza che sussiste fra i popoli civili e quelli barbari 
          è che gli uni si sono applicati alle scienze, mentre gli altri le hanno 
          completamente trascurate.
 Forse è a tali conoscenze in nostro possesso – ignorate invece 
          dai popoli selvaggi – che la maggior parte degli Stati devono la loro 
          esistenza.
 Se avessimo le usanze dei popoli d’America, due o tre Stati europei 
          avrebbero subito sterminato, o mangiato, tutti gli altri.
 
 L’invenzione della polvere da sparo, in Europa, procurò vantaggi 
          talmente scarsi al paese che per primo se ne servì che, a dirla giusta, 
          non si sa ancora quale effettivamente sia stato.
 
 Lo spirito proprio del cittadino è il desiderio di vedere l’ordine 
          nello Stato, di provar gioia nella pubblica tranquillità, nella corretta 
          amministrazione della giustizia, nella sicurezza dei magistrati, nella prosperità 
          di quelli che governano, nel rispetto per le leggi, nella stabilità 
          della monarchia o della repubblica.
 Lo spirito proprio del
          cittadino dev’essere quello di amare le leggi, pure allorquando presentano
          casi che ci nuocciono, e di considerare il vantaggio generale che sempre ci
      recano, piuttosto che il danno particolare che talora ci procurano.  Non si deve fare mediante le leggi quanto è
        possibile fare mediante i costumi.
 
 Il timore è una leva da
        usare con prudenza: non si deve mai fare una legge severa quando ne basta una
        più mite.
 
 Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie.
 
 Solo il Cielo può rendere devoti; i principi possono
        soltanto rendere ipocriti.
 
 Una prova decisiva che le leggi umane
        non debbono ostacolare quelle della religione è che le massime religiose
        sono assai pericolose quando le si fa entrare nella politica degli uomini.
 
 C’è un’infinità di cose in cui il male
        minore è la scelta migliore.
 
 Il successo nella maggior parte
        delle cose dipende dal conoscere bene quanto tempo occorra per riuscire nello
        scopo.
 
 Detestare lo spirito o, viceversa, considerarlo troppo: ecco
        due cose che un principe deve evitare.
 
 Non si deve far nulla che
        non sia ragionevole, ma bisogna ben guardarsi dal fare tutte le cose che lo
        sono.
 
 Per tutta la vita ho visto persone che perdevano le loro
        sostanze per ambizione e si rovinavano per avidità.
 
 Non
        penso affatto che un certo tipo di governo debba renderci avversi a tutti gli
        altri. Il governo migliore è generalmente quello sotto cui si vive, e un
        uomo sensato deve amarlo: in effetti, giacché è impossibile
        cambiarlo senza cambiare modi e costumi, non comprendo, data l’estrema
        brevità della vita, di quale utilità sarebbe per gli uomini
        abbandonare, in tutti i loro aspetti, le consuetudini acquisite.
 
 Un
        principe privo di morale è sempre un mostro.
 
 Gli Stati sono
        governati da cinque cose differenti: la religione, le massime generali del
        governo, le leggi particolari, i costumi, le maniere. Tali cose hanno fra loro
        un rapporto reciproco. Se ne cambiate una, le altre si adattano solo lentamente,
        il che provoca dappertutto una sorta di dissonanza.
 
 Monarca
        perfetto è quello che, giusto verso i sudditi, giusto pure nei confronti
        dei vicini e costretto talvolta ad avere dei nemici, cessa d’essere
        temibile per costoro non appena li ha vinti.
 
 Per una crudele
        fatalità, i principi più grandi sono quelli più scontenti
        della loro fortuna.
 
 Ora esorterò tutti gli uomini, nessuno
        escluso, a riflettere sulla loro condizione e a trarne idee sane. Non è
        impossibile ch’essi vivano sotto un buon governo senza rendersene conto:
        la serenità politica è di tal genere che la si riconosce soltanto
        dopo averla perduta.
 
 Nelle città commerciali, come quelle
        imperiali e quelle olandesi, c’è l’abitudine di dare un
        prezzo ad ogni cosa: si fa mercato di tutte le proprie azioni e delle
        virtù morali; e si vendono per denaro finanche quelle cose che lo spirito
        di umanità richiede.
 
 Per fare grandi cose non occorre essere
        un gran genio: non si deve stare al di sopra degli uomini, bensì stare
        con loro.
 
 È vero che si giudicano sempre le azioni dal loro
        successo, ma questo giudizio degli uomini è esso stesso un abuso
        deplorevole della morale.
 
 Di due partiti, quello di coloro che non
        seguono la corrente è di solito il migliore.
 
 Se allo spirito
        generale di una nazione togliete i sentimenti d’onore, di dovere,
        d’amore, procurate lo stesso danno di quando private un singolo di tutti i
        suoi principi.
 E quando avrete fatto tutto quanto occorre per avere dei
        buoni schiavi, vi resteranno solo dei buoni sudditi.
 
 è
        stupefacente che i popoli prediligano tanto il governo repubblicano, ma che ben
        poche nazioni ne godano; che gli uomini abbiano tanto in odio la violenza, e che
        tante nazioni siano governate dalla violenza.
 
 Quando si vogliono
        governare gli uomini, non bisogna cacciarli dinanzi a sé, bensì
        farli venire appresso.
 
 Una monarchia corrotta non
  è uno Stato, è una corte.
 Quando, in una repubblica, ci sono fazioni, il
        partito più debole non è più oppresso di quello più
        forte: è oppressa la repubblica.
 
 Una cosa dovrebbe far
        tremare tutti i ministri nella maggior parte degli Stati europei: la
        facilità di sostituirli.
 
 La maggior disgrazia per il
        commercio di certi Stati è la presenza di un numero eccessivo di persone
        umili, e che vivono con poco: sono, in qualche modo, esseri inesistenti,
        perché non hanno quasi alcun rapporto con gli altri cittadini.
 Piuttosto che vedere tante istituzioni destinate a mantenerli, preferirei 
          di gran lunga che in uno Stato non ci fossero poveri.
 
 Si può dire che il cardinale Richelieu rianimò la religione 
          protestante, che volgeva verso la propria distruzione, e che, colpendo Madrid 
          e Vienna, colpì egualmente Roma. I papi d’allora non cessavano 
          d’essere indecisi fra la religione e il potere.
 
 Richelieu era un privato cittadino che aveva più ambizione di tutti 
          i monarchi del mondo. Egli considerava i popoli e i re niente più che 
          meri strumenti della propria fortuna; faceva la guerra più contro le 
          manovre di pace che non contro i nemici. Francia, Spagna, Germania, Italia, 
          l’intera Europa e tutto l’universo erano per lui solo un teatro 
          ove mostrare la sua ambizione, il suo odio o la sua vendetta [...]. Governò 
          come un padrone, non come un ministro: il suo governo era un vero e proprio 
          regno. Accrebbe l’autorità del re non per adulazione né 
          per fedeltà, ma per ambizione.
 
 
 PretiÈ stupefacente come, nella Chiesa cattolica, in cui è stato 
          proibito il matrimonio ai preti, perché non s’occupassero di 
          faccende secolari, essi se ne occupino invece più che in Inghilterra 
          e in altri paesi protestanti, ove è loro permesso sposarsi. 
 Niente religiosi negli affari! Se sono buoni religiosi, non s’intendono 
          di cose secolari. Se invece s’intendono di cose secolari, non sono buoni 
          religiosi.
 
 Ecclesiastici son sempre gli adulatori dei principi, quando non possono essere 
          i loro tiranni.
 
 Se i gesuiti fossero venuti prima di Lutero e Calvino, sarebbero stati padroni 
          del mondo.
 
 Durante i miei viaggi, mi sono assai sorpreso nel trovare a governar Venezia 
          quei gesuiti che, a Vienna, non trovano alcun credito.
 
 Una cosa che non riesco a conciliare con i progressi di questo secolo è 
          l’autorità dei gesuiti.
 
 Di tutti i piaceri, i giansenisti ci concedono solo quello di grattarci.
 
 Gli ecclesiastici s’interessano di mantenere i popoli nell’ignoranza; 
          diversamente, poiché il Vangelo è semplice, si potrebbe dir 
          loro: “Sappiamo tutto questo, proprio come voi”.
 
 Mi pare che gli ecclesiastici di Spagna e d’Italia, che favoriscono 
          l’ignoranza dei laici, siano come i Tartari, che accecano i loro schiavi 
          perché sbattano meglio il latte.
 
 Si racconta che alcuni missionari, onde far combattere i selvaggi, dicessero 
          loro che Gesù Cristo era francese, e che gli Inglesi l’avevano 
          crocefisso.
 
 Il numero delle festività dei cattolici fa sì che questi lavorino 
          un settimo in meno dei protestanti, ossia che gli imprenditori cattolici producano 
          un settimo di merci in meno dei colleghi protestanti: così, col medesimo 
          numero di operai, l’Inghilterra fornisce un settimo di prodotti in più 
          rispetto alla Francia.
 
 Un grande ministro che volesse riassestare la Spagna, rovinata dai religiosi, 
          dovrebbe accrescere i loro titoli onorifici e diminuirne poco a poco il numero 
          e l’autorità.
 
 Il bene della Chiesa è un 
          termine equivoco. Un tempo si riferiva alla santità dei costumi. Oggi 
          non significa altro che la prosperità di certe persone e l’aumento 
          dei loro privilegi, o delle loro rendite.
 Far qualcosa per il bene della Chiesa non è far qualcosa per il regno 
          di Dio e per la società di quei fedeli di cui Cristo è capo: 
          è bensì far qualcosa di contrario all’interesse dei laici.
 
 È assai sorprendente che le ricchezze degli ecclesiastici abbiano tratto 
          origine dal principio di povertà.
 
 
 PrincipiIl principe deve sorvegliare con attenzione l’onestà pubblica, 
          giammai la privata. 
 Vi è un certo principe che si riterrebbe annientato se non avesse di 
          continuo intorno a sé consiglieri che deliberano.
 
 Esistono casi in cui ad un suddito è consentito disobbedire al suo 
          principe? Non deve far nulla per lui, ma sarebbe assai strano aver tanto rispetto 
          per gli ordini e tanto poco per l’onore del suo principe. È assai 
          rischioso per un principe avere sudditi che gli obbediscano ciecamente. Se 
          le popolazioni dell’inca Atahualpa non gli avessero obbedito come degli 
          stolti, avrebbero impedito a centosessanta spagnoli di catturarlo.
 
 Se si verifica una rivolta, occorre che la saggezza e la prudenza del principe 
          regolino la sua clemenza e giustizia. Si potrebbe dirgli: “La funzione 
          che svolgete può esser compiuta da un altro senza che, per mantenervela 
          o placare i vostri timori, debba costare torrenti di sangue al genere umano. 
          La vostra vita è più preziosa solo perché più 
          utile proprio a quegli uomini che volete decimare”.
 
 Ci si chiede se un principe debba mettere gli affari di Stato nelle mani del 
          proprio confessore. Non c’è nulla di più pericoloso: quelli 
          che hanno, infatti, spirito mondano sono completamente incapaci di governare 
          la sua coscienza, mentre quelli che non possiedono tale spirito sono incapaci 
          di governare il suo Stato.
 
 In una parola, fra tutti coloro che stanno accanto al principe, il confessore 
          è quello che deve aver più credito, ma al tempo stesso averne 
          meno.
 
 L’autorità del sovrano dev’essere trasmessa soltanto alle 
          persone strettamente necessarie. Il principe deve darne parte ai suoi ministri, 
          ma occorre che rimanga nelle loro mani e non passi in quelle d’altri.
 
 Ma perché, in tutti i tempi e in tutti i paesi, i favoriti sono stati 
          così insopportabili? Invero, dato che i principi sono preposti a governarci, 
          noi tolleriamo il male che essi ci recano talvolta, in considerazione del 
          bene che ci fanno sempre. Ma i favoriti stanno al di sopra degli altri unicamente 
          per la loro utilità personale.
 
 Un palazzo malandato deve fare arrossire un principe meno di quattro leghe 
          di terreno abbandonato e incolto.
 
 Il punto fondamentale della buona amministrazione è semplice: consiste 
          unicamente nel compensare le uscite con le entrate. Se queste ultime non possono 
          aumentare, quelle devono diminuire, e finché ciò non si verifica 
          nessun progetto può essere realizzato, perché non ne esistono 
          che non richiedano una spesa ulteriore.
 
 [I principi] devono prender gusto alla lettura presto: i libri sono una grande 
          risorsa dopo il declino delle passioni e, d’altronde, le voci dei morti 
          sono le uniche fedeli.
 I principi prodighi nel
          conferire onori non ci guadagnano nulla. Non fanno altro che incoraggiare e
          persino giustificare continue sollecitazioni. Più persone si
          ricompensano, più altre meriterebbero di esser ricompensate: cinque o sei
          uomini sono degni di un onore che avete concesso a due o tre; cinque o seicento
          sarebbero degni dell’onore che avete concesso a cento. Tutti i principi
      s’annoiano: una prova di ciò è che vanno a caccia.  Un principe può credere di divenir più grande a seguito della 
          rovina di uno Stato vicino. Tutt’altro! Le cose in Europa sono tali 
          che tutti gli Stati dipendono gli uni dagli altri [...]. L’Europa è 
          uno Stato composto da molte province. 
 Tutto sommato, la maggior parte dei principi sono persone più oneste 
          di noi. Forse, per la parte che ci compete, noi abusiamo del potere più 
          di loro. Non ce ne sono molti che non vogliano essere amati, ma non è 
          un’impresa facile.
 
 I principi sono sempre prigionieri. Clemente XI diceva: “Quando ero 
          privato cittadino, a Roma conoscevo tutti, e i meriti di ciascuno di loro. 
          Ora che sono papa non conosco più nessuno”.
 
 Quando i principi viaggiano, ecco l’intendente che fa comparire sui 
          percorsi gli abiti nuovi, la gioia e tutto quanto può dimostrare opulenza. 
          Lungo il percorso è tutto un paese di Cuccagna; a mezza lega di là, 
          tuttavia, si muore di fame.
 
 Gli ambasciatori di Francia sono assai malpagati: il re è un gigante 
          che si fa rappresentare da un nano.
 
 Un principe che si pone a capo di un partito somiglia ad un uomo che si taglierebbe 
          un braccio perché tutto il nutrimento andasse all’altro.
 
 Ciò che rende forte l’autorità dei principi è che 
          spesso non si può impedire il male che fanno se non con un male ancor 
          più grande, che è il pericolo della distruzione.
 
 Si dice che il re di Francia sia ricco, ma non lo è affatto. Le sue 
          spese superano le sue rendite. Solo i re d’Asia (le cui rendite superano 
          le spese, e che ogni anno mettono nel loro tesoro l’eccedente) sono 
          ricchi.
 
 Quando i principi non sono al culmine della loro potenza, nulla ve li conduce 
          con maggiore sicurezza del timore di un’invasione da parte di una nazione 
          straniera. I popoli sono gelosi dei loro privilegi solo nell’inattività 
          propria della pace, che per i principi non assoluti è tanto faticosa 
          quanto invece è propizia per quelli che lo sono.
 
 
 ReligioneLa gente non ha più l’aspetto lieto che aveva al tempo dei Greci 
          e dei Romani. La religione era mite e sempre in accordo con la natura. Una 
          grande gioia nel culto s’univa ad una totale indipendenza nel dogma.Facevano parte del culto religioso giochi, danze, feste, spettacoli teatrali, 
          insomma tutto quanto può commuovere e far provare emozioni.
 
 Mai le porte dell’inferno prevalsero maggiormente contro la Chiesa di 
          quando il peggiore di tutti gli uomini (Alessandro VI) salì sul primo 
          trono del mondo; e noi saremmo ancora indignati per quella scandalosa elezione 
          se non la considerassimo un occulto giudizio di Dio sui fedeli piuttosto che 
          l’effetto d’intrighi di bassa lega.
 
 Non posso tollerare che un autore famoso [Pierre Bayle] abbia sostenuto che 
          la religione non può essere un elemento frenante. So bene ch’essa 
          non sempre frena l’uomo nella foga delle sue passioni. Ma ci troviamo 
          sempre in tale stato? Se la religione non riesce sempre ad imporsi in momenti 
          particolari, è tuttavia un freno per tutta la vita.
 
 Si discute dei dogmi, ma non si pratica affatto la morale. Questo perché 
          è difficile praticare la morale, mentre è assai facile discutere 
          dei dogmi.
 
 Dio è come un sovrano che abbia svariati popoli nel suo impero: tutti 
          quanti gli portano il loro tributo, ma ciascuno di essi parla nella propria 
          lingua. (Religioni diverse.)
 
 L’argomentazione di Pascal: “Credendo, avete tutto da guadagnare, 
          mentre non guadagnate nulla a non credere” è validissima contro 
          gli atei. Ma non si riferisce ad una religione piuttosto che ad un’altra.
 
 Vogliamo sempre limitare le manifestazioni della potenza di Dio. La limitiamo 
          ad un territorio, ad un popolo, a una città, ad un tempio... Ma essa 
          è ovunque.
 
 Una religione che offrisse ricompense sicure nell’altra vita vedrebbe 
          sparire i suoi seguaci a migliaia.
 
 Tra le pene dell’inferno avrebbero dovuto includere anche l’inattività 
          permanente; mi pare invece che l’abbiano collocata fra le gioie del 
          paradiso.
 
 Tutte le religioni introdotte in Cina sono state accolte non come religioni 
          nuove, bensì come aggiunte all’antica: Confucio, lasciando il 
          culto degli Spiriti, ha lasciato la porta aperta a tali aggiunte.
 
 Un libertino potrebbe dire che gli uomini si son giocati un tiro mancino rinunciando 
          al paganesimo, che favoriva le passioni e dava alla religione un volto lieto.
 
 Ora gli Ebrei sono salvi: non farà più ritorno la superstizione, 
          né più li stermineranno per un principio di coscienza.
 
 
 SpiritoQuando si canzona, si possono osservare alcune regole che, lungi dal rendere 
          odioso il burlone, possono farlo divenire assai piacevole.Si devono colpire soltanto i difetti che non dispiace avere, o che sono compensati 
          da virtù maggiori.
 Si devono distribuire le canzonature un poco a tutti, per far capire che sono 
          solo l’effetto della nostra presente allegria e non di un piano premeditato 
          volto ad attaccare qualcuno in particolare.
 
 Non dobbiamo rifiutare i motti di spirito, che spesso rallegrano la conversazione; 
          ma non dobbiamo neppure abbassarci a concedere troppe libertà e divenire 
          il bersaglio contro cui tirano tutti.
 
 Ci sono due generi di uomini: quelli che pensano e quelli che si divertono.
 
 Dicevo: “Uomo grande è chi vede in fretta, lontano e con precisione”.
 
 Chi ha dello spirito non cerca di ostentarlo: non ci pavoneggiamo degli ornamenti 
          che indossiamo tutti i giorni.
 
 Spesso è difficile sapere se le donne abbiano dello spirito o meno. 
          Sempre seducono i loro giudici. In loro la gaiezza sostituisce lo spirito. 
          Bisogna attendere che trascorra la loro giovinezza. Allora potrebbero dire: 
          “Saprò se possiedo dello spirito”.
 
 Se un uomo è un esperto di geometria ed è riconosciuto tale, 
          gli resta ancora da dimostrare di aver dello spirito.
 
 Dicevo: “Quando si rincorre lo spirito, si raggiunge la stupidità”.
 
 Dissi: “Non riesco a trovar nulla di così difficile come aver 
          dello spirito con gli sciocchi”.
 
 Credetemi: spesso lo spirito risiede proprio là dove non brilla e, 
          come le pietre artificiali, sembra spesso brillare dove non c’è.
 
 La maggior parte degli uomini definiti sciocchi lo è solo in misura relativa.
 
 Invidio la temerarietà degli sciocchi: parlano sempre.
 
 
 
 StoriaMalattie spaventose, sconosciute ai nostri padri, hanno aggredito la natura 
          umana sin nell’origine della vita e dei piaceri. Abbiamo visto le grandi 
          famiglie di Spagna, sopravvissute per tanti secoli, perire quasi tutte ai 
          giorni nostri: si tratta di una distruzione non prodotta dalla guerra, che 
          deve essere attribuita solo ad un male troppo comune per essere vergognoso, 
          e che oramai è soltanto funesto. I piaceri e la salute son
          divenuti quasi incompatibili. Le pene d’amore, tanto cantate dai poeti
          antichi, non son più la durezza o l’incostanza di un’amante.
          Il tempo ha fatto sorgere altri pericoli, e l’Apollo dei nostri giorni
          è più il dio della medicina che non quello della poesia. Gli adultèri degli dei non erano un segno
          della loro imperfezione, bensì un segno della loro potenza, e li si
          onorava parlando dei loro adultèri.  Le grandi scoperte
          compiute negli ultimi tempi c’inducono a considerare frivolo tutto
          ciò che non presenti un aspetto di utilità immediata, senza
          pensare che tutto è legato ed intimamente connesso.  Quel che
          m’affascina dei tempi antichi è una certa semplicità di
          costumi, una spontaneità naturale che trovo solo allora e che oggi (per
          quanto ne sappia) al mondo non esiste più presso alcun popolo
          civilizzato.ùù Mi piace vedere nell’uomo virtù non ispirate da
          una determinata educazione o religione, e vizi non prodotti dalla mollezza e dal
          lusso. Quando fu assassinato Enrico IV, gli Spagnoli furono
          liberati da un peso immenso. Si vedevano affrancati da un principe che aveva
          grandi progetti, che si alleava con i principi oppressi e riscuoteva la fiducia
          d’Europa. È certo che essi furono coinvolti nell’impresa di
          Ravaillac, e che i seguaci della Lega proscritti a Napoli e nei Paesi Bassi non
          smisero di ordire congiure, soprattutto da quando la Spagna, informata del
          progetto del re contro di essa, ritenne di non dover più attendere. L’amor di patria ha
          conferito alle storie greche e romane quella nobiltà che le nostre non
          hanno. Ne è la molla costante di tutte le azioni, e si prova piacere a
          trovare ovunque quella virtù cara a tutti coloro che hanno un
          cuore. Quando si pensa alla debolezza delle nostre ragioni, alla
          meschinità dei nostri mezzi, all’avidità con cui cerchiamo
          vili ricompense, a quell’ambizione così diversa dall’amore
          della gloria, ci si stupisce della differenza di tali spettacoli, e pare che, da
          quando quei due grandi popoli non esistono più, gli uomini siano
          rimpiccioliti di un cubito [50 cm. ca.]. Fra tutti i discorsi degli antichi non ne conosco
          uno più barbaro di questo, attribuito a Silla. Una volta gli si
          presentò un pescatore della città di ***, portandogli un pesce.
          “Dopo tutto quel che ho fatto”, disse, “c’è
          ancora un uomo nella città di ***?”Quel funesto individuo si
          meravigliava che la sua crudeltà avesse potuto aver dei limiti.
 Se la fisica non presentasse altre invenzioni oltre a quella della
          polvere da sparo e del fuoco greco, sarebbe un gran bene bandirla, come la
          magia. È opportuno che tutti leggano la storia, specialmente
          quella del proprio paese. Lo si deve alla memoria di coloro che hanno servito la
          patria, e con ciò hanno contribuito a dare alle persone virtuose la
          ricompensa ch’è loro dovuta, e che spesso le ha incoraggiate. Il sentimento
          d’ammirazione che suscitano in noi le loro grandi imprese è un modo
          per render ad essi giustizia, così come l’orrore che proviamo verso
          i malvagi. Non è giusto infatti concedere ai malvagi l’oblio dei
          loro nomi e dei loro misfatti, come non è giusto lasciare i grandi uomini
          nel medesimo oblio, quello stesso che i malvagi sembrano invece augurarsi. Gli storici sono severi esaminatori delle azioni
          di coloro che sono apparsi sulla terra, a somiglianza di quei magistrati
          d’Egitto che chiamavano in giudizio l’anima di tutti i defunti. In memoria dei nostri antenati, dobbiamo conservare, per quanto
          possiamo, le case ch’essi hanno posseduto e amato: infatti, dalla cura che
          ne hanno avuto, dalle spese che hanno sostenuto per costruirle ed abbellirle, si
          può verosimilmente ritenere che fosse loro intenzione trasmetterle ai
          propri discendenti. Bisogna conoscere bene i pregiudizi del proprio
          secolo per non contrastarli troppo, né troppo assecondarli. Plutarco riesce sempre ad affascinarmi: presenta situazioni
          riferite ai personaggi che sempre riescono a coinvolgere. Quando, nella Vita di Bruto, descrive i casi occorsi
          ai congiurati e i motivi della loro paura al momento dell’attuazione del
          piano, si prova pietà per quei poveretti. Poi si prova pietà per
          Cesare. Prima si trepida per i congiurati, poi per Cesare. [Libri da fare]. Una storia civile del regno di Francia, come
          Giannone ha scritto la Storia civile del
            regno di Napoli. Ecco una battuta di Enrico IV, riferita
          – mi pare – da lord
          Bolingbroke[20]. Il re domandò
          all’ambasciatore di Spagna se il suo sovrano avesse delle amanti.
          “Signore”, rispose con gravità l’ambasciatore,
          “il re, mio sovrano, ha timor di Dio e rispetta la regina”. “E
          che?”, replicò Enrico IV, “non ha forse sufficienti
          virtù da farsi perdonare un vizio?” Le storie sono fatti immaginari composti sulla
          scorta dei veri, o meglio, in occasione dei veri. La Bruyère
          ha detto assai bene: “Uno inventa una storia e, a forza di raccontarla,
          alla fine si convince ch’è vera”. Quel tale ricorda meglio di
          averla raccontata che non di averla inventata. Se questo è vero, quale
          mai dev’essere la forza dei pregiudizi dell’infanzia! Non si giudicano mai bene gli uomini se non si perdonano loro i
          pregiudizi del tempo in cui vissero. Gli antichi dovevano provare
          un maggior attaccamento alla patria rispetto a noi: erano infatti sepolti con la
          loro patria. La loro città veniva conquistata? Erano fatti schiavi o
          uccisi. Noi ci limitiamo a cambiar sovrano. A Roma, tutti potevano
          accusare quelli ch’erano sospettati di voler attentare alla libertà
          della Repubblica. Ma, poiché tutte quelle accuse producevano solo
          contese, non facevano che accrescere le discordie ed armare le famiglie
          più importanti l’una contro l’altra; nondimeno, i rimedi
          contro le nascenti fazioni richiedevano un tempo assai lungo, giacché ci
          si poteva valere esclusivamente di discorsi pubblici.A Venezia, invece, il Consiglio dei Dieci soffoca non
          solo le fazioni, ma pure le insoddisfazioni.
 Riflettete sulla
          distruzione provocata dall’impero romano! [...] Prima dei Romani il mondo
          era suddiviso in un’infinità di piccoli Stati. I Macedoni e i
          Cartaginesi ne fecero vacillare parecchi, ma i Romani li distrussero tutti. Instaurazione della potenza romana, vale a dire della più
          lunga congiura che sia mai stata ordita contro l’universo. Non stupisce che Pompeo e Cesare fossero invidiosi l’uno
          dell’altro: ciascuno di quei due uomini, primi nel mondo, non poteva
          essere superato se non dall’altro. Ma noi perché dovremmo invidiare
          qualcuno? Che c’importa che sia superiore a noi o meno, dal momento che
          tanti altri lo sono già? Quando Commodo fece console il
          suo cavallo, recò una grave offesa a se stesso: cancellò anche
          l’apparenza di tutte le magistrature, compresa la sua. Su Giustiniano. Se Cesare avesse 
          realizzato il suo progetto di raccogliere i libri degli antichi giureconsulti, 
          lo avrebbe fatto assai meglio di Giustiniano, che non era abbastanza determinato.  Dopo la scoperta del Capo e delle Indie Occidentali, l’Italia non occupa 
          più una posizione centrale: si trova infatti in un angolo del mondo, 
          e poiché il commercio d’Oriente dipende da quello delle Indie, 
          il suo ruolo è solo marginale.  La volontà di Filippo II di veder la propria figlia sul trono di Francia 
          e quella di Luigi XIV di vedere il nipote su quello di Spagna hanno in egual 
          misura indebolito la loro potenza.  È un fatto singolare che, da noi, si faccia tutto il possibile per 
          mantenere il popolo nell’ignoranza e privarlo di ogni genere d’informazione 
          circa gli affari dello Stato e dell’Europa, e che, nello stesso tempo, 
          si seguano tanto i pregiudizi, le impressioni e la futilità dei discorsi 
          di quel medesimo popolo, specialmente quello della Corte. Sono proprio discorsi 
          simili che hanno portato ad intraprendere le due guerre del 1733 e del 1741.  Si dice che gli Irochesi abbiano divorato sessanta popoli, e arrostito l’ultimo 
          degli Uroni. Non ci credo. Si dice che preferiscano i Francesi agli Spagnoli.  Imprecazione dei Romani: Ultimus quorum 
          moriatur! Pena terribile quella di non aver figli, che fossero i vostri 
          eredi e potessero rendervi gli onori della sepoltura. Era un modo di pensare 
          assai favorevole alla moltiplicazione della specie!  Tre cose incredibili fra le cose incredibili: il mero meccanicismo degli animali, 
          l’obbedienza passiva e l’infallibilità del Papa.  Guerra servile! La più giusta che sia mai stata intrapresa, giacché 
          mirava ad impedire il più terribile abuso mai perpetrato contro la 
          natura umana.  |