Amicizia
Davvero l’amicizia era la virtù principale dei Romani; se ne trovano
aspetti anche nella storia dei loro secoli più corrotti: mai furono più
eroici di quando furono amici.
Fra noi, chi può far del bene agli altri è per l’appunto
chi non ha e non può avere amici. Parlo dei principi e di una terza categoria
d’uomini che occupano una posizione intermedia fra i sovrani e i sudditi,
ossia i ministri: persone che godono soltanto delle sventure della condizione
dei principi, ma senza i vantaggi della vita privata, né quelli della
sovranità.
Dicevo: “Sono innamorato dell’amicizia”.
L’amicizia è un contratto con il quale c’impegniamo a rendere
piccoli favori a qualcuno perché ce li contraccambi con favori grandi.
Gli Stoici dicevano che il Saggio non ama nessuno. Ma portavano troppo lontano
il ragionamento. Credo tuttavia sia vero che, se gli uomini fossero perfettamente
virtuosi, non avrebbero amici.
Si parlava di una battuta spiritosa rivolta contro qualcuno. Chiesero chi l’avesse
detta e io replicai: “Può essere soltanto un suo amico”,
ed era vero.
Sugli amici tirannici e vanesii dicevo: “L’amore ha delle compensazioni
che l’amicizia non ha”.
Amore
Mi mandate a dire che mi amate un poco. Se vi è occorso un anno per
amarmi un poco, quanto tempo vi occorrerà per amarmi molto?
Avete appena perso vostro marito; non mi amerete più.
Voi dunque mi lasciate, e mi lasciate per un uomo senza merito. Sono davvero
sfortunato! Che mi poteva capitare di più triste del vedermi costretto
ad arrossire per avervi amato. Di solito, quando non ci si ama più, nello
spirito resta sempre un ricordo piacevole delle passate dolcezze. Ma in questo
caso il presente reca vergogna e il passato disperazione.
Avendo una relazione con una donna, previdi in anticipo che stavo per avere
un successore, e ben presto ne ebbi conferma. Le restituii le sue lettere e
le scrissi: “Nel ricevere queste lettere forse proverete lo stesso piacere
che avete provato nello scriverle”.
Il vantaggio dell’amore sulla dissolutezza consiste nella moltiplicazione
dei piaceri. Tutti i pensieri, i gusti, i sentimenti divengono reciproci. Nell’amore
avete due corpi e due anime, nella dissolutezza avete un’anima che prova
disgusto finanche per il proprio corpo.
“Le persone perdutamente innamorate”, diceva qualcuno, “in
generale sono riservate”.
È indubbio che l’amore abbia un carattere diverso dall’amicizia:
quest’ultima non ha mai mandato nessuno in manicomio.
Amor proprio
Nicole[1] afferma assai giustamente che Dio
ha dato all’uomo l’amor proprio così come ha dato il gusto
alle vivande.
Quando un uomo manca di una qualità che non può avere, la vanità
supplisce e gli fa immaginare di possederla. Così una donna brutta
crede di esser bella e uno sciocco di avere dello spirito. Quando un uomo
sente che gli manca una qualità che potrebbe avere, vi supplisce con
l’invidia. Così s’invidiano i ricchi ed i nobili.
La vera ragione è che la vanità non riesce ad ingannarsi sulla
ricchezza e sulla nobiltà.
Il desiderio di piacere crea i legami sociali, ed è stata la fortuna
del genere umano che l’amor proprio, che avrebbe dovuto dissolvere la
società, invece la rafforzi e la renda indistruttibile.
Gli uomini sono davvero originali: sono più attaccati alle loro opinioni
che alle cose.
Non stupisce che si provi tanta antipatia per le persone che hanno troppa
considerazione di sé: non c’è gran differenza fra lo stimar
molto se stessi e il disprezzare molto gli altri.
L’umiltà cristiana non è meno un dogma della filosofia
che della religione. Ciò non significa che un uomo virtuoso debba credersi
più disonesto di un furfante, né che un uomo di genio debba
credere di non averne, perché è un giudizio che la mente non
può formulare. Tale umiltà consiste nel farci considerare la
reale natura dei nostri vizi e le imperfezioni delle nostre virtù.
Ci piace esser stimati ed amati dalle persone che ci stanno vicine, perché
ci fanno sentire più spesso e, per dir così, in ogni momento
il loro amore o la loro stima: vantaggio che non traiamo da quella delle persone
lontane.
Leggendo i libri, vi si trovano gli uomini migliori di quanto non siano, perché
ogni autore, non mancando di vanità, cerca di far credere d’essere
più onesto di quanto non sia, giudicando sempre in favore della virtù.
Insomma, gli autori sono personaggi di teatro.
Lodiamo le persone in proporzione alla stima ch’esse hanno per noi.
Dicevo: “Non si sa proprio come fare a compiere una grande azione: se
gli altri ci vedono un nostro interesse, dicono che è amor proprio;
se non lo trovano, dicono che è fanatismo”.
Tutte le persone timorose minacciano con facilità: sentono che le minacce
avrebbero un grande effetto su di loro.
Dicevo: “Non stimo gli uomini perché non hanno difetti, ma perché
hanno corretto i difetti che avevano”.
Arti
Nel tempo in cui le arti erano sconosciute, gli uomini ancor privi di buon
gusto chiamavano bello tutto ciò
ch’era grande, difficile, e tutto quello che era stato fatto da un gran
numero di braccia.
Molte professioni si distruggono con l’imitazione: gli oratori si son
rovinati imitando i poeti, così come hanno fatto gli scultori copiando
i pittori.
Ciò che fa sembrar grande la maggior parte delle chiese italiane è
la loro oscurità: in effetti, con la luce i limiti si vedono meglio.
Dicono che quella susciti più raccoglimento e rispetto. Anche le vetrate
dipinte riducono la luce. Ma non val la pena di lasciarvele, giacché
sono dipinte male, non essendo gli italiani mai riusciti, come invece i francesi,
in quest’arte, che è anteriore al rinnovamento della pittura
in Italia.
L’eccessiva regolarità risulta talvolta, e non di rado, sgradevole.
Niente è più bello del cielo, eppure è disseminato di
stelle senza un ordine. Le case e i giardini dei dintorni di Parigi hanno
il solo difetto di rassomigliarsi troppo: sono continue copie di Le Nôtre[2].
Vedete sempre il medesimo aspetto, qualem
decet esse sororum[3]. Se un terreno
aveva un andamento irregolare, anziché utilizzarlo così com’era,
l’hanno spianato, per costruirvi una casa che fosse uguale alle altre.
Le nostre case somigliano ai nostri caratteri.
Resto più colpito se vedo un bel dipinto di
Raffaello che mi rappresenta una donna nuda nel bagno che se vedessi Venere
uscire dalle onde. Il fatto è che la pittura ci rappresenta soltanto le
bellezze delle donne, senza alcun difetto. Vi si può vedere tutto
ciò che piace e nulla di quanto può risultare sgradito.
D’altra parte, nella pittura, l’immaginazione gioca sempre un certo
ruolo, e si tratta di un pittore che tende sempre ad abbellire.
Nei pittori della scuola di
Firenze ho scoperto una tecnica del disegno che non avevo mai visto altrove.
Essi pongono i corpi in atteggiamenti inconsueti, ma che non appaiono mai
impacciati. Talvolta il colore è un po’ freddo, ma il disegno
risalta tanto che sempre vi sorprende. I fiorentini non pongono i corpi
nell’oscurità, non ricorrono ad ombre finte, ma li rappresentano
alla luce del sole.
È impossibile trovare
un quadro del Domenichino, di Guido o dei Carracci mal disegnato. Sono come
Rousseau[4], che non può scrivere brutti
versi. Mentre è quasi impossibile trovare un quadro della scuola
veneziana ove non ci sia qualcosa da ridire, quanto al disegno.
In Italia c’è
sempre stato un re di Francia che voleva coprir d’oro un loro quadro, e un
certo signore inglese che voleva
acquistare una loro galleria per venti, venticinque, cinquantamila scudi!
Dopodiché non si può, per essi, offrire o stimarli poco. Ma non
sono mai riuscito ad incontrare quel certo
signore inglese, ch’era pieno di
danaro.
Quanti abusano della propria
reputazione! Ad un famoso pittore rimproveravano certi suoi brutti quadri.
“Via! via!” replicò quello, “Non crederanno mai che li
abbia fatti io”.
Uno dei motivi per cui i nostri scultori non fanno più drappeggi
belli come quelli degli antichi è che il marmo di Carrara di cui si
servono oggi è più duro di quello degli antichi. è quasi
una pietra focaia, e lo è ancor più di quanto non fosse
quarant’anni fa. Le cave hanno ceduto e si è persa la vena.
Così il marmo non consente il lavoro degli operai.
Confesso
che a Roma l’Apollo mi avrebbe
davvero sedotto, se non avessi avuto la fortuna di passare per Firenze, ove
giurai fedeltà eterna alla Venere dei
Medici, che io considero il miglior predicatore che i fiorentini abbiano
mai avuto, anche se non ne conosco bene la riuscita. Tutto questo non
m’impedisce di compiere un gran salto per arrivare alla basilica di San
Pietro, e passare dal meraviglioso che piace al meraviglioso che sconvolge.
Durante il mio soggiorno in
Italia, mi sono totalmente convertito alla musica italiana. Nella musica
francese, mi pare che gli strumenti accompagnino la voce, mentre
nell’italiana mi sembra che l’afferrino e l’innalzino. La
musica italiana è più flessibile della francese, che invece appare
rigida. È una sorta di lottatore più agile. L’una entra
nell’orecchio, l’altra lo anima.
Non riuscirei ad abituarmi alla voce dei castrati, in quanto credo che, se
un castrato canta bene, la cosa non mi sorprenda affatto poiché è
predisposto per tale scopo, indipendentemente dal talento, e perciò
non ne sono più sorpreso di quando vedo che un bue ha le corna o un
asino delle grandi orecchie. D’altronde, mi pare che la voce di tutti
i castrati sia uguale. I castrati (credo) sono arrivati a Venezia per via
del commercio che tale città intrattenne con Costantinopoli. Sono venuti
dagli imperatori greci che ne facevano gran uso nell’amministrazione
del loro palazzo, sicché talvolta diventavano persino generali dell’esercito.
Dicevo: “Rameau è Corneille; e Lully Racine”.
Lully compone musica come un angelo, Rameau compone musica come un diavolo.
Autobiografia: Montesquieu su Montesquieu
Ho l’ambizione che occorre per partecipare alle cose di questa vita;
non ho invece quella che potrebbe farmi provare avversione verso la posizione
in cui la natura mi ha collocato.
In gioventù, sono stato ben contento di legarmi a donne che credevo
m’amassero. Da quando ho smesso di crederlo, di botto me ne sono distaccato.
Lo studio è stato per me il rimedio sovrano contro i dispiaceri della
vita, giacché non ho mai avuto un dolore tale che non mi sia passato
con un’ora di lettura.
Mi sveglio la mattina con una gioia segreta: vedo la luce in una sorta di
rapimento, e son contento per tutto il resto del giorno.
Mi piace la compagnia degli sciocchi quasi quanto quella delle persone d’ingegno,
e ci sono pochi uomini così noiosi da non avermi assai spesso divertito:
nulla è più divertente di un uomo ridicolo.
In un primo momento, di fronte alla maggior parte dei potenti, ho provato
un timore puerile. Da quando li ho conosciuti meglio, sono passato, quasi
senza transizione, al disprezzo.
Mi è piaciuto dire stupidaggini alle donne e render loro dei servizi
che costano tanto poco.
Per natura ho amato il bene e l’onore della mia patria, ma ho amato
poco quel che si chiama la gloria;
ho sempre provato una segreta gioia quando è stato introdotto un ordinamento
rivolto al bene comune.
Spesso m’è parso di trovare dell’ingegno in persone che
ne erano considerate del tutto prive.
Niente mi diverte di più del vedere un narratore noioso raccontare
una storia dettagliata, senza risparmio; non sono interessato alla storia,
ma al modo di narrarla.
Non ho mai potuto sopportare che un uomo di spirito si permettesse di canzonarmi
per due giorni di seguito.
Ho amato la mia famiglia abbastanza perché facessi quel ch’era
opportuno nelle cose fondamentali; ma mi sono tenuto fuori dai dettagli.
Per quanto il nome che porto non sia né buono né cattivo –
ha solo trecentocinquant’anni di nobiltà dimostrata –,
tuttavia io gli sono molto affezionato, e non sarei disposto a fare sostituzioni.
Quando mi fido di qualcuno, lo faccio senza riserve; ma mi fido di pochi.
Quanto al mio lavoro di presidente, io lo svolgevo con lealtà; comprendevo
le questioni in sé, ma, per ciò che concerne le procedure, non
ne capivo nulla. Tuttavia mi ci applicavo; ma quel che mi disturbava maggiormente
era vedere degli stolti possedere quella stessa capacità che, per così
dire, mi sfuggiva.
Quanto alle conversazioni di ragionamento, ove gli argomenti sempre si troncano
e s’intersecano, me la cavo abbastanza bene.
Non ho mai visto versare lacrime senza esserne intenerito.
Perdono facilmente, poiché non sono capace di odiare. L’odio
mi pare penoso. Quando qualcuno ha voluto riconciliarsi con me, ho sentito
soddisfatta la mia vanità, e non ho più considerato un nemico
colui che mi faceva la cortesia di darmi una buona opinione di me stesso.
Nelle mie terre, con i miei vassalli, non ho mai tollerato che mi s’inasprisse
contro qualcuno. Quando mi hanno detto: “Se sapeste i discorsi che hanno
fatto!”. “Non voglio saperli”, ho risposto. Se quanto volevano
riferirmi era falso, non volevo correre il rischio di crederlo. Se era vero,
non volevo prendermi la pena di detestare un gaglioffo.
Quando ho vissuto in società, la cosa mi è piaciuta come se
non potessi sopportare la vita ritirata. Quando mi son trovato nelle mie terre,
non ho più pensato alla vita di società.
Credo di essere quasi l’unico autore di libri che abbia costantemente
temuto la reputazione di bello spirito. Chi mi ha conosciuto sa che, nelle
conversazioni, cercavo di non apparirlo troppo, e avevo una certa abilità
nell’assumere il linguaggio di quelli con cui vivevo.
Ho sempre seguito il principio di non incaricare mai altri per quel che potevo
fare da solo. Questo mi ha condotto a far la mia fortuna con i mezzi di cui
disponevo: la moderazione e la frugalità; e non con mezzi estranei,
che sono sempre meschini o ingiusti.
Ho vissuto con i miei figli come con degli amici.
Credo di non aver trascurato di accrescere i miei beni: ho apportato notevoli
migliorie nelle mie terre. Ma ero consapevole che lo facevo per una certa
opinione delle mie capacità che ciò mi dava piuttosto che al
fine di diventar più ricco.
Mi ha molto nuociuto l’aver sempre disprezzato troppo coloro che non
stimavo.
Quando ero in Piemonte, re Vittorio mi domandò: “Signore, siete
per caso parente dell’abate di Montesquieu[5] che ho incontrato qui insieme con l’abate d’Estrades[6],
ai tempi della mia signora madre?” “Sire, gli risposi, Vostra
maestà è come Cesare, che non dimenticava mai un nome”.
Non mi è mai piaciuto godere degli aspetti ridicoli degli altri.
La timidezza è stata il flagello di tutta la mia vita; pareva ottenebrarmi
persino i sensi, legarmi la lingua, annebbiarmi i pensieri, sconvolgere la
mia espressione. Ero meno soggetto a tali manchevolezze dinanzi alle persone
d’ingegno che non dinanzi agli sciocchi, poiché speravo che quelli
mi capissero, e questo mi rassicurava.
Se conoscessi una cosa utile alla mia nazione che però fosse deleteria
per un’altra, non la proporrei al mio principe, poiché, prima
d’essere un francese, sono un uomo, (o meglio) perché sono necessariamente
un uomo, mentre sono francese solo per caso.
Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile, ma risultasse pregiudizievole
per la mia famiglia, la scaccerei dalla mia mente. Se conoscessi qualcosa
di utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo.
Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all’Europa,
oppure di utile all’Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo
considererei un delitto.
Ho fatto molte sciocchezze in vita mia, ma mai delle cattiverie.
Quando vedo un uomo di merito, non lo scompongo mai nelle sue caratteristiche;
mentre scompongo sempre un uomo mediocre che possieda alcune buone qualità.
Invidia. Ovunque io la trovi, mi
diverto ad esasperarla. Dinanzi ad un invidioso lodo sempre coloro che lo
fanno impallidire... Che meschinità sentirsi scoraggiato dalla felicità
degli altri ed oppresso dalla loro buona sorte!
Non sposo le opinioni, all’infuori di quelle dei libri d’Euclide.
Avrei agevolmente messo in pratica i dettami della religione pagana: bastava
inginocchiarsi dinanzi a qualche statua.
Che cosa vuol dire essere moderati nei propri principi! In Francia sono considerato
poco religioso, e in Inghilterra troppo.
Se avessi l’onore di esser papa, manderei a quel paese tutti i maestri
di cerimonie, e preferirei essere un uomo piuttosto che un Dio.
Ad uno che parlava male di un mio amico, dicevo: “Criticate me, ma lasciate
in pace i miei amici”.
Detesto Versailles, perché là tutti sono piccini. Amo Parigi,
perché là tutti son grandi.
Mi piace stare a La Brède, perché a La Brède mi par di
avere il mio denaro sotto i piedi. A Parigi, invece, mi par di averlo sulle
spalle. A Parigi, dico: “Devo spendere solo questo”. Nelle mie
campagne invece dico: “Devo spendere tutto questo”.
Ci sono persone che per conservarsi in salute usano purgarsi, farsi salassi
etc. Il mio regime, invece, è solo quello di stare a dieta se ho fatto
degli eccessi, di dormire se ho vegliato, e di non preoccuparmi troppo né
per i dispiaceri, né per i piaceri, né per il lavoro, né
per l’inattività.
Dio mi ha dato il bene ed io mi sono procurato il superfluo.
Se fossi nato in Inghilterra, non mi consolerei di non aver fatto fortuna.
In Francia, non sono assolutamente dispiaciuto di non averla fatta.
Non chiedo alla mia patria pensioni, onori, privilegi; mi trovo ampiamente
ricompensato dall’aria che vi respiro, e vorrei soltanto che non la
si alterasse.
Quando giunsi a Vienna, il conte Kinski mi disse: “Troverete molto brutto
il palazzo dell’imperatore”. Io gli risposi: “Signore, non
dispiace vedere il brutto palazzo di un principe quando sono belle le case
dei suoi sudditi”.
Mi rimangono soltanto due impegni: l’uno, saper essere malato; l’altro,
saper morire.
Mi piace leggere un libro nuovo dopo che il pubblico ha espresso il suo giudizio;
ossia preferisco giudicare dentro di me il pubblico piuttosto che il libro.
Ho la malattia di scriver libri e di vergognarmene una volta che li ho scritti.
Dicevo: “Vorrei essere il confessore della verità, non il martire”.
Dicevo: “Ho capito una cosa che già sospettavo, ossia che per
viver bene con tutti non bisogna aver troppe pretese. Se uscite dai quattro
muri della vostra camera, vi sparano. Se tornassi al mondo, vorrei soltanto
scaldarmi d’inverno e mangiar gelati d’estate”.
Porrei sempre fra i miei precetti di non parlare mai di sé inutilmente.
Massima mirabile: non parlar più delle cose quando sono state fatte.
Quanto all’abbigliamento, (dicevo), bisogna sempre mantenersi al di
sotto delle proprie possibilità.
Condizione umana e costumi delle genti
I Greci dicevano: “Solo a Sparta è bello invecchiare”.
Io dicevo: “Solo a Vienna è bello invecchiare”. Avevano
amanti anche le sessantenni, e pure quelle brutte! Insomma, a Vienna si muore,
ma non s’invecchia mai.
La fortuna è una condizione, non un bene;
è cosa buona solo in quanto ci espone agli sguardi altrui e può
renderci più attenti; ci porta più testimoni e, di conseguenza,
più giudici; ci obbliga a renderne conto. Ci si viene a trovare in una
casa dalle porte sempre aperte, in palazzi di cristallo, scomodi perché
fragili, e scomodi perché trasparenti.
Un uomo di umili
origini si tormenta allo stremo per far fortuna, ossia per ritrovarsi nella
condizione in cui arrossirà per tutta la vita delle sue origini e del
tormento di quest’idea.
È positivo che al mondo vi
siano beni e mali: altrimenti ci dispereremmo nel lasciare questa vita.
Procuste: “Proseguo con la mia riforma. Sapete che tutti gli
uomini che acchiappo li pongo lunghi distesi sul mio letto. Si allungano quelli
troppo bassi, e si accorciano le gambe di quelli che sono troppo alti. Vedete!
Voglio che tutti gli uomini siano fatti come me. Ma essi sono così
testardi che pretendono tutti di conservare la propria statura...”.
Un uomo non è infelice perché ha
dell’ambizione, ma perché ne è divorato.
L’orgoglio è uno specchio sempre favorevole:
diminuisce i nostri difetti e accresce le nostre virtù; è un altro
senso dell’anima, che le procura ad ogni istante nuove soddisfazioni.
Cerchiamo di adattarci a questa vita, a cui non spetta di adattarsi
a noi. Cerchiamo di non essere troppo vuoti, né troppo pieni.
Osservate come la maggior parte delle cose che ci fanno piacere
siano irragionevoli.
L’attesa è una catena che unisce
tutti i nostri piaceri.
Il timore accresce le nostre pene,
così come il desiderio accresce i nostri piaceri.
A nessuno
piace essere considerato un nulla in società.
Non devono
ferirci i segni d’indifferenza, ma piuttosto quelli di disprezzo.
Di solito, è così poca la differenza tra uomo e uomo
che non c’è motivo d’esser vanitosi: alcuni hanno la gotta,
altri il mal della pietra. Alcuni muoiono, gli altri moriranno. Hanno una stessa
anima per tutta l’eternità, e tali anime sono diverse soltanto per
lo spazio d’un quarto d’ora, ossia finché restano unite ad un
corpo.
Sono convinto che gli angeli non disprezzino tanto gli
uomini quanto questi ultimi si disprezzano a vicenda.
Le persone
estremamente fortunate ed estremamente sfortunate sono in egual misura inclini
alla durezza: lo testimoniano i monaci ed i conquistatori. Solo il giusto mezzo
o la mescolanza di buona e cattiva sorte possono muovere alla pietà.
Gli ambiziosi. La loro
ambizione è come l’orizzonte, che procede sempre davanti a loro.
In generale, è facile cogliere quel che è ridicolo,
ma si possiede un tatto raffinato quando si coglie ciò che è
ridicolo ad un certo punto, ossia
dinanzi ad ogni compagnia e ad ogni persona.
Ho conosciuto un
ecclesiastico che si faceva apprezzare perché grande e grosso. Mostrava
un’aria seria diffusa in tutte le dimensioni del suo corpo, e parlava
così poco che gli occorreva quasi un’intera giornata per dire tre
fesserie.
Si parla molto dell’esperienza della vecchiaia. La
vecchiaia ci libera dalle stoltezze e dai vizi della giovinezza, ma non ci
dà nulla.
È un vero peccato che sia troppo breve
l’intervallo fra il tempo in cui siamo troppo giovani e il tempo in cui
siamo troppo vecchi.
Triste è la condizione degli uomini!
Non appena lo spirito è al culmine della sua maturità, il corpo
comincia a indebolirsi.
La vita non è una commedia, che deve
avere necessariamente cinque atti: c’è chi ne ha uno, chi tre, chi
cinque.
Un capitale di modestia frutta ingenti interessi.
I nipoti sono figli quando lo vogliamo noi; i figli lo sono nostro
malgrado.
Un uomo onesto è un uomo che regola la sua vita
sui principi del dovere. Se Catone fosse nato sotto una monarchia fondata sulla
legge, sarebbe stato fedele al suo principe come lo fu alla repubblica.
Conosco un uomo che, se avesse impiegato nello studio il tempo e la
fatica che gli sono occorsi per farsi considerare sapiente, sarebbe uno degli
uomini più sapienti d’Europa.
Dissi: “Quando un
uomo s’è fatto una reputazione d’onestà e di
bontà, capita che si cerchi d’abusarne. Gli si fanno proposte che
mai si oserebbe fare ad un altro. Si conta sulla sua generosità”.
Il mondo è pieno di persone simili al Giano del mito, che
veniva rappresentato con due facce.
L’adulatore è uno
schiavo che non è buono per nessun padrone.
L’autorità
paterna ha in sé i propri limiti, perché man mano che i figli
escono dalla giovinezza, i padri entrano nella vecchiaia, e la forza dei figli
aumenta man mano che il padre s’indebolisce.
Il modo di vestire e di alloggiare sono cose alle
quali non si deve riservare un’ostentazione eccessiva, né
un’eccessiva negligenza.
La tavola contribuisce non poco a
darci quella gaiezza che, unita ad una certa moderata familiarità,
è chiamata cortesia.
La
cortesia. Questa disposizione interiore ha prodotto in tutti i popoli un
cerimoniale esteriore che si chiama cortesia e amabilità, una sorta di codice
di leggi non scritte che gli uomini si ripropongono di osservare fra loro, ed
hanno convenuto di prendere come segno di stima l’uso che se ne faccia nei
loro confronti, e di offendersi qualora non le si osservino.
La regola principale è cercar di piacere
per quanto è possibile, senza sacrificare la propria onestà:
è infatti utile alla società che gli uomini conquistino credito e
ascendente gli uni sugli altri, cosa alla quale non si giungerà mai con
un umore austero e scorbutico. E la disposizione delle cose e delle menti in una
nazione civile è tale che un uomo, per quanto virtuoso, se fosse soltanto
rozzo, risulterebbe pressoché incapace di ogni cosa buona, e non
riuscirebbe, se non in pochissime occasioni, a mettere in pratica la propria
virtù.
L’amore del danaro avvilisce a tal punto un
principe da non lasciar più scorgere in lui nessuna virtù.
È ciò che fece diventare il padre del gran Condé la favola
d’Europa. Si raccontava, infatti, dell’avidità del padre
quanto delle azioni eroiche del figlio.
L’Avarizia.
È così sciocca che non sa neppure contare.
L’avaro ama il danaro in sé, non a
motivo dell’utilità che ne può ricavare. Ciò si
chiama appetere malum quia malum.
Dicevo ad un avaro:
“Fate bene ad ammassare danaro in questa vita, perché non si sa
quel che accadrà dopo la morte”.
L’avarizia si rafforza con
l’età, perché vogliamo godere sempre. Ora, in
gioventù possiamo godere dissipando, mentre nella vecchiaia possiamo
farlo solo conservando.
Del danaro dirò quel che si diceva
di Caligola, ossia che non c’era mai stato schiavo così buono e
padrone così cattivo.
Si deve conoscere il valore del
danaro: i prodighi non lo sanno, ma gli avari ancor meno.
Le
ricchezze rappresentano un torto che dobbiamo riparare, e potremmo dire:
“Scusatemi, se sono tanto ricco”.
Ci sono molte persone
che considerano necessario soltanto il superfluo.
Quei sapienti che
hanno tutta la loro scienza fuori dall’anima, e annunciano la saggezza
degli altri senza essere saggi essi stessi!
Non so come
capitò che un turco s’incontrasse, un giorno, con un cannibale.
“Siete molto crudele”, gli disse il maomettano, “voi mangiate
i prigionieri catturati in guerra”. “Che fate voi dei
vostri?”, replicò il cannibale. “Ah! noi li uccidiamo, ma,
una volta morti, non li mangiamo”.
Pare non esista popolo che non
abbia una sua particolare crudeltà, e ogni nazione sia impressionata
soltanto da quella delle altre nazioni, quasi la barbarie fosse un fatto di
costume, come le mode e gli abiti.
È sbagliato non dire la
verità quando si può: non sempre infatti la si dice quando si
vuole o quando la si cerca.
Quanto alle mode, le persone
ragionevoli devono essere le ultime a cambiare, ma non devono farsi attendere.
La guerra di Spartaco fu la più legittima che mai sia stata
intrapresa.
Gli Spagnoli dimenticarono i doveri dell’uomo ad ogni passo che fecero
nella conquista delle Indie, e il papa, che mise loro le armi in mano, che
consegnò loro il sangue di tanti popoli, li dimenticò ancor
di più.
Conversazione
Le conversazioni. Quasi tutti conoscono
gli inconvenienti in cui di solito s’incorre durante le conversazioni.
Mi limiterò a dire che dobbiamo aver presenti tre cose:
La prima è che parliamo dinanzi a persone che hanno una certa vanità,
proprio come noi, e che la loro soffre man mano che si soddisfa la nostra;
La seconda è che ci sono poche verità talmente importanti che
valga la pena di mortificare qualcuno e rimproverarlo di non conoscerle;
E, infine, che ogni uomo che s’impadronisce di tutte le conversazioni
è uno sciocco, oppure è uno che sarebbe felice di esserlo.
Lo spirito della conversazione è uno spirito particolare che consiste
in ragionamenti e vaneggiamenti brevi.
Non posso sopportare le persone che riportano continui trionfi sulla riservatezza
degli altri. (Insolenti.)
Oggi l’unico merito è quello di riuscir graditi nelle conversazioni
frivole e inutili. A tale scopo il magistrato lascia lo studio delle leggi,
e il medico si sentirebbe sminuito da quello della medicina. Si rifugge, quasi
fosse un male pernicioso, da ogni studio che possa allontanare dallo scherzo.
Il bon ton nei discorsi e nei modi
è (dicevo) il corrispettivo del non
avere accento nel parlare.
Nelle conversazioni, non ci si deve sovrapporre di continuo: sarebbero faticose.
Bisogna procedere insieme. Anche se non si procede fianco a fianco, né
sulla stessa linea, si compie tuttavia lo stesso percorso.
Lo spirito della conversazione è quello che viene definito spirito dai Francesi. Consiste in un dialogo generalmente allegro, in cui ciascuno,
senza ascoltarsi troppo, parla e risponde, e in cui tutto è trattato
in modo rapsodico, immediato e vivace. Lo stile ed il tono della conversazione
s’imparano, ossia s’impara lo stile del dialogo. Ci sono popoli
presso i quali lo spirito della conversazione è affatto sconosciuto:
sono quelli ove non si vive insieme, o i cui costumi sono basati sulla massima
austerità.
Quello che viene definito dai Francesi spirito non è dunque spirito, bensì un suo genere particolare. Lo spirito,
in sé, è il buon senso unito alla chiarezza. Il buon senso è
il giusto confronto delle cose, e la distinzione delle medesime nel loro stato
effettivo e nel loro stato relativo.
Mi adatto alle persone a cui piace far ridere tutti, e che s’incaricano
del divertimento generale.
Si scherza su tutto, perché tutto ha il suo rovescio.
In generale, un uomo che non parla non pensa. Mi riferisco a chi non ha motivi
per non parlare. Ciascuno è ben contento di esprimere quel che reputa
un pensiero valido; gli uomini sono fatti così.
Bisogna lasciare i salotti un attimo prima di rendersi ridicoli. Così
si usa in società.
Cristianesimo
Religione cristiana. Invano il
paganesimo si sforzò di distruggerla. Essa divenne dominante perché
superiore alla genialità dei principi, alla severità dei magistrati,
alla gelosia dei preti e alla superstizione dei popoli.
Nell’impero romano, i
primi cristiani apparivano bizzarri come oggi i quaccheri.
Costantino commise un errore
concedendo l’autorizzazione alla giurisdizione ecclesiastica, che i
cristiani avevano introdotto fra loro dai tempi degli imperatori
pagani.
Per i loro processi, i cristiani non potevano sostenere una causa
in giudizio dinanzi ai pagani: avrebbero infatti dato una cattiva impressione
circa lo spirito di carità esistente fra loro.
A proposito degli orrori e delle tirannie degli imperatori romani, turchi
e persiani, dicevo ch’è ammirevole come la religione cristiana,
che tende solo a renderci felici nell’altra vita, possa renderci felici
anche in questa. Un re non teme più che il fratello gli tolga la corona,
e il fratello non ci pensa affatto. Ciò deriva dal fatto che i sudditi,
in generale, sono divenuti più disciplinati e i principi meno crudeli.
Benché la religione cristiana non abbia prodotto molti principi virtuosi,
ha nondimeno mitigato la natura umana: ha fatto sparire i Tiberi, i Caligola,
i Neroni, i Domiziani, i Commodi e gli Eliogabali.
Cristiano è, di solito, chi conosce la storia della propria setta (sia
cattolico, calvinista o luterano), ma non chi osserva i precetti della propria
setta. È come essere spagnoli o francesi: si appartiene ad una patria,
ma non si sa preferire il bene di quella patria al proprio.
Critici
Di alcuni autorucoli che mi criticavano, dissi: “Io sono una grande
quercia ai piedi della quale i ranocchi vengono a spargere il loro veleno”.
Mi lamentavo di un’infinità di critiche malevoli sul mio Spirito
delle leggi, critiche che derivavano dal fatto che non mi avevano capito.
Ma m’ingannavo: esse derivavano dal fatto che non volevano capirmi.
Un’infinità di menti meschine aveva da spacciare dei luoghi comuni
di morale.
Sull’abate Laporte[7], che aveva scritto
contro lo Spirito delle leggi per
ricavarne qualche pezzo da ventiquattro soldi da un editore, dicevo: “Un
uomo che lotta per chiarire le proprie idee non si compromette con un uomo
che lotta per vivere”.
Le opere non prodotte dall’ingegno provano
soltanto la memoria o la pazienza dell’autore.
I critici
hanno il vantaggio di scegliere il proprio nemico, di attaccare nel punto debole
tralasciando quello forte, e di rendere quanto meno problematico ciò che
l’altro aveva affermato come certo.
Si comportano come quei cattivi
generali che, se non riescono a conquistare un paese, ne inquinano le acque.
Nelle critiche, bisogna aiutarsi, non distruggersi: cercare il
vero, il buono, il bello, illuminare o riflettere (riflettere e restituire) la
luce secondo la sua natura, e non eclissare, se non per caso.
Non consiglierei di dedicarsi completamente
alla critica. Contro Catone Cesare ne aveva scritto tre libri, che sono andati
perduti e non hanno potuto esser strappati al disprezzo che i posteri sempre
riservano a questo genere di opere, né per la gran fama di Cesare,
né per quella di Catone:
Hoc
miserae plebi stabat comune sepulcrum[8].
Quando ci si dedica all’arte della critica, e si vuole orientare il
gusto o il giudizio del pubblico, bisogna esaminare se, una volta che il pubblico
abbia ben riflettuto e deciso, ne abbiamo spesso condiviso il parere: i giudizi
del pubblico, infatti, suggellati dal tempo, sono quasi sempre validi.
Più si esigeva dagli autori, meno si esigeva dai critici.
Non si devono criticare i poeti per i difetti della poesia, né i metafisici
per le difficoltà della metafisica, né i fisici per le incertezze
della fisica o i geometri per l’aridità della geometria.
Abbiamo visto certi intellettuali denigrarsi reciprocamente con libelli tanto
abominevoli che non esistono, in natura, talenti così grandi che possano
salvare un uomo dall’umiliazione di averli scritti.
Alla fine il pubblico rende giustizia. Eccone la ragione: il plauso delle
persone sagge è costante, ma i consensi dei folli sono mutevoli, variano
di continuo e si distruggono vicendevolmente.
I critici sono come quel pittore che aveva dipinto un gallo e proibiva che
i suoi apprendisti lasciassero avvicinare i galli al suo quadro.
Dio
Dio c’inganna forse perché i sensi, testimoni infedeli, ad ogni
istante ci tradiscono? No di certo! Forse Dio non ha voluto che avessimo una
maggior certezza delle cose perché conoscessimo meglio la nostra debolezza.
Quanto agli atei di Bayle, ben poca riflessione è sufficiente all’uomo
per guarire dall’ateismo. Basta che consideri il cielo, e vi troverà
una prova inoppugnabile dell’esistenza di Dio [...]. Quel ch’è
certo è che l’ipotesi di Epicuro è insostenibile, perché
attacca l’esistenza di un essere il cui nome è scritto dappertutto.
Dio, puro spirito, non poteva farsi conoscere dagli uomini mediante un’idea
o un’immagine che lo rappresentasse. Non poteva neppure farsi conoscere
se non mediante il sentimento, allo stesso modo in cui si fa percepire dagli
Angeli e dai Beati del Cielo. Ma poiché una letizia così grande,
ch’è la gioia suprema, era una grazia che l’uomo doveva
meritare prima d’ottenerla, e che pure poteva acquisire solo attraverso
pene e sofferenze, Dio scelse un terzo mezzo per farsi conoscere, ossia quello
della fede e, con essa, se all’uomo non diede delle conoscenze chiare,
per lo meno gl’impedì di cadere nell’errore.
Tutte le persone infelici hanno fatto ricorso a Dio, spesso da punti di vista
umani. Chi è condotto al supplizio si augura che ci sia un Dio che
lo vendichi dei suoi nemici [...]. Le nostre disgrazie ci fanno ricorrere
a quell’essere potente, mentre la felicità ce lo fa fuggire o
temere. Siamo curiosi di conoscere la sua natura, perché siamo interessati
a conoscerla così come i sudditi cercano di sapere che cosa sia il
loro re, e come i domestici cercano di conoscere il loro padrone.
Un uomo diceva: “Non amo Dio perché non lo conosco, né
il prossimo, perché lo conosco”. Io non dico una tale empietà,
ma dico piuttosto che quelli che discutono sull’amor di Dio non sanno
quel che dicono, se distinguono tale amore dal sentimento di sottomissione
e da quello di riconoscenza verso l’essere onnipotente e benefico.
Mi pare che abbiamo due specie di spiriti forti: i maestrucoli, che negano
un Dio in cui credono, e certi predicatori, che predicano un Dio in cui non
credono.
Ciò che prova, a mio avviso, la necessità di una rivelazione
è l’insufficienza della religione naturale, derivante dal timore
e dalla superstizione propri degli uomini: se infatti oggi li poneste semplicemente
in uno stato di religione naturale, domani cadrebbero in qualche grossolana
superstizione.
Dispotismo
Dispotismo. I re d’Europa
non devono esporsi al dispotismo asiatico, poiché quella misera fortuna
di poter disporre di decisioni irrevocabili è acquisita a tal prezzo
che un uomo di buon senso non può desiderarla.
I re d’Europa governano come uomini, ma godono di una condizione inalterabile,
analoga a quella degli dei.
I re dell’Asia governano come dei, ma sono di continuo esposti alla
fragilità della condizione umana.
Monarca d’Oriente, che
vuole la felicità solo per sé! Pretende tutto il potere e di
godere da solo dei piaceri; ma spesso non ha il potere, e mai i piaceri: i
piaceri di un momento e i dispiaceri di un giorno. Infelice, passa la vita con
se stesso, perché vuole che tutto l’universo passi la sua vita con
lui; vive nel silenzio di tutto quanto lo circonda, comanda e non può
parlare, cerca l’obbedienza cieca e trova soltanto una spaventosa
solitudine.
La ragione per cui la maggior
parte dei governi della terra sono dispotici è che un simile governo
salta agli occhi ed è ovunque uniforme. Dal momento che, per instaurarlo,
bastano delle passioni violente, tutti ne sono capaci. Per istituire un governo
moderato, invece, occorre combinare i poteri, temperarli, farli agire e
regolarli; rafforzarne uno per consentirgli di resistere ad un altro; insomma,
occorre realizzare un sistema.
Mi dicevano che i principi
dispotici devono essere migliori perché, essendo gli uomini loro
proprietà, devono temere di perderli. Rispondo che la perdita è
poca cosa a confronto della soddisfazione di abbandonarsi alle proprie passioni.
D’altronde, i vantaggi del dispotismo fanno sì che il principe
s’immerga nei piaceri, non governi affatto e lasci tutto il potere nelle
mani dei ministri. Ma gli uomini non appartengono al ministro.
Dirò ai principi:
“Perché vi affaticate tanto per estendere il vostro dominio?
È forse per accrescere il vostro potere? Ma l’esperienza di tutti i
paesi e di tutti i tempi mostra, viceversa, che così l’indebolite.
È forse per far del bene? Ma quali sono i popoli e le leggi tanto stolti
da impedirvi di fare il bene? Dunque, è per far del male.
Qualora
foste buoni e giusti, d’altronde, non dovreste desiderare un dominio
illimitato: se siete un buon principe, infatti, amate la vostra patria, e se
l’amate, dovete temere per essa. Ma qual motivo avete di credere che tutti
i vostri successori saranno giusti quanto voi?
Se amate anche il vostro
successore, non vi affannate a lasciargli un dominio illimitato, così
come un padre che ama il proprio figlio non cerca di privarlo della presenza di
un uomo saggio che l’istruisca.
Non bisogna combattere il
dispotismo con dichiarazioni enfatiche, ma mostrando come esso tiranneggi il
despota stesso.
Il dispotismo si distrugge da
solo.
Nelle monarchie dispotiche, le
leggi rappresentano soltanto la volontà effimera del principe.
Negli Stati dispotici, la
tranquillità non è pace: somiglia al silenzio delle città
che stanno per essere occupate dal nemico.
Nel governo dispotico, il commercio è basato sulla necessità
contingente di quanto la natura richiede per il nutrimento e il vestiario.
Donne
Madame de R. si lagnava di qualche brufolo. Le dissi: “Che sono mai
dei brufoli su un viso che ha, dietro di sé, un’anima così
bella!”
Una madre ha perduto la sua bellezza? La vedete inorgoglirsi per quella della
figlia.
Quanto alla bellezza delle donne, ci sono pochi uomini che, acquietate le
loro passioni, non provino maggior trasporto verso un bel ritratto che non
alla vista dell’originale.
La galanteria. La mancanza di buone
maniere verso le donne è sempre stato il segno più certo della
corruzione dei costumi.
Occorre molto spirito per la galanteria e per preparare alle donne conversazioni
ch’esse siano in grado di sostenere.
Secondo me, le donne fanno molto bene ad essere meno brutte possibile. E sarebbe
un bene che fossero tutte brutte o tutte belle, onde por fine all’orgoglio
della bellezza e alla disperazione della bruttezza.
Nelle donne giovani, la bellezza supplisce allo spirito; nelle vecchie, lo
spirito supplisce alla bellezza.
In certi giorni, anche nelle
donne più graziose, mi par di vedere come saranno quando diverranno
brutte.
Le donne sono false. Ciò deriva dalla loro
subordinazione: più aumenta la subordinazione, più aumenta la
falsità. Accade come per i dazi: più li elevate, più
aumenta il contrabbando.
Spesso le donne sono avide per
vanità e per mostrare quanto si spenda per loro.
A una casa
basta la presenza di una donna gentile per renderla rinomata e porla al livello
delle case più importanti.
Ci sono invece case illustri che si
conoscono appena solo perché, da due o tre secoli, non hanno avuto una
donna notevole.
Tutti i mariti sono sgradevoli.
Si
dice che i Turchi hanno torto, e che le donne vanno guidate, non già
tiranneggiate. Quanto a me, dico che bisogna ch’esse comandino, oppure che
obbediscano.
Non sono ancora due secoli che le donne francesi hanno
cominciato a portare le mutande, ma ben presto, peraltro, si sono liberate di
quell’impedimento.
Le principesse parlano molto
perché vi sono state abituate fin da piccole.
Mi viene di
paragonare le dame della regina o della delfina, che si vestono due o tre volte
per comparire dinanzi a loro, ai commedianti che fanno la parte delle guardie e
si vestono per sentirsi dire: “Ehilà! Guardie, via!”.
Le Spagnole. La Spagna
è un paese caldo, ma le donne sono brutte. Il clima è fatto per
favorire le donne, ma le donne sono fatte per contraddire il clima.
Con le donne si deve rompere di netto: nulla è
insopportabile quanto trascinare una vecchia storia.
Non
c’è donna di cinquant’anni che abbia così buona
memoria da rammentare tutte le persone con cui ha litigato, e con cui si
è poi riappacificata.
Le donne che [a Corte]
cambiano abito quattro volte al giorno somigliano a quelle commedianti che, dopo
aver recitato nel ruolo dell’imperatrice in un’opera teatrale,
corrono a cambiarsi per recitare quello della servetta in un’altra.
Giacché è
proibita la poligamia, ed è pure proibito il divorzio da una sola donna,
si deve necessariamente proibire il concubinato. Chi, infatti, avrebbe voluto
sposarsi, se fosse stato consentito il concubinato?
Le femmine degli animali hanno una fecondità quasi costante, sicché
si può calcolare all’incirca quanti piccoli una femmina procreerà
in tutta la sua vita. Nella specie umana, invece, le passioni, le fantasie,
i capricci, gl’inconvenienti della gravidanza e quelli di una famiglia
troppo numerosa, nonché il timore di perdere il proprio fascino, si
oppongono alla moltiplicazione della specie.
Felicità
Mi pare che la natura abbia lavorato per degli ingrati: siamo felici, ma
i nostri discorsi sono tali che sembriamo non rendercene conto.
Bisognerebbe convincere gli uomini della felicità ch’essi ignorano,
anche quando ne godono.
Per essere felici, occorre avere un oggetto, poiché è il mezzo
onde dar vita alle nostre azioni. Esse divengono ancor più importanti
a seconda della natura dell’oggetto e, in tal modo, occupano maggiormente
la nostra anima.
Ecco un bel motto di Plutarco: “Sì! Se la felicità fosse
in vendita!”.
Coloro che, per condizione, non hanno occupazioni necessarie, devono cercare
di procurarsene. La più adeguata alle persone colte è la lettura,
che occupa qualche ora la quale, altrimenti, risulterebbe insopportabile nel
vuoto di ogni giorno, e che spesso riesce a rendere deliziose le ore che vi
s’impegnano.
Si è più felici per i divertimenti che per i piaceri. I divertimenti,
infatti, distraggono egualmente dalle pene e dai piaceri.
Se siamo destinati ad annoiarci, facciamolo con cognizione di causa, e per
questo valutiamo adeguatamente i piaceri che perdiamo, e non sottovalutiamo
quelli che possiamo procurarci.
Non occorre molta filosofia per essere felici: si devono soltanto assumere
idee un poco sane.
Ho visto persone morire di dolore perché non venivano affidati loro
degli impieghi che sarebbero state costrette a rifiutare, se mai glieli avessero
offerti.
Le vere afflizioni hanno le loro delizie; le vere afflizioni non annoiano
mai, perché occupano grandemente l’anima. È un piacere
quando osano parlare; è un piacere anche quando tacciono, ed è
un piacere così grande che non si può distrarre nessuno dal
suo dolore senza procurargli un dolore più cocente.
Alla lunga anche la gioia stanca: richiede troppe energie; e non si deve credere
che le persone che sono sempre a tavola o a giocare provino più piacere
delle altre. Sono là perché non potrebbero stare altrove, e
là s’annoiano per annoiarsi meno che da un’altra parte.
Se sono triste, la gioia altrui m’affligge perché mi distoglie
dal piacere che provo nell’abbandonarmi alla mia tristezza. Mi si fa
dunque una violenza, che è una sorta di dolore.
Chiamiamo piacere solo ciò
che non è abituale. Se provassimo di continuo il piacere di mangiare
con appetito, non lo chiameremmo piacere,
bensì esistenza e natura.
Non bisogna dire che la felicità è quel momento che non vorremmo
cambiare con un altro. Diciamo piuttosto che la felicità è quel
momento che non vorremmo cambiare col non-essere.
Se ci accontentassimo di essere felici, sarebbe presto fatto. Ma pretendiamo
d’esser più felici degli altri, e questo è quasi sempre
difficile, giacché reputiamo gli altri più felici di quanto
non siano.
Chi sono le persone felici? Lo sanno gli Dei, perché leggono nel cuore
dei filosofi, dei re e dei pastori.
Ho sentito dire dal cardinal Imperiali[9]:
“Non c’è uomo che non venga visitato dalla fortuna almeno
una volta nella vita. Ma, quando essa non lo trova pronto a riceverla, entra
dalla porta ed esce dalla finestra”.
Ho sempre visto che, per riuscire al meglio nel mondo, bisognava avere un’aria
stupida, ma esser saggi.
Anche se l’immortalità dell’anima fosse un’illusione,
mi dispiacerebbe molto non crederci. Non so come la pensino gli atei. (Ammetto
di non essere umile come gli atei.) Ma, per quanto mi riguarda, non intendo
cambiare (e non la cambierò) l’idea della mia immortalità
con quella della felicità di un sol giorno. Mi affascina non poco credermi
immortale come Iddio stesso. Indipendentemente dalle verità rivelate,
certe idee metafisiche suscitano in me una speranza straordinaria della mia
felicità eterna, alla quale non vorrei proprio rinunciare.
Filosofi e filosofia
Una volta si era filosofi a buon mercato: così poche erano le verità
note, e si ragionava su cose tanto vaghe e generali.
Tutto ruotava attorno a tre o quattro quesiti:
Quale fosse il sommo bene.
Quale fosse il principio delle cose: il fuoco, l’acqua, i numeri.
Se l’anima fosse immortale.
Se gli Dei governassero l’universo.
Chi si fosse impegnato in qualcuna di siffatte questioni, veniva subito considerato
un filosofo, per poca barba che avesse...
Non soltanto le letture serie sono utili, ma anche quelle piacevoli, poiché
c’è un momento in cui tutti abbiamo bisogno di un sano divertimento.
Anche gli studiosi devono essere ripagati piacevolmente delle loro fatiche.
Pure le scienze traggono vantaggio dall’essere trattate in modo elegante
e con gusto. È bene dunque scrivere su tutti gli argomenti e in tutti
gli stili. La filosofia non deve essere isolata: ha rapporti con tutto.
Non sono i filosofi che destabilizzano gli Stati, bensì quelli che
non lo sono abbastanza per conoscere la loro fortuna e goderne.
Dicevo a Madame du Châtelet[10]: “Voi
rinunciate a dormire per imparare la filosofia; dovreste invece studiare la
filosofia per imparare a dormire”.
Rimasi incredulo quando,
leggendo la Politica di Aristotele, vi
trovai tutti i principi dei teologi sull’usura, parola per parola. Credevo
li avessero messi loro. Ne ho parlato nello Spirito delle leggi. Ma a quei signori
non piace che si scoprano le loro fonti: le ignorano persino, così come
s’ignorava la sorgente del Nilo. Su questo punto, essi hanno protestato
vivacemente.
Gli Stoici credevano che il mondo dovesse perire
mediante il fuoco. Così gli spiriti furono preparati ad accogliere quella
profezia di Gesù Cristo, secondo cui la fine del mondo giungerà in
quel modo.
Nella maggior parte degli
autori, vedo l’uomo che scrive; in Montaigne, vedo l’uomo che pensa.
Un gentiluomo mio amico ha
scritto delle belle osservazioni su Montaigne. Ma io sono convinto che creda di
aver scritto egli stesso gli Essais:
invero, quando elogio Montaigne dinanzi a lui, assume un’aria modesta, mi
fa un breve inchino e arrossisce un poco.
È un principio
completamente falso quello di Hobbes secondo cui, avendo il popolo conferito
l’autorità al principe, le azioni di quest’ultimo sono le
azioni del popolo, e di conseguenza il popolo non può lagnarsi del
principe, né chiedergli conto in alcun modo delle sue azioni,
perché il popolo non può lagnarsi di se stesso. Così,
Hobbes ha trascurato il suo principio di diritto naturale, secondo il quale Pacta esse servanda. Il popolo ha
autorizzato il principe sotto condizione, l’ha nominato sulla base di una
convenzione. Il principe deve tenervi fede, e rappresenta il popolo solo come il
popolo ha voluto (o si presume aver voluto) che lo rappresentasse. Per di
più, è falso che chi viene delegato abbia lo stesso potere di chi
delega, e non dipenda più da questi.
Hobbes dice che, essendo il diritto naturale
null’altro che la libertà di fare quanto serve alla nostra
conservazione, la condizione naturale dell’uomo è la guerra di
tutti contro tutti. Ma, oltre ad esser falso che la difesa implichi
inevitabilmente la necessità dell’attacco, non bisogna supporre,
come fa lui, gli uomini caduti dal cielo, o usciti dalla terra armati di tutto
punto, quasi come i soldati di Cadmo, per distruggersi a vicenda: non è
questa la condizione degli uomini.
Locke ha detto: “Bisogna
perdere metà del proprio tempo per poter impiegare utilmente
l’altra”.
Opere di Voltaire: come quei visi mal
proporzionati che brillano di giovinezza.
Voltaire non scriverà mai buona storia: è come i monaci, che
non scrivono per l’argomento che trattano, ma per la gloria del loro
ordine; Voltaire scrive per il proprio convento.
Qualcuno raccontava tutti i vizi di Voltaire, e sempre rispondevano: “Ha
molto spirito!”. Ma qualcun altro, spazientito, esclamò: “Ebbene!
È un vizio in più”.
Dicevo che Voltaire era un generale che prendeva sotto la sua protezione tutti
i suoi “attendenti”.
Voltaire ha un’immaginazione imitativa: non vede mai una cosa se non
glien’è stata mostrata una parte.
Francesi
Nulla s’avvicina all’ignoranza della corte di Francia se non
quella degli ecclesiastici d’Italia.
In Italia dicevo: “I Francesi sono avari e prodighi; sono fiorentini
e milanesi insieme”.
Dicevo: “I Francesi sono presuntuosi, e gli Spagnoli pure. Gli Spagnoli
lo sono perché credono di essere grandi uomini; i Francesi perché
credono di essere amabili. I Francesi sanno di non sapere quello che non sanno;
gli Spagnoli sanno di sapere quello che, invece, non sanno. I Francesi disprezzano
quel che non sanno; gli Spagnoli invece credono di sapere quel che non sanno.
Quando si osservano gli uomini del nostro popolo, ci si stupisce di vedere
persone che non si considerano mai rovinate, ma che neppure si considerano
mai arricchite.
Quanto a me, mi reputo contento d’avere... mille lire da una rendita
che non devo a nessuno.
È la capitale, soprattutto, che crea i costumi dei popoli: Parigi crea
quelli francesi.
Dicevo: “A Parigi, nulla mi colpisce quanto la piacevole indigenza dei
gran signori e la noiosa opulenza degli uomini d’affari”.
È bello vivere in Francia: i piatti sono migliori che nei paesi freddi,
e l’appetito è migliore che nei paesi caldi.
Voglio fare un elenco delle volte in cui i Francesi sono stati cacciati dall’Italia,
e di quelle in cui ne sono stati cacciati per la loro impudenza nei confronti
delle donne. Nel mio estratto di Pufendorf, ho stimato che siano stati cacciati
nove volte, quasi sempre a causa della loro impudenza, senza contare quella
ritirata verso la Francia, dopo la battaglia di Torino, che derivò
esclusivamente dalla loro impazienza.
Gelosia
Solone innalzò un tempio alla Venere del popolo, che non lasciò
mai privo di sacerdotesse. Quando i Greci volevano implorare la protezione
di Venere, lo facevano mediante l’intervento delle cortigiane. Nella
guerra persiana, le cortigiane di Corinto si riunirono in assemblea e pregarono
per la salvezza della Grecia. Quando il popolo le chiedeva qualche grazia,
le prometteva in cambio di portare altre cortigiane al suo tempio.
Non ci si deve perciò stupire che quel genere di donne fosse tanto
considerato presso i Greci: esercitavano un ruolo nel mondo, avevano dèi
ed altari.
La gelosia era così poco diffusa presso i Romani che gli autori che
ci restano quasi mai parlano di tale passione; e l’eccesso giunse a
tal segno che il potere pubblico dovette punire i mariti per la loro smodata
indulgenza nei confronti delle mogli; e gli imperatori romani, nel continuo
abuso che fecero del potere, non si curarono della fedeltà delle proprie
mogli, quasi sempre accontentandosi di ripudiarle, e non di rado spingendo
oltre la loro tolleranza.
L’amore vuol ricevere quanto dà: è il più personale
di tutti gli interessi: si fanno confronti e conti; la vanità è
diffidente e mai abbastanza sicura.
Se nell’incertezza o nel timore di non essere amati, giungiamo a sospettare
qualcun altro di esserlo, proviamo una pena chiamata gelosia.
Ci viene assai più naturale attribuire il disprezzo di cui siamo oggetto
all’iniquità di un rivale piuttosto che ai nostri difetti: la
nostra vanità, infatti, ci soccorre sempre abbastanza da farci credere
che saremmo stati amati, se un altro non avesse agito contro di noi. Odiamo
chi si prende quel che crediamo esserci dovuto: in amore, s’immagina
che il solo pretenderlo lo legittimi.
Quando le donne sono tenute segregate, inevitabilmente accadrà che
ogni giorno si cerchi di segregarle ancor di più; allora l’effetto
si trasformerà esso stesso in causa, e la vigilanza diverrà
il motivo principale della vigilanza.
La pena di un uomo geloso deriva soprattutto dalla soddisfazione provata nell’esasperarlo.
Più un uomo è geloso, più grave è l’affronto
che riceve, e, per giusta conseguenza, più è geloso, più
ha ragione di esserlo, e più deve diventarlo.
Giova notare che, tranne alcuni casi derivanti da specifiche circostanze,
le donne non hanno mai preteso l’uguaglianza: esse, in effetti, godono
già di tanti altri vantaggi naturali che, per loro, un potere eguale
corrisponde sempre a un dominio.
Giustizia
Il modo di raggiungere la perfetta giustizia è quello di farla divenire
un’abitudine da osservare sin nelle minime cose, e da adattarvi il proprio
modo di pensare. Basti quest’esempio soltanto. È del tutto indifferente
alla società in cui viviamo che un uomo di Stoccolma o di Lipsia scriva
epigrammi buoni o cattivi, oppure sia un fisico valente o mediocre. Tuttavia,
se noi lo valutassimo, dovremmo cercar di dare un giudizio corretto per prepararci
a fare lo stesso in un’occasione più importante.
Le ricompense. Non intendo parlare
dei posteri di quei sei borghesi di Calais che s’offrirono di morire
per salvare la loro patria, e che Sacy[11] ha tolto dall’oblio. Non so che ne è stato dei discendenti della
donna che, al tempo di Carlo VIII, salvò Amiens. Quei borghesi sono
ancora borghesi. Ma, se mai nella nostra Francia c’è stato qualche
illustre mascalzone, state pur certi che i suoi posteri vivono fra gli onori.
La corruzione degli uomini è tale che viene prodigiosamente accresciuta
dalla speranza o dal timore che si può concepire nei confronti del
principe. Così, la condanna del criminale non è sempre una prova
del crimine dell’imputato, e a questo riguardo i principi non possono
aver la coscienza tranquilla, se non lasciano agire la giustizia dei tribunali
già esistenti senza crearne di speciali.
La parola giustizia è spesso
molto ambigua: diedero a Luigi XIII l’appellativo di giusto perché vide eseguire a sangue freddo le vendette del suo ministro;
era severo, non giusto.
Quasi tutte le virtù sono un particolare rapporto fra un determinato
uomo ed un altro; per esempio: l’amicizia, l’amor di patria, la
pietà sono rapporti particolari. Ma la giustizia è un rapporto
generale. Di conseguenza, tutte le virtù che distruggono tale rapporto
generale non sono virtù.
Inglesi
In Inghilterra, dopo aver visto un cane che giocava con le carte e con esse
rispondeva alle domande che gli venivano rivolte – disponendo le lettere
e combinando i nomi che gli chiedevano e, per così dire, scrivendo
–, quando scoprii i segni da cui dipendeva tutta quell’abilità,
ne fui, senza volerlo, dispiaciuto: la cosa mi fa capire quanto gli uomini
amino il meraviglioso.
Venivano sparse a terra delle lettere; l’istruttore parlava di continuo,
ma quando il cane poneva il naso sulla lettera occorrente, l’uomo smetteva
di parlare.
Inglesi. Ingegni singolari: non
imiteranno gli antichi, che pur ammirano, e le loro opere teatrali non somiglieranno
a prodotti regolari della natura, ma piuttosto a quei divertimenti in cui
essa ha seguito felici casi fortuiti.
Per esprimere una grande impostura, gli Inglesi dicono: “Ciò
è gesuiticamente falso, jesuiticaly
false”.
Gli inglesi sono ricchi e liberi, ma tormentati dal loro stesso spirito. Appaiono
disgustati e sprezzanti di tutto. Sono davvero infelici, pur avendo tanti
motivi per non esserlo.
Uno spiccato carattere degli Inglesi di ogni tempo è una certa impazienza
che il clima conferisce loro, e non permette loro di agire a lungo nello stesso
modo, né di sopportare a lungo le stesse cose: carattere che, in sé,
non è importante, ma che tale può divenire (e molto) quando
non è misto a debolezza, bensì a quel coraggio che il clima,
la libertà e le leggi gli conferiscono.
In Inghilterra sono convinti che la metà dei Francesi stia alla Bastiglia,
e l’altra metà all’Ospizio.
Dicevano che Law avesse in Francia molti nemici. “Sì”,
dissi, “e nemici che non aveva mai visto. Con quelli non è possibile
riconciliarsi”.
Quella di Enrico VIII è una vicenda assai crudele. Non un onest’uomo
durante tutto il suo regno! Fatta eccezione forse per Cranmer[12] e, di certo, per More. In questa congiuntura, si può vedere che i tiranni
che vogliono servirsi delle leggi sono tiranni quanto coloro che le calpestano.
Durante i diversi mutamenti di religione avvenuti in Inghilterra, gli ecclesiastici
delle differenti fazioni a turno si mandavano al rogo.
Credo risalga al tempo di Carlo II il processo fatto ad un uomo per aver detto
che il re d’Inghilterra non guariva gli scrofolosi.
Non stupisce che Londra s’ingrandisca: è la capitale di tre regni
e di tutte le imprese inglesi nelle due Indie.
L’Inghilterra è come il mare, ch’è agitato da venti
non fatti per cagionare naufragi, bensì per condurre in porto.
Cicerone, ne La natura degli dei,
osserva: “Se in Bretagna si vedessero delle case, non si direbbe forse
che ci sono degli uomini? E se si trovasse un orologio solare, non si direbbe
forse che là ci sono dei bravi artigiani? Dunque, quando si vede l’ordine
che c’è nell’Universo...”[13].
E’ singolare il fatto che, oggi, da quella barbara Bretagna provengano
gli orologi migliori del mondo (Pembroke[14]).
Islamismo
I profeti cristiani, che si segnalarono per la loro umiltà, stabilirono
ovunque l’uguaglianza. Maometto, che visse nella gloria, stabilì
ovunque la sottomissione.
Dopo che la sua religione fu portata in Asia, Africa ed Europa, si crearono
prigioni. Metà del mondo s’eclissò. Si videro soltanto
inferriate e chiavistelli. Tutto si velò di nero nell’universo,
e il bel sesso, sepolto insieme coi suoi incanti, pianse ovunque la propria
libertà.
Il 18 febbraio 1742, ho sentito dire dall’ambasciatore turco una cosa
davvero divertente. Io gli dicevo (da Locmaria[15],
dove cenavamo) che consideravo contrario ai principi del buon governo il fatto
che il Gran Signore (il Sultano) facesse strangolare i suoi pascià
quando gli pareva. “Li fa strangolare”, egli rispose, “senza
dirne il motivo onde non rivelare o far conoscere gli errori dei suoi sottoposti”.
Che ne dite di uomini che abbelliscono perfino la statua della tirannide?
I maomettani hanno tutti i giorni dinanzi agli occhi esempi d’avvenimenti
tanto inaspettati, fatti così straordinari, nonché gli effetti
di un potere arbitrario, che devono essere naturalmente portati a credere
nella dottrina di un destino inflessibile, che tutto governa. Nei nostri climi,
ove il potere è moderato, le nostre azioni sono normalmente guidate
dalle regole della prudenza, e la nostra buona o cattiva sorte è, generalmente,
la conseguenza della nostra capacità d’esser saggi. Non possiamo
concepire, dunque, una fatalità cieca.
Furono i maomettani (i mori di Spagna) a portare le scienze in Occidente.
Da allora non hanno mai voluto riprendersi quel che ci avevano dato.
L’estrema emozione con cui i maomettani considerano le cortigiane e
le ballerine bene mostra come li infastidisca la serietà del matrimonio.
Italiani
Quando ero a Firenze e vedevo le maniere semplici di quella città
– un senatore, il giorno, col suo cappello di paglia, la sera, col lanternino
–, ero incantato, facevo come loro e dicevo: “Sono come Cosimo
il grande”. Effettivamente, là si è governati da un gran
signore che si comporta da borghese, mentre altrove si è governati
da borghesi che si comportano da gran signori.
Un inglese, un francese, un italiano: tre caratteri.
I Veneziani non sono affatto socievoli. Quando andate a trovarli, non sapete
se entrare dalla porta o dalla finestra, se gli fate piacere o meno: la dissolutezza
là si chiama libertà.
Sisto V – col buon
governo dei suoi cinque anni di pontificato, l’austerità dei
costumi da lui introdotta, l’annientamento dei banditi e la costante
difesa delle leggi – si trovò in condizione di realizzare immense
opere a Roma, nonché di accumulare un ingente tesoro, suscitando
l’invidia degli Spagnoli.
I preti di Roma sono riusciti a rendere deliziosa anche la devozione con la
musica, che viene suonata incessantemente nelle chiese, e che è eccellente.
Vi sono accolte le opere più belle, e ne traggono profitto. A Roma,
gli amori dei due sessi sono vissuti con una libertà che altrove i
magistrati non consentono.
Quanto al governo, è il più mite possibile.
Il cardinal Corsini[16] ha detto che l’invenzione
delle parrucche ha mandato in rovina Venezia, perché i vecchi, nascondendo
i loro capelli bianchi, non si sono più vergognati di corteggiare le
donne. Io aggiungo che, nel Consiglio, non si è più distinta
l’opinione dei vecchi da quella dei giovani.
Leggi
Non c’è quasi mai stato un legislatore che, per rendere degne
di rispetto le sue leggi o la sua religione, non abbia fatto ricorso al mistero.
Gli Egiziani, iniziatori di ogni pratica religiosa, celavano con gran cura
i loro culti.
Non è sensato pretendere che l’autorità del principe sia
sacra e che, viceversa, non lo sia quella della legge.
Quello che per lo più rende gli uomini malvagi è che questi
vengono a trovarsi in circostanze ove sono più pressati dall’utilità
di commettere crimini che non dalla vergogna o dal pericolo di attuarli. Le
buone leggi possono rendere infrequenti siffatte circostanze, le cattive le
moltiplicano, mentre le leggi indifferenti lasciano tutte quelle che il caso
può produrre.
Ci sono tre tribunali che non vanno quasi mai d’accordo: quello delle
leggi, quello dell’onore e quello della religione.
Una cosa è giusta non perché è legge, ma deve esser legge
perché è giusta.
Il diritto delle genti si stabilisce fra le nazioni che si conoscono, e tale
diritto dev’essere esteso a quelle che il caso o le circostanze ci fanno
conoscere: si tratta di una regola che spesso è stata violata dai popoli
civilizzati.
Il numero infinito di cose che un legislatore ordina o proibisce rende i popoli
più infelici, non già più ragionevoli. Ci sono poche
cose buone, poche cattive, e un’infinità di cose inutili.
Come non occorrono precetti religiosi puerili, parimenti non occorrono leggi
inutili e relative a cose frivole.
Una cattiva legge obbliga sempre il legislatore a produrne molte altre, spesso
pessime anch’esse, per evitarne gli effetti negativi o, almeno, per
soddisfare il fine della prima.
La natura delle cose è tale che assai spesso l’abuso è
preferibile alla correzione, o, almeno, che il bene già stabilito è
sempre preferibile al meglio che non lo è ancora.
Come la molteplicità dei trattati fra i principi non fa altro che moltiplicare
le occasioni ed i pretesti di guerra, così, nella vita civile, la molteplicità
delle leggi non fa altro che dar adito a contestazioni da parte dei singoli
individui.
Essendo gli uomini malvagi, le leggi sono obbligate a presupporre ch’essi
siano migliori di quel che sono. Così, la deposizione di due testimoni
è sufficiente nel perseguimento di tutti i delitti. Così, ogni
figlio nato in costanza di matrimonio è considerato legittimo.
In uno Stato le pene saranno moderate, perché ogni pena che non derivi
dalla necessità è tirannica.
La legge non è un semplice atto di potere. Ogni legge inutile è
tirannica, come quella che obbligava i Moscoviti a farsi tagliar la barba.
Le cose per loro natura indifferenti non competono alla legge. Dal momento
che gli uomini amano appassionatamente seguire la propria inclinazione, la
legge che li frena è tirannica, perché impedisce la felicità
pubblica.
Ne risulta che le pene moderate hanno lo stesso effetto delle pene atroci
sugli spiriti abituati a queste ultime.
Non sono per nulla entusiasta dei privilegi degli ecclesiastici, ma vorrei
che non si commettessero ingiustizie nei loro confronti. Vorrei pertanto che
si definissero, una buona volta, i limiti della loro giurisdizione.
Letteratura
Ho preso la decisione di leggere solo buoni libri: chi legge libri senza
valore è simile ad un uomo che passa la vita con cattive compagnie.
La lettura dei romanzi è indubbiamente pericolosa. Ma che cosa mai
non lo è? Volesse Iddio che si dovessero correggere solo i cattivi
effetti della lettura dei romanzi!
Si può notare che, nei miei giudizi su autori diversi, tendo a lodare
più che a criticare. Quasi mai ho dato valutazioni se non degli autori
che stimavo, avendo per lo più letto soltanto, per quanto mi è
stato possibile, quelli che consideravo i migliori.
D’altronde, senza voler qui esibire buoni sentimenti, per tutta la vita
sono stato così tormentato da quei piccoli begli spiriti che m’hanno
rotto la testa con le loro critiche su quello che avevano letto male, e su
quello che non avevano letto, che credo di dovere in parte a loro lo straordinario
piacere che provo nel vedere un’opera eccellente, o nel vedere un’opera
bella che forse s’avvicina all’eccellenza, ed anche nel vedere
un’opera mediocre che si può rendere buona.
D’altra parte (lo confesso), non ho alcuna predilezione specifica per
le opere antiche o per le moderne, e tutte le discussioni a questo riguardo
mi dimostrano solo che esistono ottime opere sia fra gli antichi sia fra i
moderni.
Da venticinque anni lavoro ad un libro di diciotto pagine, che conterrà
tutto quel che sappiamo di metafisica e di teologia, e quel che i nostri moderni
hanno dimenticato negli immensi volumi che hanno scritto su quelle scienze.
Confesso il mio amore per gli antichi. M’incanta la civiltà antica
e, con Plinio, mi vien sempre da dire: “è ad Atene che andate.
Rispettate i loro Dei”[17].
Omero è stato teologo soltanto per essere
poeta.
Ammetto che una delle cose che più mi ha affascinato,
nelle opere degli antichi, è che essi raggiungono la grandiosità e
la semplicità insieme, mentre accade quasi sempre che i nostri moderni,
ricercando il grandioso, perdano in semplicità oppure, ricercando la
semplicità, perdano in grandezza. Negli uni mi par di vedere belle e
vaste campagne, in grazia della loro semplicità, laddove negli altri i
giardini di un uomo ricco, adorni di boschetti e di aiuole.
Osservate la
maggior parte delle opere degli Italiani e degli Spagnoli. Se cercano il
grandioso, forzano la natura anziché dipingerla. Se cercano la
semplicità, ben si vede ch’essa non riesce loro naturale, ma
voluta, e che non possiedono tale capacità perché mancano di
genio.
Fra tutti i generi poetici, quello in cui gli autori moderni
hanno, secondo me, eguagliato gli antichi è la poesia drammatica. Credo
d’intravederne la ragione nel fatto che la filosofia pagana vi è
presente in misura assai minore. Per sua natura, questo genere d’opera
è basato sul movimento. In essa tutto è, per così dire,
infiammato. Non c’è racconto, né qualcosa di storico che
necessiti di un intervento esterno. Tutto è azione. Tutto è
dinanzi agli occhi; non si deve interpretare nulla. La presenza degli dei
sarebbe urtante e poco verosimile. è uno spettacolo del cuore umano
piuttosto che delle azioni umane. Così, ha minor bisogno del
meraviglioso.
Lo stile del Telemaco [di Fénélon]
è incantevole, anche se carico di epiteti quanto quello di Omero.
Non so se gli antichi avessero menti migliori; ma, col mutare dei
tempi, capita che talora noi abbiamo opere migliori. E tuttavia, per giudicare
la bellezza d’Omero, occorre porsi nel campo dei Greci e non in un
esercito francese.
Può piacerci vedere la rappresentazione
dei costumi di un popolo barbaro, a condizione che vi si trovino passioni che ci
attirino e ci commuovano. Ci piace vedere le stesse nostre passioni su uno
sfondo diverso. Ma ci attira assai più sentire il visir Acomat parlare
del suo modo d’amare che non un Bajazet naturalizzato francese.
È pressoché
impossibile far delle buone tragedie nuove, perché quasi tutte le
situazioni appropriate sono già state sfruttate dagli autori antichi. Per
noi è una miniera d’oro oramai esaurita. Verrà un popolo che
sarà, verso di noi, quello che noi siamo nei confronti dei Greci e dei
Romani. Una lingua nuova, usanze e circostanze nuove produrranno un nuovo
repertorio di tragedie. Gli autori trarranno dalla natura quanto noi già
vi abbiamo preso, o anche dai nostri autori, e presto si esauriranno come ci
siamo esauriti noi.
Sofocle, Euripide, Eschilo
hanno in primo luogo portato il loro genio inventivo al punto che noi, da
allora, non abbiamo cambiato nulla delle regole che ci hanno tramandato; ed
hanno potuto farlo soltanto in virtù di una perfetta conoscenza della
natura e delle passioni.
Quelli che hanno una conoscenza superficiale
dell’antichità vedono nascere i difetti d’Omero insieme con i
tempi che lo seguirono.
Virgilio è inferiore ad
Omero (com’è noto) per la grandezza e la varietà dei
caratteri; è mirabile nell’invenzione ed eguale nella bellezza
della poesia. Belli sono i suoi primi sei libri [scil.
dell’Eneide]. Confesso
però che gli ultimi sei mi piacciono assai meno. Credo che le ragioni
siano, primo, che sei libri sono
troppi dopo l’arrivo in Italia: bisognava sbrigare la situazione con una
formula del tipo: sembra infatti che, quando Enea arriva, tutto finisca. Omero
non è incorso in questo errore: giunto Ulisse ad Itaca, il poema si
conclude quasi subito, anche se il lettore arde dal desiderio di sapere
com’egli verrà accolto. Il matrimonio di Lavinia risulta poco
interessante per il lettore, e neppure lo è la stessa Lavinia, dal
carattere freddo e spento, ben diverso da quello di Elena, così
straordinario sia per le sue avventure, sia per le dispute delle dee, sia per la
sua bellezza. Reputo che Turno non doveva essere sconfitto da Enea: il poeta ha
avuto bisogno ch’Enea vincesse, in quanto Enea non ha effettivamente
dovuto vincere. Mi pare ci siano da fare molte riflessioni su Virgilio,
lasciandogli peraltro tutto il merito che ha e che tanto giustamente gli
è stato tributato.
Virgilio e Orazio sperimentarono, ai tempi loro,
il peso dell’invidia. Lo sappiamo, ma soltanto dalle opere di quei grandi
uomini. Le satire che avevano scritto contro di loro sono andate perdute, mentre
le opere che erano state attaccate rimangono in eterno. Così muoiono gli
insetti che hanno fatto seccare le foglie degli alberi, i quali, al ritorno
della primavera, sempre rinverdiscono.
Quello che colpisce
maggiormente negli autori antichi è che gli episodi da loro narrati si
rassomigliano quasi tutti: c’è un principe che ha inventato qualche
arte; un altro che ha consultato un oracolo; un altro ancora che va a cercar la
figlia...
Difficoltà di
tradurre. Occorre innanzitutto conoscere bene il latino; poi bisogna
dimenticarlo.
Si deve sempre scegliere un argomento adeguato: il
talento che impiegate per un argomento sbagliato è come l’oro
sparso sull’abito di un mendicante; mentre un buon argomento pare
sollevarvi sulle sue ali.
S’impara molto fra la gente, ma
s’impara molto anche nel proprio studio, ove si apprende a scrivere con
ordine, a ragionare correttamente e a ben formulare i propri ragionamenti: il
silenzio che c’è intorno fa sì che si possa dare un seguito
a quanto via via si pensa. Fra la gente, invece, s’impara ad immaginare:
nelle conversazioni si affrontano tanti argomenti che fanno immaginare delle
cose; gli uomini vi appaiono allegri e piacevoli; si pensa senza pensare, ossia
si formulano idee a caso, che spesso, peraltro, sono quelle buone.
La bella prosa è simile a un fiume maestoso che fa scorrere
le sue acque, e i bei versi ad un getto d’acqua che scaturisca con
violenza: dall’impaccio dei versi nasce qualcosa che piace.
Le
trasposizioni sono consentite in poesia: e spesso le danno una certa
superiorità sulla prosa, perché la parola importante del pensiero
viene posta là dove colpisce maggiormente, e tutta la frase può
sostenersi su tale parola.
Occorre capire se un autore ha voluto
dire una verità o un motto di spirito. Quando Sant’Agostino ha
detto: “Qui te creavit sine te, non
te salvabit sine
te!”[18], ben si vede che
l’autore ha inteso fare un’antitesi.
Offrire immagini molto tangibili dà forza,
laddove presentare idee tratte dalle concezioni dell’animo dà
finezza.
Per scriver bene, occorre tralasciare le idee intermedie,
al fine di non apparire noiosi, ma senza esagerare, onde non incorrere nel
rischio di non essere intesi. Sono quelle felici soppressioni che hanno fatto
dire a Nicole che tutti i buoni libri sono doppi.
In
un’opera, l’ironia non dev’essere continua, altrimenti non
sorprende più.
Non bisogna mettere dell’aceto nei
propri scritti: bisogna metterci del sale!
Gli scrittori finiscono
sempre col logorarsi; come i pittori, hanno tre maniere: quella del loro
maestro, ossia della scuola; quella del loro genio, che fa eseguire loro delle
belle opere; e quella dell’arte, che nei pittori si chiama maniera.
Un’opera
originale quasi sempre ne fa comporre cinque o seicento altre; queste ultime si
servono della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro
formule.
Fontenelle dice assai bene: “I buoni stili ne formano
di cattivi”.
Nelle arti, e specie in poesia, ci sono talune
occasioni felici che non si riesce più a riafferrare.
Un
autore che scrive molto si considera un gigante e guarda a quelli che scrivono
poco come a dei pigmei; egli pensa che un autore che abbia scritto solo un
centinaio di pagine valide sia un uomo comune, che in tutta la sua vita ha
compiuto l’opera di un giorno.
Approvo la propensione del
popolo inglese verso le opere brevi, giacché da loro si pensa molto: fin
da principio si ritiene che sia già stato detto tutto. I popoli presso i
quali non si pensa affatto, invece, dopo aver parlato avvertono la propria
povertà, e che c’è ancora qualcosa da dire.
Dicevo: “Solo le opere banali annoiano, le cattive non le si
contano”.
Un gentiluomo che scriva Caratteri come La Bruyère deve
sempre fare dei quadri, non già dei ritratti; dipingere gli uomini e non
un solo uomo. Ciononostante, sarà sempre sospettato d’intenzioni
malevole, perché le applicazioni particolari sono sempre i primi commenti
degli stolti: sono facili e se ne fanno quanti se ne vuole, senza dire del fatto
che la loro malignità è più efficace.
I
più antichi autori di tutti i popoli sono sempre stati molto ammirati,
poiché per un certo periodo sono stati superiori a quanti li leggevano.
Che secolo è mai il nostro, in cui ci sono tanti giudici
(critici) e così pochi lettori!
Trattato sul bello.
Vitruvio scrive che a Roma gli affari pubblici e privati occupano la gente a tal
punto che sono pochi ad aver l’agio di leggere un libro, a meno che non
sia assai breve. Io potrei dire che, nella nostra capitale, tutti sono
così occupati dalla quantità dei divertimenti che non
c’è più tempo per leggere.
Sono curioso per
natura di tutti i frammenti delle opere degli autori antichi, così come
piace scoprire lungo le rive i relitti dei naufragi, lasciati dal mare.
A
mio avviso, Cicerone è uno dei massimi intelletti mai esistiti: anima
sempre bella, quando non cedeva alla debolezza.
Ovidio è
magnifico nel dipingere le circostanze e, a riprova del fatto che non è
prolisso, appare rapido: in questo, può a ragione paragonarsi
all’Ariosto.
L’Ariosto raccolse i racconti
cavallereschi del suo tempo e ne fece un universo, così come Ovidio
raccolse le favole e ne fece un
universo.
Rabelais. Ogni
volta che ho letto Rabelais mi sono annoiato: non sono mai riuscito ad
apprezzarlo. Mi è piaciuto, invece, tutte le volte che l’ho sentito
citare.
Di Shakespeare dicevo: “Quando vedete un uomo
innalzarsi come un’aquila, è lui. Quando lo vedete strisciare,
è il suo secolo”.
Ci sono dieci o dodici
tragedie di Corneille e di Racine che non permettono mai di scegliere: quella
che si vuole rappresentare è sempre la migliore.
Il 6 aprile 1734 ho letto Manon Lescaut,
il romanzo del Padre Prévost. Non mi stupisce che quest’opera
– il cui eroe è un furfante, mentre l’eroina è una
prostituta condotta alla Salpétrière – piaccia, perché
tutte le azioni malvagie dell’eroe, il Cavaliere des Grieux, sono causate
dall’amore, ch’è sempre un motivo nobile, per quanto il
suo comportamento sia vergognoso. Anche Manon ama, e questo le fa perdonare
il resto del suo carattere.
Amare la lettura significa trasformare le ore noiose, che inevitabilmente
capitano nella vita, in ore deliziose.
Libertà
Come fra gli asiatici la schiavitù delle donne ha fatto nascere una
maggiore schiavitù, così la loro libertà, da noi, ha
fatto nascere una maggior libertà.
Un popolo libero non è quello che ha questa o quella forma di governo:
è bensì quello che gode della forma di governo stabilita dalla
legge, ed è indubbio che i Turchi si sarebbero sentiti schiavi se fossero
stati sottomessi dalla Repubblica di Venezia, e che i popoli delle Indie considerino
una crudele schiavitù l’esser governati dalla Compagnia d’Olanda.
Da ciò si desume che la libertà politica riguarda tanto le monarchie
moderate quanto le repubbliche, e che non è più distante da
un trono che da un senato: è libero ogni uomo che abbia un valido motivo
di credere che la follia di uno soltanto, o di molti, non lo priverà
della vita o della proprietà dei suoi beni.
La libertà, questo bene che fa godere degli altri beni.
La libertà pura è una condizione filosofica piuttosto che una
condizione civile. Ciò non impedisce che sussistano governi ottimi
e governi pessimi, e neppure che una costituzione sia meno perfetta se si
allontana in misura maggiore dall’idea filosofica di libertà
che noi possediamo.
Coloro che vivono in una monarchia o in un’aristocrazia saggia e moderata
paiono stare in grandi reti, ove sono stati catturati ma si considerano liberi.
Quelli che invece vivono in Stati meramente dispotici stanno in reti così
strette che subito avvertono d’esser stati catturati.
La schiavitù è
contraria al diritto naturale, secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi
e indipendenti.
La libertà è in noi un’imperfezione: siamo liberi e insicuri,
perché non sappiamo con certezza quel che per noi è più
conveniente. Non è così per Dio: essendo perfetto al massimo
grado, mai può agire se non nella maniera più perfetta.
Luigi XIV
I preamboli degli editti di Luigi XIV risultarono ai popoli più intollerabili
degli editti stessi.
Circa la meschinità dei cortigiani di Luigi XIV, dicevo: “Una
certa filosofia diffusa ai giorni nostri fa sì che i nobili di oggi
forse siano più furfanti, ma non così miserabili”.
Luigi XIV aveva l’anima più grande dello spirito. Madame de Maintenon
abbassava costantemente quell’anima per porla al suo livello.
[Luigi XIV] amò la gloria e la religione, ma per tutta la vita gli
fu impedito di conoscere l’una e l’altra. Non avrebbe avuto quasi
nessuno di tutti quei difetti, se fosse stato educato meglio, o se avesse
avuto un po’ più di spirito.
Luigi XIV. Possedeva perfettamente
tutte le virtù mediocri e l’inizio di tutte le grandi...; davvero
troppo poco spirito per un uomo importante: grande con i cortigiani e gli
stranieri, piccolo con i suoi ministri!
Quando vedo Luigi XIV che, guidato dai Gesuiti, ai suoi nemici affida sudditi,
soldati, mercanti, artigiani e tutto il commercio, mentre scaccia gli Ugonotti,
provo più pietà per lui che per gli Ugonotti.
Matrimonio
Com’è giusto l’odio che provate per il matrimonio! La
ragione vi ha fatto discernere ciò che agli altri solo l’esperienza
può far conoscere.
Nutriamo un certo timore di quel ridicolo che gli spiritosi di cattivo gusto
d’ogni paese hanno sparso sulle noie del matrimonio: tutti si son sempre
dilettati a prendere di mira una propensione che, se in un uomo viene rimossa,
porta poi a tutte le altre.
Una prova dell’incostanza degli uomini è stata la necessità
d’istituire il matrimonio.
Un tale mi consultava riguardo al suo matrimonio. Io gli dissi: “Gli
uomini, in generale, ritengono che voi commettereste una sciocchezza; ma la
maggior parte degli uomini, in particolare, decide il contrario”.
Medici e medicina
I medici sanno che certe malattie rendono l’uomo bizzarro, inquieto
e violento: è uno stato deplorevole, che ci dimostra come siamo decaduti
da una condizione più perfetta...
Il nostro corpo, come qualsiasi altro strumento, dura in proporzione all’uso.
Volentieri sollevo la questione se gli uomini ci abbiano davvero guadagnato
acquisendo l’abitudine di mangiare la carne degli animali, anziché
nutrirsi del loro latte e dei frutti della terra. Sono convinto che la loro
salute sia peggiorata.
Dicevo: “La cena uccide la metà di Parigi; il pranzo, l’altra”.
Dicevo: “I pranzi sono innocenti; le cene sono quasi sempre criminali”.
È singolare che le lane europee, così adatte ai nostri climi
più freddi, non siano quasi più in uso da noi per far posto
alle sete e ai cotoni del Tonchino, e siano viceversa esportate nel Tonchino,
ove la natura ha fornito tanta seta e cotone, di cui ci vestiamo noi a dispetto
del nostro clima.
Gli abitanti della Groenlandia si deliziano nel bere olio di balena. Ciò
dipende dal fatto che, in paesi tanto freddi, le fibre dello stomaco sono
abbastanza forti da tollerare il nutrimento dell’olio, che invece distruggerebbe
lo stomaco nei paesi del sud.
Non c’è nulla di meglio, per la salute, dell’andare a cavallo.
Così, chi ha inventato le sospensioni delle carrozze ha reso al pubblico
un pessimo servizio. Ogni passo di un cavallo produce una pulsazione al diaframma
e, nel corso di una lega, si possono contare circa quattromila pulsazioni
in più.
Chiedevano a Chirac[19] se i rapporti con
le donne fossero dannosi. Egli rispondeva: “No, purché non si
assumano droghe; ma avverto che il cambiamento è già una droga”.
Aveva ragione, com’è provato dai serragli dell’Oriente.
Qualcuno ha detto che la medicina cambia col cambiare della cucina.
È stato necessario che Molière facesse parlare Diafoirus per
convincere i medici della circolazione del sangue: il ridicolo ha un gran
potere, quando viene sparso a proposito.
Al popolo piacciono i ciarlatani, perché gli piace il meraviglioso,
e le guarigioni rapide hanno del meraviglioso. Se il guaritore empirico e
il medico hanno curato entrambi un malato, della sua morte il popolo assolverà
l’empirico, che ama, e accuserà il medico.
Non sono i medici che oggi mancano, bensì la medicina.
È molto divertente il fatto che in Inghilterra, quando non si sapeva
se l’inoculazione del vaiolo avrebbe avuto buon esito, tutti vollero
farselo inoculare, mentre adesso, che il successo è assicurato, non
ci pensa più nessuno. Piace aver fatto una cosa originale, e in più
ci si ostina su qualcosa che si vede contraddetto a sproposito o con ragionamenti
sbagliati, come in questo caso, nel quale i medici erano favorevoli e i teologi
contrari.
I medici sostengono che, per ogni ammalato uomo, ci sono due ammalate donne.
Pare che lo stesso si verifichi anche in campagna. Da ciò necessariamente
si desume che la metà delle malattie delle donne è immaginaria.
Non parlo dei parti, che sono incomodi volontari.
Metafisica
La metafisica presenta due aspetti assai seducenti.
Ben s’accorda con la pigrizia: la si studia ovunque, a letto, a passeggio,
etc.
D’altronde, la metafisica si occupa soltanto di cose importanti: vi
si discute sempre di grandi questioni. Il fisico, il logico, l’oratore
si occupano soltanto di argomenti limitati, mentre il metafisico s’impossessa
di tutta la natura, la governa a suo piacimento, crea e distrugge gli Dei,
dà e toglie l’intelligenza, pone o meno l’uomo nella condizione
delle bestie. Tutte le sue nozioni sono interessanti, perché si tratta
della tranquillità presente e futura.
Si parlava dell’esistenza di Dio. Io dissi: “Eccone una prova
in due parole: c’è un effetto, dunque c’è una causa”.
I teologi, per render chiara la teologia, hanno reso oscura la filosofia.
Hanno impiegato molti secoli per imbrogliare la filosofia.
Si vorrebbe non morire. Ogni essere umano è propriamente un susseguirsi
d’idee che non si vorrebbe interrompere.
Politica
Come il mondo fisico si mantiene
solo perché ogni parte della materia tende ad allontanarsi dal centro,
così anche il mondo politico si regge per l’intimo ed inquieto
desiderio che ciascuno ha di uscire dal luogo ove è collocato. Invano
una morale austera cercherebbe di cancellare i tratti impressi nelle nostre
anime dal più grande di tutti gli artefici. Alla morale, che intende
operare sul cuore dell’uomo, compete di regolare i suoi sentimenti,
non già di distruggerli.
Non c’è male maggiore, e che abbia conseguenze più funeste,
della tolleranza nei confronti della tirannide, che le consente di durare
indefinitamente.
L’unica differenza che sussiste fra i popoli civili e quelli barbari
è che gli uni si sono applicati alle scienze, mentre gli altri le hanno
completamente trascurate.
Forse è a tali conoscenze in nostro possesso – ignorate invece
dai popoli selvaggi – che la maggior parte degli Stati devono la loro
esistenza.
Se avessimo le usanze dei popoli d’America, due o tre Stati europei
avrebbero subito sterminato, o mangiato, tutti gli altri.
L’invenzione della polvere da sparo, in Europa, procurò vantaggi
talmente scarsi al paese che per primo se ne servì che, a dirla giusta,
non si sa ancora quale effettivamente sia stato.
Lo spirito proprio del cittadino è il desiderio di vedere l’ordine
nello Stato, di provar gioia nella pubblica tranquillità, nella corretta
amministrazione della giustizia, nella sicurezza dei magistrati, nella prosperità
di quelli che governano, nel rispetto per le leggi, nella stabilità
della monarchia o della repubblica.
Lo spirito proprio del
cittadino dev’essere quello di amare le leggi, pure allorquando presentano
casi che ci nuocciono, e di considerare il vantaggio generale che sempre ci
recano, piuttosto che il danno particolare che talora ci procurano.
Non si deve fare mediante le leggi quanto è
possibile fare mediante i costumi.
Il timore è una leva da
usare con prudenza: non si deve mai fare una legge severa quando ne basta una
più mite.
Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie.
Solo il Cielo può rendere devoti; i principi possono
soltanto rendere ipocriti.
Una prova decisiva che le leggi umane
non debbono ostacolare quelle della religione è che le massime religiose
sono assai pericolose quando le si fa entrare nella politica degli uomini.
C’è un’infinità di cose in cui il male
minore è la scelta migliore.
Il successo nella maggior parte
delle cose dipende dal conoscere bene quanto tempo occorra per riuscire nello
scopo.
Detestare lo spirito o, viceversa, considerarlo troppo: ecco
due cose che un principe deve evitare.
Non si deve far nulla che
non sia ragionevole, ma bisogna ben guardarsi dal fare tutte le cose che lo
sono.
Per tutta la vita ho visto persone che perdevano le loro
sostanze per ambizione e si rovinavano per avidità.
Non
penso affatto che un certo tipo di governo debba renderci avversi a tutti gli
altri. Il governo migliore è generalmente quello sotto cui si vive, e un
uomo sensato deve amarlo: in effetti, giacché è impossibile
cambiarlo senza cambiare modi e costumi, non comprendo, data l’estrema
brevità della vita, di quale utilità sarebbe per gli uomini
abbandonare, in tutti i loro aspetti, le consuetudini acquisite.
Un
principe privo di morale è sempre un mostro.
Gli Stati sono
governati da cinque cose differenti: la religione, le massime generali del
governo, le leggi particolari, i costumi, le maniere. Tali cose hanno fra loro
un rapporto reciproco. Se ne cambiate una, le altre si adattano solo lentamente,
il che provoca dappertutto una sorta di dissonanza.
Monarca
perfetto è quello che, giusto verso i sudditi, giusto pure nei confronti
dei vicini e costretto talvolta ad avere dei nemici, cessa d’essere
temibile per costoro non appena li ha vinti.
Per una crudele
fatalità, i principi più grandi sono quelli più scontenti
della loro fortuna.
Ora esorterò tutti gli uomini, nessuno
escluso, a riflettere sulla loro condizione e a trarne idee sane. Non è
impossibile ch’essi vivano sotto un buon governo senza rendersene conto:
la serenità politica è di tal genere che la si riconosce soltanto
dopo averla perduta.
Nelle città commerciali, come quelle
imperiali e quelle olandesi, c’è l’abitudine di dare un
prezzo ad ogni cosa: si fa mercato di tutte le proprie azioni e delle
virtù morali; e si vendono per denaro finanche quelle cose che lo spirito
di umanità richiede.
Per fare grandi cose non occorre essere
un gran genio: non si deve stare al di sopra degli uomini, bensì stare
con loro.
È vero che si giudicano sempre le azioni dal loro
successo, ma questo giudizio degli uomini è esso stesso un abuso
deplorevole della morale.
Di due partiti, quello di coloro che non
seguono la corrente è di solito il migliore.
Se allo spirito
generale di una nazione togliete i sentimenti d’onore, di dovere,
d’amore, procurate lo stesso danno di quando private un singolo di tutti i
suoi principi.
E quando avrete fatto tutto quanto occorre per avere dei
buoni schiavi, vi resteranno solo dei buoni sudditi.
è
stupefacente che i popoli prediligano tanto il governo repubblicano, ma che ben
poche nazioni ne godano; che gli uomini abbiano tanto in odio la violenza, e che
tante nazioni siano governate dalla violenza.
Quando si vogliono
governare gli uomini, non bisogna cacciarli dinanzi a sé, bensì
farli venire appresso.
Una monarchia corrotta non
è uno Stato, è una corte.
Quando, in una repubblica, ci sono fazioni, il
partito più debole non è più oppresso di quello più
forte: è oppressa la repubblica.
Una cosa dovrebbe far
tremare tutti i ministri nella maggior parte degli Stati europei: la
facilità di sostituirli.
La maggior disgrazia per il
commercio di certi Stati è la presenza di un numero eccessivo di persone
umili, e che vivono con poco: sono, in qualche modo, esseri inesistenti,
perché non hanno quasi alcun rapporto con gli altri cittadini.
Piuttosto che vedere tante istituzioni destinate a mantenerli, preferirei
di gran lunga che in uno Stato non ci fossero poveri.
Si può dire che il cardinale Richelieu rianimò la religione
protestante, che volgeva verso la propria distruzione, e che, colpendo Madrid
e Vienna, colpì egualmente Roma. I papi d’allora non cessavano
d’essere indecisi fra la religione e il potere.
Richelieu era un privato cittadino che aveva più ambizione di tutti
i monarchi del mondo. Egli considerava i popoli e i re niente più che
meri strumenti della propria fortuna; faceva la guerra più contro le
manovre di pace che non contro i nemici. Francia, Spagna, Germania, Italia,
l’intera Europa e tutto l’universo erano per lui solo un teatro
ove mostrare la sua ambizione, il suo odio o la sua vendetta [...]. Governò
come un padrone, non come un ministro: il suo governo era un vero e proprio
regno. Accrebbe l’autorità del re non per adulazione né
per fedeltà, ma per ambizione.
Preti
È stupefacente come, nella Chiesa cattolica, in cui è stato
proibito il matrimonio ai preti, perché non s’occupassero di
faccende secolari, essi se ne occupino invece più che in Inghilterra
e in altri paesi protestanti, ove è loro permesso sposarsi.
Niente religiosi negli affari! Se sono buoni religiosi, non s’intendono
di cose secolari. Se invece s’intendono di cose secolari, non sono buoni
religiosi.
Ecclesiastici son sempre gli adulatori dei principi, quando non possono essere
i loro tiranni.
Se i gesuiti fossero venuti prima di Lutero e Calvino, sarebbero stati padroni
del mondo.
Durante i miei viaggi, mi sono assai sorpreso nel trovare a governar Venezia
quei gesuiti che, a Vienna, non trovano alcun credito.
Una cosa che non riesco a conciliare con i progressi di questo secolo è
l’autorità dei gesuiti.
Di tutti i piaceri, i giansenisti ci concedono solo quello di grattarci.
Gli ecclesiastici s’interessano di mantenere i popoli nell’ignoranza;
diversamente, poiché il Vangelo è semplice, si potrebbe dir
loro: “Sappiamo tutto questo, proprio come voi”.
Mi pare che gli ecclesiastici di Spagna e d’Italia, che favoriscono
l’ignoranza dei laici, siano come i Tartari, che accecano i loro schiavi
perché sbattano meglio il latte.
Si racconta che alcuni missionari, onde far combattere i selvaggi, dicessero
loro che Gesù Cristo era francese, e che gli Inglesi l’avevano
crocefisso.
Il numero delle festività dei cattolici fa sì che questi lavorino
un settimo in meno dei protestanti, ossia che gli imprenditori cattolici producano
un settimo di merci in meno dei colleghi protestanti: così, col medesimo
numero di operai, l’Inghilterra fornisce un settimo di prodotti in più
rispetto alla Francia.
Un grande ministro che volesse riassestare la Spagna, rovinata dai religiosi,
dovrebbe accrescere i loro titoli onorifici e diminuirne poco a poco il numero
e l’autorità.
Il bene della Chiesa è un
termine equivoco. Un tempo si riferiva alla santità dei costumi. Oggi
non significa altro che la prosperità di certe persone e l’aumento
dei loro privilegi, o delle loro rendite.
Far qualcosa per il bene della Chiesa non è far qualcosa per il regno
di Dio e per la società di quei fedeli di cui Cristo è capo:
è bensì far qualcosa di contrario all’interesse dei laici.
È assai sorprendente che le ricchezze degli ecclesiastici abbiano tratto
origine dal principio di povertà.
Principi
Il principe deve sorvegliare con attenzione l’onestà pubblica,
giammai la privata.
Vi è un certo principe che si riterrebbe annientato se non avesse di
continuo intorno a sé consiglieri che deliberano.
Esistono casi in cui ad un suddito è consentito disobbedire al suo
principe? Non deve far nulla per lui, ma sarebbe assai strano aver tanto rispetto
per gli ordini e tanto poco per l’onore del suo principe. È assai
rischioso per un principe avere sudditi che gli obbediscano ciecamente. Se
le popolazioni dell’inca Atahualpa non gli avessero obbedito come degli
stolti, avrebbero impedito a centosessanta spagnoli di catturarlo.
Se si verifica una rivolta, occorre che la saggezza e la prudenza del principe
regolino la sua clemenza e giustizia. Si potrebbe dirgli: “La funzione
che svolgete può esser compiuta da un altro senza che, per mantenervela
o placare i vostri timori, debba costare torrenti di sangue al genere umano.
La vostra vita è più preziosa solo perché più
utile proprio a quegli uomini che volete decimare”.
Ci si chiede se un principe debba mettere gli affari di Stato nelle mani del
proprio confessore. Non c’è nulla di più pericoloso: quelli
che hanno, infatti, spirito mondano sono completamente incapaci di governare
la sua coscienza, mentre quelli che non possiedono tale spirito sono incapaci
di governare il suo Stato.
In una parola, fra tutti coloro che stanno accanto al principe, il confessore
è quello che deve aver più credito, ma al tempo stesso averne
meno.
L’autorità del sovrano dev’essere trasmessa soltanto alle
persone strettamente necessarie. Il principe deve darne parte ai suoi ministri,
ma occorre che rimanga nelle loro mani e non passi in quelle d’altri.
Ma perché, in tutti i tempi e in tutti i paesi, i favoriti sono stati
così insopportabili? Invero, dato che i principi sono preposti a governarci,
noi tolleriamo il male che essi ci recano talvolta, in considerazione del
bene che ci fanno sempre. Ma i favoriti stanno al di sopra degli altri unicamente
per la loro utilità personale.
Un palazzo malandato deve fare arrossire un principe meno di quattro leghe
di terreno abbandonato e incolto.
Il punto fondamentale della buona amministrazione è semplice: consiste
unicamente nel compensare le uscite con le entrate. Se queste ultime non possono
aumentare, quelle devono diminuire, e finché ciò non si verifica
nessun progetto può essere realizzato, perché non ne esistono
che non richiedano una spesa ulteriore.
[I principi] devono prender gusto alla lettura presto: i libri sono una grande
risorsa dopo il declino delle passioni e, d’altronde, le voci dei morti
sono le uniche fedeli.
I principi prodighi nel
conferire onori non ci guadagnano nulla. Non fanno altro che incoraggiare e
persino giustificare continue sollecitazioni. Più persone si
ricompensano, più altre meriterebbero di esser ricompensate: cinque o sei
uomini sono degni di un onore che avete concesso a due o tre; cinque o seicento
sarebbero degni dell’onore che avete concesso a cento.
Tutti i principi
s’annoiano: una prova di ciò è che vanno a caccia.
Un principe può credere di divenir più grande a seguito della
rovina di uno Stato vicino. Tutt’altro! Le cose in Europa sono tali
che tutti gli Stati dipendono gli uni dagli altri [...]. L’Europa è
uno Stato composto da molte province.
Tutto sommato, la maggior parte dei principi sono persone più oneste
di noi. Forse, per la parte che ci compete, noi abusiamo del potere più
di loro. Non ce ne sono molti che non vogliano essere amati, ma non è
un’impresa facile.
I principi sono sempre prigionieri. Clemente XI diceva: “Quando ero
privato cittadino, a Roma conoscevo tutti, e i meriti di ciascuno di loro.
Ora che sono papa non conosco più nessuno”.
Quando i principi viaggiano, ecco l’intendente che fa comparire sui
percorsi gli abiti nuovi, la gioia e tutto quanto può dimostrare opulenza.
Lungo il percorso è tutto un paese di Cuccagna; a mezza lega di là,
tuttavia, si muore di fame.
Gli ambasciatori di Francia sono assai malpagati: il re è un gigante
che si fa rappresentare da un nano.
Un principe che si pone a capo di un partito somiglia ad un uomo che si taglierebbe
un braccio perché tutto il nutrimento andasse all’altro.
Ciò che rende forte l’autorità dei principi è che
spesso non si può impedire il male che fanno se non con un male ancor
più grande, che è il pericolo della distruzione.
Si dice che il re di Francia sia ricco, ma non lo è affatto. Le sue
spese superano le sue rendite. Solo i re d’Asia (le cui rendite superano
le spese, e che ogni anno mettono nel loro tesoro l’eccedente) sono
ricchi.
Quando i principi non sono al culmine della loro potenza, nulla ve li conduce
con maggiore sicurezza del timore di un’invasione da parte di una nazione
straniera. I popoli sono gelosi dei loro privilegi solo nell’inattività
propria della pace, che per i principi non assoluti è tanto faticosa
quanto invece è propizia per quelli che lo sono.
Religione
La gente non ha più l’aspetto lieto che aveva al tempo dei Greci
e dei Romani. La religione era mite e sempre in accordo con la natura. Una
grande gioia nel culto s’univa ad una totale indipendenza nel dogma.
Facevano parte del culto religioso giochi, danze, feste, spettacoli teatrali,
insomma tutto quanto può commuovere e far provare emozioni.
Mai le porte dell’inferno prevalsero maggiormente contro la Chiesa di
quando il peggiore di tutti gli uomini (Alessandro VI) salì sul primo
trono del mondo; e noi saremmo ancora indignati per quella scandalosa elezione
se non la considerassimo un occulto giudizio di Dio sui fedeli piuttosto che
l’effetto d’intrighi di bassa lega.
Non posso tollerare che un autore famoso [Pierre Bayle] abbia sostenuto che
la religione non può essere un elemento frenante. So bene ch’essa
non sempre frena l’uomo nella foga delle sue passioni. Ma ci troviamo
sempre in tale stato? Se la religione non riesce sempre ad imporsi in momenti
particolari, è tuttavia un freno per tutta la vita.
Si discute dei dogmi, ma non si pratica affatto la morale. Questo perché
è difficile praticare la morale, mentre è assai facile discutere
dei dogmi.
Dio è come un sovrano che abbia svariati popoli nel suo impero: tutti
quanti gli portano il loro tributo, ma ciascuno di essi parla nella propria
lingua. (Religioni diverse.)
L’argomentazione di Pascal: “Credendo, avete tutto da guadagnare,
mentre non guadagnate nulla a non credere” è validissima contro
gli atei. Ma non si riferisce ad una religione piuttosto che ad un’altra.
Vogliamo sempre limitare le manifestazioni della potenza di Dio. La limitiamo
ad un territorio, ad un popolo, a una città, ad un tempio... Ma essa
è ovunque.
Una religione che offrisse ricompense sicure nell’altra vita vedrebbe
sparire i suoi seguaci a migliaia.
Tra le pene dell’inferno avrebbero dovuto includere anche l’inattività
permanente; mi pare invece che l’abbiano collocata fra le gioie del
paradiso.
Tutte le religioni introdotte in Cina sono state accolte non come religioni
nuove, bensì come aggiunte all’antica: Confucio, lasciando il
culto degli Spiriti, ha lasciato la porta aperta a tali aggiunte.
Un libertino potrebbe dire che gli uomini si son giocati un tiro mancino rinunciando
al paganesimo, che favoriva le passioni e dava alla religione un volto lieto.
Ora gli Ebrei sono salvi: non farà più ritorno la superstizione,
né più li stermineranno per un principio di coscienza.
Spirito
Quando si canzona, si possono osservare alcune regole che, lungi dal rendere
odioso il burlone, possono farlo divenire assai piacevole.
Si devono colpire soltanto i difetti che non dispiace avere, o che sono compensati
da virtù maggiori.
Si devono distribuire le canzonature un poco a tutti, per far capire che sono
solo l’effetto della nostra presente allegria e non di un piano premeditato
volto ad attaccare qualcuno in particolare.
Non dobbiamo rifiutare i motti di spirito, che spesso rallegrano la conversazione;
ma non dobbiamo neppure abbassarci a concedere troppe libertà e divenire
il bersaglio contro cui tirano tutti.
Ci sono due generi di uomini: quelli che pensano e quelli che si divertono.
Dicevo: “Uomo grande è chi vede in fretta, lontano e con precisione”.
Chi ha dello spirito non cerca di ostentarlo: non ci pavoneggiamo degli ornamenti
che indossiamo tutti i giorni.
Spesso è difficile sapere se le donne abbiano dello spirito o meno.
Sempre seducono i loro giudici. In loro la gaiezza sostituisce lo spirito.
Bisogna attendere che trascorra la loro giovinezza. Allora potrebbero dire:
“Saprò se possiedo dello spirito”.
Se un uomo è un esperto di geometria ed è riconosciuto tale,
gli resta ancora da dimostrare di aver dello spirito.
Dicevo: “Quando si rincorre lo spirito, si raggiunge la stupidità”.
Dissi: “Non riesco a trovar nulla di così difficile come aver
dello spirito con gli sciocchi”.
Credetemi: spesso lo spirito risiede proprio là dove non brilla e,
come le pietre artificiali, sembra spesso brillare dove non c’è.
La maggior parte degli uomini definiti sciocchi lo è solo in misura relativa.
Invidio la temerarietà degli sciocchi: parlano sempre.
Storia
Malattie spaventose, sconosciute ai nostri padri, hanno aggredito la natura
umana sin nell’origine della vita e dei piaceri. Abbiamo visto le grandi
famiglie di Spagna, sopravvissute per tanti secoli, perire quasi tutte ai
giorni nostri: si tratta di una distruzione non prodotta dalla guerra, che
deve essere attribuita solo ad un male troppo comune per essere vergognoso,
e che oramai è soltanto funesto.
I piaceri e la salute son
divenuti quasi incompatibili. Le pene d’amore, tanto cantate dai poeti
antichi, non son più la durezza o l’incostanza di un’amante.
Il tempo ha fatto sorgere altri pericoli, e l’Apollo dei nostri giorni
è più il dio della medicina che non quello della poesia.
Gli adultèri degli dei non erano un segno
della loro imperfezione, bensì un segno della loro potenza, e li si
onorava parlando dei loro adultèri.
Le grandi scoperte
compiute negli ultimi tempi c’inducono a considerare frivolo tutto
ciò che non presenti un aspetto di utilità immediata, senza
pensare che tutto è legato ed intimamente connesso.
Quel che
m’affascina dei tempi antichi è una certa semplicità di
costumi, una spontaneità naturale che trovo solo allora e che oggi (per
quanto ne sappia) al mondo non esiste più presso alcun popolo
civilizzato.ùù
Mi piace vedere nell’uomo virtù non ispirate da
una determinata educazione o religione, e vizi non prodotti dalla mollezza e dal
lusso.
Quando fu assassinato Enrico IV, gli Spagnoli furono
liberati da un peso immenso. Si vedevano affrancati da un principe che aveva
grandi progetti, che si alleava con i principi oppressi e riscuoteva la fiducia
d’Europa. È certo che essi furono coinvolti nell’impresa di
Ravaillac, e che i seguaci della Lega proscritti a Napoli e nei Paesi Bassi non
smisero di ordire congiure, soprattutto da quando la Spagna, informata del
progetto del re contro di essa, ritenne di non dover più attendere.
L’amor di patria ha
conferito alle storie greche e romane quella nobiltà che le nostre non
hanno. Ne è la molla costante di tutte le azioni, e si prova piacere a
trovare ovunque quella virtù cara a tutti coloro che hanno un
cuore.
Quando si pensa alla debolezza delle nostre ragioni, alla
meschinità dei nostri mezzi, all’avidità con cui cerchiamo
vili ricompense, a quell’ambizione così diversa dall’amore
della gloria, ci si stupisce della differenza di tali spettacoli, e pare che, da
quando quei due grandi popoli non esistono più, gli uomini siano
rimpiccioliti di un cubito [50 cm. ca.].
Fra tutti i discorsi degli antichi non ne conosco
uno più barbaro di questo, attribuito a Silla. Una volta gli si
presentò un pescatore della città di ***, portandogli un pesce.
“Dopo tutto quel che ho fatto”, disse, “c’è
ancora un uomo nella città di ***?”
Quel funesto individuo si
meravigliava che la sua crudeltà avesse potuto aver dei limiti.
Se la fisica non presentasse altre invenzioni oltre a quella della
polvere da sparo e del fuoco greco, sarebbe un gran bene bandirla, come la
magia.
È opportuno che tutti leggano la storia, specialmente
quella del proprio paese. Lo si deve alla memoria di coloro che hanno servito la
patria, e con ciò hanno contribuito a dare alle persone virtuose la
ricompensa ch’è loro dovuta, e che spesso le ha incoraggiate.
Il sentimento
d’ammirazione che suscitano in noi le loro grandi imprese è un modo
per render ad essi giustizia, così come l’orrore che proviamo verso
i malvagi. Non è giusto infatti concedere ai malvagi l’oblio dei
loro nomi e dei loro misfatti, come non è giusto lasciare i grandi uomini
nel medesimo oblio, quello stesso che i malvagi sembrano invece augurarsi.
Gli storici sono severi esaminatori delle azioni
di coloro che sono apparsi sulla terra, a somiglianza di quei magistrati
d’Egitto che chiamavano in giudizio l’anima di tutti i defunti.
In memoria dei nostri antenati, dobbiamo conservare, per quanto
possiamo, le case ch’essi hanno posseduto e amato: infatti, dalla cura che
ne hanno avuto, dalle spese che hanno sostenuto per costruirle ed abbellirle, si
può verosimilmente ritenere che fosse loro intenzione trasmetterle ai
propri discendenti.
Bisogna conoscere bene i pregiudizi del proprio
secolo per non contrastarli troppo, né troppo assecondarli.
Plutarco riesce sempre ad affascinarmi: presenta situazioni
riferite ai personaggi che sempre riescono a coinvolgere. Quando, nella Vita di Bruto, descrive i casi occorsi
ai congiurati e i motivi della loro paura al momento dell’attuazione del
piano, si prova pietà per quei poveretti. Poi si prova pietà per
Cesare.
Prima si trepida per i congiurati, poi per Cesare.
[Libri da fare]. Una storia civile del regno di Francia, come
Giannone ha scritto la Storia civile del
regno di Napoli.
Ecco una battuta di Enrico IV, riferita
– mi pare – da lord
Bolingbroke[20]. Il re domandò
all’ambasciatore di Spagna se il suo sovrano avesse delle amanti.
“Signore”, rispose con gravità l’ambasciatore,
“il re, mio sovrano, ha timor di Dio e rispetta la regina”. “E
che?”, replicò Enrico IV, “non ha forse sufficienti
virtù da farsi perdonare un vizio?”
Le storie sono fatti immaginari composti sulla
scorta dei veri, o meglio, in occasione dei veri.
La Bruyère
ha detto assai bene: “Uno inventa una storia e, a forza di raccontarla,
alla fine si convince ch’è vera”. Quel tale ricorda meglio di
averla raccontata che non di averla inventata. Se questo è vero, quale
mai dev’essere la forza dei pregiudizi dell’infanzia!
Non si giudicano mai bene gli uomini se non si perdonano loro i
pregiudizi del tempo in cui vissero.
Gli antichi dovevano provare
un maggior attaccamento alla patria rispetto a noi: erano infatti sepolti con la
loro patria. La loro città veniva conquistata? Erano fatti schiavi o
uccisi. Noi ci limitiamo a cambiar sovrano.
A Roma, tutti potevano
accusare quelli ch’erano sospettati di voler attentare alla libertà
della Repubblica. Ma, poiché tutte quelle accuse producevano solo
contese, non facevano che accrescere le discordie ed armare le famiglie
più importanti l’una contro l’altra; nondimeno, i rimedi
contro le nascenti fazioni richiedevano un tempo assai lungo, giacché ci
si poteva valere esclusivamente di discorsi pubblici.
A Venezia, invece, il Consiglio dei Dieci soffoca non
solo le fazioni, ma pure le insoddisfazioni.
Riflettete sulla
distruzione provocata dall’impero romano! [...] Prima dei Romani il mondo
era suddiviso in un’infinità di piccoli Stati. I Macedoni e i
Cartaginesi ne fecero vacillare parecchi, ma i Romani li distrussero tutti.
Instaurazione della potenza romana, vale a dire della più
lunga congiura che sia mai stata ordita contro l’universo.
Non stupisce che Pompeo e Cesare fossero invidiosi l’uno
dell’altro: ciascuno di quei due uomini, primi nel mondo, non poteva
essere superato se non dall’altro. Ma noi perché dovremmo invidiare
qualcuno? Che c’importa che sia superiore a noi o meno, dal momento che
tanti altri lo sono già?
Quando Commodo fece console il
suo cavallo, recò una grave offesa a se stesso: cancellò anche
l’apparenza di tutte le magistrature, compresa la sua.
Su Giustiniano. Se Cesare avesse
realizzato il suo progetto di raccogliere i libri degli antichi giureconsulti,
lo avrebbe fatto assai meglio di Giustiniano, che non era abbastanza determinato.
Dopo la scoperta del Capo e delle Indie Occidentali, l’Italia non occupa
più una posizione centrale: si trova infatti in un angolo del mondo,
e poiché il commercio d’Oriente dipende da quello delle Indie,
il suo ruolo è solo marginale.
La volontà di Filippo II di veder la propria figlia sul trono di Francia
e quella di Luigi XIV di vedere il nipote su quello di Spagna hanno in egual
misura indebolito la loro potenza.
È un fatto singolare che, da noi, si faccia tutto il possibile per
mantenere il popolo nell’ignoranza e privarlo di ogni genere d’informazione
circa gli affari dello Stato e dell’Europa, e che, nello stesso tempo,
si seguano tanto i pregiudizi, le impressioni e la futilità dei discorsi
di quel medesimo popolo, specialmente quello della Corte. Sono proprio discorsi
simili che hanno portato ad intraprendere le due guerre del 1733 e del 1741.
Si dice che gli Irochesi abbiano divorato sessanta popoli, e arrostito l’ultimo
degli Uroni. Non ci credo. Si dice che preferiscano i Francesi agli Spagnoli.
Imprecazione dei Romani: Ultimus quorum
moriatur! Pena terribile quella di non aver figli, che fossero i vostri
eredi e potessero rendervi gli onori della sepoltura. Era un modo di pensare
assai favorevole alla moltiplicazione della specie!
Tre cose incredibili fra le cose incredibili: il mero meccanicismo degli animali,
l’obbedienza passiva e l’infallibilità del Papa.
Guerra servile! La più giusta che sia mai stata intrapresa, giacché
mirava ad impedire il più terribile abuso mai perpetrato contro la
natura umana.
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