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Domenico Felice e Davide Monda

Intorno e attraverso i Pensieri di Montesquieu

D. Felice, D. Monda, Intorno e attraverso i Pensieri di Montesquieu, introduzione a Montesquieu, Pensieri scelti.
URL: testi/700/montesquieu/intro_montpensieri.html
Domenico Felice e Davide Monda

 

"Non so davvero dire se sia una cosa che debbo al mio essere fisico o al mio essere morale, ma la mia anima si appassiona a tutto"

Lettera di Montesquieu a Maupertuis, 25 novembre 1746

"Mentre di Voltaire e di Diderot sopravvive, presso i comuni lettori, una specie di antologia dei loro lavori più personalmente incisivi, di Montesquieu l’opera intera galleggia ancora sui marosi dei tempi"

G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura francese, 1956

1. Un grande umanista europeo

Non senza motivo, oltre un secolo fa, uno studioso virtuosamente poliedrico e senz’altro “di razza” come Albert Sorel notava che, se la Francia, nel corso della sua ricca e feconda storia della cultura, aveva avuto, probabilmente, filosofi «più sublimi e audaci» di Montesquieu, nonché scrittori più eloquenti, efficaci e fortunati di lui, non aveva avuto, viceversa, «un osservatore più intelligente delle società umane, un più saggio consigliere nei grandi affari pubblici, un uomo che avesse unito un senso così delicato delle passioni individuali ad una penetrazione così perspicace delle istituzioni di Stato, e che avesse messo, insomma, un talento così raro di scrittore al servizio di un buon senso così perfetto»[1].
“Padre nobile” quant’altri mai dell’Illuminismo internazionale, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, ha da essere considerato, in diversi campi fondamentali e fondanti della cultura e del pensiero moderni e contemporanei, un autentico, imprescindibile maître à penser, specie in forza della sua straordinaria capacità di mediare virtuosamente moderazione complessiva e giustizia sostanziale, lucidità d’analisi e passioni costruttive: siamo dinanzi, a onor del vero, ad una sorta di Aristotele settecentesco, che non perde occasione per mostrarsi scettico, se non sdegnoso, nei confronti di ogni genere di riduzionismo, di semplicismo e, a fortiori, di estremismo.
In ambito squisitamente filosofico, poi, occorre sottolineare con energia come Montesquieu sia riuscito a coniugare le ferree, ineludibili ragioni della necessità con quelle ben più luminose e nobilitanti della libertà, le esigenze di apprezzamenti relativi con quelle di giudizi assoluti: tale è l’equilibrio ammirevole e, comunque, encomiabile che Montesquieu, “provando e riprovando” con studio indefesso e strenua, inflessibile costanza di speculazione, ha saputo conseguire e diffondere. E questi sono, presumibilmente, l’esempio e la lezione più preziosi e duraturi ch’egli ha lasciato in eredità al cittadino europeo riflessivo e responsabile del terzo Millennio.
Quanto all’uomo, parecchi interpreti – ora più ora meno autorevoli e affidabili – di ieri e di oggi hanno sottolineato (e celebrato) sovente quella sua serenità pressoché apollinea, quella sua solare, imperturbabile e invidiabile felicità di vita e di pensiero che gli avrebbe donato, inter alia, una capacità tutt’affatto singolare, quasi prodigiosa di conciliare e armonizzare superbamente la totalità dei contrasti, delle amarezze, delle difficoltà di vario ordine che l’esistenza gli andava via via imponendo. Considerazioni di questo tenore, peraltro, non debbono trarre in inganno, non solo in merito alla personalità dell’autore, ma anche e soprattutto riguardo al senso generale ed effettivo della sua opera.

«In realtà – osservò a giusto titolo e con saggezza ermeneutica non comune Judith N. Shklar in un volumetto del 1987 che resta ancor oggi, per molti punti di vista, pregevole e utilissimo nella sterminata quanto confusa e, spesse volte, disorientante bibliografia montesquieuiana – è difficile accettare l’immagine di un Montesquieu uomo semplice e felice. Scrisse un romanzo [le Lettres persanes] che, fra le altre cose, è un capolavoro di humour nero, il cui eroe, Uzbek, despota orientale e personaggio profondamente malinconico e tormentato, per molti versi assomiglia all’autore. Alcuni amici di Montesquieu ed il figlio lo chiamavano Uzbek: la somiglianza non era dunque un segreto. Non molto tempo dopo il romanzo, inoltre, Montesquieu scrisse diverse novelle più brevi, che, diversamente dalle Lettere persiane, non sono racconti filosofici, ma storie violente, cupe e passionali, piene di coincidenze e di sciagure. Tutta la produzione romanzesca di Montesquieu, in realtà, verte sull’impossibilità della felicità umana, cosa che non fa pensare ad un autore soddisfatto di se stesso o del mondo. A livello sociale, tutte le sue opere suggeriscono che le nostre abitudini e le nostre credenze acquisite ci danneggiano psicologicamente, e che i nostri bisogni e le istituzioni non sono mai in armonia. Anche questa non è la testimonianza di uno spirito sereno»[2].

Dottissimo, accorto e, talora, spietato anatomista dell’umana miseria, Montesquieu è tutto salvo che un ingenuo, privilegiato osservatore delle cose umane, che si culla e si compiace, indifferente o distratto, in una gioia olimpica, e che, di conseguenza, proietta sull’universo intero questa sua percezione oltremodo idealizzata e oleografica della realtà. Tutt’al contrario, questo giurista-filosofo, che per decenni aveva scandagliato de visu le meschinità, le rovine, gli eccessi e gli orrori dell’umanità d’ogni tempo e luogo, possedeva una consapevolezza piena e altamente drammatica dell’oppressione dispotica, di quel monstrum insieme socio-politico ed etico-civile che signoreggiava de facto indisturbato presso la maggior parte dei popoli della terra. Sapeva bene, in una parola, che la “natura umana” era quasi ovunque umiliata ed offesa, e pertanto s’impegnò senza requie né distrazioni – specie dopo un grand tour per l’Europa denso e intenso quant’altri mai – a comporre l’Esprit des lois, una fatica intellettuale grandiosa e immensa che mirava, in primis et ante , a criticare e denunciare le più disastrose, tragiche, crudeli miserie umane del suo tempo, anche ideando e immaginando, pur senza farsi mai troppe illusioni circa i risultati ottenibili in concreto, quelle possibili, geniali vie d’uscita che hanno quindi fornito all’Occidente talune delle basi più solide, durevoli e preziose per la scienza politica contemporanea.

2. Tre capolavori fondamentali per la cultura mondiale

Nato nel 1689, giusto un secolo prima dello scoppio della Rivoluzione francese, il nostro pensatore è senza dubbio – assieme a Voltaire, pur così diverso per formazione, intenti e stile – il maggiore illuminista europeo della prima metà del Settecento. Ha guadagnato un’immortalità internazionale specie in grazia di tre grandi opere, ognuna delle quali ha davvero “fatto epoca” nella storia del pensiero europeo e, più in generale, nel divenire complesso e sfuggente della cultura occidentale.
Ci riferiamo in primo luogo, ça va sans dire, alle celeberrime, fortunatissime Lettres persanes (1721), un romanzo filosofico in forma epistolare che, oltre a rappresentare il primo “classico” nell’ambito di questo genere letterario d’indiscutibile rilievo, ha introdotto in modo definitivo e ammirabile la fictio dell’“effetto di straniamento”, a cui corrisponde pure una vera “rivoluzione sociologica”: tale ingegnoso, persino mefistofelico escamotage compositivo tende, essenzialmente, a sottoporre a critica sferzante e radicale, a smascherare senza pietà alcuna la singolarità sconcertante e, per tanti versi, assurda degli stili di vita e di pensiero accettati e condivisi nell’Europa del primo Settecento.
Non vanno poi poste in secondo piano, a prescindere dai presunti, apparenti limiti disciplinari dell’argomento, le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734), un’impareggiabile e insieme ardita riflessione filosofica sulla cause effettive della prodigiosa ascesa e – in special modo – della progressiva decadenza della maggiore civiltà che mai sia apparsa attorno al bacino del Mediterraneo. In questo libro agile e avvincente che, a giusto titolo, è stato da più parti giudicato essenziale per la nascita e lo sviluppo di quella disciplina ancor oggi così apprezzata ch’è la filosofia della storia, Montesquieu ragiona inoltre, con finezza e originalità non comuni, sui motivi profondi del sorgere e del perire di tutte quante le civiltà e le culture, persino di quella “mirabile” e, sotto più punti di vista, esemplare monarchia costituzionale inglese che tanto stimava; prossimo ad una concezione ciclica della storia, il nostro philosophe è in effetti persuaso che, così come tutte le cose umane (basti por mente ad Atene, Sparta, Cartagine, Roma...), anche questo «bel sistema», prima o poi, verrà meno.
Non è certo un mistero, comunque, che l’approdo definitivo e, per più versi, senza eguali del percorso e del travaglio speculativi del pensatore bordolese viene universalmente considerato l’Esprit des lois (1748): si tratta di un “parto spirituale” concepito, organato e steso lentamente, un passo dopo l’altro, durante l’intera sua parabola culturale, creativa ed esistenziale («Posso dire di averci lavorato tutta la vita»). Opera d’intelligenza, acutezza e complessità rare, è davvero un capolavoro di portata e respiro altissimi e universali, paragonabile forse soltanto alla Politica di Aristotele (per l’antichità) e a Economia e società di Max Weber (per l’epoca contemporanea). Meditando le sue pagine, il lettore si trova dinanzi a una sorta di sintesi insieme lieve, magistrale e calcolatissima, ove confluisce, in maniera spesso inopinata e talora sorprendente, la totalità del sapere giuspolitico precedente, e da cui, nel contempo, discendono gl’infiniti rivoli in cui si è via via divisa la cultura filosofico-giuridica e politologica successiva. Non sbaglia, dunque, chi valuta questo libro la base effettiva della scienza politica moderna intesa come scienza empirica della società e dello Stato[3].
Fra le somme, inobliabili “scoperte” che animano e vivificano l’Esprit des lois occorre quanto meno rammentare: 1. la considerazione del dispotismo come forma a se stante di Stato (e quindi la teoria della tripartizione delle forme politiche: monarchia, repubblica e, per l’appunto, dispotismo); 2. l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (e dunque la teoria della tripartizione dei poteri, che costituisce, com’è risaputo, la condicio sine qua non di tutte le attuali costituzioni democratiche, nonché di tutte quelle che ambiscono a definirsi libere o “moderate”); 3. la “teoria delle cause fisiche e morali”, ovvero la categoria dello “spirito generale” delle nazioni o dei popoli, secondo cui tutto dipende da tutto, «tutto è estremamente legato», tutto ci riguarda o ci condiziona: la geografia e la storia, la natura e la cultura etc.[4] Si tratta, beninteso, di un’acquisizione decisiva e imprescindibile non solo per la totalità delle odierne scienze umane e sociali, ma altresì per talune nuove scienze, quali la bioetica, l’ingegneria genetica, le biotecnologie.
È un fatto che parecchie delle “idee madri” di questo protagonista assoluto del Siècle des Lumières sono talmente presenti e diffuse nei nostri milieux socio-politici, sono penetrate così in profondità nel nostro modus vivendi et cogitandi che, oramai, non attribuiamo più ad esse il valore che meritano.
Ogni cittadino europeo davvero attento e sensibile al divenire della cultura non dovrebbe sottovalutare, ancora, che Montesquieu è uno fra i più accattivanti e attuali letterati d’Europa, uno scrittore di grande, assoluto talento in grado d’esprimere superbamente in forma di parole argomenti e questioni relative alla totalità del sapere occidentale, mai tradendo uno stile di efficacia e raffinatezza (tendente, alle volte, perfino al preziosismo) “magiche”, come rilevò argutamente anche il nostro Romagnosi[5].

3. Montesquieu moralista? Il ruolo ed il senso dei Pensieri

Che cos’è, nell’accezione più illustre del termine, un moralista? Come hanno indicato diversi eminenti studiosi[6] e come, d’altronde, ogni cittadino europeo “di cultura” non ignora, sembra lecito definire, in estrema sintesi, questo singolare, avvincente homme de lettres un intellettuale che s’interroga – liberamente, lucidamente, sempre criticamente... – sui vizi e le virtù degli uomini, sulle loro azioni e, in special modo, sulle ragioni effettive che le muovono e le animano. Bisogna rimarcare, inoltre, che numerosi fra i moralisti più originali e fortunati hanno brillato per sapienza compositiva, eccellendo perlopiù nell’uso di forme brevi quali la massima, l’aforisma, il frammento, il pensiero staccato.
Montesquieu ha da essere, allora, ritenuto un moralista? Senza dubbio, così come hanno peraltro evidenziato non pochi suoi studiosi di valore. E non scarse né epidermiche sembrano le somiglianze di stile e di pensiero rispetto ai “campioni” della scrittura aforistica di Francia: talune sue considerazioni appaiono vicine alla sottile, irrequieta perspicacia tanto psicologica quanto antropologica tipica del suo più famoso e amato concittadino, Michel de Montaigne; un certo suo amaro, acuminato disincanto verso l’humana condicio e le mille e mille maschere dietro cui, quasi irresistibilmente, si cela ha qualcosa in comune con quello del duca di La Rochefoucauld; la sua arte scaltrita e seducente nella descrizione di “paesaggi dell’anima” e di tipi umani significativi può far tornare alla mente il miglior La Bruyère, mentre il suo amore virile e stoicheggiante per la virtù è davvero prossimo ai generosi, magnanimi ideali di Vauvenargues.
D’altro canto, sarebbe assai riduttivo nonché, per molte evidenze inconcusse, ingiustificabile e, dunque, impensabile considerare l’intera sua ricerca intellettuale esclusivamente legata a questa pur gloriosa e splendida modalità espressiva. Come sottacere difatti ch’egli è, innanzitutto, il fondatore lato sensu sistematico della scienza dell’uomo, della società, del diritto e, soprattutto, della scienza politica moderna? Più precisamente, ci troviamo dinanzi a un filosofo a tutto tondo, a un “uomo universale” che, quantunque sensibilissimo ai più diversi campi dello scibile, concentrò di continuo le sue migliori energie sulla dimensione socio-politica e giuridica. Ciò non gli impedì, comunque, di apportare contributi originali in parecchi altri campi, quali l’antropologia, l’etnologia, l’economia, la filosofia della storia etc.
Come attesta ampiamente il Catalogue della sua biblioteca a La Brède, e come si desume da molte sue dichiarazioni precise e inequivocabili, Montesquieu ebbe interessi vastissimi e molteplici: dalla giurisprudenza antica e moderna alla storia politica, civile, militare, sociale e religiosa, dalla chimica alla biologia, dalla medicina alla cosmologia, dalla geografia alla matematica e alla fisica. Si sa che fu sempre un lettore accanito e infaticabile, un vero divoratore di libri, tanto che, fra le cause della cecità quasi totale che lo afflisse negli ultimi anni, va senz’altro annoverata questa sua tenace, inesauribile passione.
Sua abitudine, fin dall’età giovanile, era annotare meticolosamente, redigere estratti, accumulare appunti, fissare schemi e idee sulla carta; era portato quasi per istinto, in altri termini, a creare dei veri e propri “cantieri”, donde attinger poi, di volta in volta, materiali per la composizione di opere, la maggior parte delle quali, nondimeno, è rimasta allo stato di semplice progetto.
Tra siffatti “cantieri”, spiccano per quantità e, soprattutto, per qualità le Pensées, una magnifica quanto complessa e complicata raccolta di riflessioni prevalentemente brevi e mai pubblicate in vita ch’egli andò via via stendendo dall’alba al tramonto del suo laborioso cammino esistenziale e speculativo: a dirla schietta, esse costituiscono senz’altro il serbatoio montesquieuiano di dati, temi e problemi più dovizioso, fervido e affascinante che ci è rimasto. In effetti, pure rispetto al densissimo, prezioso Spicilège, questi suoi Pensieri sono incommensurabilmente più ponderati e originali, più profondi e coraggiosi: essi appaiono, in una parola, il principale “cantiere” delle concezioni e, più generalmente, della Weltanschauung di Montesquieu che ci sia pervenuto.
Fra gli altri “laboratori” d’indubbio rilievo pazientemente costruiti dal nostro infaticabile pensatore vanno perlomeno menzionati i seguenti: Collectio iuris (1709-1721); Pensées morales (perduto); Prince/Princes (perduto); Bibliothèque/Bibliothèque espagnole (perduto); Geographica I (perduto); Geographica II; Politica I (perduto); Politica II (perduto); Politica-Historica (perduto); Juridica I (perduto); Juridica II (perduto); Mythologica et antiquitates (perduto); Anatomica I (perduto); Academica (perduto); Histoire universelle (perduto). Giova qui rimarcare, peraltro, che abbiamo notizia di questi repertori quasi esclusivamente in virtù delle Pensées.
Le Pensées, d’altro canto, non solo costituiscono il più rilevante e coinvolgente “serbatoio” montesquieuiano di riflessioni, congetture e confutazioni a noi pervenuto: il Presidente vi attinge non pochi materiali per tutti i suoi “parti intellettuali” – realizzati, abbozzati, o solo immaginati –, ma possono, forse debbono altresì stimarsi una composizione autonoma da ogni punto di vista. Esse non rappresenterebbero, allora, un mero “cantiere”, bensì molto di più: in verità, in numerosissimi casi vanno ben al di là dei libri stampati e possono, pertanto, esser considerate un’opera a sé stante, una creazione del tutto autonoma. Tale testo, fra le altre cose, dà conto di un Montesquieu affatto “intimo”, che manifesta, inter alia, interessi assai più vari, ampi e approfonditi di quanto non emerga dalle opere edite, ancor più vasti, ricchi di humanitas genuina, di autentica, profonda attenzione alla diverse sfumature della natura e della storia, così come a quelle che contraddistinguono la vita specifica degli esseri viventi.
Le Pensées possono essere dunque giudicate a tutti gli effetti un altro capolavoro montesquieuiano, il quale – per lo meno dal punto di vista tematico – appare più variegato e, talvolta, finanche più stimolante degli altri tre e, più in generale, delle altre opere a stampa. Queste riflessioni sovente contengono, in effetti, un quid pluris rispetto alla totalità (o quasi) delle questioni e dei motivi che Montesquieu ha affrontato ex professo.

4. Alcune tematiche centrali nei Pensieri

Ma di che si discorre, più precisamente, nelle Pensées? Chiunque abbia letto con qualche attenzione questo libro singolare sarà tentato, crediamo, di ribaltare così la domanda: di che cosa non vi si parla? In verità, Montesquieu spazia qui – e con rara, talora stupefacente cognizione di causa – dalla storia d’ogni tempo e luogo alla storia della filosofia, dalla teologia (cristiana e non) alla politologia, dalla geografia d’Occidente e d’Oriente alle letterature antiche e moderne, dal diritto romano a quello a lui contemporaneo, dall’economia politica ai costumi maschili e femminili sotto Luigi XV.
D’altra parte, il lettore di questo mosaico testuale quanto mai sui generis e quasi sempre vivace e avvincente non dovrebbe dimenticare che, per diversi motivi di varia natura, soltanto alcuni degli spunti e dei problemi qui presi in considerazione furono poi accolti e “sistematizzati” da Montesquieu nell’Esprit des lois, cioè in quel capo d’opera che – com’egli non ignorava davvero, anzi desiderava... – racchiude e perfeziona i frutti più maturi, compiuti e fortunati del suo formidabile itinerario di analisi e sintesi, in quell’approdo teoretico capitale che, solo, corrisponde pienamente alla sua volontà consapevole e definitiva.
In un’importante “avvertenza” premessa alle Pensées, è il nostro stesso autore a dichiarare claris verbis che quel manoscritto accoglie meditazioni e idee non del tutto “digerite”, tutt’altro che definitive e compiute, le quali sarebbero state rielaborate a dovere solamente qualora avesse deciso di utilizzarle in altra sede. Se, da un lato, ciò impedisce ad ogni interprete coscienzioso di conferire alle Pensées qualsivoglia superiorità rispetto alle opere edite, dall’altro non si può non rilevare come numerosissime siano le convergenze sostanziali fra gli abbozzi “privati” e il grande libro.
Così, a titolo d’esempio, uno fra i temi-cardine delle Pensées che ritroviamo poi sviscerato e sviluppato compiutamente nell’opus magnum è indubbiamente il dispotismo: sia nelle prime sia nel secondo, il Nostro constata non senza amarezza e disincanto che, nonostante gli «infiniti mali» che arreca alla «natura umana», il regime dispotico è di gran lunga la forma politica più diffusa sulla terra. Da ciò, come del resto s’è accennato, discende evidentemente che l’Esprit des lois, al contrario di quanto reputa il grosso degli studiosi d’oggi, non è tanto una meditazione sulla libertà, quanto piuttosto una meditazione sull’oppressione, nonché sui mezzi – in primis et ante omnia lo Stato moderato “all’inglese”– onde ridurla o, comunque, contenerla. Montesquieu ha una concezione “quantitativa” della libertà e, di conseguenza, dell’oppressione. I governi possono essere più o meno moderati (o liberi) – o, a seconda del punto di vista, più o meno oppressivi –, e possono dunque salvaguardare in misura ora più ora meno ampia ed efficace lo Stato, così come l’individuo, dal pericolo esiziale dell’oppressione.
Un altro motivo, per molti aspetti connesso al precedente, al centro di tutta la sua indagine filosofica è di certo la moderazione: in effetti, se è vero che nella globalità delle opere montesquieuiane ritroviamo pressoché ovunque caldi, sentiti elogi di questa qualità affatto decisiva in ogni momento della vita, tanto dei singoli come delle istituzioni e degli Stati, è parimenti indubbio che le Pensées ci offrono diversi spunti eccellenti e persino illuminanti in tal senso, i quali peraltro, nella maggior parte dei casi, non vennero più ripresi negli scritti più ampi e articolati.
Va altresì posta in primo piano un’altra tematica che, ben presente in queste riflessioni, costituisce certo una delle idee cardine nel “sistema” del giurista-filosofo: ci riferiamo allo spirito generale, o carattere delle nazioni e dei secoli. Il nostro “scienziato della politica” è persuaso che ogni epoca abbia il suo genio, il suo spirito peculiare: a parer suo, in effetti, uno spirito d’anarchia e indipendenza si formò in Europa col dominio barbarico; uno di conquista fece poi la sua comparsa con gli eserciti regolari, mentre oggi – vale a dire nella sua epoca – predomina quello di commercio. Lo spirito generale sembra possedere, comunque, una sua coerenza interna.
Come non menzionare poi – specie discorrendo delle Pensées – la felicità, questo problema che attraversa costantemente, quasi ossessivamente il travaglio speculativo ed esistenziale del Nostro? Va puntualizzato, anzitutto, che la felicità è un tratto distintivo della sua plurivalente, inesauribile personalità: Montesquieu confessa senza ambagi, fra l’altro, di svegliarsi ogni mattina con una gioia segreta, e di sentirsi contento per tutto il resto del giorno.
Ben lungi da atteggiamenti romantici o decadenti, il nostro illuminista è alieno da certe figure lato sensu estreme ed eccessive che – oggi forse più che in passato – sono considerate, anzi permangonoà la page: basti por mente a un Baudelaire, a un Rimbaud, a un Nietzsche, a un Oscar Wilde, a un d’Annunzio... Tutto considerato, Montesquieu ebbe una vita lineare e accortamente misurata, estranea ad ogni inclinazione all’ostentazione patetica così come ad ogni posa ieratica, nonché – stando almeno a quanto emerge dal corpus degli scritti – travagliata ben di rado dal tedio, dal dolore, dall’angoscia.
Per onestà filologica, occorre d’altronde puntualizzare che la felicità non spesseggia né campeggia in alcuna delle sue opere a stampa: pure il Temple de Gnide e il saggio sul Gusto – opere certo minori quanto a impegno, ma importanti per la ricezione del pensiero – non danno in fondo, al di là di talune affermazioni eloquenti, un ruolo centrale alla tematica in discorso. Viceversa, il nutrito manipolo delle Pensées consacrate alla felicità sembra davvero costituire una specie di trattatello monografico: si va dalle riflessioni sulla felicità di esistere, che contraddistingue – consapevole o meno che ne sia, poco rileva – la maggior parte degli uomini, a quelle sull’essenza stessa della felicità, nelle quali viene manifestata claris verbis un’adesione spontanea all’ordine mirabile del mondo, una sintonia effettiva con quello “stoicismo naturale” che, spesse volte, il philosophe bordolese impiegò dichiaratamente come fonte per considerazioni etico-civili e spirituali insieme brillanti e profonde.
Ancora, l’intera questione della felicità ha da essere necessariamente coniugata con quella della moderazione, vero e proprio fulcro del pensiero montesquieuiano: la felicità, a parer suo, va di conserva con la misura, vale a dire con desideri sempre e comunque razionali e ragionevoli. La moderazione si manifesta, in tal maniera, come il migliore impiego delle nostre forze, nonché come l’unico modus vivendi in accordo sostanziale con quell’attivismo che il Presidente considera connaturato alla condizione umana.
Come hanno perspicacemente evidenziato lettori del calibro di Jean Starobinski[7] e Giovanni Macchia[8] in pagine ancor oggi insuperate, un altro aspetto fondamentale del nostro homme de lettres è la sua eccezionale, inappagabile curiosità: essa emerge con indubitabile nettezza, a dirla giusta, non solo da questa raccolta di frammenti variegata ed eterogenea come poche, ma altresì da tutti i libri da lui mandati a stampa. Va tuttavia chiarito con energia che, quantunque ictu oculi interessato a tutti i momenti significativi della realtà “fisica e metafisica”, Montesquieu è agli antipodi di ogni enciclopedismo sterile, di ogni poliedricità fine a se stessa: pensatore tendenzialmente ordinato e sistematico, sa bene e, soprattutto, desidera fortemente concentrare la propria attenzione su quegli oggetti di studio che più possono giovare – dal suo punto di vista, ovviamente – al progresso reale dell’umanità: fra questi, come si è rapidamente illustrato dianzi, spiccano la libertà e i suoi limiti invalicabili, la giustizia sostanziale e i suoi molti, complessi problemi, gli splendori e le miserie della religione, le ragioni e i torti del potere.
In questa pur sommaria e approssimativa presentazione dei contenuti essenziali delle Pensées, sarebbe infine assai ingiusto trascurare l’amicizia: Montesquieu vi appare infatti un “devoto” dell’amicizia, un valore e, insieme, un sentimento ch’egli ha via via imparato ad apprezzare in tutta la sua straordinaria e, per tanti versi, incomparabile rilevanza anche in grazia delle sue sterminate letture di classici antichi e moderni. Platone, Aristotele, il “suo” Cicerone, Seneca, Plutarco e Marco Aurelio, così come i maggiori moralistes cristiani del suo Paese (Montaigne, Charron, La Rochefoucauld, La Bruyère, Bossuet, Fénelon) lo hanno avvezzato a stimare, ma, nel contempo, a mettere in discussione, a problematizzare, non senza perplessità e disinganni anche perentori e drastici, questo “assoluto” morale e civile. Perciò, siamo proprio convinti ch’egli si sarebbe trovato in sintonia con questo lucidissimo, spietato aforisma steso da uno dei più fini, incisivi, radicali moralistes dei nostri giorni confusi, Guido Ceronetti:

«Prodigio unico per esattezza e felicità di definizioni, come un ideale dizionario, il De amicitia di Cicerone contiene nei suoi paragrafi impeccabili tutto quello che dev’essere amicizia.
Non è inutile avvicinare ogni tanto le fibre molli delle nostre sgangherate relazioni a qualcuna delle sue massime, per vedere se, messo di traverso su quella taglientissima ruota in movimento, il dito salta»[9].

5. La forza penetrante e delicata di una lectio intramontabile

Abbiamo principiato queste paginette montesquieuiane rammemorando talune espressioni eloquenti di un suo illustre interprete ottocentesco, e in compagnia di un altro suo lettore “classico” desideriamo concluderle. Filologo spiritualista di rara, irrequieta acribia, Fortunat Strowski evidenziò apertis verbis, all’incirca un secolo fa, che la lezione etico-civile e spirituale del giurista-filosofo di Bordeaux, di questo pensatore che, nonostante tutto il male veduto e ponderato, voleva restare ottimista e coraggioso, poteva grosso modo sintetizzarsi in questi termini: «È uno spirito di generosa e cordiale simpatia verso tutti gli uomini; è un profondo rispetto per la libertà umana, una fiducia assoluta nell’Essere Infinito e Universale, la fede in Dio. È pure uno spirito di commossa indulgenza per la piccolezza e la fragilità dell’uomo, per la caducità inevitabile delle nazioni e dei governi; è un odio feroce contro il dispotismo, la crudeltà, il fanatismo, il capriccio, contro tutto quel che fa soffrire gli uomini. è, di conseguenza e per concludere, il culto della civiltà e, nel contempo, l’amore e la comprensione delle società umane»[10].
Per coloro che hanno di fatto perduto la fiducia in quei valori di libertà, giustizia, fratellanza et similia mirabilmente additati e dipinti in questi Pensieri e, più in generale, nei capolavori di questo padre magnanimo d’ogni autentico liberalismo, il cammino è oggigiorno, tutto sommato, agevole e, più o meno, già segnato a priori: basta seguire la corrente socio-economica predominante, subire acriticamente i consumistici, “liquidi”[11] disegni e programmi prevalenti, rassegnarsi ad abbracciare il cinismo o il qualunquismo perfidamente propalati dai media, consolarsi delle tante miserie umane, delle infinite tragedie presenti (e future) che funestano ed insanguinano i contesti ove siamo gettati, con qualche sorriso di apparente superiorità, rivestire il nulla agghiacciante e micidiale in cui la nostra temperie si crogiola con un velo d’informato, noncurante disincanto.
Al contrario chi, al par di noi, confida, vuole confidare nella forza assoluta e incomparabile di tali valori metaspaziali e sovratemporali – ignorando e, quando civilmente possibile, anche denunziando le logiche funeste di questo nostro mondo gravemente, dannatamente superficiale, aggressivo e materialista, che sembra far di tutto per insabbiarli, sottacerli, rimuoverli – non può che caldeggiare una lettura accurata e responsabile di Montesquieu, di questo intramontabile maître à penser che, per l’intero suo percorso esistenziale e culturale, si sforzò toto pectore e tota mente di tratteggiare e patrocinare quelli che, verosimilmente, costituiscono i fondamenti reali e progressivi della civiltà europea e, più in generale, dell’umana dignità, di tutto quanto dà un senso autentico e imperituro ad ogni “vita pensata”.

 

Bibliografia essenziale

1. Edizioni recenti e diffuse delle Opere complete

Œuvres complètes, a cura di R. Caillois, Paris, Gallimad, 1949-1951, 2 voll.

Œuvres complètes, a cura di A. Masson, Paris, Nagel, 1950-1955, 3 voll.

Œuvres complètes, a cura di D. Oster, prefazione di J. Vedel, Paris, 1964.

2. I Pensieri

Quantunque non ne esista ancora (2008) un’edizione critica, i Pensieri montesquieuiani sono stati accolti in tutte le edizioni delle opere testé citate; sono stati inoltre pubblicati nei seguenti volumi:

Cahiers: 1716-1755, a cura di B. Grasset e A. Masson, Paris, Grasset, 1941 (un importante, fortunato florilegio tematico).

Pensées – Le spicilège, a cura di L. Desgraves, Paris, Laffont, 1991 (la più completa e accurata fra le edizioni tuttora disponibili).

3. Alcuni studi su Montesquieu

L. Vian, Histoire de Montesquieu. Sa vie et ses oeuvres d’après des documents nouveaux et inédits (1878), Genève, Slatkine Reprints, 1970.

A. Sorel, Montesquieu (1887), Paris, Hachette, 1924.

H.-A. Barckhausen, Montesquieu. Ses idées et ses œuvres d’après les papiers de La Brède (1907), Genève, Slatkine Reprints, 1970.

J. Dedieu, Montesquieu (1913), Genève, Slatkine Reprints, 1970.

E. Carcassonne, Montesquieu et le problème de la constitution française au XVIIIème siècle (1927), Genève, Slatkine Reprints, 1978.

J. Dedieu, Montesquieu. L’homme et l’œuvre (1943), Paris, Hatier, 1966.

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Note

[1] A. Sorel, Montesquieu, Paris, Hachette, 1887, p. 22.

[2] J. N. Shklar, Motesquieu (1987), Bologna, il Mulino, 1998, p. 30.

[3] Cfr., a questo proposito, soprattutto S. Cotta, Montesquieu e la scienza della società, Torino, Ramella, 1953.

[4] Cfr. D. Felice, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali. Dispotismo, autonomia della giustizia e carattere delle nazioni nell’Esprit des lois di Montesquieu, Firenze, Olschki, 2005.

[5] Cfr. Opere di Gian Domenico Romagnosi riordinate ed illustrate da Alessandro De Giorgi, 16 tt. in 8 voll., Milano, Perelli e Mariani, 1841-1852, vol. III, 1, p. 818.

[6] Cfr., da ultimo, A. Marchetti, I volti del moralista, in AA.VV., Moralisti francesi. Classici e contemporanei, a cura di A. Marchetti, con A. Bedeschi e D. Monda, Milano, BUR, 2008, pp. 5-12. 

[7] Cfr. J. Starobinski, Montesquieu (1994), Torino, Einaudi, 2003, spec. pp. 8-10.

[8] Cfr. G. Macchia, Montesquieu, l’Europa, l’Oriente, in Id., Il naufragio della speranza. La letteratura francese dall’illuminismo all’età romantica, prefazione di I. Calvino, Milano, Mondadori, 1994, pp. 67-77.

[9] G. Ceronetti, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale, a cura di E. Muratori,  Milano, BUR, 2000, pp. 25-26.

[10] F. Strowski, Montesquieu. Textes choisis et commentés, Paris, Plon, 1912, p. 14.

[11] Cfr. Z. Bauman, Vita liquida (2006), Roma-Bari, Laterza, 2008, passim.