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Carlo Morandi

L' idea dell' unità politica d' Europa nel XIX e XX secolo

Carlo Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, Milano, Marzorati, 1948.
Trascrizione, revisione ed edizione html a cura di Francesco Donatini, Alberto Mariotti, Christian Satto (10/10/2005).
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Nota editoriale


1. [5] — «Ce qu' il y a de moins simple, de moins naturel et de plus artificiel, c'est à dire de moins fatal, de plus humain et de plus libre dans le monde, c'est l'Europe». Così, nella sua vibrante Introduction à l'histoire universelle, il Michelet cui la libertà rinata nelle giornate di luglio «avait donné des ailes».
Oggi, quando si parla d'Europa, di ciò ch'essa era, della condizione attuale in cui versa (della sua «crisi» come i più preferiscono dire con un termine eloquente ma appunto per questo generico ed equivoco), delle prospettive oscure o delle ipotesi ancora felici intorno al suo avvenire, sono pochi, cioè gli spiriti più vigili, coloro che pensano all'Europa con chiarezza d'idee e con pari serietà morale, che ne analizzano i problemi e ne indagano le forme storiche, ripudiando i brillanti paradossi e gli aforismi di moda. Ciò che importa sottolineare è che un vero profondo interesse per l'Europa non può rivolgersi se non per via di metafora, al vecchio continente in quanto tale; e nemmeno alla somma dei popoli e degli Stati che ne sono parti costitutive, o al millenario susseguirsi di vicende che in quel «teatro storico», come dicevano i secentisti, hanno avuto nascita e svolgimento, e neppure a quelli che sono i caratteri intrinseci comunemente riconosciuti della civiltà europea, o almeno non a questi soltanto anche perché essi da lungo tempo non sono più esclusivi degli europei e circoscritti alla terra di origine. Si guarda all'Europa nel suo complesso, nella molteplicità [6] dei suoi aspetti, nei suoi beni e nei suoi mali, oltre le divisioni, le opposizioni e le lotte che sempre la travagliano, si cerca di individuare il fondo comune, di porre in evidenza i mille legami sotterranei che la superficie disuguale nasconde. Il che non significa annullare le distinzioni, reali quanto necessarie e feconde, perché distinguere, sul piano storico, significa meglio unire. Dunque, vi è un modo di sentire e di considerare unitariamente l'Europa che non è solo di oggi (anche se oggi si presenta con maggiore insistenza e si manifesta in forme diverse e si traduce in valutazioni spesso dissimili da quelle specifiche di altri momenti o periodi), ma conta già una sua storia ch'è essa stessa testimonianza e stimolo ad un costante anelito di maggiore solidarietà tra i popoli europei.
Chi intenda analizzare i tratti peculiari che conferirono un senso unitario alla vita europea nei secoli dell'età moderna, ed ai riflessi ch'essi ebbero a suscitare nella coscienza dei contemporanei promuovendo sia il formarsi di una idea d'Europa e il suo evolversi, sia il sorgere di aspirazioni più vigorose volte alla pacificazione, organizzazione e unione politica dell'Europa stessa, non può non imbattersi in una serie d'interrogativi, i quali corrispondono a quesiti metodologici, a dubbi e incertezze che devono essere risolti in via preliminare. Come si pone il problema storico dell'unità europea? In quale senso indirizzare le ricerche? E, prima di tutto, che valore concettuale ha oggi il termine «Europa», e in che differisce da quello del recente o del più lontano passato? Come si è formata e come si è venuta modificando la moderna idea di Europa? Il suo contenuto unitario, negli ultimi tempi, si è rafforzato o indebolito, oppure s'è, poco a poco, trasferito su altro piano, mutando per conseguenza di carattere e significato?
Occorre chiarire, in primo luogo, che l'espressione «Europa», nel suo valore storico, è cosa ben diversa dalla sua definizione e delimitazione geografica. Dal punto di vista geografico l'Europa è un continente con determinati caratteri e confini; ma la storia non è una realtà fissa e statica come la geografia fisica (ed anche questa, del resto, lo è solo relativamente), non è un dato di natura che possa conservarsi immutato per secoli o millenni, ma è una perenne creazione umana che muta col cangiare del pensiero e dell'azione degli uomini. Nel suo Der Untergang des Abendlandes («Il tramonto dell'Occidente») quel fantasioso pensatore dell'altro dopoguerra tedesco che fu Osvaldo Spengler scrisse, con scarso rigore logico, che: «lo storico [7] può servirsi della geografia, non deve mai subirla. Oriente, Occidente, sono designazioni geografiche dalle quali lo storico può trarre partito perché rispondono per lui a realtà storiche; ma questa Europa, che contiene la Russia ed esclude la civiltà pur sempre europea dell'America, non significa nulla». L'errore dello Spengler consiste nella pretesa identificazione dell'Europa storica con l'Europa geografica, consentendo invece l'uso dei termini «Oriente» e «Occidente» che sono anch'essi, sotto l'aspetto storico, estremamente relativi. E' ovvio che il concetto storico d'Europa non possa coincidere con la rigida designazione geografica del continente; ma ciò nulla toglie alla sua validità, purché di questa validità si ricerchi e si dimostri il vero fondamento. Anche il Metternich amava dire che l'Italia era una espressione geografica e nulla più, mentre proprio dagli accadimenti di quegli anni doveva scaturire la prova del contrario. Su di un altro piano, e con un'analogia solo approssimativa, si tratta di vedere se di là dai limiti geografici sia esistita ed esista un'Europa come unità storica.
Un errore non meno grave commetterebbe chi, abbandonato il presupposto fisico-geografico, s'illudesse di scoprire un legame unitario dell'Europa in un fatto razziale e, dovendo poi riconoscere la pluralità etnica dei popoli europei, il loro sovrapporsi e mescolarsi, finisse col negare una superiore unità. Sarebbe sempre un ricadere nell'equivoco naturalistico, svuotando e falsando la realtà storica per far posto all'incerte ed estrinseche distinzioni razziali. Se, dunque, l'Europa storica non coincide con un dato fisico o etnico, può almeno coincidere con la «sua civiltà», o addirittura, come taluni pretendono, con «la civiltà»?
Bisogna tener presente che se nei tempi moderni la civiltà europea è diventata sinonimo di « civiltà» in assoluto, a tal punto che noi siamo tratti, anche involontariamente, a misurare il livello raggiunto da altri popoli e paesi in rapporto al paradigma europeo, ciò non è però vero né esatto sul piano storico. Vi sono state antiche civiltà non europee, ed altre forme di «civiltà» sono forse in formazione fuori d'Europa. Occorre, dunque, raccogliere l'attenzione sui caratteri storici peculiari della civiltà europea, ma anche in questo caso non si può dimenticare che tale civiltà non rappresenta un punto fermo, qualcosa di ben definito e conchiuso, bensì un processo in perenne elaborazione e tuttora aperto. Il concetto di Europa sfugge ad ogni cristallizzazione: l'Europa altro non è se non una formazione storica, e [8] l'idea che l'esprime vive della realtà spirituale e morale, politica e sociale che in forme diverse vi si è concretata in una larga successione di secoli.
Pensieri non molto dissimili sono quelli che lo storico inglese Christopher Dawson manifesta e pone a fondamento di un suo libro ormai famoso: «Noi siamo talmente avvezzi a fondare la nostra visione del mondo e l'intera nostra concezione della storia sull'idea dell'Europa, che ci riesce difficile renderci conto dell'esatta natura di questa idea. L'Europa non è un'unità naturale, come l'Australia o l'Africa; essa è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica e di sviluppo spirituale. Dal punto di vista geografico, l'Europa è semplicemente il prolungamento nord-occidentale dell'Asia, e possiede una minore unità fisica dell'India, della Cina, o della Siberia. Antropologicamente, è un miscuglio di razze, e il tipo dell'uomo europeo rappresenta un'unità piuttosto sociale che razziale. E anche nella cultura la unità dell'Europa non è la base e il punto di partenza della storia europea, ma il fine ultimo e irraggiungibile verso cui questa si è tesa per più di mille anni»[1].
In altri termini, il nostro interesse si concreta sull'Europa come individualità storica, come entità spiritualmente e civilmente distinta, come una creazione armonica e fondamentalmente unitaria pur nella ricca gamma dei suoi differenti aspetti singoli e particolari[2]. Ma è chiaro che i lineamenti i quali contraddistinguono l'Europa di oggi non possono essere i medesimi che diedero un volto all'Europa medioevale o all'Europa del XVI e XVII secolo: alcuni hanno perduto rilievo, altri nuovi si sono manifestati sovrapponendosi o fondendosi coi primi, e tutto ciò in un processo di elaborazione continua, di approfondimento e di affinamento, non di estrinseca mutazione o di rotazione meccanica. Analogamente, come si è già avvertito, l'area di sviluppo della vita europea si sposta in misura notevole, tende ad ampliarsi guadagnando nuovi paesi e popoli, ma talvolta pure perdendone, perché assorbiti, inghiottiti da altre correnti, da diverse e contrastanti formazioni storiche. Nessuna immobilità, dunque, ma un perenne [9] modificarsi sia esteriore (portata estensiva, limiti di diffusione), sia intimo (forme e caratteri dello spirito europeo), com'è proprio di tutto ciò ch'è vivo, di ogni valida creazione umana, di ogni realtà storica.

2. — Scrive Erodoto: «Dell'Europa nessuno al mondo sa se sia circondata dal mare, né da dove abbia tratto questo nome, né si conosce chi gliel'abbia dato...» (Le Istorie, IV, 46). Analogamente, Erodoto discorre anche dell'Asia, ben distinguendola dall'Europa, ma in un senso geografico. In quanto celebra le guerre vittoriose dei greci contro i persiani, Erodoto contrappone gli elleni ai barbari, e solo in seguito tale contrapposizione assurgerà a simbolo di due civiltà, o meglio di due mondi, d'Europa e d'Asia. Arnaldo Momigliano e lo Chabod hanno ricordato che le prime concrete testimonianze di un concetto di Europa di fronte ad un concetto di Asia, come distinzione di valori culturali e di sfere politiche, si trovano in Isocrate (IV sec. a. Cr.) e nel suo discepolo Teopompo[3]. Nel primo affiora il mito della guerra di Troia sentita come contrasto acuto, come duello tra i due mondi, l'europeo e l'asiatico. Ma, in ultima analisi, un vero concetto d'Europa non può mettere radici nel pensiero greco, così come resta estraneo a quello romano. Le colonie greche dell'Asia Minore e la creazione ellenistica nata dalle conquiste di Alessandro Magno non infrangono solo dei limiti geografici ma danno vita ad una complessa realtà in cui entrano elementi europei asiatici ed africani. Anche quello romano fu piuttosto un mondo mediterraneo in senso lato (basti pensare all'importanza in esso della Siria, della Cappadocia, dell'Egitto, delle altre provincie nord-africane, importanza — si badi — non appena territoriale, militare, economica) che un mondo europeo nel significato più esatto del termine. Il ragionamento cambia quando si considerino certi essenziali valori formativi che dall'antica Grecia, attraverso Roma, custoditi e accresciuti, sono passati a costituire il nucleo originario della civiltà europea.
Qualcosa di simile intendeva esprimere Gabriele Rosa dicendo: «La Grecia fu l'intelletto dell'Europa»[4]. E, di fatto, senza il pensiero [10] ellenico, senza la paideia, il nostro stesso concetto di uomo sarebbe incomprensibile. Il Dawson va oltre e afferma che tra i Greci sorse per la prima volta una chiara coscienza della diversità fra gli ideali europei e asiatici e dell'autonomia della civiltà occidentale. L'ideale europeo della libertà nacque nei giorni fatali della guerra persiana, quando le flotte di Grecia e di Asia s'incontrarono nella baia di Salamina e quando i Greci vittoriosi innalzarono il loro altare a Zeus liberatore dopo la battaglia di Platea»[5]. Con le limitazioni di cui si è fatto cenno più sopra, e avendo sempre cura di non accentuare la proiezione nel lontano passato di forme e modi di sentire più moderni, la tesi del Dawson può essere accolta. Così com'è giusto riconoscere che la lotta tra ethos e kratos, tra la libertà e l'assolutismo, già informa di sé l'appassionato duello tra Demostene ed i fautori di Filippo, assurgendo ad un alto e universale significato che, in termini e condizioni diversi, si ripresenterà molte volte nella vita storica europea.
Senza dubbio, la diffusione in Occidente dell'ellenismo innestato sul tronco vigoroso di una grande organizzazione politica e militare, disciplinato da un'originale e sapiente creazione giuridica, fu opera di Roma. Ma bisogna arrivare a Giulio Cesare e ad Angusto perché nella precedente unità mediterranea si compia l'incorporazione di parti essenziali del continente europeo. E mentre, per un verso, anche nei momenti della sua massima espansione l'impero romano non riuscirà mai a dominare popoli e paesi che sono invece parte integrante della Europa moderna, d'altro lato il suo peculiare carattere sarà sempre da ricercarsi in un valore universale, in un concetto che estendeva il vincolo unitario di Roma a tutti i popoli da Roma civilizzati, in maggiore o minor misura, e quindi a gran parte del mondo allora conosciuto, che — insomma — di là da ogni distinzione di continenti e da ogni barriera naturale o da ogni antico confine politico-culturale, tendeva a fare dell'orbis l'Urbs.
All'universalismo del mondo romano (di cui il cosmopolitismo degli stoici era una tipica espressione di pensiero) si sostituisce poi l'universalismo del mondo cristiano. Il secondo si sovrappone al primo, lo eredita e lo fa suo. E' ben nota l'interpretazione finalistica che il pensiero cristiano ha dato della funzione storica di Roma : «Qual'è — si domanda Prudenzio — il segreto del destino di Roma? E' che [11] Dio desidera l'unità del genere umano, perché la religione di Cristo chiede un fondamento sociale di pace e di amicizia tra le nazioni. Sinora la terra intera da Oriente a Occidente è stata lacerata da una guerra continua; per reprimere questa follia il Signore insegnò alle nazioni ad ubbidire alle medesime leggi e a diventare tutte romane. Noi vediamo ora tutti vivere come cittadini di una sola città e membri di una comune famiglia. La gente viene da terre lontane. oltremare, ad un Foro comune per tutti, e i popoli sono congiunti dal commercio, dalla cultura e dalle nozze. Dalla mescolanza dei popoli è nata una unica stirpe. Questo è il significato di tutte le vittorie e i trionfi dell'impero romano: la pace romana ha aperto la via per la venuta di Cristo»[6]. Dunque, la pax romana, come premessa della pax christiana.
Ciò che domina nel Medioevo è infatti la «cristianità» con la sua concezione ecumenica, non l'Europa. Tuttavia, una delle maggiori conseguenze della rottura dei confini imperiali, dell'invasioni barbariche, degli spostamenti di popolazioni, della progressiva diffusione del cristianesimo nel centro e nel nord del continente, fu proprio il graduale configurarsi di un'Europa cristiana, romano-germanica, che già prelude nelle sue linee principali all'Europa moderna. Il Mediterraneo non è più il centro, ma il limite meridionale (spesso minacciato o addirittura conquistato nelle estremità sud del nostro continente dagli Arabi) di quella formazione politico-religiosa che fu l'Europa del Medioevo. Anzi, come ha osservato il Pirenne, nel momento della minaccia araba il centro politico della vita europea tende a spostarsi al Nord, tra la Senna e il Reno; per esempio, con Carlo Magno, ad Aquisgrana.
La christianitas è per la sua stessa natura ed essenza ecumenica; ma se, in teoria, essa abbracciava l'umanità intera, di fatto la sua sfera si restringeva a quei popoli e paesi dove poteva giungere l'autorità somma del Pontefice. L'Europa centro-occidentale è il fulcro di questa unità spirituale e culturale: ancora fuori ne restano le regioni nord-orientali, mentre si va estraniando e orientalizzando l'impero bizantino. Tra Roma e Bisanzio s'accentua nel Medioevo il distacco iniziatosi col basso Impero e, salvo taluni momenti (come quello delle Crociate e dell'effimere creazioni politiche che ne scaturiscono in Oriente), tale processo continuerà fino a culminare con la [12] frattura operata dalla conquista turca tra il mondo europeo e il mondo ottomano. Così, la penisola balcanica sarà veramente riguadagnata all'Europa solo nel corso del diciannovesimo secolo.
Con l'incoronazione solenne di Carlo Magno, la renovatio imperii rappresentò un fatto storico di grande portata che trascendeva le stesse realizzazioni pratiche, pur notevoli, conseguite dalla politica carolingia e dalla rinascita culturale che l'accompagnò. L'universalismo politico-religioso si erge sul particolarismo dei popoli barbarici richiamandosi alla non spenta tradizione dell'Impero romano d'Occidente. L'unità carolingia dalla Marca iberica all'Elba e al basso Danubio, da l'Italia centrale fino al mare del Nord, non coincide con tutta l'Europa cristiana, ma la rappresenta assai bene nel suo nucleo più forte, l'incarna agli occhi di tutti, contribuisce a sottolinearne il vincolo spirituale e politico. Indubbiamente, la debolezza congenita della nuova formazione politica era grave e profonda: più che l'Impero romano restaurato, quello di Carlo Magno era il regno dei Franchi dilatatosi ad Impero e consacrato dalla volontà della Chiesa. Portava in sé i germi della dissoluzione che le minaccie esterne e le lotte tra i successori non fecero se non accrescere acutizzandoli. Ma l'esigenza dell'unità politico-religiosa era viva nel Medioevo: ecco nel 961 Ottone I scendere in Italia per ricevere dalle mani del Pontefice la corona imperiale. Ne trasse vantaggio l'Europa centro-settentrionale che venne così rimessa in più diretto contatto con l'Italia, con Roma papale, col Mediterraneo. D'altro lato, l'avvento dell'Impero scosse il Papato e lo trasse dall'asservimento alle fazioni locali in cui era caduto nel sec. X, in una Roma resa inquieta dalle torbide violenze e dalla cupidigia delle grandi famiglie nobiliari. Il Papato fu richiamato al suo più alto e più vasto compito, portato sul piano dei rapporti e poi dell'aspra lotta con l'Impero, ma comunque in una sfera ben diversa, degna di una Chiesa e ad essa più congeniale. In tal senso il Papato sfuggì al pericolo di isterilirsi entro la città di Roma e fu restituito alla Europa. Il Sacro Romano Impero, pur nei suoi limiti, rispondeva all'istanza unitaria, ed era sentito altresì come rinnovo di un glorioso modello romano. Nella contrapposizione che se ne faceva all'impero bizantino, meglio si delineava il proposito di concepirlo come una creazione europea; scrive, infatti, il dotto Gerberto, collaboratore di Ottone III: «Non si creda in Italia che soltanto la Grecia (Bisanzio) possa vantare la romana potenza e la filosofia del suo imperatore. Nostro, sì, nostro è l'Impero romano! La sua forza è fondata [13] sulla fertile Italia, sulla popolosa Gallia e Germania, e sugli intrepidi regni degli Sciti»[7]. L'aspra e lunga lotta tra Papato e Impero, durante il corso del Medioevo, esprime sì un dualismo di dottrine e di forze, ma non deve far dimenticare che il concetto di unum imperium restava ben saldo e le due autorità, spirituale e temporale, sono pur sempre concepite in strettissimo nesso, come due forme di un'unica sostanza[8].
Il fondamento dell'unità spirituale e politica del Medioevo si palesò in misura rilevante nel periodo delle prime Crociate e prese forma nella struttura sociale e negli ideali della Cavalleria. Nell’«età oscura» — osserva il Dawson — la società occidentale era stata caratterizzata da «un dualismo etico che corrispondeva a un dualismo culturale: c'era un ideale per il guerriero e un altro ideale per il cristiano, e il primo apparteneva ancora in ispirito al mondo barbarico del paganesimo nordico»[9]. Con l'XI secolo il guerriero e il religioso, l'uomo d'arme e l'uomo di fede si incorporano e tendono a coincidere, in una concezione della vita e dei suoi valori che si diffonde e diventa tipica dell'Europa cavalleresca.
Quel profondo senso cristiano che era l'anima dell'Europa medioevale e le imprimeva un carattere unitario, anche se l'organismo politico rispecchiava, come sempre, i duri contrasti e l'aspre rivalità di dominio, venne sentito con particolare intensità dai romantici del primo ottocento, e costituisce anche oggi un suggestivo richiamo per alcuni studiosi e scrittori, particolarmente inglesi, che si dicono convinti della necessità di un ritorno alla sorgente del Cristianesimo (e quasi sempre, in modo specifico, del Cattolicesimo) per vincere la crisi morale e superare l'anarchia politica del mondo contemporaneo.
Poco dopo la grandiosa esperienza rivoluzionaria francese, nel clima di guerra e di turbamenti politici e di contrasti spirituali che ne seguì, alla vigilia di un quindicennio di egemonia napoleonica, Federico Novalis, tutto preso dal suo romantico sogno di pace e di unità cristiana, scriveva il saggio famoso: Christenheit oder Europa (1799). Vi leggiamo questa appassionata rievocazione: «Erano belli, splendidi [14] tempi quelli in cui l'Europa era una terra cristiana, in cui una unica Cristianità guidava codesta parte del mondo umanamente configurata e un unico grande interesse comune univa le provincie più remote di questo vasto reame spirituale. Senza grandi possessi terreni, un solo capo supremo dirigeva ed unificava le grandi forze politiche. Alla sua corte si radunavano tutti gli uomini saggi e venerandi d'Europa. Ogni tesoro vi affluiva... I principi presentavano le loro controversie davanti al Padre della Cristianità, ponevano spontaneamente ai suoi piedi le loro corone e la loro magnificenza, e stimavano addirittura loro gloria il concludere la sera della loro vita come membri di questa alta congrega, in divine contemplazioni tra le solitarie mura di un chiostro»[10]. Dopo quel che s'è detto, non riuscirà difficile intendere quanto vi sia di colorito e di fantasioso, di storicamente falso, nel quadro tracciato con ardore poetico dal Novalis. Questi crea il mito romantico del Medioevo, vagheggia la rinascita di un ideale cristiano trionfante sui mali dell'età moderna. Senza l'entusiasmo dell'animus romantico e senza quella capacità di trasfigurazione, ma pur con indubbia sincerità morale, uno storico contemporaneo, Arnold J. Toynbee, scorge nel Medioevo europeo l'esecuzione magistrale, su la scena del mondo, di un piano divino che gli accadimenti ci rivelano solo in parte, ma che nella sua essenza e nelle sue finalità trascende ogni piena capacità umana di visione e di comprensione[11]. Nel Toynbee, la cui posizione è l'antitesi di ogni concezione meccanica e ciclica ma è altrettanto lontana dal moderno storicismo, si manifesta una Weltanschauung simile a quella degli antichi profeti d'Israele.
In ogni snodo, queste ammirate contemplazioni del Medioevo adombrano un nocciolo di verità, l'esistenza — allora — di un «corpo mistico» dell'Europa che s'è poi venuto dissolvendo. Fu l'età moderna ad incrinare la nozione della respublica christiana, sostituendovi, gradatamente, nuovi concetti animatori e regolatori della vita europea. In primo luogo declinò l'autorità politica e con essa il prestigio morale dell'Impero romano-germanico, mentre si rafforzava il senso di indipendenza dei singoli Stati e la volontà di autonomia di città, signori e principi ancora formalmente soggetti.
[15] Poi fu spezzata, dalla rivoluzione religiosa, l'unità della Chiesa cristiana in Europa. Ciò non significa che sia venuto meno d'un tratto il senso di una solidarietà dei popoli cristiani, di un'Europa ancora e sempre cristiana, ma il sorgere delle diverse Chiese, alcune avviatesi a diventare Chiese nazionali, l'urto tra una pluralità di confessioni religiose, l'asprezza della lotta tra cattolici e riformati, o — come si diceva preferibilmente — tra «papisti» e «antipapisti», tutto ciò doveva necessariamente attenuare l'efficacia di ogni vincolo unitario nel senso tradizionale, accentuando invece le singole autorità politiche ed ecclesiastiche. Fino a che, osserva il Dawson, la comunità spirituale così viva nel Medioevo «fu riconosciuta come realtà sociale concreta, anche lo Stato individuale come unità politica aveva una posizione relativamente umile. Re e principi erano considerati come funzionari della «repubblica» cristiana,... ed il nome stesso di Stato (State, Etat, Staat) nel significato di comunità per eccellenza che forma la base di tutto il pensiero sociale dell'epoca moderna, nacque contro la tradizione del Cristianesimo medioevale. Anzi, il nuovo termine diventò moneta corrente nell'Europa occidentale colla specificazione sinistra di «ragion di stato»[12].
Come testimonianza dello spegnersi del sentimento unitario cristiano potrebbe essere addotta l'alleanza tra Francesco I e Solimano il Magnifico, stipulata formalmente nel 1535, ch'era sì suggerita al Re Cristianissimo di Francia da un estremo bisogno e pericolo, ma rappresentava pur sempre una gravissima ferita inferta alla tradizione ed ai suoi valori morali. Ma, a ben guardare, proprio questo caso famoso dimostra come la tradizione fosse ancora sentita: «bisogna dire anzitutto - nota il Fueter - che questa fraternità d'armi d'un principe cristiano con il Signore degli infedeli non venne allora affatto approvata né compresa dall'opinione pubblica, e che non solo gli avversari della Francia, ma anche i neutri ed i francesi stessi elevarono i più gravi rimproveri contro il tradimento della causa cristiana»[13]. Dunque, conclude il Fueter, il sentimento della comunanza cristiana non era diminuito; tuttavia, subito dopo ammette che tale sentimento, di fronte al pericolo islamico, non si dimostrò «abbastanza forte da realizzare un organismo di difesa». Allora [16] diremo che non era spento, ma certo affievolito e quindi ristretto ad un motivo d'ancor salda tradizione; non più forza attiva ed operante.
Mentre in Europa si spezzava l'unità della Chiesa, s’aprivano al messaggio evangelico le terre del Nuovo Mondo. In misura crescente, popolazioni extraeuropee abbracciavano la religione di Cristo. E qui entrano in giuoco le conseguenze morali e psicologiche delle grandi scoperte geografiche, di quel dilatarsi delle conoscenze e della sfera dell'attività umana per cui, secondo le parole di consapevole entusiasmo dirette dal cardinal Egidio da Viterbo, agostiniano e umanista, al pontefice Giulio II, «quello che per circa seimila anni era rimasto nascosto, quello ch'era agli antipodi, gli uomini viventi sotto un altro cielo, le isole ignote, un mondo sconosciuto,... tutto era stato scoperto, conosciuto, esplorato...» (Lettera del 18 agosto 1508). Attraverso l'evangelizzazione, la espansione coloniale dei regni cattolici, e poi le missioni, la Chiesa di Roma accentuava la sua influenza mondiale in stretta coerenza con il carattere ecumenico del Cristianesimo. In pari tempo, l'Europa cessava di essere il solo continente cristiano, e quindi perdeva una sua caratterizzazione tipica ed esclusiva.
Infine, il pensiero del Rinascimento, la sua stessa concezione di vita, modifica profondamente 1'ubi consistam del mondo medioevale in virtù di un processo di liberazione della cultura dalle finalità religiose. La nuova cultura ha ancora per fondamento l'idea cristiana, ma un umanesimo cristiano e non una teologia; inoltre comincia a sviluppare i germi razionalistici destinati ad affermarsi tra il XVII e XVIII secolo. L'Europa salva la sua unità culturale; ma l'accento batte sul vincolo umanistico, su la comunanza intellettuale, più che su quella religiosa. Appunto per questo, la frattura operata dalla Riforma non implicò la separazione dell'Europa «in due unità culturali esclusive e nemiche, come sarebbe certamente accaduto se essa fosse successa quattro o cinque secoli prima. A dispetto della separazione religiosa, l'Europa conservò la sua unità culturale, ma stavolta fondata più su una tradizione intellettuale comune e una comune fedeltà alla tradizione classica che non su una fede comune. La grammatica latina prese il posto della liturgia latina come legame di questa unità intellettuale, e il dotto e il gentiluomo presero il posto del monaco e del cavaliere come figure rappresentative della cultura occidentale»[14].
[17] Da un punto di vista politico, l'Europa diventa un sistema di Stati, sovrani ma interdipendenti; dal punto di vista spirituale, una unità di cultura. Come sistema o «società» di Stati elabora il concetto, comune ai suoi membri, della politica di equilibrio. Concetto ch'esprime un vincolo politico il quale insieme con l'unità di cultura contribuisce a formare nell'età moderna, su un piano diverso da quello medioevale, il senso dell'Europa come realtà storica.

3. — Dal Rinascimento ad oggi si è parlato e si parla di equilibrio politico: tra il Sei e il Settecento si è avuta una ricca elaborazione teorico-pratica del principio, il quale ha poi manifestato, proprio nella varietà ed adattabilità delle sue forme, un profondo vigore di vita. Si tratta quindi d'intendere la vera natura e i limiti del concetto, non di negare che esso abbia una sua consistenza storica, cioè che abbia concretamente operato ed agito. La scuola degli internazionalisti francesi, nella seconda metà del secolo scorso, ha idoleggiato la teoria dell'equilibrio; ha cercato d'infondervi un valore costante e normativo; è giunta ad ammettere un «Diritto dell'equilibrio», a titolo di garanzia di ogni singolo Stato e di tutti gli Stati. Si tratta di una formula attraente, facile a invocare, difficile da respingere a priori, ma altrettanto inefficace sul terreno storico, e quindi astratta.
Di fronte ad un problema concreto, nella sua vera realtà politica (e non giuridica), la formula si scioglie e svanisce; perché in ultima analisi, la teoria dell'equilibrio incontra sempre due limiti: nel maggiore o minore senso di solidarietà d'interessi tra gli Stati, e nell'effettivo spostarsi delle forze morali e materiali le quali vengono ad alterare, profondamente, i termini d'una situazione preesistente. In un particolare equilibrio politico sono già insite le tendenze e le tensioni che, come portarono a crearlo, così condurranno pure a superarlo. Vano è dunque il tentativo di codificare il principio. E così vien fatto di sorridere leggendo nel voluminoso, e per tanti altri aspetti pregevole, trattato dello Stieglitz[15] che «all'epoca... babilonese il principio dell'equilibrio non era applicato perché allora non esisteva il diritto internazionale, ed è perciò appunto che non poteva esservi una norma d'equilibrio». Non si tratta di questo. Anche se il principio di cui discorriamo, nel suo affermarsi, coincise con il sorgere [18] d'una stabile diplomazia e con lo sviluppo del diritto internazionale, tuttavia non può essere elevato a norma giuridica, ma conserva la sua natura di mero concetto politico, e il suo carattere strumentale. Anzi l'efficacia pratica risiede nell'impossibilità di tradurlo in un complesso rigido di regole precise, sempre identiche, e si manifesta invece nell'elasticità e relatività del suo porsi come mezzo per affrontare e risolvere, di volta in volta, i problemi della vita internazionale. Entro questi limiti, il principio d'equilibrio costituisce un elemento ben vivo, e segna una linea maestra della storia moderna, massime nell'aspetto diplomatico, in quanto storia d'un sistema di stati nelle loro necessarie relazioni di interdipendenza. Spaesato sul terreno del puro diritto, esso ritrova il suo significato storico e il suo valore concreto sul terreno più mobile ed elastico della vita politica.
Il principio dell'equilibrio è nato, appunto come esigenza politica, nell'Italia del Quattrocento, dalle lotte delle signorie e dei principati; è sorto come istintiva difesa d'organismi in contrasto, come sistema empirico per cui le concorrenti brame si placavano in una relativa bilancia di forze. Ma gradatamente, esso assurge a consapevole metodo, via via che sovrani e popoli acquistano piena cognizione dell'esistenza di un sistema di stati e degli insopprimibili vincoli che ne stimolano e, in pari tempo, ne condizionano l'attività. Nel medioevo impero e papato facevano sentire la presenza di un «limite» alle aspirazioni e agli antagonismi politici; all'inizio dell'età moderna questo limite scaturisce da un rapporto di forze che si va stabilendo tra gli Stati regionali o nazionali, e si traduce nella consapevolezza di un costante legame, d'un perenne interferire d'interessi, che unisce reciprocamente, volenti o nolenti, varie Potenze. Ed è questo che veramente conta, perché di azioni politiche rivolte a creare o a ristabilire un equilibrio fra Stati diversi, certo ve ne furono anche nei secoli precedenti; ma solo nel Rinascimento quell’azioni vengono concepite e inquadrate in un principio generale[16]. Da istintiva, la politica della bilancia diviene ragionata, e tende ad estendersi abbracciando le grandi e piccole potenze in un giuoco diplomatico di cui il principio d'equilibrio è un motivo sentito, un canone riconosciuto, una degli indici più significativi della comunità internazionale.
[19] La politica di Lorenzo il Magnifico nella seconda metà del XV secolo, e analogamente quella degli altri principi della penisola, trova già la sua definizione nel noto giudizio del Guicciardini: «e conoscendo (Lorenzo de' Medici) che alla Repubblica Fiorentina, e a sé proprio, sarebbe molto pericoloso se alcuno dei maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d'Italia in modo bilanciate si mantenessero, che più in una che in una altra parte non pendessero»[17].
Ma la prima esplicita formulazione italiana del concetto di equilibrio non si trova nel Guicciardini e non si riferisce a Firenze. S'incontra in un politico umanista veneziano, Francesco Barbaro, il quale fin dal 1439 attribuiva alla Repubblica Serenissima il merito d'aver cercato e garantito l'equilibrio degli Stati Italiani. E dal Barbaro trae origine quella caratteristica scuola politica veneta che culmina col Partita, nei cui «Discorsi», tenuto presente che Venezia non era così forte da poter continuare una politica d'espansione, né «tanto debole» da dover temere «di restare da altri facilmente oppressa», si conclude: «essere il migliore e il più sicuro consiglio, per la quiete d'Italia, tenere in modo bilanciate le cose che non possano aver luogo negli animi dei Principi quegli effetti di timore e d'ambizione i quali sono stati, in altri tempi, cagione di perturbarla»[18].
Ma anche dinanzi alle mire crescenti delle forti monarchie nazionali d'oltralpe, gli Stati italiani si regolarono come prima avevano fatto nell'interno della penisola, vale a dire secondo la politica della bilancia che consigliava d'unirsi al più debole per contrapporsi alla potenza del più forte, nella vana speranza di salvare in tal modo la così detta «libertà d'Italia». E appunto in questa inutilità degli sforzi diretti a creare, con le famose leghe dell'equilibrio, una sufficiente difesa contro le ambizioni straniere, si manifestava una prima fondamentale illusione, che cioè potesse bastare un equilibrio concepito in senso rigidamente conservatore, statico, per ovviare alle altrui minacce e garantire la propria tranquillità. Lo scopo non doveva essere di bilanciare le forze per immobilizzarle, ma per organizzarle, per renderle vive ed operanti.
Comunque, nei primi decenni del secolo XVI, attraverso le guerre di preponderanza, il principio dell'equilibrio da italiano diventa europeo, [20] contribuendo a creare un orientamento dello spirito politico che segna un netto distacco nei confronti dell'Europa medioevale. Il sistema prima coltivato dagli Stati della penisola, si diffonde in un'orbita ben più ampia, perché viene necessariamente adottato anche dalle grandi potenze; per esempio, dalla Francia di Francesco I, che ne fa un vessillo di lotta contro la minaccia egemonica costituita dalla «monarchia universale» di Carlo V.
E, a sua volta, Enrico VIII d'Inghilterra, che ama essere considerato l'ago della bilancia tra Spagna e Francia, inserisce la politica inglese nel grande giuoco di equilibrio tra le potenze marittime e continentali.
In questo periodo il principio assolve, in primo luogo, una funzione polemica contro l'imperialismo asburgico e alimenta la resistenza dei paesi che si sentono minacciati. Ma, nelle lotte religiose della seconda metà del Cinquecento, è dato anche scorgerne un aspetto nuovo, quasi un corollario: la politica d'intervento in favore dei correligionari d'altre nazioni; intervento che per ora è giustificato con motivi di prevalente carattere religioso, ma che, in sostanza, riflette un ampliamento della politica d'equilibrio in rapporto ai problemi sempre più complessi che legano tutta la vita europea e che vietano ad uno Stato di straniarsi dalle grandi questioni comuni e di far parte per se stesso.
Di pari passo, procede l'elaborazione del concetto attraverso la pubblicistica politica. Il Botero fu tra i primi a riconoscere il valore che andava assumendo nei rapporti internazionali il sistema ch'egli chiama del «contrappeso»[19], che «ha per fondamento l'ordine della natura e il lume della ragione». Ma, secondo l'Autore della «Ragion di Stato», le lotte che agitano l'Europa sono, in generale, vane e sterili, perché esse non hanno di mira il vero e sano equilibrio, quello cioè universale, di tutta la cristianità, ma una sua forma inferiore ed angusta, che si riferisce al benessere di uno stato particolare. Dove è visibile un errore di giudizio e di prospettiva perché, mentre si è dissolta l'idea ecumenica della «respublica christiana», si è andata radicando la persuasione d'una comunità politica europea in cui gli interessi di un paese sorgono, si mantengono, si sviluppano «in reazione» [21] agli interessi di altri Paesi, acuendone la reciproca sensibilità. Infatti nella pubblicistica francese del Seicento, in cui si sviluppa chiaramente questo concetto degli «interessi» degli Stati, anche l'idea d'equilibrio trova la sua piena giustificazione e assurge a teoria[20]. Enrico di Rohan ritiene che lo scopo principale dei governi europei debba consistere nel bilanciare le due potenze opposte di Francia e Spagna, perché «solo in questo equilibrio risiede la tranquillità e la sicurezza di tutti». Più astrattamente il Sully vagheggia una uguale distribuzione «di potenza, sovranità, ricchezza, dominio», tra i quindici stati dell'Europa cristiana, assegnando a ciascuno «limiti equi e ben commisurati». Ma è significativa, in quasi tutti gli scrittori, la persistente esclusione della Turchia, il voler restringere la sfera di attuazione del principio ai rapporti del mondo cristiano, laddove più d'una volta l'alleanza col mondo mussulmano era stata, essa stessa, strumento della politica europea d'equilibrio.
I trattati di Westfalia segnano un primo riconoscimento ufficiale della solidarietà d'interessi degli Stati moderni, i quali non ammettendo più alcuna autorità estranea alla propria, sono indotti a cercare in se stessi e nei mutui rapporti d'alleanze un rimedio contro ogni abuso di forza ed ogni minaccia egemonica; e quindi si organizzano, e pongono in primo piano il principio d'equilibrio considerato come garanzia di stabilità e di sicurezza. Infatti, non appena la politica di espansione di Luigi XIV sembra compromettere il vecchio ordine europeo, il motivo dell'equilibrio minacciato, che occorre difendere o restaurare, non solo anima le corrispondenze diplomatiche dei paesi coalizzati contro la Francia, ma alimenta anche la libellistica e dilaga nelle gazzette, agitando dinanzi alla opinione pubblica lo spauracchio d'una nuova «monarchia universale». Ecco perché l'atto di rinuncia al trono di Francia, imposto a Filippo V (5 novembre 1712) esprime la fiducia «che il sistema non venga mai alterato e che perciò le potenze siano equamente bilanciate». In modo anche più solenne il trattato di Utrecht tra l'Inghilterra e la Spagna (13 luglio 1713) afferma che la pace è conclusa «ad firmandam stabilendamque pacem ac tranquillitatem christiani orbis, justo potentiae equilibrio» (articolo 2). Con lo stesso trattato, per la prima volta, fu enunciato ufficialmente [22] il principio, definendo l'equilibrio : «quod optimum et maxime solidum mutuae amicitiae et duraturae concordiae fundamentum est», e lo si volle porre come regola esplicita per assicurare una più ordinata convivenza internazionale. Che, se tale enunciazione rimase sterile nel senso normativo, non per questo mancò d'esercitare un'influenza profonda sullo spirito e le forme dei rapporti politici durante tutto il secolo fino alla Rivoluzione francese. Infatti il Settecento segna il pieno affermarsi della politica di equilibrio nella teoria e nella pratica. Fénelon scrive: «Tutte le Nazioni vicine sono talmente legate, dai loro interessi, le une alle altre e a tutta l'Europa, che i più piccoli progressi particolari possono alterare questo sistema generale ch'è l'equilibrio e che solo può garantire la sicurezza collettiva. Togliete una pietra da una volta e tutto l'edificio crolla, perché tutte le pietre si sostengono contrapponendosi»[21]. E, poco dopo, lo Hume in Inghilterra, invoca il principio della bilancia delle forze come elemento moderatore nella grande rivalità marittima e coloniale franco-britannica[22]. Ma più ci si inoltra nel Settecento e più si nota un progressivo distacco, di fronte al nostro problema, tra la posizione di pensiero assunta dagli scrittori e la quotidiana prassi politica. Quest'ultima segna un accentuarsi del carattere instabile, dinamico del-l'equilibrio, dovuto al premere di vecchie e nuove forze di espansione. Invece nella formulazione dottrinale, sotto l'influenza delle ideologie cosmopolitiche e umanitarie, il concetto tende a svolgersi in senso pacifista e conservatore[23], con una sfumatura moralistica che sfocia in una esplicita condanna d'ogni sete di dominio. «Un’intemperante voglia di conquistare - scriveva il Roberti nel suo libretto «Dell'amore verso la Patria»[24]- giudico essere la maggior disgrazia che possa affliggere un popolo». E il Muratori gli faceva eco: «la gloria dei conquistatori patisce delle difficoltà, perché talvolta scompagnata dalla giustizia, o perché bene spesso acquistata con tante lagrime del proprio popolo e dell'altrui»[25].
Intanto, il campo d'azione della politica di equilibrio si è nuovamente esteso: investe ormai anche i settori periferici dell'Europa. [23] Già nel secolo XVII era apparso il problema dell'equilibrio baltico, negli aiuti accordati da Inghilterra, Olanda e Francia alla Danimarca minacciata dalla marea militarista svedese; ma nei primi decenni del secolo XVIII, tutto il problema si sposta, perché entra nel giuoco la Russia che si afferma come potenza europea proprio su le rive del Baltico, accelerando il tramonto dell'egemonia svedese.
Anche per questo l'equilibrio degli stati nordici, subito dopo la pace di Nystadt, assume una fisionomia caratteristica e ben definita: non è un equilibrio di antagonismi, ma di solidarietà dettata da comuni esigenze di fronte ad eventuali comuni pericoli. Infatti nel 1788 Gustavo III scriveva a Cristiano VII di Danimarca: «Il colosso russo pesa su tutti noi, ed io Vi confido lo sdegno che provo nel vedere questo Stato, appena uscito di barbarie, arrogarsi il diritto di dominare il Nord, minacciandone il pacifico assetto». E con la Russia, che inizia nel Settecento la sua espansione verso il Mar Nero, sorge il problema dell'equilibrio dell'Europa orientale, che andrà crescendo d'importanza sul finire del secolo e nell'Ottocento fino a coinvolgere gli interessi di tutte le potenze (questione di Oriente). Ma anche nel cuore dell'Europa la rapida ascesa della Prussia ha sconvolto l'ordine uscito dai trattati di Vestfalia; e nella penisola italiana il Piemonte è diventato a sua volta, nel XVII e XVIII secolo, fattore di primo piano nelle lotte diplomatiche e nei conflitti armati tra i grandi stati. Inoltre, dal Cinquecento in poi, la politica d'equilibrio abbraccia anche il mondo coloniale. Ma è ovvio che le colonie non possano essere, esse stesse, protagoniste d'una politica d'equilibrio; sono semplici mezzi e strumenti, o anche fini, della lotta che si svolge sul continente tra le potenze marittime e colonizzatrici. Per cui il concetto di equilibrio, fino a tutto il Settecento, rimane tipicamente europeo, cosicché il Voltaire potrà annoverarlo tra i principi politici sconosciuti alle altre parti del mondo. Comunque, il problema, nel suo aspetto pratico, si è venuto modificando e complicando. Non si tratta più di contenere e bilanciare l'antagonismo borbonico-asburgico; lo scacchiere politico s'è popolato di nuove individualità statali, forti e decise ad esercitare il loro peso nella vita europea.
D'altra parte, se il numero accresciuto degli stati potenti non consente più ad alcuno di aspirare a dominarli tutti, ciò non impedisce che ciascuno aspiri a migliorare e ad espandersi; solo costringe ogni stato a calcolare, non soltanto le proprie, ma anche le altrui ambizioni, e a manovrare nel composito organismo internazionale in [24] modo da conseguire risultati vantaggiosi senza provocare una pericolosa coalizione di tutte le forze avversarie. In questo periodo è soprattutto l'Inghilterra che vigila sull'equilibrio del continente e che, dopo un ventennio di assenteismo dalla politica europea (1721-42), trae profitto dai contrasti che vi si accendono per accrescere e consolidare il proprio dominio coloniale e marittimo. La «Prammatica Sanzione» di Carlo VI era stata promulgata «pro conservando duraturo in Europa aequilibrio» e la Francia l'aveva garantita, col trattato di Vienna del 1738, «per il mantenimento della pace e per la tutela dell'equilibrio in Europa». Tutto ciò non impedì, alla morte di Carlo VI, il formarsi di una coalizione antiaustriaca; ma il principio dell'equilibrio minacciato dalla Francia, dalla Spagna, dalla Prussia, fu difeso dall'Inghilterra, «perché questa bilancia — scriveva il Voltaire — bene o male intesa, era divenuta la passione del popolo inglese»; passione — aggiungeremo noi — che coincideva perfettamente con l'interesse politico britannico. E ancora, dopo il rovesciamento delle alleanze, l'Inghilterra schierandosi a fianco della Prussia nella guerra dei Sette anni, mirò ad esercitare una politica d'equilibrio nell'Europa centrale, alterando però a proprio beneficio l'equilibrio coloniale con la Francia.
Nella prima metà del XVIII secolo si era molto parlato di «sistema delle Potenze marittime» (soprattutto Inghilterra e Olanda)[26]. Giorgio II non appena salito al trono proclamava, il 7 luglio 1728, dinanzi al Parlamento: «L'Inghilterra è al massimo di reputazione e di gloria; essa ha nelle mani la bilancia per mantenere l'equilibrio così necessario tra le potenze d'Europa »[27]. Un nuovo e peculiare valore veniva attribuito al commercio che, secondo il Bertola, «forma oggi una delle più gran basi della felicità e grandezza dei popoli, e in ciò gran parte entra nella politica dominante di Europa: sorgente di guerra, fondamento de' trattati di pace e possente contrappeso a mantenere l'equilibrio europeo»[28] Analogamente, si trova accennato nella pubblicistica settecentesca, anche prima della guerra dei sette anni, il concetto del commercio inglese come elemento nocivo [25] all'equilibrio europeo perché predominante[29]. D'altra parte, dinanzi alla rivolta delle colonie inglesi del Nord America, il Raynal avverte che se l'Inghilterra fosse battuta in quella guerra, i Borboni di Francia e Spagna dovrebbero nondimeno adoperarsi perché in America rimanessero due Potenze (Francia e Inghilterra) a controllarsi e ad equilibrarsi reciprocamente, e ciò sia nell'interesse del medesimo equilibrio europeo, sia perché qualora il Nuovo Mondo restasse un giorno del tutto libero diverrebbe in breve rifugio e covo degli intriganti e degli esuli di ogni paese, e vi si accentuerebbero i latenti germi di discordia tra Nord e Sud America[30]. Dove si vede come il concetto d'equilibrio tenda ad allargarsi investendo e comprendendo nella sua area il continente americano il cui nesso con l'Europa è ritenuto inscindibile.
Reso scettico dall'abuso che si veniva facendo del principio dell'equilibrio, il D'Argenson annota in una pagina dei suoi Mémoires : «Siamo pazzi a credere di ordinare l'Europa, mentre la turbiamo. Siamo in buona fede nella nostra malafede. Sempre sospettosi che i nostri rivali mirino alla monarchia universale, finiremo con il suscitare l'incendio in ogni parte. Prendiamo degli impegni e non ci facciamo scrupolo di tradirli. Da Carlo V in poi non si è parlato di equilibrio europeo se non per sacrificare a questa illusione più uomini di quanti non ne siano periti alle Crociate»[31].
Ma anche sul continente, attraverso l'opera d'una astuta e raffinata diplomazia, la politica della bilancia veniva piegata fino a diventare coefficiente d'espansione per alcuni stati e mezzo per giustificare le conquiste violente e le spoliazioni a danno dei paesi più deboli. Nella seconda metà del secolo XVIII, per le Corti di Berlino, di Vienna e di Pietroburgo, un nuovo principio, quello delle «spartizioni», diviene il corollario naturale e quasi indispensabile del principio d'equilibrio; e, a sua volta, si riveste di norme procedurali e di formule teorico-pratiche. Così, la scomparsa della Polonia dalla scena politica d'Europa viene giustificata con la necessita di conservare l'equilibrio tra l'Austria, la Russia, la Prussia, e gli smembramenti [26] sono stabiliti in modo che le parti assegnate non alterino la proporzione prima esistente fra i tre stati. Federico II ne è fiero: «E' il primo esempio, scrive nei suoi Mémoires, che la storia fornisce d'una spartizione terminata pacificamente fra tre Potenze»[32]. Ma, nonostante questi veli e queste sfumature, o forse proprio in ragione dei vani sforzi compiuti per mascherare la realtà prepotente delle ambizioni, l'idea dell'equilibrio comincia a subire i primi attacchi. Essa era circondata da un'aureola di giustizia fino a che veniva intesa come una garanzia degli stati deboli ottenuta attraverso il reciproco controllo, la mutua vigilanza, degli stati più forti. Ma ora la politica d'equilibrio scopriva un altro volto e si trasformava in un complotto dei potenti per inghiottire gl'inermi. L'equilibrio, scriveva Luigi XV al marchese d'Hautefort, è «une chose de pure opinion»[33], che ogni stato interpreta a suo modo, secondo il proprio vantaggio. Nulla di nuovo in questa definizione, ma è significativo che si acquisti coscienza più chiara dell'incompatibilità d'un equilibrio statico di potenze con la vita internazionale che è, per sua natura, moto continuo, rivolgimento di forze, nascita e morte di organismi politici. E gli stessi governi, che hanno protestato contro l'altrui violazione del principio, sono poi scesi sul terreno comune reclamando «compensi» per ristabilire l'equilibrio perduto, originando nuove partizioni, compromessi, smembramenti, tutto un artificioso mercato di territori e di popoli.
Ma, nel Settecento, occorre sottolineare il presentarsi d'un aspetto particolare del concetto di equilibrio in relazione al problema delle «frontiere naturali». La recente storiografia (Zeller, Febvre, Ancel) ha posto in luce come si debba far risalire, in gran parte, ad Alberto Sorel la nota tesi d'una costante aspirazione della politica francese al raggiungimento dei confini naturali, ed ha insistito sul carattere erroneo ed illegittimo d'una ricerca tendente a rintracciare in poche testimonianze o voci isolate anteriori una teoria che in Francia si affermò solo nel periodo della Legislativa e della Convenzione [34].
[27] In questi rilievi critici c'è molto di vero. Tuttavia, la politica delle barriere che è tipica dei primi anni del Settecento (barriera alpina franco-piemontese, barriera olandese, per cui tanto si discusse nel corso delle trattative per la pace di Utrecht) non è se non il preludio (e mi pare che gli studiosi non l'abbiano ancora notato con sufficiente chiarezza, né esattamente valutato) di quell'altra politica dei confini naturali che trionferà negli ultimi anni del secolo. Le barriere sono considerate come un mezzo efficace per stabilire l'equilibrio, per assicurare la reciproca difesa e la pace; i confini naturali come un limite equo alle tendenze espansionistiche d'un Paese, ma in pari tempo come un'aspirazione legittima da realizzare che, appunto perché tale, e cioè rispondente ad un diritto di natura, può e deve conciliarsi con l'equilibrio generale. La differenza consiste in un diverso modo di prospettare il problema delle frontiere in rapporto all'esigenze politiche di uno o più stati nei diversi momenti storici; ci troviamo cioè dinanzi, ancora una volta, o ad una interpretazione conservatrice, pacifista, o ad una concezione che tende ad indicare, in una linea che si reputa tracciata naturalmente, una meta necessaria da perseguire nell'interesse nazionale. Montesquieu dichiara: «vi sono certi limiti che la natura ha dato agli Stati per mortificare la ambizione degli uomini»; e questa, in massima, è la posizione illuministica. Ma Danton e Carnot (nel 1791 e nel 1793) le infonderanno un ben diverso contenuto con i loro ripetuti appelli alla necessità che la Francia giunga ai Pirenei, alle Alpi e al Reno, e vi si insedi solidamente.
Ora, se il nesso che lega il concetto di equilibrio alla teoria delle frontiere naturali è innegabile, in quanto si presuppone che proprio il riconoscimento e il rispetto reciproco di questi limiti siano coefficienti preziosi d'uno stabile e pacifico assetto internazionale, pure non si può non scorgere l'illusione naturalistica che vi si annida; perché le frontiere, di qualunque origine esse siano, non fanno che riflettere alla periferia d'uno Stato le sue pulsazioni interne, ed i confini sorgono, oscillano, si spostano in virtù dei rapporti di pressione, cioè di potenza, che si esercitano tra gli stati contermini. In altre parole, quando un popolo si prefigge una frontiera naturale, è semplicemente [28] un limite, spesso provvisorio, che esso stabilisce all'intensità del suo desiderio d'espansione. Di conseguenza, il problema dell'equilibrio, lungi dal poter essere ancorato a un dato fermo, immutabile, d'ordine naturale, riprende per intero il suo carattere di principio politico mutevole e flessibile, pronto a giustificare anche una violazione dei così detti «confini segnati da madre natura», non appena ad uno Stato ciò appaia suggerito dal declinare delle forze altrui o richiesto dal crescere delle proprie. Si guardi alla politica napoleonica: nei suoi esordi non differisce gran che da quella in auge presso la diplomazia dell' «ancien régime» (basti pensare a Campoformio e alla cessione di Venezia all'Austria come «compenso»), ma alla fine l'imperialismo trionfa su ogni scrupolo d'equilibrio e travolge il vecchio assetto europeo.
Ed è proprio per restaurare il perduto equilibrio che lavora la diplomazia dal 1813 al 1815. Nel trattato preliminare d'alleanza tra la Inghilterra e l'Austria, concluso a Toeplitz il 3 ottobre 1813, si indica come scopo «il ristabilimento d'un giusto equilibrio tra le Potenze che assicuri la tranquillità all'Europa», e nel trattato tra Vienna e Napoli, dell'11 gennaio 1814, si vagheggia una «pace durevole fondata su l'indipendenza e l'equilibrio delle Potenze». Talleyrand è d'accordo con Castlereagh nell'intendere l'equilibrio come «un rapporto fra le forze di resistenza e le forze d'aggressione reciproche dei diversi organismi politici», e nell'auspicare per l'Europa un regime di giusta e saggia bilancia dei poteri.
Il 5 febbraio 1814, quando s'apriva il congresso di Châtillon, il Gentz scriveva che la politica di Vienna non era mai stata «soltanto quella di scambiare un pericolo con un altro, e di distruggere la preponderanza della Francia per preparare o favorire quella della Russia; ... Metternich guarda oggi più che mai alla Porta Ottomana come ad uno dei contrappesi più essenziali nell'equilibrio generale dell'Europa» («Notizie ai Gospodar della Valacchia»).
Negli anni successivi rivolge la sua attenzione al problema dell'equilibrio anche uno storico italiano, Luigi Blanc, il quale ricorda che l'Ancillon, nel suo Tableau des révolutions du système politique de l'Europe depuis le XV siècle (Paris, 1803), mostra come «si è formata, sopra ogni società particolare una società generale delle nazioni». E' nato cioè un diritto pubblico degli Stati, il quale trova la sua forza non nelle monarchie universali o nelle potenze egémoni, «ma unicamente nel concerto degli Stati minori che, opponendo la [29] massa vittoriosa delle forze secondarie alla forza aggressiva di una potenza preponderante, la riduce nei limiti legittimi». Il Blanc aggiunge che «per attuare un sistema di equilibrio... si richiede che tutti i popoli abbiano qualcosa di comune, quasi membri di una stessa famiglia, e un modo medesimo di civiltà che differisca nei gradi e non nel carattere»; «l'equilibrio perfetto è contrario alla nostra natura, ma la tendenza all'equilibrio è nella natura...»[35].
Ciò che conta è che da quello sforzo di riorganizzazione generale dell'Europa che fu il Congresso di Vienna, scaturì anche il tentativo d'imprimere nuova vita al vecchio sistema, nel senso cioè che la garanzia dell'equilibrio non dovesse più essere lasciata ai singoli Paesi, ma si dovesse affidarla ad un gruppo di grandi Potenze. Nasce così il «concerto europeo» che in sede teorica ripete la sua origine, attraverso il pensiero del Genz e quindi del Metternich, dalla riconosciuta necessità di non confondere l'equilibrio con un mero livellamento delle forze, e che, in sede pratica, ha operato, se non continuativamente almeno a tratti, e con grande varietà di criteri, nella vita internazionale fino ai nostri giorni.
Ma ormai la politica d'equilibrio si sposta decisamente dal terreno dinastico a quello nazionale, anzi entra in funzione delle lotte di nazionalità. Dapprima gli stati assoluti, attraverso i congressi della Restaurazione, vogliono salvare, sotto il pretesto della difesa del legittimismo e della tutela dell'ordine interno, lo statu quo, rinnovando il principio di «intervento», che già nel XVI e XVII secolo era stato addotto, anche se non formulato nei termini moderni, legittimandolo sulla base di altre ideologie.
Ma nel 1830-31 la soluzione del problema nazionale belga viene giustificata col proposito «di far concorrere quelle provincie alla creazione d'un giusto equilibrio in Europa». Da questo momento tale principio è invocato in tutte le crisi europee (questione egiziana del 1840, questione d'Oriente, questione danese dal 1852 al 1863, questione germanica dal 1851 al 1866), pur rivelandosi spesso insufficiente a prevenirle e a risolverle, sia per l'interpretazione unilaterale che i singoli stati ne danno su la base dei propri interessi, sia per i frequenti urti fra le aspirazioni delle nazionalità oppresse e la struttura di alcune potenze come l'Austria-Ungheria e la Turchia. Nel 1851 Palmerston di fronte al problema germanico insiste per «la [30] conservazione della bilancia delle forze in Europa». Nel 1852 si afferma che l'integrità danese è intimamente «legata agli interessi generali dell'equilibrio europeo»; nel 1854 lo statu quo dell'Impero Ottomano è considerato essenziale «al mantenimento della bilancia tra gli Stati civili» (preambolo del trattato anglo-turco del 12 marzo 1854).
Eppure, lentamente, si fa strada il concetto che un migliore equilibrio dell'Europa moderna può scaturire solo dalla soluzione dei problemi nazionali, dall'accoglimento dei voti dei popoli soggetti. Per ciò che concerne l'Italia, già Vincenzo Cuoco, anticipando la visione del Risorgimento come problema di rapporti politici europei e come questione internazionale, aveva scritto: «l'equilibrio tanto vantato in Europa non può essere affidato se non all'indipendenza italiana, a quell'indipendenza che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbe procurare»[36].
Ma, nel vivo della lotta, Giuseppe Mazzini, ergendosi contro il vecchio mondo e contro le soluzioni di compromesso auspicate dai moderati e dai riformisti, proclama: «l'equilibrio conducente alla pace, la cosiddetta bilancia dei poteri, è menzogna inefficace se non è equilibrio e bilancia di giustizia: a fondarla è necessaria una revisione di quelle ingiuste, ineguali, tiranniche convenzioni, alle quali i popoli non intervennero, né diedero conferma mai».
Se il Mazzini respinge le consuete forme della politica di equilibrio da un punto di vista etico-nazionale, il Thiers - al contrario - lamenta, muovendo da un presupposto sostanzialmente conservatore, lo sconvolgimento recato dalle nuove idee: e nelle sue critiche ai risultati della guerra d'Italia del '59, pronunciate dinanzi al Corpo Legislativo nel 1865, rimprovera al principio trionfante delle nazionalità di distruggere l'antico concetto della politica di equilibrio, così prezioso per la stabilità e la pace dell'Europa. Sono i vani rimpianti d'un vecchio ordine di cose che si dissolve e che sfuma[37]. Dopo i [31] trionfi prussiani del '70, Disraeli alla Camera dei Comuni commenta: «l'equilibrio europeo è interamente distrutto. Non vi è tradizione diplomatica che non sia stata spezzata; noi ci troviamo dinanzi ad un mondo nuovo, a nuove influenze». E' la fase critica della politica inglese, che di lì a non molto, dovrà abbandonare il suo splendido isolamento e prepararsi a combattere, non più come ago della bilancia europea, ma come un piatto che cerchi ostinatamente di difendere il suo peso.
Nel periodo bismarckiano, sul libero giuoco dell'equilibrio prevalse il sistema del concerto europeo, ed anche quando la pratica del contrappeso delle forze riapparve, sul calare del secolo, con la Triplice alleanza e con la Duplice franco-russa, di fronte a molti problemi continuò ad agire il Direttorio delle grandi Potenze, attraverso la formula dei compensi o quella delle zone di influenza. Così nel Congresso di Berlino del 1878 (Cipro all'Inghilterra, l'amministrazione della Bosnia all'Austria), così nelle questioni coloniali. Dove si rendeva impossibile il mantenimento dello statu quo si ricorreva alla norma risolutiva dei compensi reciproci (accordi franco-inglesi per l'Africa, questione cinese, crisi marocchina del 1911). La politica dell'equilibrio investe interessi e zone sempre più lontani, perché i bisogni che essa esprime non si esauriscono in semplici ed immediati problemi di contiguità territoriale, ma abbracciano un più vasto rapporto di prestigio e di potenza che dev'essere ovunque garantito e difeso. La caratteristica puramente europea della teoria tende a sparire, in quanto, sul finire del secolo XIX e nei primi anni del XX, con l'ingresso definitivo degli Stati Uniti e del Giappone nel novero delle grandi Potenze, la politica d'equilibrio da europea accenna a diventare mondiale[38]. Se per l'Africa si può dire che essa costituisca parte integrante dell'equilibrio europeo dal momento che l'Europa l'ha assorbita, al contrario si può e si deve tener conto di un equilibrio asiatico, scaturito dalle rivalità anglo-russe e russo-nipponiche, e di un equilibrio americano stabilitosi fra gli Stati di quel continente. Il che, in altri termini, significa che il moderno equilibrio, europeo e mondiale, ha assunto un carattere eminentemente composito, in [32] quanto risulta di molti equilibri parziali. Così è lecito parlare di un equilibrio del Pacifico, del Mediterraneo, del Baltico, o di un equilibrio danubiano, balcanico. Inoltre, il concetto meramente politico si è venuto arricchendo, più che nel passato, di altri elementi, fra cui dominano la energia morale, la cultura, la compattezza etnico-nazionale dei popoli. E infine una politica di equilibrio non può non essere anche una «politica economica», che miri a realizzarsi, sia mediante una più equa distribuzione delle materie prime, sia in virtù di soluzioni autarchiche.
Tutto ciò accresce gli aspetti elastici e mutevoli del concetto, dovuti al formarsi di condizioni sempre nuove; ciononostante, una siffatta politica tende a sussistere su la stessa instabilità e relatività del sistema. «L'Europe n'est plus», esclamò scoraggiato il Thiers dopo Sadowa, quando vide il capovolgimento di forze che s'operava nel mondo germanico e intuì il rapido cammino verso l'unificazione dei paesi d'oltre Reno. Ma poi si constatò che un equilibrio era ancora possibile, se pur faticoso e difficile, e ne faceva l'elogio Delcassé in un celebre discorso alla Camera francese del 24 gennaio 1908 in risposta ad una interpellanza di Jaurès che accusava la sua precedente politica di essere viziata da uno spirito d'avventura pericoloso per la pace europea.
Intorno al 1902, con il rinnovo della Triplice da un lato, e con gli accordi italo-francesi e italo-inglesi dall'altro, proprio il nostro Paese aveva raggiunto una notevole e singolare funzione tra le Potenze occidentali e gli Imperi centrali. Naturalmente era un equilibrio soggetto a turbamenti continui, che le vicende avrebbero messo alla prova; e così fu, massime durante la prima crisi marocchina e la crisi bosniaca. Ma in sostanza, come notava nel 1904 l'ambasciatore austriaco a Roma, Pasetti, l'Italia si veniva a trovare in una delicata e in pari tempo privilegiata situazione, in quanto la sua azione, diretta in un senso piuttosto che in altro, era sufficiente per spostare la bilancia europea. Sennonché, l'assetto generale appariva sempre più difficile a mantenere sotto la pressione dilagante e incalzante dei vecchi e nuovi imperialismi. Mentre un particolare sistema d'equilibrio, quello degli Stati nordici, si rinchiudeva in un vero e proprio isolazionismo, che rispecchiava in ugual misura la coscienza dei propri peculiari interessi e una posizione di limitata aderenza ai problemi generali dell'Europa, nel resto del continente la minaccia d'una frattura, di un urto fra i gruppi antagonisti, si faceva sempre più forte.
[33] Durante la guerra mondiale non sono mancate le critiche al principio d'equilibrio e alla politica dei blocchi contrapposti, critiche che sembravano trovare una loro, sia pure superficiale, giustificazione proprio nel fatto che la conclamata teoria della bilancia delle forze e il complesso sistema delle alleanze (Triplice alleanza, Triplice intesa) si erano mostrati impotenti a scongiurare un così vasto conflitto.
Ma, via via che l'esperienza del periodo post-bellico ha rivelato la necessità di una graduale revisione dei trattati di pace, per correggerne gli errori o per adeguarli alla mutata realtà politica internazionale, tutti gli Stati hanno ripreso a tessere il filo delle alleanze e a ricostituire dei gruppi di potenze in presunto equilibrio[39]. Si è avuta così una fioritura di patti di amicizia, di non aggressione, di garanzia, solo - a tratti - interrotta dal tentativo di sostituire al concetto egualitario di tutti gli Stati e all'immaginaria visione di una perfetta distribuzione generale delle forze, il riconoscimento della superiore funzione attiva e responsabile di un gruppo costituito dai principali organismi nazionali, il cui intervento potesse essere veramente decisivo nella soluzione dei maggiori problemi politici, dal concetto - insomma - di una gerarchia delle Potenze.
Da questa estrema mobilità e ricchezza di significati, (nonostante le apparenti superficiali analogie) che il concetto d'equilibrio ha storicamente assunto, scaturiscono due conseguenze, prima di tutto la impossibilità di giovarsi di quei concetto come d'un canone d'interpretazione storiografica, nel senso cioè di voler ricercare la continuità di un'unica politica d'equilibrio. In tal caso si correrebbe il rischio di ridurre ad uno pseudo-problema, ad una vana indagine fatta d'accostamenti estrinseci, la reale complessità del processo storico, che risulta da un perenne porsi e scomporsi di relazioni d'interessi e di rapporti di forze. In secondo luogo, la convinzione del valore effimero d'una politica d'equilibrio intesa in senso meramente empirico, come bilancia di pesi contrapposti, quando non vi agiscano motivi ben diversamente profondi e operanti.

[34] 4. — Se il principio dell'equilibrio testimoniava dell'esistenza di un sistema europeo e contribuiva a rafforzare il concetto di un necessario vincolo politico-economico tra gli Stati, un'altra corrente di idee e di propositi, congiunta per più aspetti a quella dell'equilibrio anche se ben differenziata nei suoi peculiari caratteri, operava nel senso di accomunare gli Stati d'Europa in uno sforzo diretto ad assicurare, una stabile pace. Qualunque fosse il fondamento teorico di quei progetti, qualunque fosse il loro valore pratico (quasi sempre assai modesto), e pur riconoscendo che talvolta adombravano le mire di uno Stato, o mascheravano la volontà conservatrice intesa a fissare, a cristallizzare in virtù di un accordo generale, una determinata situazione internazionale sancita da qualche trattato, tuttavia bisogna ammettere ch'essi muovevano dalla constatata esistenza di una società degli Stati, e volevano giovare a rendere più unita, in quanto ordinata e pacifica, la famiglia europea.
L'anelito alla pace, alla pace secondo la legge di Cristo, era stato vivo in tutto il Medioevo, non fosse altro come reazione spirituale agli odi, alle violente passioni, alle stragi che seguivano da presso le invasioni e le guerre. Naturalmente, accanto ad un'aspirazione mistica, tutta pervasa di pura religiosità, che astraeva dalla natura umana, e profetizzava un'età d'amore e di pace, appariva più diffusa, e rilevante dal punto di vista storico, la concezione che faccia tutt'uno con l'idea della respublica christiana, la quale riponeva nel rapporto universale di Chiesa e Impero la premessa di una vera pace per la «civitas terrena». Con il pensiero del Rinascimento il motivo sempre presente della guerra e della pace viene umanizzato, quasi laicizzato, almeno in alcuni suoi aspetti. Vale a dire, la guerra è vista come brutalità e violenza, come qualcosa che deturpa la serena bellezza che minaccia la dolcezza del vivere; la pace è ordine, razionalità, clima fecondo per il dotto e per l'artista, proficuo per l'umano lavoro. Quando i popoli sono in pace tra loro, crescono i traffici e le ricchezze si accumulano nelle casse dei principi e dei mercanti, notava un Signore italiano del Quattrocento. Ma si faceva anche strada la persuasione che la pace dovesse avere le sue radici nel buon ordinamento interno dei singoli Stati, nelle leggi savie e ben fondate (Marsilio da Padova).
Nel Cinquecento, Rinaldo Corso auspicava che le questioni inerenti alla guerra e alla pace divenissero «materia di Leggisti». Cominciò così il grande lavoro dei giuristi che, muovendo dal diritto naturale, [35] elaborarono il jus gentium (Alberico Gentili e il Vitoria) e tracciarono norme di diritto relative allo stato di guerra e di pace (De jure belli ac pacis, 1625, di Ugo Grozio), destinate ad essere accolte nella prassi dei paesi civili, ma soprattutto ad essere sentite come patrimonio comune dalla coscienza europea.

* * *

Sul terreno della cultura la prima grande battaglia a favore della pace e di un'unità spirituale d'Europa sostanziata di umanesimo cristiano fu impegnata da Erasmo. In un'età di guerre continue come fu quella tra il finire del XV e gli esordi del XVI secolo, Erasmo dedicò cinque saggi (dal 1504 al 1517) al problema della pace, contro ogni guerra ch'è sempre «naufragio d'ogni cosa buona». Dulce bellum inexpertis, è intitolato il terzo saggio, quello compreso tra gli Adagia (1515). La guerra non ha mai un reale fondamento di diritto («perché, chi non considera la propria come causa giusta?»); se reca qualche vantaggio agli uni nuoce agli altri e, generalmente, semina danni e rovine dappertutto; e poi «una guerra sgorga dall'altra e da una ne nascono due»; bisogna porre termine alla «assurdità cattiva, anticristiana, belluina e selvaggia della guerra». Un Giulio II non può trovar grazia presso Erasmo: «come possono convivere insieme il pastorale e la spada, la mitria e l'elmo?». Ma il pacifismo di Erasmo è più spirituale che politico, e la sua idea supernazionale è quella di un dotto che si rivolge ad altri dotti affratellati da uno spirito umanistico di tolleranza e di comprensione, da un metodo di persuasione. «Il mondo intero è una patria comune» egli scrive; ma quel «mondo» è poi l'Europa cristiana e colta, è la schiera degli eletti, degli uomini che vivono la vita dello spirito. Non inglesi, tedeschi o francesi: «perché ci dividono questi stolti nonni, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?». Eppure il richiamo a Cristo ha qui perduto il mordente della antica fede medioevale: è piuttosto il richiamo ad una civiltà ch'è sì cristiana, ma che ha per veicolo d'espansione e d'intesa la cultura, e che potrà sopravvivere come tale — anche quando l'unità religiosa in senso rigido dell'Europa, l'Ecclesia universalis, sarà frantumata dall'insorgere della Riforma.
Su di un piano ben diverso si muove, ai primi del Seicento, Emerico Crucé il quale apre la serie degli autori di progetti pacifisti, con il suo Le nouvel Cynée ou discours des mouyens d’établir une paix générale et la liberté de commerce pour tout le monde (1623), che suggerisce [36] una corte permanente intesa a dirimere le controversie tra i Sovrani; consiglia di ammettervi anche il Turco, proprio, perché è dovere dei cristiani promuovere una pace più larga possibile (ma è evidente l'eco dell'antica alleanza franco-turca). Una confederazione esclusivamente cristiana, composta di quindici Stati europei, rimaneggiati nei loro confini così da risultare un equilibrato rapporto di forze, con un consiglio di sessanta rappresentanti, costituisce il nucleo centrale del «gran disegno» concepito dal ministro duca di Sully ed esposto nei suoi Mémoires des sages et royales oeconomies (1638) ma da lui attribuito al re Enrico IV. Si tratta di piani aventi un carattere empirico-politico (e magari l'intenzione più o meno palese d'assicurare una funzione preminente alla Francia), in cui la pace, l'equilibrio, il sistema generale d'alleanze sono tutti elementi considerati l'uno in rapporto diretto con l'altro.
Un'origine analoga (l'occasione offerta dai laboriosi negoziati per la pace di Utrecht del 1713), ma un'impronta già più dottrinale reca il famoso Projet de traité pour rendre la paix perpétuelle en Europe (Utrecht 1713, voll. 2; preceduto da un Mémoire del 1712, seguito da un terzo volume nel 1717, e da un Abrégé du projet nel 1729) dell'abate Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre. Viene suggerita «una alleanza perpetua» di tutti i sovrani cristiani, di carattere conservatore-pacifista, con un tributo proporzionale «all'entrate e all’uscite» di ciascun Stato per sopperire alle spese comuni, con un Senato di rappresentanti (che dovevano deliberare nei casi controversi a maggioranza di voti), con sanzioni politico-militari da applicarsi contro i ribelli ai comuni impegni, contro i violatori della pace. La quale pace coincide con lo statu quo, tende cioè a cristallizzare una determinata situazione politico-territoriale, e qui — com'è ovvio — sta il punto debole della costruzione dell'abate di Saint-Pierre. Questi, mentre rivolgeva le sue critiche al troppo fluido principio dell'equilibrio, si meravigliava e si affliggeva dell'incomprensione degli uomini: stupiva come i sovrani e i ministri non si rendessero conto degli enormi vantaggi economici che una stabile pace avrebbe recato ai loro paesi; ma la realtà d'ogni giorno tradiva le sue speranze, e Voltaire non esitò a beffarsi della sua «impraticabile pace»[40].
[37] Il progetto del Saint-Pierre tornò in onore quando, nel 1756, il Rousseau ne compilò un Estratto facendolo seguire da un Giudizio. Anche allo spirito del ginevrino la guerra si presentava come una tragica follia; il rimedio poteva nascere solo da «una forma di governo federativo che, unendo i popoli con legami simili a quelli che uniscono gl'individui, sottomettesse ugualmente gli uni e gli altri alla autorità delle leggi». Già nel riesporre l'antico progetto dell'abate, Rousseau lo eleva su di un piano logico-concettuale da cui il testo originario era ben lontano. Partendo dalla constatazione che «il sistema dell'Europa ha quel grado di solidità che può tenerla in perpetua agitazione, senza per altro completamente rovesciarla», riconosciuta la esistenza di un fondamento unitario dell'Europa, Rousseau si chiede «in qual modo questa grande opera, iniziata dalla fortuna, può esser compiuta dalla ragione, e come la società libera e volontaria che comprende tutti gli Stati europei, acquistando la forza e la solidità di un fiero corpo politico, può cangiarsi in una vera confederazione».
Il progetto dovrebbe, dunque, razionalizzare l'ordinamento della società internazionale; perché possa venir accolto occorre che la saggezza trionfi sulla follia. Ma nel Giudizio il Rousseau muove all'idea dell'abate di Saint-Pierre, che in sé riconosce ottima e mobilissima, critiche puntuali e concrete che manifestano, oltre tutto, una viva sensibilità storico-politica. Bisogna però aggiungere che siffatte critiche ricevono luce dalla posizione del filosofo del Contratto sociale ch’è diametralmente opposta a quella dell'abate di Saint-Pierre. Questi si rivolge ai re ed ai governi, vuole ordinare pacificamente i rapporti tra Stato e Stato, mentre il Rousseau crede che tutto ciò sia vano se prima la giustizia e le leggi non intervengano a regolare i rapporti interni tra sudditi e Sovrani.
[38] Nell'abate domina una mentalità conservatrice; nel filosofo è desta l'esigenza democratica. Secondo il Rousseau, una federazione europea poteva essere imposta dall'alto, ma solo in determinate eccezionali circostanze storiche, e ciò non appariva probabile e, forse, neppure augurabile; oppure poteva realizzarsi «mediante rivoluzioni», cioè partendo dai popoli. Ma, in questo secondo caso, «chi di noi oserà dire se questa lega europea sia da desiderare piuttosto che da temere?». Il teorico del Contratto sociale arretra dinanzi all'eventualità pratica ed alle incognite di una rivoluzione in atto; preferisce auspicare un processo più lento di graduale trasformazione ed associazione degli Stati, sul piano interno e su quello internazionale.
A proposito dello scritto del Rousseau, non si deve dimenticare com’esso, al pari del progetto del Saint-Pierre, si muovesse sul piano continentale, vale a dire nei limiti dell'Europa. Il Voltaire, in una pagina di sottile ironia, rimproverò quell'aver voluto restringere l'idea di una «pace perpetua» e della relativa organizzazione in così angusti confini, invece d'estenderla all'Universo; finse le proteste dell'imperatore della Cina contro l'esclusione propria, della Turchia e della Persia, aggiungendo che sarebbe stata un'ingiustizia patente escludere dalla confederazione anche il Giappone (VOLTAIRE, Rescrit de l'empereur de la Chine; in : Oeuvres complètes; ediz. Parigi, 1785, t. 46, pp. 69-72).
Con il saggio di Emanuele Kant (Per la pace perpetua, progetto filosofico) composto nel 1795, siamo su un piano ben diverso da quello non solo dei disegni secenteschi o del primo Settecento, ma da quello stesso del Rousseau, su un piano essenzialmente speculativo. Kant astrae volutamente dalla realtà politica effettuale e sposta il problema sul terremo del dovere morale. Non fa appello all'interesse dei governi o all'utile immediato dei popoli, ma attinge ad una più profonda e universale istanza etica. E per quanto, in concreto, il suo discorso abbia presente l'Europa, tuttavia muove da premesse cosmopolitiche e riveste un carattere assoluto. Kant si oppone alla ragion di stato che «fa consistere il vero onore di una nazione nel continuo aumento di potenza» (e questa condanna gli verrà rimproverata dal Treitschke e da tutti gli assertori della Realpolitik); quindi denuncia come falsi i trattati di pace stipulati con la riserva mentale di antiche o nuove pretese da far valere in futuro. Analogamente, è contrario agli eserciti permanenti («perenne minaccia di guerra»), ai debiti contratti da uno Stato a fini aggressivi, all'intervento con 1a forza nelle questioni [39] interne di un altro Stato, e così via. Inoltre, secondo il progetto kantiano, la costituzione civile di ogni Stato dovrebbe essere repubblicana. Ma quel che importa rilevare nello scritto in questione è l'affermazione perentoria di un dovere morale da cui lo Stato non può straniarsi e che il diritto ha il compito di codificare[41].
La tradizione del pensiero pacifista dal XVI al XVIII secolo rientra senza dubbio nella storia dell'utopia, ed ha evidenti legami con la fioritura dell'altre opere «utopistiche» (da Moro a Campanella, da Bacone a Fénelon) su lo Stato ideale o perfetto. Pure, è ricca di significato, e non è stata inoperante nella formazione di un ideale europeo di pace e di solidarietà.

5. — Ha notato molto giustamente lo Chabod che «la prima chiara formulazione dell'Europa come di una comunità dai caratteri ben specifici e puramente laici, non religiosi, si ha col Machiavelli; e, naturalmente, trattandosi del Machiavelli, non può esser che una formulazione di carattere politico»[42]. Per il Machiavelli l'Europa si distingue in modo assai netto dall'Asia per la diversa struttura politica: Europa, infatti, vuol dire molti Stati, in una ricca gamma di grandezza e di forza, e molte «virtù» individuali; Asia, invece, vuoi dire pochi grandi Stati dispotici. Nell'Europa allignano e fioriscono anche le repubbliche, mentre l'Asia le ignora; l'Europa conosce le monarchie assolute, ma queste sono ben altra cosa del dispotismo asiatico. Se il Machiavelli pone in evidenza le possibilità che la fisionomia politica dell'Europa offre allo sviluppo e all'affermazione della «virtù», intesa come energia creatrice degli individui, la grande scuola degli scrittori politici inglesi e francesi del Seicento e del Settecento metterà in luce o il valore delle antiche «libertà» o l'esigenza delle nuove libertà germinanti intese come diritti dei singoli. L'ideale di libertà circola nella vita europea, anche prima di assumere il suo preciso [40] significato moderno, mentre è estraneo al mondo asiatico; le classi (gli «Stati») in Europa sono ben differenziate e magari privilegiate, ma non appaiono rigide come le caste dell'Asia. Quando poi si passi ad esaminare la differenza delle norme giuridiche, non c'è scrittore europeo che non avverta, insieme con il senso di una elevatissima e plurisecolare tradizione, il diverso valore delle istituzioni e delle norme di diritto pubblico in Europa e in Asia. Attraverso la consapevolezza di un modo comune di sentire il diritto e, sovente, dell'identità delle fonti del diritto stesso, era possibile giungere a concepire l'Europa (per usare un'espressione recente d'Ortega y Gasset) come «un volo d'api uscenti dal medesimo alveare».
I grandi viaggi del XV-XVI secolo e la successiva espansione coloniale favorirono da parte degli europei un più diretto confronto tra sé e i popoli d'altri continenti[43]. Assai più che l'Asia, la quale tornerà in primo piano nel Settecento, massime in virtù del Voltaire e del Montesquieu, ora è il nuovo Mondo che costituisce campo d'indagine e motivo di riflessione, che funge da pietra di paragone. Dopo il rapido progredire della evangelizzazione nelle terre di oltre Atlantico, il termine di «cristiani» non definì più i soli popoli europei. Ciò che, senza dubbio, diversificava gli europei dagli indigeni d'America doveva scaturire da altri elementi che non quelli religiosi: in un primo tempo dal «colore» (gli europei bianchi e i nativi «non bianchi», cioè d'altra razza), poi dagli usi e costumi, ferini in alcuni casi, ingenui in altri, e, comunque, agli occhi degli europei, primitivi. Quindi, forme diverse di vita e, nel contrasto ben visibile, gli europei sentivano d'essere i veri depositari di una più alta civiltà. Se mai il dissenso nasceva intorno al criterio, al metodo ed agli stessi principi che gli Europei, nell'esercizio della loro autorità, potevano assumere di fronte agli abitanti del Nuovo Mondo: di qui la lunga disputa, che nel suo significato trascende il problema particolare, tra i giuristi ed i politici della corte di Carlo V fedeli all'esigenze della ragion di stato e, dunque, inclini ad usare ogni mezzo per assicurarsi il dominio politico e lo sfruttamento economico delle terre d'oltreoceano, e per converso l'appassionata difesa degli indigeni compiuta da Bartolomeo Las Casas, il padre spirituale degli indios (finito vescovo di Chiapa, una delle diocesi più povere del Messico meridionale), assertore di una norma d'umanità, di comprensione, di solidarietà cristiana, che [41] — a suo giudizio — avrebbe poi recato anche sul terreno politico frutti più duraturi e fecondi.
Tra i diversi criteri di valutazione cui si attennero gli Europei nel giudicare l'America e nello stabilire un loro rapporto gli eterogeneità rispetto a quei popoli, ebbe peculiare importanza l'idealizzazione degli abitanti del Nuovo Mondo come gente semplice e schietta, non corrotta da quei vizi fisici e morali che deturpano la società dell'antico continente, scevra d'ogni smodata ambizione di dominio, ignara delle lotte politiche, estranea alle contese militari. Nasce così il mito del «buon selvaggio», libero e felice, che nel secolo dei lumi acquista larga risonanza nella pubblicistica e nella letteratura europea, confluendo nel richiamo del Rousseau allo «stato di natura»[44]. A meglio caratterizzare la società europea così nei suoi fondamenti positivi, nel suo «genio» particolare, come nei suoi difetti, cioè nei residui di superstizione che la raison non era ancora riuscita a debellare e nelle ombre della morale pubblica, molto hanno giovato i confronti che il Settecento, sviluppando motivi già affiorati nei due secoli precedenti[45], ha posto, massime ad opera del Voltaire e del Montesquieu, con la Cina, con l'India, con la Persia, confronti spesso suggeriti dall'intenzione scoperta e voluta di colpire con mordente ironia l'impalcatura del vecchio assolutismo europeo, della gerarchia ecclesiastica, della stessa tradizione religiosa. Comunque, la fisionomia dominante e preminente della civiltà europea veniva sempre riconosciuta e celebrata, così come si ammetteva la sua complessiva superiorità. Arte, filosofia, scienza, commercio, vita sociale, leggi, usi e costumi, costituivano in Europa un complesso armonico e singolare, vivo e inconfondibile.
Non che le antiche civiltà dei cinesi, degli indiani, degli arabi, non fossero degne di ammirazione e meritevoli talvolta di essere citate a modello, ma a tutto ciò era mancato uno sviluppo continuo, mentre, [42] l'Europa era essa stessa il «progresso». Piuttosto è da notare come, nel XVIII secolo, al senso dell'unità culturale e civile dell'Europa fosse correlativo il concetto di una «francisation de 1'Europe». Il francese voleva essere «1'homme de toute nation», nell'epoca che il cosmopolitismo valicava le piccole patrie, annullandole, e la sua lingua era la lingua della élite europea[46]. Il marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore di Napoli a Parigi dal 1771 al 1781, parlava addirittura di una «Europa francese», ed era convinto che la lingua di Voltaire sarebbe divenuta l'unico mezzo espressivo «si la plupart des Européens étaient consultés»[47]. Secondo il Montesquieu l'Europa non è che uno Stato composto di molte provincie. Il Burke, con acuto senso storico, definisce l'Europa come una associazione (Commonwealth) di nazioni cristiane, basata su comuni norme di vita, comune cultura, comune diritto pubblico. Anche la Russia, ch'era ormai entrata nel novero delle maggiori potenze, si andava permeando delle correnti culturali europee; ed infatti lo Herder, nel piano dell'opera sulla Russia destinata a Caterina II, scriverà che il nuovo spirito, «soffiando da nord-ovest», avrebbe salvato l'Europa, vivificandola. Lo stesso Rousseau muove dalla constatazione che «tutte le potenze di Europa formano fra di loro una specie di sistema, che le rende unite per la comune religione, per lo stesso diritto delle genti, per i costumi, per le lettere, per il commercio e per una sorta di equilibrio, che è l'effetto necessario di tutto ciò, e che, senza che nessuno sogni in effetti a conservarlo, non sarebbe tanto facile ad infrangere, come molta gente pensa». Ma aggiunge molto chiaramente: «Una siffatta società dei popoli europei non è esistita sempre, e le cause particolari che l'hanno fatta nascere servono ancora a mantenerla». Ricorda, a questo proposito l'opera politico-amministrativa e soprattutto «le istituzioni civili e le leggi» di Roma antica. Nel Medio Evo «il sacerdozio e l'impero hanno formato il legame sociale di diversi popoli, elle senza avere alcuna reale comunanza d'interessi, di diritti e di interdipendenza, ne avevano una di principi e di opinioni, la cui influenza ha resistito anche quando la base n'era stata distrutta. L'antico simulacro dell'impero romano ha continuato a formare una specie di vincolo tra i membri che l'avevano composto; ed avendo Roma dominato, [43] dopo la distruzione dell'impero, in diverso modo, da tale duplice legame è venuta una società più unita fra le nazioni d'Europa, ov'era il centro delle due potenze, che non nelle altre parti del mondo, dove i diversi popoli, troppo sparsi per corrispondere tra loro, non hanno punto di convergenza». S'aggiunga a ciò la particolare situazione dell'Europa, «più egualmente popolata, più egualmente fertile, meglio riunita nelle sue parti; la comunità sempre maggiore degli interessi, che i legami di sangue e gli affari commerciali, le arti, le colonie hanno rafforzato fra i sovrani; la quantità di fiumi e le varietà dei loro corsi, che rende facili tutte le comunicazioni; il carattere incostante degli abitanti, che li porta a viaggiare continuamente, portandosi frequentemente a contatto reciproco; l'invenzione della stampa ed il generale gusto delle lettere, che ha creato tra loro una comunanza di studi e di conoscenze; infine la moltitudine e la piccolezza degli stati che, insieme ai bisogni di lusso ed alla diversità del clima, rende gli uni sempre più necessari agli altri. Tutte queste cause insieme formano dell'Europa non soltanto, come l'Asia e l'Africa, un'ideale collezione di popoli non aventi in comune che un nome, ma una società reale avente una sua religione, suoi costumi ed altresì sue leggi, di cui nessuno dei popoli che la compongono può privarsi senza causare subito profondi turbamenti. A considerare, d'altro lato, i perpetui dissensi, i brigantaggi, le usurpazioni, le rivolte, le guerre, gli assassini, che desolano quotidianamente questo rispettabile soggiorno di saggi, questo brillante asilo delle scienze e delle arti; a considerare i nostri bei discorsi e i nostri orribili atti, tanta umanità nei principi e tanta crudeltà nelle azioni una religione così dolce ed una intolleranza così sanguinaria, una politica così saggia nei libri e così dura nella pratica, e capi così benefici in popoli così miseri, governi così moderati e guerre così crudeli, si stenta a conciliare tali strani contrasti; e questa pretesa fraternità dei popoli europei non sembra che un nome di derisione per esprimere con ironia la loro reciproca animosità». E conclude: «D'altronde, le cose non fanno che seguire in tutto ciò il loro corso naturale. Ogni società senza leggi o senza capi, ogni unione formata o mantenuta per un caso deve necessariamente degenerare in contrasti e dissensi alla prima occasione che capita. L'antica unione dei popoli dell'Europa ha complicato in mille modi i loro interessi ed i loro [44] diritti; quei popoli si toccano in tanti punti, che il minimo movimento degli uni non può non ripercuotersi sugli altri; le loro divisioni sono tanto più funeste quanto più i loro legami sono intimi, ed i loro attriti sono quasi crudeli come le guerre civili»[48].
Bella pagina, questa del Rousseau, dove il senso dell'Europa è vivissimo, ed è colto così nei suoi elementi positivi come in quelli negativi, in quanto e gli uni e gli altri contribuiscono a caratterizzarne la fisionomia, ad individuarne l'intima unità. Su di un altro piano e con accenti diversi, ma non del tutto contrastanti, la storiografia del Voltaire celebra l'Europa sia nell'esprit e nei moeurs dei suoi popoli, sia nelle grandi epoche della sua civiltà. Ed il Montesquieu, mentre guarda con orgoglio l'alto livello cui l'Europa è giunta, riconosce in essa la grande patria comune alla quale l'amore per le piccole patrie non deve mai recare nocumento.
Questa consapevolezza europea deve dunque considerarsi come una elaborazione settecentesca? Tale appunto è la tesi dello Chabod che al formarsi dell'idea d'Europa, al variare e all'arricchirsi del suo significato concettuale, nel passaggio dal mondo antico a quello medioevale, dagli albori dell'età moderna fino all'illuminismo e al romanticismo, ha dedicato un saggio originale, importante, e criticamente rigoroso[49]. Lo Chabod, con valide prove, pone in rilievo come si giunga nel Settecento all'idea d'Europa quale entità civile e morale. La «società degli spiriti» di Voltaire, la «correspondance continuelle» tra i singoli Stati del Mably, ne sono le espressioni felici. Eppure, nel clima liberale e romantico del primo Ottocento la coscienza europea compie un decisivo passo innanzi perché essa si storicizza. Si precisa la consapevolezza che l'Europa è una formazione storica, cioè qualcosa di infinitamente più ricco e complesso dell'Europe raisonnable di cui si discorre nella lettera introduttiva all'edizione del 1761 delle Recherches sur les origines du despotisme oriental del [45] Boulanger[50]. Inoltre, l’idea d’Europa attraverso le prime lotte di nazionalità, si politicizza più fortemente; in tal senso l'idea dell'unità d'Europa (come proposito o volontà d'unificazione), acquista nella prima metà del secolo XIX profondità di tono e vibrazioni politiche sconosciute ai progetti anteriori. A nostro avviso il moderno «sentire europeo» ha un'impronta romantica in cui i precedenti caratteri illuministici sono disciolti e assorbiti.
C'è, appunto, un pathos romantico, che si traduce in vigore di convinzione, nel Michelet quando riafferma un concetto in sé non certo nuovo: « L'Europe moderne est un organisme très complet, dont l'âme et la vie n'est pas dans telle ou telle partie prépondérante, mais dans leur rapport et leur engagement mutuel, dans leur profond engrènement, dans leur intime harmonie »[51]. Il Michelet presuppone il Guizot, che ha individuato il segreto unitario della civiltà europea nel rapporto dialettico tra lo sviluppo dell'individuo e lo sviluppo della società[52]. Ed infine acquistano nell'Ottocento importanza sempre maggiore i motivi, che affiorano dal Saint-Simon al Blanc, intesi a scoprire il nuovo senso dell'unità europea nel comune problema sociale.

6. — « I primi quindici anni del secolo XIX in Europa mostrano uno straordinario movimento di uomini. Gli uomini abbandonano le loro occupazioni consuete, corrono da una parte all'altra dell'Europa, saccheggiano, uccidono, trionfano e si disperano; e tutto l'andamento della vita per alcuni anni si trasforma e rappresenta un movimento intenso, che da principio va crescendo, poi s'affievolisce. Quale è la causa di questo movimento e secondo quali leggi si è svolto?».
[46] Il lettore s'imbatte in questo interrogativo a due terzi del lungo cammino di Guerra e Pace, quando s'è spenta l'eco dell'ultimo cannone di Borodinò e le deserte strade di Mosca sono ormai aperte ai Francesi. Sarebbe arrischiato seguire Tolstoi sul falsopiano delle «cause » e delle «leggi», ma è difficile non chiedersi se in quel mareggiare di popoli, da Saragozza al Cremlino, in quell'urto d'eserciti che squassava un continente, ci fosse qualcosa di diverso dalla dichiarata volontà di combattere per «la gloria di Napoleone» e la potenza della Francia, oppure per rovesciare il trono del despota. C'era, come si sa, il sentimento di libertà e di nazione che fioriva rigoglioso e traeva maggior forza proprio dal carattere decisivo e perentorio della lotta. Ma c'era pure qualche altra cosa, di meno avvertito e consapevole, che non si riferiva solo ai singoli popoli, ma al loro complesso, a tutta la famiglia europea, qualcosa che scaturiva dal fatto stesso della gigantesca contesa che li accomunava e che non poteva trovare un esito localizzato e parziale ma soltanto una soluzione organica e valida per il continente. Per dirla con la Staël, si cominciava, politicamente, «a pensare in europeo». Alitava questo sentimento ancora impreciso (e naturalmente posto nei termini che la situazione storica d'allora suggeriva) ma non meno effettivo e reale, della necessità d'organizzare in senso unitario la vecchia Europa, di concepire gli Stati come elementi d'un articolato sistema che allontanasse la minaccia di sopraffazioni violente e garantisse, dopo tanto bagliore d'incendi, un lungo periodo di pace. Motivo vecchio, se inteso solo come proposito di governi e di diplomazie alla ricerca d'un equilibrio, ma nuovo per lo spirito diverso che lo anima e che mira non tanto a ristabilire un rapporto pacifico tra gli Stati quanto a creare una nuova e unitaria vita europea. E che l'esigenza affiorasse dal profondo di quella lotta gigantesca, è dimostrato anche dal fatto ch'essa veniva formulata, sia pure con opposta intonazione polemica, da ambedue le parti rivali. Da un lato, lo zar Alessandro che sogna di riunire «tutte le potenze d'Europa in un'unica lega», e (secondo la testimonianza del Gentz) «si considera come il fondatore della federazione europea», ed è convinto che tale sistema trionferà e sarà «la gloria del secolo e la salvezza del mondo»[53]. Dall'altro, Napoleone che nell'ultimo esilio confida al Las Cases, nello strenuo sforzo di giustificare «a posteriori» le proprie conquiste, ch'egli – vinte [47] la Russia e l'Inghilterra - avrebbe mirato alla creazione d'un nuovo sistema europeo: «un unico codice, una Corte europea di Cassazione, le medesime leggi, la stessa moneta, le stesse misure». Ma sarebbe andato anche oltre, sognando «per la grande famiglia europea l'applicazione del Congresso americano o quella delle anfizionie greche», insomma « l'agglomération et la confédération des grands peuples»[54].
E' Napoleone che crea la sua leggenda, senza dubbio; ma la crea consapevolmente in una direzione ben precisa, nella sola che gli pare suscettibile d'un significato non effimero, aderente a certe istanze profonde, anche se tuttora inespresse, della vita europea, nella sola che gli sembra possa dare un senso, un senso di speranza e non d'angoscia, alla cruda realtà di tanti morti sui campi di battaglia in venti anni di guerre. Del resto, anche Goethe era giunto ad ammettere l'impero di Napoleone solo in quanto instaurava l'unità dell'Europa.
Un vincolo, una federazione europea: l'idea, come s'è visto, era fiorita nel clima illuministico del Settecento, né vi era rimasto estraneo quel curioso spirito dell'abate Scipione Piattoli, un toscano alla corte polacca (secondo taluni, proprio l'abate Morio di Guerra e Pace)[55]. E, a ben guardare, quel progetto D'Argenson, a mezzo il secolo, per una federazione degli stati italiani, che entusiasmò il Voltaire («le projet le plus utile qu'on ait conçu depuis cent ans»), a parte le evidenti mire borboniche, poteva considerarsi nel suo fondo come un corollario (o magari una premessa) del maggiore progetto europeo. Ma l'idea scaturiva dall'atmosfera cosmopolitica della cultura settecentesca, fiorita d'aspirazioni universalizzanti e d'illusioni nella «bontà naturale» dell'uomo; aveva un'origine intellettualistica e spesso una mira astrattamente pacifista (e, in questo senso, era affine a certe correnti dell'internazionalismo e del pacifismo umanitario del secolo XIX). Non attecchì e non infiammò gli animi; quando sorse il mito rivoluzionario della fraternità dei popoli liberi e indipendenti, essa apparve invecchiata e superata.
Si respira un'altra aria non appena s'aprono le pagine (De la reorganisation de la Société européenne, Parigi, 1814) uscite dalla [48] collaborazione di Henri de Saint-Simon e dello storico Augustin Thierry (si noti però che la parte dovuta al fondatore della scuola sansimoniana è prevalente). Il Saint-Simon, con i suoi precedenti rivoluzionari («gran seigneur sans-culotte» lo definì il Michelet) e la sua ammirazione non soltanto intellettuale per Madame de Staël, in un Mémoire sur la science de l'homme del 1813 aveva già reso omaggio a Carlomagno come al primo e vero «organizzatore della società europea». A suo giudizio la dissoluzione dell'Europa era cominciata con Lutero sul piano religioso e con i trattati di Westfalia su quello politico. Ora gli pareva giunto il momento di studiare «les moyens de rassembler les peuples de 1'Europe en un seul corps politique en conservant à chacun son indépendance nationale». Non che egli volesse tornare al medioevo («le XIX siècle est trop loin du XIII»), ma delle istituzioni comuni, diceva, sono pur necessarie. «Il faut une force coactive qui unisse les volontés, concerte les mouvements rende les intérêts communs et les engagements solides», occorre sostituire al concetto di alleanza politica tra due o più Stati, la nozione di «società degli Stati europei». Perciò egli vagheggia la creazione d'un parlamento europeo e se, nel delinearne le forme istituzionali, secondo la moda dei tempi, s'ispira a quelle britanniche, tuttavia gli assegna dei compiti politico-economici di portata veramente continentale. Il disegno s'innesta in quella ch'è l'idea-madre di Saint-Simon, «la suprématie du travail», il miglioramento della sorte della classe più numerosa e la glorificazione del lavoro. Il problema internazionale gli si configura anche in funzione della vita economico-sociale; egli mira ad una società europea «organisée par le travail». Ma tutto ciò non gli fa dimenticare il fine ultimo, ch'è in pari tempo la condizione sine qua non perché possa parlarsi di una unità europea non campata tra le nuvole : «sortir le patriotisme hors des bornes de la patrie... considérer les intérèts de l'Europe...»; in altri termini, suscitare una nuova idea e un nuovo sentimento di patria: «Le patriotisme européen». Al Congresso di Vienna, che inaugurava proprio allora la prima e disturbata serie dei suoi lavori, veniva rivolto il monito (inascoltato, o accolto in ben altro senso) d'abbandonare i vecchi schemi della diplomazia per dedicarsi ad un'opera di feconda, originale ricostruzione, e l'invito «ad unire i popoli europei». Un governo che esercitasse un effettivo potere, a costo di dover limitare d'altrettanto le prerogative sovrane di ogni Stato, e non una lustra d'autorità. Un governo europeo che avesse tra i suoi compiti [49] maggiori quello di giudicare e deliberare, in modo inappellabile, nei conflitti tra i suoi membri, e quell'altro (estremamente significativo per la storia dell'idea di nazionalità) d'elevarsi ad arbitro tra uno Stato e quella parte dei suoi sudditi che si sentisse ormai estranea all'antico organismo e intendesse «costituire una nazione a sé»; e, ancora, di garantire in ogni paese la libertà di coscienza, lo sviluppo dell'istruzione pubblica, l'iniziativa solidale dei grandi lavori d'interesse comune; e, infine, di promuovere l'espansione coloniale europea nelle diverse parti del mondo. «Organiser», doveva essere la parola d'ordine della nuova Europa: ma una «organisation» a carattere liberale intendeva il Saint-Simon, mentre il Congresso di Vienna s'adoperava sì ad organizzare gli sconvolti lidi d'Europa, dopo che la marea napoleonica s'era per sempre ritratta, ma su tutt'altre basi e su opposti principi[56]. Tuttavia, nel progetto sansimoniano c'era un'altra nota suggestiva, anche se meno liberale: l'Europa unificata doveva formare un potente fascio di forze, un blocco politico ed economico, sopra tutto un vertice altissimo di civiltà, così da garantire quell'egemonia sul mondo che gli avvenimenti degli ultimi decenni, col progressivo distacco delle colonie d'America, avevano in parte compromesso.
Il disegno del Saint-Simon non voleva essere un piano a breve scadenza, una proposta d'ordine pratico e immediato, ma uno stimolo, un consiglio, un invito ad orientare gli spiriti verso quella direzione. E, in tal senso, s'inseriva nel rigoglioso quadro della cultura liberale della Restaurazione, che alimentava l'idea della civiltà «quale patrimonio comune a cui tutti hanno contribuito e devono contribuire»[57] e quindi, col moderare i vecchi e nuovi motivi nazionalistici, avviava anch'essa, sul piano che le era proprio, ad un più vivo senso della solidarietà europea. Ed ecco, nel 1831, il Globe[58], una delle riviste che meglio attivò il circolo tra cultura e politica, tra pensiero e vita morale, proporre un Congresso per studiare «l'organisation dans laquelle il convient d'embrasser l'ensemble des populations européennes», e — nel 1840 — Victor Considérant ripetere le critiche sansimoniste al principio dell'assoluta sovranità degli Stati [50] e sviluppare l'aspetto economico-sociale del problema di un'auspicata unità europea.
Ma l'istanza delle singole nazionalità, massime di quelle tutte tese alla propria liberazione dal dominio straniero, o intente a ritrovare se stesse in un lento processo d'intima chiarificazione, era così forte e imperiosa da far sentire ogni altro ideale come secondario, o almeno subordinato, e in ogni caso inattuabile se prima non si fosse realizzato nell'intera Europa un ordine di Stati liberi, indipendenti, uguali. In questa calda atmosfera di passioni patrie vigoreggiano le teoriche dei «primati » : del primato francese (araldi il Guizot ed il Michelet), del primato italiano (col Gioberti) e d'altri consimili. Le quali dottrine se, per un verso, postulano un concetto unitario d'Europa, cioè di una Europa ove quel «primato» possa manifestarsi e da cui tragga spicco e rilievo, per contro colpiscono a morte l'idea di un'unione europea (nel senso egualitario) in quanto attribuiscono ad una nazione, come tale, una funzione di guida, di faro della civiltà, e quindi un titolo morale di comando.
Dunque, le testimonianze del persistere dell'idea europea in senso unitario converrà cercarle nella schiera di coloro che ripudiano il concetto di primato e che scorgono ogni possibilità di soluzione degli stessi problemi di nazionalità soltanto in un comune moto europeo, in un processo rivoluzionario, in un rovesciamento di vecchi troni e d'antichi regimi. E qui il contributo del pensiero italiano prende il sopravvento[59].
All'avanguardia sono Luigi Andrea Mazzini e Carlo Cattaneo: il primo[60], uno scrittore ancor oggi poco noto (era nativo di Pescia), muoveva dalla convinzione che la stessa civiltà europea, nel suo armonico sviluppo, sollecitasse i popoli che in essa vivevano vero una associazione sempre più intima e generale. «E' in virtù di tale associazione che, in un tempo senza dubbio lontano ma non per questo [51] meno certo, noi giungeremo a quell'organica fusione che, senza confondere le razze e le nazionalità più distinte e più originali che compongono la fisionomia caratteristica della famiglia europea, farà dell'Europa intiera una vasta federazione di popoli retti e governati da un'unica forma politica e sociale, con analoghe leggi ed istituzioni» (De l'Italie dans ses rapports avec la liberté et la civilisation moderne; Parigi, 1847)[61]. Cioè, un cammino lento e quasi spontaneo, avviato dalla stessa civiltà e promosso da quelle istanze d'ordine sociale che proprio in quegli anni cominciavano a rivelare la loro preoccupante forza vitale. Comunque, un avvenire comune attendeva tutti i paesi d'Europa; tutti meno uno, perché «la Russia, ai confini dell'Europa orientale, si presenta come una potenza direttamente nemica della missione liberale dei popoli europei»[62]. E' difficile sapere (e d'altronde la questione non potrebbe avere che un'importanza limitata) se il Cattaneo conoscesse l'opera di Andrea L. Mazzini, quando - nel 1848 - scriveva: «L'oceano è agitato e vorticoso, e le correnti vanno a due capi: o l'autocrate, o gli Stati Uniti d'Europa», e l'anno seguente ribadiva la sua persuasione: « Il principio della nazionalità dissolverà i fortuiti imperi... e li frantumerà in federazioni di popoli liberi. Avremo pace solo quando avremo gli Stati Uniti d'Europa»[63].
Giuseppe Mazzini, in cui il quesito si pone diversamente, perché egli crede all'iniziativa e alla missione d'un popolo, e considera l'Europa solo come un termine medio nella scala che ascende dalle singole nazioni all'umanità, e propugnando la «Santa Alleanza dei popoli» combatte coloro che nel vagheggiare «l'associazione universale (hanno) soffocato» le libere individualità nazionali[64], tuttavia agita potentemente questo problema europeo e, nella sua polemica contro l'Internazionale (1871), rammenterà con orgoglio che l'espressione «Stati Uniti d'Europa» era stata pronunciata per la prima volta dallo scrittore repubblicano lombardo. Ed egli stesso, nel 1867, [52] aderirà all'idea degli «Stati Uniti repubblicani d'Europa » e d'un «Congresso internazionale permanente al di sopra di tutti gli Stati»[65], mentre il suo fedele Alberto Mario farà eco alcuni anni dopo alle parole del Maestro: «La guerra degli oppressi contro gli oppressori ci condurrà agli Stati Uniti d'Europa, cioè alla lega dei popoli sovrani...; la pace non sorriderà all'Europa prima d'allora »[66].
In realtà la coscienza del problema delle singole nazioni, come fondamento e struttura di tinta nuova società civile, tocca il suo apice proprio col Mazzini, il più italiano tra gli spiriti europei, ma anche il più europeo degli italiani. Il suo afflato universale scaturisce da questa capacità di porre in termini validi per l'umanità il risorgimento di un popolo. E poiché nella concreta realtà storica egli identificava l'umanità con l'Europa, ogni suo sforzo fu rivolto a dar vita ad un organismo europeo articolato nelle singole nazionalità, ma concepito unitariamente. Nessuno, pur dedicando tutta l'esistenza alla causa italiana, ha pensato più del Mazzini all'Europa: la stessa vicinanza non casuale di due date, la fondazione della Giovine Italia (1831) e della Giovine Europa (1834), offre una testimonianza eloquente. Gli è che i due momenti sono da lui congiunti in modo indissolubile: l'iniziativa appartiene al popolo italiano, ma lo svolgimento del processo rivoluzionario deve investire tutto il mondo delle nazioni civili.
Dopo il fallimento della spedizione di Savoia, la spia Santarini, che pedinava con diligenza l'agitatore genovese e ne carpiva l'amicizia, così informava dalla Svizzera (5 aprile 1834) la polizia austriaca: «Mazzini dimagra sempre a vista d'occhio..., si legge sul suo volto un pallore di morte... Egli parla però sempre di speranza e lavora». Infatti, dieci giorni dopo, nasce la Giovine Europa: sono [53] diciotto giovani riuniti in un'anonima camera di Berna che stringono questo patto europeo. Nessuna speranza, certo, di pratiche realizzazioni, né immediate né prossime; ma nemmeno una «rodomontata» come parve allo storico inglese Bolton King; se mai, la volontà di agitare un problema carico d'avvenire, l'esigenza di creare una strumento atto a diffondere l'idea d'una necessaria solidarietà dei popoli ed a sollecitarne, in tutti gli spiriti nuovi, la persuasione. «Io non tendevo che a costituire un apostolato d'idee diverse da quelle che allora correvano, lasciando che fruttasse dove e come potrebbe».
Naturalmente il Mazzini aveva fede nei giovani, negli animi sgombri d'ogni residuo del passato, aperti solo alle voci dell'avvenire: «La gioventù delle scuole è uno dei più potenti elementi della Giovine Europa. La generazione ch'è nata nel secolo è fatta per intendere i suoi destini; è fatta per sentire che a noi tutti, quanti siamo, appartiene un'alta missione, che siamo alla vigilia di un'epoca nuova, e che bisogna consacrarsi a svilupparla. L'epoca passata, epoca che ha finito colla rivoluzione francese, era destinata a emancipare l'uomo, l'individuo, conquistandogli i dogmi della libertà, dell'eguaglianza, della fratellanza; l'epoca nuova è destinata a costituire la umanità..., è destinata ad organizzare un'Europa di popoli, indipendenti quanto alla loro missione interna, associati fra loro a un intento comune »[67].
In questo senso, la Giovine Europa non recava in sé un mero programma di eversione del vecchio ordine, ma un principio fecondo di possibilità costruttrici, quello associativo, destinato ad agire sul terreno politico, sociale ed economico. Di fatto, l'istanza europea nel pensiero del Mazzini s'articolava in diverse e concordanti funzioni: la solidarietà politica delle nazionalità, l'avviamento alla soluzione della questione sociale, la creazione di nuovi rapporti economici tra i diversi paesi. Sul terreno politico «l'Europa dei popoli sarà una, fuggendo a un tempo l'anarchia d'una indipendenza assoluta e il concentramento della conquista»[68]. Sul piano economico, il Mazzini vagheggia la nascita di «una nuova economia politica»[69]. Infine, anche il problema sociale non può restare isolato e fermo alle vecchie posizioni umanitarie: «ogni grande rivoluzione [54] è sociale; si compia nell'ordine religioso, nel politico, o in altro qualunque, essa modifica inevitabilmente le relazioni sociali e il riparto della ricchezza». Il Mazzini crede ancora che «la questione sociale possa sciogliersi, più o meno, per entro ai confini di un popolo solo», sia cioè un problema interno a ciascun paese, a differenza di quello delle nazionalità ch'esige un'impostazione e una soluzione di carattere generale e di portata europea. Aveva, tuttavia, il presentimento che fosse sempre più difficile scindere i due momenti, il politico e il sociale, della futura Europa; affermava che « la conoscenza della vita collettiva della società » doveva condurre all'idea d'associazione, negava che i metodi «riformisti» potessero arrestare il cammino rivoluzionario, e ne deduceva l'urgenza di un'opera educatrice delle masse. «Nulla in oggi ha mallevadoria di riescita fuorchè nell'aiuto delle moltitudini: or come ottenerlo, se non lavorando visibilmente per esse, e insegnando loro l'amore al trionfo del pensiero?»[70].
Mazzini concepiva la vita nazionale come strumento e la vita internazionale come fine. E muoveva dall'Italia, anzi da Roma ch'ebbe «due volte il presentimento dell'unità dell'Europa». Nell'iniziativa italiana vedeva la possibilità di un moto che rigenerasse il vecchio mondo, mutandone la fisionomia morale oltre che la carta politica, ed aprisse la via ad un futuro assetto non più fondato sull'ambigua pratica dell'equilibrio, della bilancia delle forze. La missione della Francia gli sembrava finita: dopo il trionfo borghese del regno di Luigi Filippo, e più dopo la conclusione bonapartista della rivoluzione di febbraio, Mazzini presentiva il crollo del '70. «La Francia ha fatto assai per l'Europa, e un popolo non può far tutto, guai se potesse: sarebbe necessariamente il popolo tiranno... Ma dal 1814 in poi la Francia non ha cacciato un solo principio nuovo sull'arena del mondo»[71]. Mazzini era più incline a far credito «ai popoli vergini, come la Germania e tutte le nazioni di razza germanica e slava». In alcuni articoli della Roma del Popolo (1871), nel lucido tramonto della sua vita, ritornò con sempre nuovo vigore al problema dell'Europa. La liberazione delle nazionalità, compiuta l'unità italiana e quella germanica, aveva ormai dato i frutti più cospicui; ma l'apostolo vaticinava il dissolversi dell'impero absburgico e la scomparsa del dominio turco dal nostro continente, come premesse indispensabili d'una organizzazione europea di cui già delineava a grandi [55] tratti i caratteri essenziali. Molte di quelle riflessioni e proposte appaiono oggi inattuali; altre conservano una loro particolare freschezza. Ma quel che conta è l'istanza europea, così viva, così forte, così esplicita nel pensiero mazziniano. Nessuno, tra i grandi spiriti dell'ultimo secolo, l'ha espressa con uguale sincerità di convincimento e con tanta forza di persuasione. Il Mazzini vedeva di là dalle nazioni l'Europa, e ciò era possibile in quanto impostava il problema europeo in termini di «nazioni» e non di «nazionalismi»; sentiva cioè che qualcosa tutti i popoli dovevano sacrificare all'Europa.
Intanto, la voce di Carlo Cattaneo non era rimasta isolata e senza eco. In Germania, uno studioso di teologia, il Fleck, ricollegando il problema dell'organizzazione europea al sicuro sviluppo della civiltà, aveva scoperto fondate ragioni per sperare che «una confederazione di Stati potrà un giorno formarsi per garantire a tutti i popoli, insieme col rispetto della loro indipendenza nazionale, la sicurezza e la pace» (Der Krieg und der ewige Frieden, Lipsia 1849). E fin dall'anno prima, a Francoforte, R. Blum e K. Vogt reclamavano un'unione sacra di tutte le nazioni europee sottrattesi al dispotismo. Ma chi contribuì in maggior misura ad una rapida circolazione dell'idea, ad assicurarne la notorietà (se non la popolarità), a tradurla in una specie di slogan ad uso d'un infiammato settore della vita politica, quello delle «Sinistre», fu il poeta della Légende des siècles. Nell'agosto del 1819, alla seduta inaugurale del «Congresso per la pace», Victor Hugo, con il suo focoso tono oratorio, da Savonarola laico e ottimista, lanciò l'ispirata profezia: «Un jour viendra où vous France, vous Italie, vous Russie, vous Angleterre, vous Allemagne, vous toutes nations du continent, sans perdre vos qualités distinctes et votre glorieuse individualité, vous vous fondrez étroitement dans une unité supérieure et vous constituerez la fraternité européenne... Un jour viendra où l'on verra ces deux groupes immenses, les Etats-Unis d'Amérique, les Etats Unis d'Europe, placés en face l'un de l'autre, se tendant la main par-dessus les mers». I congressisti applaudirono. E il vate repubblicano ripetè il suo «un jour viendra», due anni dopo, dinanzi all’Assemblea Legislativa; ma qui la maggioranza, si palesò incredula e scettica: il resoconto della seduta c'informa che alcuni deputati, irriverenti, non trattennero le risa.

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[56] Tiriamo le somme: l'idea dell'unità d'Europa, è nata dalla consapevolezza d'una comune civiltà e dal sentire questa come una forza coesiva, come una realtà spirituale indistruttibile. Tutto ciò ne rappresentava l'intimo, positivo valore, quasi la segreta bellezza. Ma si era poi trovata a dover convivere con il concetto di nazione, sia nel modo che esso si configurava in una prima fase, dalla Staël al Sismondi e al Balbo, sia nel più alto e valido significato che assunse in virtù dell'insegnamento mazziniano. E qui si cominciò a considerare il processo unificativo dell'Europa come una tappa posteriore a quella del moto di liberazione delle nazionalità, anzi come l'atto conclusivo e quasi la celebrazione mistica di quel grande rivolgimento. Sennonché le lotte nazionali così aspre e così diverse, in Italia, in Germania, nei Balcani, nel mondo slavo, se da un lato favorivano il sorgere e il diffondersi d'ideali comuni, vibranti d'una solidarietà collettiva di sentimenti e di speranze, dall'altro esasperavano certe caratteristiche e tendenze dei singoli popoli, acuivano il distacco di alcuni Stati dagli altri, facevano - senza volerlo - il giuoco d'una Potenza come l'Inghilterra ch'era, in un certo senso, al di fuori e al di sopra della lotta, ma anche troppo vigile e presente per non raccoglierne i vantaggi; e quindi preparavano di lontano la conversione dei principi di nazionalità in canoni nazionalistici e nel germe d'opposti imperialismi.
Subito dopo il '48, l'idea europea ha un nuovo momento di fortuna ma acquista in risonanza ciò che perde in valore intrinseco. Da voce profonda d'una cultura e d'una civiltà, diventa segnacolo d'una particolare tendenza politica, e si lega sempre più alle fortune d'un gruppo, d'una fazione, d'un programma di partito. Si riduce ad appannaggio della democrazia repubblicana, tende ad isterilirsi in una formula ad affetto. Il pericolo ch'era soltanto «in nuce» nel pensiero dei primi liberali s'accresce e s'aggrava.
Saint-Simon aveva detto: la trasformazione in senso unitario dell'Europa si attuerà facilmente solo il giorno in cui «tutti i popoli godranno d'un regime parlamentare». Ora, su la scia di Victor Hugo, si crede di poter trovare nella democrazia parlamentare, nell'abbattimento dei troni, nell'instaurazione del regime repubblicano, la chiave miracolosa per spalancare la porta all'avvento degli «Stati Uniti d'Europa». Si badi al riferimento così scoperto e perentorio: [57] il modello che nei primi decenni del secolo era cercato sopra tutto nei «liberi cantoni elvetici», fino a creare il mito della Svizzera[72], ora è preso a prestito oltre Atlantico. La Svizzera somigliava troppo ad un'eccezione, ad un raro fiore dell'Alpi; gli Stati Uniti davano maggiore affidamento: la loro stessa ampiezza costituiva un esempio più proprio e più sicuro. Ma erano gli Stati Uniti visti attraverso un'ingenua credenza democratica, alimentata solo in piccola misura dagli studi seri dei costituzionalisti francesi e dal capolavoro del Tocqueville, ma in gran parte dagli ultimi residui del mito settecentesco d'un Nuovo Mondo libero e felice. Così viene meno l'esatta valutazione storica di un millenario organismo come l'Europa, e nell'inseguire il sogno della sua unità si smarrisce il senso e si perde di vista la funzione che quell'unità doveva avere in sé e doveva svolgere, nell'ambito dei continenti, per essere realizzabile e vitale.

 

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Tra le tante definizioni che furono date del secolo XIX, potrebbe trovar posto anche questa: l'Ottocento fu il secolo dei Congressi. Una definizione, naturalmente, che non dice nulla, o al più riesce solo a caratterizzare un aspetto, a indicare una diffusa tendenza, a porre in rilievo il ripetersi frequente e non sempre necessario d'un fatto. Certo si è che alle solenni assise delle Potenze per segnare trattati di pace o accordi internazionali, presto s'aggiunsero le riunioni periodiche dei grandi partiti politici, e quelle scientifiche, e infine i congressi delle infinite associazioni che in regime democratico pullularono moltiplicandosi con incredibile rapidità. Così, ebbero vita anche le «società per la pace» che, soprattutto in Svizzera, trovarono la loro sede ideale, pur attingendo le reclute nei più diversi paesi, e massime in Francia tra le correnti radicali e repubblicane fieramente avverse al Secondo Impero. E, con le Società, i Congressi, i manifesti, i discorsi, gli opuscoli, gli ordini del giorno. Era fatale che un'organizzazione siffatta mirasse ad innalzare una bandiera comune ai suoi aderenti d'ogni nazione, ad agitare un programma vago e indeterminato ma accettabile da tutti come uno di quegli ideali cui nessuno può rifiutare l'assenso, sia pure con la riserva mentale (e forse proprio in virtù di questa) della loro remotissima possibilità di effettiva realizzazione.
[58] Il motivo dell'unità d'Europa passò così dalla mente e dalla coscienza di alcuni grandi spiriti dell'Ottocento alle facili formule e ai retorici discorsi delle associazioni pacifiste. Le quali avrebbero dovuto assolvere, in teoria, almeno un compito: quello d'opporsi alle tendenze militariste ed espansioniste dei governi; ma nella pratica non riuscirono ad affermare una antitesi valida, a creare un rapporto dialettico di forze, e quindi ad essere elementi operanti e vitali. Il loro stesso atteggiamento ebbe sempre un carattere di giostra oratoria, di propaganda tribunizia, più che di serio e consapevole lavoro. Nel 1867 a Ginevra si riunì uno di questi Congressi la cui presidenza d'onore venne offerta a Garibaldi, e nel 1869, sempre in Svizzera, se ne aprì un secondo sotto la presidenza onoraria di Victor Hugo. Il primo convegno fu dominato dalla formula «Stati Uniti d'Europa», ma in omaggio alla sede s'indicò come valido e degno di essere imitato anche il modello dei Cantoni elvetici. Nel secondo, si preferì auspicare una «Confederazione dei popoli d'Europa». Mutamento non lieve, a ben guardare, poiché si abbandonava il programma massimo di un unico Stato sovrano, a carattere federale, per sostituirvi il progetto d'una lega tra i singoli Stati sovrani d'Europa. E' vero che si preferiva parlare di «popoli» e non di «stati», volendosi appunto significare che solo l'abbattimento dei troni e dei vecchi governi poteva aprire la strada ad un'era di solidarietà e d'unione europea. E qui si scopriva il vero scopo. la finalità concreta, di quelle associazioni e di quei congressi: eliminare le teste coronate e i ministri loro devoti servitori, i soli responsabili dell'endemico stato di guerra dell'Europa; sostituire alle «volontés particulières» la volontà «dei popoli liberi» (cioè dotati di suffragio universale, di libertà di stampa, del diritto di riunione, e degli altri benefici di un regime repubblicano-democratico). Ma i rappresentanti dell'«Associazione internazionale dei lavoratori» chiedono che al programma s'aggiunga anche la riforma «de l'organisation sociale», e i numerosi gruppi massonici insistono per l'adozione d'un generale orientamento anticattolico.
Il Congresso del 1867 partorì una «Lega per la pace e la libertà» ed accanto alla Lega un giornale dal titolo programmatico Les Etats-Unis d'Europe. Vita stentata ebbero l'una e l'altra istituzione: il solito successo iniziale di curiosità e d’adesioni, poi l'inevitabile declino, interrotto qua e là da qualche effimera ripresa, quasi sussulti d'agonia. Dopo pochi anni il giornale perdette la sua periodicità; [59] uscì a tratti, sorretto da meno di trecento abbonati[73]. Solo la crisi del '70 parve ridar vita all'idea unitaria d'Europa: prima di tutto col Renan che, mentre riaffermava il valore essenziale del concetto di nazionalità come principio spirituale[74], aggiungeva che solo una Federazione europea avrebbe rappresentato, in avvenire, il necessario correttivo degli individualismi e delle rivalità affioranti dallo sviluppo d'ogni singola nazione; e poi, con assai minor prestigio e altezza di pensiero, ma con una attiva propaganda, da parte d'un gruppo che faceva capo a Charles Lemonnier e che contava aderenti in Svizzera, in Germania, in Italia. Era sempre vivo, in costoro, il miraggio degli Stati Uniti d'Europa, ma la formula troppo ripetuta. interiormente non rinnovata, non ripensata e svolta, cominciava ad apparire logora[75]; appunto una formula, e non un moto vigoroso e veramente europeo di coscienze e di cultura. Nel Lemonnier rivivevano non pochi motivi dell'antica scuola sansimoniana, una l'idea europea era offuscata e inquinata dalle solite preoccupazioni politiche contingenti o addirittura di partito e di setta, cioè la lotta contro gl'istituti monarchici, contro «l'internazionale del clero», contro i regimi antidemocratici. Che il problema dell'Europa non potesse andar disgiunto dall'impostazione seria e decisa della questione sociale, che non dovesse astrarre dal fatto nuovo, cioè dalla recente pressione delle masse, era una felice intuizione; ma un avviamento effettivo e concreto a risolvere il problema sociale mancava in queste correnti, 1e quali oscillavano tra gli allettamenti del marxismo e i residui tintori dello spirito borghese, rimanendo alla fine prigioniere d'un generico democraticismo senza avvenire.

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Negli ultimi decenni del secolo XIX l'idea dell'unità d'Europa era destinata a subire un'altra deviazione. Nel dilagare delle tendenze positiviste, nel fervore d'entusiasmo per i miracolosi progressi della scienza, nello sforzo - più o meno consapevole - d'applicare i principi dell'evoluzionismo e della biologia ai concetti politici e morali, parve a molti che anche un problema come quello europeo potesse trovare la sua soluzione «scientifica» attraverso la creazione di determinati istituti economici e giuridici, e il loro successivo [60] evolversi nell'auspicato senso unitario. In altri termini, alla «sostanza» politica della questione si cerca di sostituire una «forma» giuridica, accettabile da tutti perché solo in apparenza più impegnativa, ma in realtà estranea ad ogni fede politica come tale, e quindi suscettibile di conciliarsi o almeno di convivere con le più eterogenee posizioni e con le opposte direttive dei singoli Stati. E si credeva fermamente che una volta istituite ed avviate queste organizzazioni internazionali (leghe, assemblee, tribunali), bastasse la loro stessa forza operante a condurre il continente verso una vita unitaria, per un processo organico, naturale e necessario non meno di quello che regola l'evoluzione degli individui e della specie.
Era l'illusione «scientifica» dopo quella «democratica». Veramente, ad alcuni studiosi (per esempio allo storico francese Pierre Renouvin) tutto ciò sembra segnare un notevole passo avanti, quasi una conquista preziosa nel difficile cammino. Dicono costoro che l'intervento dei giuristi, degli economisti, dei sociologi (di fatto un Congresso di Scienze Politiche tenuto a Parigi nel 1900 si propose come oggetto di studio l'organizzazione d'un vincolo federale europeo) ha finito col dare consistenza all'idea, spogliandola del suo carattere utopistico; il tema è non più prerogativa dei filosofi, dei letterati, o di storici arditi; è stato accolto nelle aule universitarie, nei severi convegni dei dotti, ed è fatto esame di mille cure e consigli. Si avanzano proposte pratiche, si suggeriscono provvidenze e, in parte almeno, si attuano. Dunque, si è usciti dalla sfera dell'astratto, si cammina sul solido terreno delle leggi economico-sociali, delle norme e degli istituti di diritto internazionale. Ma. in realtà, si assiste soltanto all'illusione del concreto. I giuristi e gli economisti si sono davvero impadroniti del tema, ed elaborano studi e ricerche; parlano dell'unità d’Europa come del «problème final du Droit international» oppure danno vita alla Corte permanente di giustizia; e gli economisti tentano di promuovere l'abolizione d'ogni barriera doganale, almeno per le materie prime, da un capo all'altro dell'Europa. Lavori, tentativi, parziali conquiste, di cui sarebbe sciocco negare il valore e l'interesse; ma in gran parte si tratta di «forme» e d'istituti privi dell'animus necessario per attingere i1 risultato ultimo e grandioso che i promotori hanno vagheggiato, di schemi e di compromessi che non rispondono ad una profonda istanza etico-politica e quindi non possono realizzare, nemmeno per evoluzione, un nuovo ordine di vita nel continente. Si precisa sempre meglio [61] il concetto d'una comunità interstatuale come società uniforme di soggetti giuridicamente uguali, ma si smarrisce il senso profondo dell'altra «comunità», quella morale e politica, cui s'era tanto guardato nella prima metà del secolo decimonono.
Gli ultimi anni dell'Ottocento furono il periodo d'oro dei Congressi pacifisti e della Conferenza dell'Aja; iniziative che pareva volessero smentire il celebre detto attribuito al vecchio Moltke secondo cui la pace perpetua era un sogno e nemmeno un sogno piacevole. Di fronte al trionfo delle dottrine imperialiste, che avevano in Germania e nell'Inghilterra della tarda età vittoriana uno dei loro massimi focolai di propagazione e d'incendio, era naturale questo successo della reazione pacifista per cui si amava paragonare la prima Conferenza dell'Aja per la pace al «germe dell'autentico parlamento della Umanità», mentre A. D. Withe diceva, di quel solenne arengo, che «il sogno dei profeti e il canto dei poeti vi avevano trovato la loro prima realizzazione parziale in semplice prosa»[76]. Ma era un successo effimero, poco aderente alla realtà politica dell'Europa, lanciata proprio allora alla conquista definitiva delle colonie africane o asiatiche e dei grandi mercati mondiali, in una lotta di antiche e nuove rivalità che si sovrapponevano, senza distruggerli, ai vecchi motivi continentali d'urto e di contrasto.
Il concetto dell'unità europea attraversa così la sua crisi più grave: si comincia col respingere l'idea dell'unità per sostituirvi quella d’unione: non più, dunque, uno Stato federale sul modello americano ma una federazione di Stati; e neppure «di popoli» secondo l'auspicio democratico-repubblicano, ma proprio «degli Stati» così come essi sono, dispotici o liberali, laici o clericaleggianti. E poi si pensa che anche un programma tanto ridotto dovrà essere assolto da più generazioni. Il Novikov, nel suo noto libro su La fédération de l'Europe (1901), si fa paladino di questa tattica prudente; e il Leroy-Beaulieu aggiunge che se un sistema federale si dovesse costituire a troppo breve scadenza, per esempio nella prima metà del XX secolo, esso non potrebbe configurarsi se non come un blocco delle forze europee in contrapposto «agli Stati Uniti d'America o all'Inghilterra», perché tale sarebbe il primo inevitabile impulso del vecchio continente. Ma un risultato siffatto appariva «antipacifico» [62] e quindi sconsigliabile. Meglio fidare in un'evoluzione lenta e procedere per gradi, senza scosse e turbamenti eccessivi.
Tra tanti pareri, giudizi e progetti, il «sentimento europeo» si era affievolito. Questo era il dato sconfortante che scaturiva da un esame di coscienza compiuto dalla generazione ch'era vissuta tra Sédan e le due crisi marocchine. E se il concetto essenziale veniva meno, se invece di rinvigorirsi e di accrescersi s'illanguidiva, come era possibile pensare alla futura unità? Senza un comune sentire era inconcepibile un concorde operare.

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Ma a questo punto la storia dell'idea unitaria d'Europa devia ancora una volta e si complica, perché interferisce e s'innesta in una idea nuova che sorge: l'unità intracontinentale. La guerra ispano-americana ha ampliato le sfere d'influenza degli Stati Uniti; la guerra russo-nipponica colloca il Giappone in prima linea fra le grandi potenze; l'Impero britannico distende le sue vaste ramificazioni in tutte le parti del globo. La storia del mondo non coincide più con quella del vecchio continente: è la storia d'Europa che si dissolve in quella del mondo. L'espansione coloniale ha contribuito a spezzare le antiche barriere divisorie, ha modificato i rapporti, creando nuove ragioni di contatto e nuovi vincoli. Nel 1912 uno studioso tedesco, lo Schücking, osservava che gli Stati europei avevano ormai troppi interessi vitali fuori del vecchio continente perché fosse possibile creare tra di essi un legame federativo senza associarvi in pari tempo le altre parti del mondo[77]. Il rapido corso della storia pareva volesse bruciare le tappe: l'unione europea sembrava corrispondere ad una fase superata; occorreva trascorrere d'un balzo alla meta finale, cioè all'associazione di tutte le nazioni del globo. Ma era poi opportuno e necessario questo salto ch'eliminava d'un tratto la tappa intermedia, o non era piuttosto l'effetto di una facile illusione? Questo nuovo mito aveva realmente in sé una forza viva, o non era se non la proiezione effimera d'un concetto più sano e meno universalistico, neppure esso giunto a piena maturazione? E come avrebbero agito e reagito nella rarità ecumenica le singole nazioni d'Europa con i loro millenni di storia e di civiltà? Comunque, due concezioni s'opponevano: europeismo e mondialismo. Ma intanto la vecchia Europa [63] sembrava disposta ad abdicare, a farsi piccola, quasi a sparire nell'ombra; circolava la fortunata definizione di Nietzsche (poi ripresa da Paul Valéry): l'Europa penisola dell'Asia. Era la geografia volta al morale, ma con una facilità imprevidente, inconsistente, pericolosa. Divampò la prima guerra mondiale, e dalle vicende dei quattro anni di lotta e di sangue attinsero motivi favorevoli alla propria tesi in particolar modo i fautori d'una unione degli Stati di tutti i continenti. La Società delle Nazioni nacque dal compromesso tra il mito universalistico e la volontà egemonica d'un gruppo di potenze; oltre che il peso dell'ideologia wilsoniana portò con sé il retaggio di tutte le incertezze che si erano addensate lungo il corso dell'Ottocento intorno alla soluzione del problema europeo. Perfino la città scelta come sede richiamava un lunga storia di dottrine e di tentativi. La Lega sorse con velleità d'unione mondiale, ma si ridusse nel volgere di pochi anni a non essere più nemmeno europea. Il problema dell'unione europea aveva così compiuto un suo ciclo: ripercorrerlo, significa rendersi conto dell'intimo nesso che lo lega agli altri problemi politico-ideologici dell'Ottocento e massime a quello delle nazionalità, nelle sue pure origini e negli sviluppi nazionalistici e imperialistici che portarono alle grandi crisi del ventesimo secolo.

7. — Al termine della sua Storia di Europa nel secolo decimonono, non per avanzare previsioni, che sono sempre vietate ad uno storico, ma per indicare qualche via tracciata dalla coscienza morale e dall'osservazione del presente, il Croce scriveva: «In ogni parte d'Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità...; e a quel modo che, or sono settant'anni, un napoletano dell'antico Regno o un piemontese del Regno subalpino si fecero italiani, non rinnegando l'esser loro anteriore anzi innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così i francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all'Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate ma meglio amate»[78]. Il Croce si rendeva così interprete di un diffuso sentimento che, in quegli anni, ravvivava gli spiriti migliori e che in taluni mirava a convertirsi in [64] azione operosa sullo stesso terreno politico: la convinzione, cioè, che le nazioni d'Europa potessero sanare le ferite della prima guerra mondiale (non appena quelle economiche, ma in primo luogo quelle morali) e prevenire altri e più gravi pericoli che si andavano profilando, cercando di attenuare gli egoismi e le brame di potenza, di liberarsi dalle servitù interne ed esterne, di guardar oltre le troppe e spesso incerte o malsicure o maltracciate frontiere, di non rinchiudersi entro fittizie difese militari diplomatiche o economiche, di non cullare sogni anacronistici d'assolute autarchie; al contrario, sforzandosi di aprire, o riaprire, gli animi alla fede in una comune solidarietà di ideali non meno che di concreti interessi, d'elevarsi ad una coscienza nuova e veramente europea che in sé risolvesse senza annullarle le singole tradizioni nazionali.
Nel ventennio tra le due guerre, il periodo che parve più propizio alla realizzazione pratica di quei propositi o almeno al cominciamento di un'opera rivolta in tal senso, fu quello compreso tra il 1929 e il 1932, quando il prestigio della Società delle Nazioni non era del tutto scosso, nonostante i difetti di origine e le incrinature già manifestatesi, e quando si creò un'atmosfera di distensione dopo i torbidi anni dell'immediato dopoguerra e prima dell'avvento di Hitler al potere in Germania. Il crollo finanziario di Wall-Street del 1929 che di lì a poco doveva coinvolgere gran parte dell'Europa in una terribile crisi economica con forti riflessi sociali (milioni di disoccupati) era un segno negativo e quasi premonitore del peggio; ma appunto per ciò era anche uno stimolo a tutti gli uomini politici di buona volontà perché, in concordia di spirito, si desse vita ad un legame effettivo, permanente, operante, trai paesi europei, il quale rientrasse nella vasta orbita dell'istituto ginevrino, ma fosse al tempo stesso più organico, saldo e fecondo, proprio perché aderente ad una realtà più circoscritta. Numerose le iniziative: dall'Unione paneuropea fondata dal conte Coudenhove-Kalergi a Vienna (prima, in ordine di tempo), al Comitato di cooperazione europea e all'Unione doganale europea sorti a Parigi[79].
Particolarmente vivo e drammatico fu il sentimento della incipiente dissoluzione del sistema europeo, dopo la prima guerra [65] mondiale, e della necessità di un nuovo sforzo unitario per vincerne i pericoli mortali, in Gustavo Stresemann. In un articolo del 31 dicembre 1925 egli si poneva la domanda: «Sovrasta all'Europa un nuovo crepuscolo degli dei?», e rispondeva costatando l'esistenza di una crisi assai vasta e grave, «la quale ha la sua base nell'interdipendenza economica dei popoli, che non hanno ancora ritrovato il loro equilibrio dacchè la guerra mondiale ha distrutto tutte le fondamenta su cui si edificava in tempo passato»[80].
Nel giugno 1927, nell'aula magna dell'Università di Oslo, ribadiva che la guerra «ha divelto l'Europa dalla sua vecchia posizione e l'ha ridotta a un continente che fa sangue da molte ferite e che, non soltanto in Germania, assiste all'impoverimento di intere classi di popolazione. L'Europa non è più il continente che nelle viscere della sua terra contiene la più gran parte delle materie prime di tutto il mondo, come non dobbiamo illuderci che l'Europa abbia un posto di preminenza tra gli altri continenti. I popoli d'Europa si uniscano per salvaguardarsi dalla foga irrompente degli altri»[81]. E in alcuni appunti del 1926: «La rinascita dell'Europa non è possibile senza la America, poiché tutta la base aurea dei grandi Paesi capitalistici è orientata verso gli Stati Uniti e ad essi subordinata. Ritengo opportuno, invece, che si creino grandi consorzi in Europa per porre un limite allo squilibrio della potenza aurea degli Stati Uniti»[82]. Infine, nell'ultimo suo discorso alla Società delle Nazioni: «Perché non abbiamo in Europa una moneta europea, un francobollo europeo? Tutti questi particolarismi sorti da un concetto di prestigio nazionale, sono ormai sorpassati e mettono il nostro continente in condizioni di inferiorità, non sola nei rapporti tra paese e paese, non solo nei rapporti con gli altri continenti, ma anche nei rapporti degli altri continenti tra loro, che spesso riescono a rendersi conto di queste cose giù difficilmente di un Europeo, il quale tra poco non le comprenderà più neppure lui»[83].
Ma fu uno statista francese, Aristide Briand, Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, che legò particolarmente il suo nome alla fase culminante dell'azione sul piano internazionale. Il memorandum [66] Briand, che reca la data del 1 maggio 1930, fu indirizzato alle cancellerie europee il 17 dello stesso mese: esso postula la necessità di un patto generale, sia pure «élémentaire», che affermi il principio dell'unione morale europea e consacri la solidarietà tra gli Stati; inoltre, insiste su la necessità di un «mécanisme» atto ad assicurare all'unione europea gli organismi indispensabili al raggiungimento dei suoi scopi[84]. Il documento aveva il grande merito di tradurre in termini di iniziativa politica un'aspirazione diffusa nell'élite dirigente europea; ma tra le pieghe del linguaggio diplomatico rivelava altresì la preoccupazione di non urtare le suscettibilità dei governi, di chiedere un minimo di sacrifici, di far appello a quella generica buona volontà che consentisse un primo accordo di massima. Nessuno dei ventisette governi interpellati oppose un rifiuto, anzi il riconoscimento della nobiltà e utilità del progetto apparve universale; ma le risposte, massime quelle degli Stati più importanti, furono reticenti, e intessute di «se» e di «ma» che accrebbero quel tanto di vago e di incerto ch'era già nel testo di Briand. In realtà, grossi problemi si agitavano nel fondo, destinati a venire a galla creando resistenze e diffidenze difficilmente superabili: il fatto stesso che l'iniziativa partisse dalla Francia, cui faceva capo un sistema di «sicurezza» fondato su alleanze orientali, suscitava dubbi e riluttanze; c'era poi il timore che l'unione europea cristallizzasse lo statu quo uscito dai trattati del 1919-20 favorendo i Paesi che perseguivano una politica antirevisionista e danneggiando gli altri; infine rimaneva oscura la posizione che avrebbero assunto l'Inghilterra e la Russia conte potenze non esclusivamente europee. E su tutte queste incognite incombeva l'ombra minacciosa dei contrasti ideologici tra comunismo, fascismo, e democrazie tradizionali, quei contrasti che le menti più vigili e aperte, uomini come Thomas Mann e Croce, Benes e Sforza, avrebbero voluto attenuare e risolvere con un appello al vincolo superiore dello spirito europeo. Il progetto Briand perdette di lì a poco il suo mordente quando, affidato dalla Società delle Nazioni ad un «Comitato di studi per l'Unione europea», venne costretto nelle maglie della normale attività ginevrina, e finì con l'insabbiarsi. Quell'esperienza, e molte altre se ne aggiunsero nel ventennio tra le due guerre, dimostrò che non c'era e non ci poteva essere una «politica» della Lega di Ginevra come espressione «di una società sopranazionale e internazionale [67] allo stesso tempo, ma vi erano varie politiche secondo che gli Stati più attivi e potenti facevano valere i propri punti di vista»[85]. Ciò equivale a riconoscere che la pura interdipendenza politico-economica degli Stati può creare «una camera di compensazione che funzioni limitatamente», ma non può creare un'internazionale. Senza dubbio, gl'interessi bene intesi degli Stati non solo dividono ma anche uniscono, e da siffatta realtà ha tratto alimento nei secoli il senso di un corpus politico, di una comunità europea. Occorreva però, secondo le parole del Ranke, che permanesse ben viva la fiducia nel genio «che sempre protesse l'Europa dal trionfo di ogni tendenza unilaterale e violenta»[86]. Ma tale fiducia, già incrinata dalla crisi del '70, parve affievolirsi paurosamente dopo il '14 e cadere in frantumi negli anni più vicini a noi.
Quando, nel 1932, il Croce scriveva la pagina sopra ricordata, i tentativi pratici per avviare l'Europa ad un'unione fondata sul consenso potevano dirsi falliti; stava invece per iniziarsi il folle sogno hitleriano di un'Europa dominata da un'unica forza e posta, con la violenza, sotto la guida della razza eletta. Nell'appello del Croce vibrava un'esigenza morale ch'era tutt'uno con la coscienza storica del secolo decimonono, quando il paganesimo della forza si pensava fosse stato definitivamente vinto con Napoleone, e si riteneva per certo che la fede nella libertà ed il rispetto dei suoi istituti dovesse ormai costituire l'indistruttibile pilastro della nuova Europa. Altri ha osservato che la formazione di una coscienza nazionale europea (motivo su cui batte l'accento del Croce) oggi difficilmente può intendersi disgiunta da una correlativa istanza sociale unitaria. Ma i dubbi più radicali sulla validità dell'ideale crociano, sulla sua aderenza alla realtà odierna, nascono quando si ponga in dubbio lo stesso persistere della comunità europea. Furono le guerre napoleoniche, dice il Bobbio, a creare la coscienza europea: «questa nostra guerra l'ha distrutta, forse irreparabilmente». Ed aggiunge: «Benedetto Croce, scrivendo la sua Storia d'Europa nel secolo XIX, ha segnato i limiti di tempo in cui è valido questo concetto. Tale opera, una delle più significative e profonde del nostro secolo, è l'ultima parola dell'Europa: è il suo [68] testamento»[87]. Più che un giudizio, il quale sarebbe prematuro, è forse questa l'espressione angosciata di un dubbio. Certo, nessuno potrebbe oggi ripetere, se non in un senso del tutto diverso, la splendida orgogliosa affermazione dello Herder: «Tutti i popoli e le parti del mondo sono sotto la nostra ombra (europea), e se una tempesta scuote due foglioline in Europa, come trema e sanguina l'intera Terra!»[88].

* * *

L'Europa è indubbiamente scaduta da soggetto ad oggetto della grande politica mondiale pur essendo ancora, con ogni probabilità, la chiave di volta del dominio del mondo. Il sistema degli Stati nazionali europei appare antiquato e insufficiente; e nessun Stato, che sia esclusivamente europeo, può dirsi in ultima analisi realmente indipendente perché le sue forze (e non appena quelle militari) sono ormai troppo modeste, e il suo stesso «spazio» troppo angusto. Le rovine della guerra hanno acuito il problema: in un certo senso il panorama delle comuni sciagure può suggerire una visione unitaria, sollecitare una solidale, concorde volontà di ripresa. D'altra parte, un concreto processo di unificazione non può nascere né dalla miseria né dalla prosperità in quanto tali: e miseria e prosperità - fu osservato - possono soltanto servire di veicolo ad altri e più solenni moventi, quando questi esistano»[89]. Enormemente mutato, nel corso di un cinquantennio, è il rapporto Europa-America: basterebbe questo solo a dare il senso di quanto sia diversa la posizione dell'Europa nel mondo. «L'America - diceva Hegel - è un annesso che ha raccolto l'eccedenza dell'Europa...; ciò che fino adesso vi è accaduto è solo eco del Vecchio Mondo ed espressione di una vitalità estranea»[90]. A poco più di un secolo di distanza, Paul Valéry osava affermare, nel 1938, che l'Europa gli appariva «mûre pour être gouvernée par une commission américaine». In realtà, la «coscienza storica» americana s'è formata lentamente e faticosamente come antitesi e, quasi, come sfida alla «vecchia» Europa; ma è indubbio che [69] essa attinse un particolare vigore dopo la vittoria degli Stati Uniti sulla Spagna, dopo la rivoluzione sociale messicana, ancor più dopo la partecipazione alla prima guerra mondiale (il 1917 segnò per la prima volta dopo molti secoli un intervento extraeuropeo nelle lotte del nostro continente), in seguito al felice esordio dell'unione panamericana, al tramonto dell'isolazionismo statunitense, infine dall'orgogliosa consapevolezza della grande potenza raggiunta[91].
Nessuna meraviglia che nel vecchio mondo sia riapparso il mito quarantottesco degli «Stati Uniti d'Europa»; ma intorno alla formula cara al Cattaneo si è pure esercitato lo spirito critico osservando che alla pluralità degli Stati europei manca (o appare solo in formazione) quella compatta e concorde volontà nazionale ch'è a fondamento degli Stati Uniti di oltre Atlantico. La coscienza unitaria europea deve ancora tradursi in una forza capace di sommergere le frontiere senza distruggere i singoli valori nazionali. Già uno scrittore del Risorgimento, meditando sul legame della moderna civiltà europea e sul vincolo della comune civiltà degli antichi Greci, si poneva il quesito: «Come finì la Grecia? Come finirà l'Europa?»[92]. La risposta è in noi, nella energia morale, nella saggezza politica, nella operosità concorde di tutti gli europei.




[70] BIBLIOGRAFIA

La storia dell'idea d'unità europea, dall'età dei lumi fino ai nostri giorni, rappresenta un campo aperto alle ricerche. Per ora non può ch'essere abbozzata nelle sue linee generali e non sempre con sicurezza. Occorrono molti studi preliminari su singoli pensatori, su periodi ben circoscritti, sul carattere particolare che il problema ha assunto nei diversi paesi, e così via. Ma, in primo luogo, sono necessarie lunghe indagini nella pubblicistica ch'è abbastanza ricca, ma dispersa e non facilmente reperibile. Anche gli atti, i resoconti, le carte di segreteria di alcuni Congressi, risultano poco accessibili. Lo stesso si dica dei giornali, per i quali occorrerebbe un'emeroteca specializzata e ordinata.
Fino a ieri l'unico studio d'insieme, di carattere storico, era quello di PIERRE RENOUVIN, Les idées et les projets d'Union européenne au XIX siècle, in: Bulletin B. 6, delle Publications de la Conciliation Internationale (Dotation Carnegie); Paris, Boulevard Saint-Germain, 73, 1931. Me ne sono ampiamente giovato, ma si tratta d'una conferenza tenuta presso la «Hochschule für Politik» di Berlino, e rientra nella numerosa serie di studi e di pubblicazioni che fiorirono, in quegli anni, intorno al tentativo paneuropeo di Briand. Ora si veda: D. VISCONTI, La concezione unitaria dell'Europa nel Risorgimento, Milano, Vallardi, 1948.
Per il contributo del pensiero germanico c'è un eccellente studio di VEIT VALENTIN, Geschichte des Volkerbrundgedankens in Deutschland, Berlin, Engelmann, 1920, il quale tuttavia risente di certe posizioni troppo strettamente democratiche. Inoltre bisognerebbe risalire almeno a Cristianità ed Europa (1799) del Novalis, al suo mito romantico di conciliazione, prima d'affrontare lo studio del gruppo più nutrito, che fiorì tra il 1813 e il 1815, con Arnold Mallinckrodt, con Wilhelm von Gayl, con K. Fr. Krauss.
Per il legame tra il problema dell'unità europea e quello delle nazionalità, qualche lume può scaturire dalla Lettura dell'opera del JOHANNET, Le principe des nationalités, Paris, 1923.
Per il nesso con i movimenti internazionalistici: CHRISTIAN L. LANGE, Histoire de l'internationalisme, voll. 2, Kristiania, 1919 (opera molto equilibrata).
Recano un apporto più aderente al tema: J. TER MEULEN, Der Gedanke der internationalen Organisation in seiner Entwiklung, voll 2, L'Aja, 1917. ALVAREZ, L'organisation internationale: précédents de la Société des Nations et de 1’Union fédérale européenne, Paris, 1931. Ma questa seconda opera è troppo direttamente ispirata dallo spirito societario.
[71] Per il movimento pacifista europeo: CHRISTIAN L. LANGE, Histoire de la doctrine pacifique et de son influence sur le développement du droit international, in: Académie de droit international: Recueil des Cours, XIII, 1926, pp. 175 segg. ed anche: ARTHUR C. F. BEALES, The History of Peace, New York, 1931.

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E' sempre opportuno risalire al Settecento, non fosse altro per giungere ad una precisazione dei concetti. Nell'età dei lumi, storici filosofi e politici esaminano l'Europa dall'angolo visuale dei diversi caratteri nazionali; pongono in evidenza che ogni nazione ha i suoi «costumi», cioè la sua individualità. Ma sono proprio queste differenti individualità che compongono l'Europa; è in virtù di questa ricca e multiforme pluralità di caratteri che l'Europa è strutturalmente (e non solo qualitativamente) una realtà ben diversa dall'America o dalla Cina (cfr. C. ANTONI, La lotta contro la Ragione, Firenze, 1942, pp. 8-10; per il distacco di Kant dall'illuminismo nel modo d'intendere il «carattere» delle nazioni, si veda a p. 184 e sgg.).
La Svizzera nel XVIII secolo ha opposto il concetto storico di «nazione» allo spirito dell'illuminismo francese, ha restaurato il valore delle antiche libertà repubblicane contro lo Stato assoluto dei principi illuminati. Funzione mediatrice, per un verso (cfr. F. ERNST, Helvetia mediatrix, in: Corona, 1938, V); ma altresì, iniziatrice d'un rinnovamento spirituale che avrà i suoi immediati riflessi nel pensiero politico e storiografico del primo Ottocento. Non il cosmopolitismo illuministico, ma quello romantico che muove dal circolo di Coppet, e che ha per fondamento il concetto storico della nazione, è a base dell'idea d'Europa nel sec.XIX. Su questo ideale cosmopolitico ben diverso da quello settecentesco, cfr. R. RAMAT, Sismondi e il mito di Ginevra, Firenze, 1936. Osserva acutamente M. RUINI che la Staël «non si ferma a costruire progetti e piani di pace perpetua... come avevano fatto i maestri della sua giovinezza, Saint-Pierre e Rousseau»; essa contribuisce in un «senso spirituale e di coltura, più che veramente politico, all'impostazione di un problema europeo» (La signora di Staël, Bari, Laterza, 1931, p. 175). Sul progetto sansimoniano, le fini osservazioni di A. SAITTA nella prefazione (Saint-Simon e la federazione europea) alla versione italiana dell'opera (Roma, Atlantica, 1945).

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Per le ragioni indicate più sopra, e cioè per la mancanza di trattazioni organiche e approfondite, non si possono annoverare intorno a questo tema delle vere tesi in contrasto. Più che giudizi storici, s'incontrano atteggiamenti spirituali diversi strettamente legati a posizioni politiche e a simpatie ideologiche. Più spesso si tratta di studi in cui prevale la mentalità giuridica (ad es. N. BEZIEZIEKI, Société, Etat, et Fédération des Etats, Genève, 1921).
Per la «funzione e europea» della Svizzera, si veda: WERNER NAF, Die Schweiz in Europa, Bern, H. Lang, 1938. Per il concetto di «Stati Uniti d' Europa», cfr. M. DE RAMERU, Les Etats-Unis d' Europe, Lausanne, Payot, 1930. Si collega allo studio del sistema europeo del 1815 il saggio di [72] C. DE CUCIS, Un tentativo d'unione europea nell'Ottocento (in: Giornale degli economisti, gennaio-febbraio 1941), che esamina il contrasto tra l'economia britannica e quella degli Stati continentali europei.
Una ricca letteratura, in cui però il carattere d'«attualità» politica offusca il valore storico e critico, è fiorita intorno al 1930, a cornice del noto progetto paneuropeo di Briand. Così: G. HANOTAUX, L'union européenne, in: Revue des Deux Mondes, luglio 1930. B. De JOUVENEL, Vers les Etats-Unis d'Europe, Paris, Valois, 1930. W. D'ORMESSON, Une fédération européenne est-elle possible?, in: Revue de Paris, 15 ottobre 1929. J. DUCA, Statele Unite ale Europei, in: Observatorul, 1930. G. BRUNET, Les fondaments historiques de l'Union européenne, in: Notre Temps, 18 ottobre 1931. Il problema delle federazioni degli Stati minori viene raccordato al problema generale dell'unione europea: V. JANCOULESCO, La petite Entente et l'union européenne, Paris, Gamber, 1931. C. IVANTCHEFF, L'idée des Etats-Unis d'Europe et les projets d'une confédération balkanique, Paris, Gamber, 1930.
Sui limiti di conciliabilità della sovranità dei singoli Stati con l'unione europea, dal punto di vista giuridico; N. POLITIS, La souveraineté des Etats et l'union européenne, in: Revue Bleu, agosto 1931. Per l'aspetto economico del problema: M. MANOILESCO, Les Etats-Unis d'Europe: l'aspect économique, in: Roumanie économique, fasc. XI-XII, 1929. F. MARSAL, Les Etats-Unis d'Europe, in: Revue économique internationale, gennaio 1930.

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All'alba del nuovo secolo, e precisamente all'inizio del 1901, Eugène-Melchior de Vogüe scriveva: «Nationalisme et cosmopolitisme, les deux principaux antagonistes luttent avec des forces sensiblement égales. Je défie le plus clairvoyant prophète de dire à cette heure lequel l'emportera». Naturalmente il problema non si può porre in questi semplicistici termini.
In genere gli studiosi del problema dell'unione europea muovono dal riconoscimento dello «stato nazionale» come da un presupposto ineliminabile. Non così lo storico G. SZEKFÜ nel suo recente lavoro Allam és nemzet (Stato e nazione), Budapest, 1942, il quale afferma che «lo Stato ungherese si differenzia sostanzialmente dallo stato nazionale del secolo decimonono» perché il suo vero carattere consiste appunto nel fatto che ha riconosciuto «i modi e le possibilità di convivere con i popoli non ungheresi». In altri termini, tra Stato e Nazione (come nazionalità), l'accento dello storico ungherese batte sullo Stato: «senza stato non è popolo né nazione, ma soltanto oggi un covone disciolto, e domani forse null'altro che un pugno di semi dispersi ».
T. VECCHIETTI (Nazionalità e Stato nazionale, in: Civiltà fascista, gennaio 1943, p. 176) ritiene che «il pretendere che lo stato, anche se nazionale, miri a costituire una forma di società internazionale la cui condizione d'esistenza sia la spersonalizzazione dello stato, è una contraddizione in termini», e conclude: «Solo il rinnovo della società internazionale, che può determinarsi in modo qualsiasi, purché nasca dall'intimo di essa, può risolvere il problema internazionale». Così anche il Vecchietti giunge al ripudio della tesi che considera «le questioni istituzionali» come un sufficiente avviamento alla formazione di un’effettiva unità europea.
[73] Il tema della maggiore o minore conciliabilità di un'Europa costituita da Stati nazionali con la tendenza ad una sua superiore unificazione è sfiorato e, talvolta, affrontato direttamente nelle numerose opere dedicate in questi ultimi anni all'evoluzione storica dell'idea di nazione in rapporto con i problemi attuali. Conviene muovere dall'opera, molto ricca di riferimenti ai testi, ma poco rigorosa nell'impostazione metodologica, di HANS KOHN, The Idea of Nationalism, New York, 1945; poi si vedano, nel vol. di V. A. FIRSOFF, The Unity of Europa, Lindsay Drummond, 1947, i due saggi su: Nationality and Nationalism, e International Law and Peace of Europe. Le speranze congiunte al vecchio «internazionalismo» di stampo socialista sono svanite: F. BORKENAU nei primi capitoli della sua opera Socialism, national or international (London, 1942) studia appunto il processo di «nazionalizzazione» dei socialismi europei. La crisi odierna dello Stato nazionale, dopo la sua rapida ascesa, è l'oggetto del libro di W. FRIEDMANN, The Crisis of the national State, London, 1943. Indagine notevole, perché l'insufficienza dello Stato nazionale (e soprattutto l'incapacità a vivere liberi e indipendenti dei piccoli Stati nazionali sorti dopo la prima guerra mondiale) insieme con le degenerazioni nazionalistiche costituiscono, secondo taluni, la premessa o la necessaria giustificazione d'un loro superamento nel senso dell'unità europea. Accenni espliciti, a tale proposito, nei due noti libri di E. H. CARR (Conditions of Peace, e Nationalism and after), ma più ancora in: A. TRABALZA, Stati Uniti d'Europa, Roma, 1945.

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Della «coscienza europea» nel passato e nel presente si è discusso, a volte con accenti positivi, a volte in termini di negazione, nelle Rencontres di Ginevra del 1946.
Un saggio nitido e serrato sul tramonto dell'Europa è dovuto a S. HAFFNER (pseudonimo di un noto scrittore inglese di cose politiche) in: First Spring of Peace, London, Contact Boock, 1946.
Difficile orientarsi nella selva delle tendenze, e delle loro infinite sfumature, affiorate in questi anni intorno al problema dell'unificazione spirituale, politica, economica dell'Europa. Il modello dell'unità cristiana dell'Europa medioevale è additato nelle sue celebri opere dal Toynbee ed anche dal Dawson. Lo postula e ne trae un ideale normativo GONZAGUE DE REYNOLD: «La decadenza dell'Europa è la conseguenza dell'affievolirsi dello spirito cristiano. L'unità d'Europa vive in un principio e solo in quello, un principio spirituale ch'è appunto il cristiano. L'unità d'Europa non si ricostituirà, la decadenza europea non sarà arrestata, se non nella misura in cui le nazioni europee sapranno tornare al Cristianesimo, ed al cristianesimo integrale: perdite non ci si salva se non tornando alla fonte stessa della propria vita. Il male dell'Europa che, in ultima analisi, è un male spirituale sta a dimostrarlo» (L'Europe tragique, Paris, 1934, p. 106). Ma si veda, soprattutto. CHR. DAWSON, Il giudizio delle nazioni, vers. ital., Milano, 1946, p. 166. Lo stesso Dawson, più che all'unità europea, è favorevole alla unificazione mondiale, la cui realizzazione deve essere affidata ad «un nucleo spirituale di credenti che rechino con sé il seme dell'unità» (Op. cit., ult. capit.). La tesi della federazione mondiale come programma politico [73] realizzabile è sostenuta da Denis de ROUGEMONT, Federazione o dittatura mondiale, in: Rassegna d'Italia, 1947, IV, pp. 86-88.
Tra le tesi «mondialista» e quella «europeista» (la seconda non esclude mai che per gradi si possa giungere alla prima), oggi si pongono anche programmi intermedi; ad esempio, quello della «Comunità Atlantica» (unione dei paesi europei ed americani bagnati dall'Atlantico), sostenuta con particolare vigore dal pubblicista statunitense Walter Lippmann, noto esperto di problemi internazionali.
In seno agli «europeisti», accanto al proposito più antico e quasi tradizionale di una Confederazione degli Stati europei, oggi si afferma con notevole vigore la tesi ben più ardita di uno Stato federale (cfr. U. CAMPAGNOLO, Repubblica federale europea, Milano, 1945). La corrente che fa capo a W. Churchill rappresenta la prima posizione; i movimenti sorti, o rafforzatisi, in seguito alla guerra nei diversi paesi (massime in Olanda, nel Belgio, in Svizzera, in Francia e in Italia) sono più o meno vicini alla seconda. Vi è pure, assai forte, la distinzione tra le tendenze conservatrici che mirano a promuovere un'unione dall'alto e quelle social-democratiche che vedono scaturire l'unità dall'intesa diretta dei popoli. Vivo è anche il contrasto tra i due metodi suggeriti o auspicati per la realizzazione, sia sul piano economico che su quello politico: il gradualismo e l'integralismo. In Gran Bretagna si guarda con maggior favore, specie tra gli economisti, ad un «federalismo funzionale»; a questo proposito si vedano i richiami storici di GINO LUZZATTO, Precedenti e prospettive di un federalismo funzionale, in: Negotia, n. 13-14, luglio 1947. Infine, dinanzi al concetto della «piccola Europa», vale a dire di un'unità che escluda l'Inghilterra e la Russia, si pone quello della e grande Europa» che si richiama non tanto a motivi di unità geografica, sempre estrinseci, quanto all'idea della moderna Europa, dalla cui formazione storica la Gran Bretagna, la Russia bianca e l'Ucraina non possono venir escluse. Contrario all'inclusione dell'U.R.S.S. (come paese non «democratico»): STORENO [E. Rossi, Gli Stati Uniti d'Europa, Lugano, 1944. Su tutto questo, giudizi, opinioni e bibliografia sono reperibili nel fascicolo speciale della rivista Politica estera, 1945, n. 4-5 (ma si veda anche il n. 6, p. 106 sgg., e il n. 7, p. 122 c segg.). Infine: Europa federata (scritti di Calamandrei, Einaudi, Salvemini, Silone, ecc....), edizioni di Comunità, 1948. Notevole è oggi, in Francia, l'interesse per questi problemi: sul terreno politico, l'opera di R. ARON et A. MARC, Principes du fédéralisme (Paris, 1948), sostiene la tesi che l'Europa sarà «federale» o cesserà di esistere. Sul piano degli studi, P. RENOUVIN, che ha dedicato una comunicazione, durante il Congresso Storico di Parigi (aprile 1948), alle tendenze unitarie europee del 1848, ha pure svolto una relazione sul tema Le Congrès international de le Paix: Paris, I849 durante il Convegno Volta, promosso dall'Accademia dei Lincei (4-10 ottobre 1948).




[1] CHR. DAWSON, La formazione dell'unità europea dal secolo V al XI, vers. ital., Torino, Einaudi, 1939, p. 3.
[2] «L'Europe est un organisme historique, ce qui est beaucoup plus que un continent»; appunto perché si tratta di una realtà storica, «l'Europe se pose à nous commne un problème historique» (GONZAGUE DE REYNOLD, L'Europe tragique, Paris, Spes, 1934, p. 418).
[3] F. CHABOD, L'idea di Europa, in: La Rassegna d'Italia, 1947, IV, pp. 4-5. Ivi, anche per il richiamo allo studio di Arnaldo Momigliano. Cfr. altresì: SANTO MAZZARINO, Tra Oriente e Occidente, Firenze, 1947.
[4] G. ROSA, Storia generale delle storie, Milano, 1865, p. 3.
[5] CHR. DAWSON, op. cit., p. 4.
[6] Cit. in CHR. DAWSON, op. cit., p. 22.
[7] Si noti questo accenno esplicito agli Sciti. In altri scrittori medioevali, ed anche in Dante (De Monarchia), la Scizia, cioè la Russia, sembra esclusa dall'Europa.
[8] Cfr. il saggio: Europa medioevale nel vol. di G. FALCO, Albori d'Europa, Roma, 1947; del medesimo Autore, con lo pseudonimo di C. FORNASERI, La Santa Romana Repubblica, Napoli, 1944.
[9] CHR. DAWSON, op. cit., pag. 380.
[10] F. NOVALIS, Cristianità e Europa, vers. ital., Torino, Einaudi, 1912, p. 3 sg
[11] Altri si muori contemporanei che auspicano un rifiorire dell'unita cristiana medioevale sono, ad esempio, il gia ricordato Christopher Dawson e Gonzague De Reynold
[12] CHR. DAWSON, Il giudizio delle nazioni, vers. ital., Milano, 1946, p. 162.
[13] E. FUETER, Storia del sistema degli Stati europei dal 1492 al 1559, vers. ital., Firenze, 1932, pp. 72-73
[14] CHR. DAWSON, La formazione, ecc..., op. cit., p. 282.
[15] A. DE STIEGLITZ, De l'équilibre européen, du legitimisme et du principe des nationalités, Paris, 1893, vol. I, p. 239.
[16] Mi giovo delle acute osservazioni di F. CHABOD nella recensione al saggio di W. KIENAST, Die Anfäge des europäischen Staatensystems im späteren Mittelalter, pubblicata in: Rivista Storica Italiana, 1936, 1V, pp. 86-89.
[17] F. GUICCIARDINI, Storia d'Italia, libro I, cap. 1.
[18] P. PARUTA, Discorsi politici, libro II, discorso VII.
[19] Per l'uso del termine, cfr. già nel Guicciardini (op. cit., libro I, cap. 2). «Tali erano i fondamenti della tranquillità d'Italia disposti e contrapesati in modo che non solo di alterazione presente non si temeva, ma... ecc...».
[20] Cfr. F. CHABOD, recens. it. Si veda altresì: E. KAEBER, Die Idee des europäischen Gleichgewichts in der publizistischen Literatur vom 16, bis zur Mitte des 18. Jahrhunderts, Berlin, 1907.
[21] FÉNELON, Oeuvres, III.
[22] D. HUME, De la balance du pouvoir, in: Discours politiques, VI, Amsterdam, 1754.
[23] Cfr. IRA O. WADE, The Abbé de Saint-Pierre and Dubois, in: Journal of Modern History, 1930, III.
[24] Bassano, 1786, p. 77.
[25] L. A. MURATORI, Della pubblica felicità, Lucca, 1749, p. 15.
[26] R. LODGE, The maritime Power in the XVIII Century, in: History, XV, p. 216 sgg.; IDEM, The continental Policy of Great Britain (1710-60), in: History, XVI, p. 298 sgg.
[27] Per il periodo seguente, cfr. P. VAUCHER, Robert Walpole et la politique de Fleury (1731-1742), Paris, 1925, ch'e d'importanza fondamentale.
[28] A. DE GIORNI BERTOLA, Della filosofia della storia, Pavia, 1787, pp. 164-5.
[29] A. REIN, Über die Bedeutung der überseeischen Ausdehnung für das europäische Staatensystem, in: Historische Zeitschrift, 1928, 137, p. 62.
[30] TH. G. F. RAYNAL, Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deuz Indes; I ediz. in 6 voll., 1770. Cito dall'ediz. in 10 volumi, di Genève, 1780, vol. IX, p. 364 e sgg.
[31] M. D'ARGENSON, Mémoires et journal inédit, Paris, 1858, V, 360.
[32] Ediz. di Parigi, 1866, t. II, p. 359. Ma, al tempo della prima spartizione della Polonia, vi fu chi osservò che la libertà dell'Europa «era in peccato mortale», e con essa e per essa, appunto, il principio d'equilibrio.
[33] Recueil des Instructions, ecc..., I, Autriche, Paris, 1884, p. 310.
[34] Per il problema delle frontiere naturali, cfr.: L. FEBVRE, La terre et l’évolution humaine, Paris, 1922, p. 360 segg. ; ID., Histoire du Rhin, prefazione al vol. Le Rhin, Strasburgo, 1930; G. ZELLER, Le France et l'Allemagne depuis dix siecles, Paris, 1934 ; ID., Histoire d'une idée fausse, in: Revue de synthèse historique, 1936, giugno, pp. 115-131.; J. ANCEL, Géographie des frontières, Paris, 1938; VAN HOUTTE, Frontières naturelles et principe des nationalités, in: Bulletin de la Classe des Lettres de l'Académie Royale de Belgique, 1935.
[35] L. BLANCH, Dell'Equilibrio politico, in: Scritti storici, III, Bari, 1946, p. 326-333.
[36] Cfr. Anche, per un periodo posteriore, G. B. MAROCHETTI, Indipéndance de l’Italie: moyen de l'établir dans l'intérét général de l'Europe considéré spécialement sous le point de vue de l'équilibre politique, Paris, 1830 (ma la 1° ediz. è del 1826). Su l'opera del Marochetti, si veda il saggio di M. PETROCCHI, nel vol. L'uomo e 1a storia, Bologna, 1944, pp. 51-70.
[37] Di diverso parere era C. Boncompagni il quale nel 1871 scriveva: «Datano dal XVI secolo le origini di un equilibrio politico ordinato a limitare la potenza qualunque sovrano che accennasse a soverchiare gli altri Stati. Oggi il sistema dell’equilibrio politico è riguardato quale un vecchiume da parecchi che sono in grande errore. Il concetto dell’equilibrio politico, procede da un fatto che succede purtroppo dappertutto, e per cui suol divenire prepotente colui che è oltrepossente» (Italia e Francia, Torino, 1873). Per il concetto elle dell'Europa aveva il Boncompagni e, in genere, per il pensiero della Destra storica su tali problemi, si veda: F. CHABOD, Il pensiero europeo della Destra di fronte alla guerra franco-prussiana, in Comunità Internazionale, 1946, 1-2.
[38] Cfr. M. H. CORNEJO, L'équilibre des continents. Paris, 1932.
[39] Cfr. DA BALLA, The new Balance of Power in Europe, Baltimora, 1932. Inoltre: H. NICOLSON, Peace-making, London, ediz. 1943. Un giudizio recente è quello di un noto diplomatico romeno, G. GAFENCO, nel vol. Preliminari della guerra all'Est (Milano, 1946, a pag. 412): «L'equilibrio non è stai stato una soluzione politica definitiva e di tutto riposo. Ma nella diversità europea, che necessito di un ordine basato su una giusta misura, esso era e sarà sempre un principio di vita. L'equilibrio non esclude una organizzazione più sistematica della comunità internazionale, ma perché una simile organizzazione, conservi un quadro europeo, l'equilibrio non può esserne escluso». Nel Gafenco è forte la preoccupazione di salvaguardare, tramite l’equilibrio, le piccole Potenze di fronte alle grandi.
[40] Ne1 1817 il principe Czartoryski, nel suo Essai sur la diplomatie (pubblicato nel 1330), ricercando l'origine dell'idea moderna di « pace europea e di unione tra gli Stati d'Europa, risalì al famoso disegno di Enrico IV. Dallo stesso punto prende le mosse anche lo HANDELSMANN nel suo breve studio «L'idée de rapprochement entre les nations dans l'histoire moderne» (in: L'Esprit International, gennaio 1930) dopo un accenno all’unità cristiana dell’Europa medievale. Naturalmente, lo Handelsmann sa che « le grand dessein du roi » è opera del Sully, una specie di testamento ideale di Enrico IV, dovuto al vecchio e fedele ministro; ma « ce faux — osserva — a existé en histoire en devenant une légende». In altri termini è possibile stabilire una linea che, muovendo dal Sully, passa per L'Essais towards the present and future peace of Europe del puritano inglese Penn, e giunge, on il progetto che il Saint-Pierre elaborò all'ombra del trecentesco campanile di Utrecht, alle soglie del Settecento. Il Saint-Pierre, com’è noto, aveva tracciato (art. II del suo «Abregé») anche le norme, del cosiddetto «mese europeo», destinato ad assicurare i contributi necessari a tener in vita la «grande assemblea», cioè il consesso direttivo di tutti gli Stati. Ma a noi sembra indispensabile precisare un limite che l'Handelsmann trascura: sia nel Sully, che nel Penn e nel Saint-Pierre, ma affiora un vero concetto europeo, cioè un'idea che accomuni l'Europa, se non in questo senso, come desiderio di promuovere la pace perpetua e, con la pace, il progresso, «il continuo perfezionamento delle opere civili» (Saint-Pierre).
[41] F. CHABOD, op. cit., loc. cit., pp. 7-8.
[42] Per la corrente pacifista del Settecento, si veda: C. CURCIO, Progetti per la pace perpetua, Roma, Colombo, 1946. Per lo scritto Zum ewigen Frieden di E. Kant, oltre l'edizione a cura di K. VORLÄNDER (Lipsia, 1914), si veda: Gli scritti politici di E. Kant, a cura cli E. P. LAMANNA, Lanciano, 1917. Anteriore di pochi anni, e precisamente del 1789, è lo scritto di GEREMIA BENTHAM, Plan for universal and perpetual Peace, che suggerisce l’abolizione della diplomazia segreta, la riduzione degli armamenti, la libertà per le Colonie, e la creazione d'una Corte di giustizia internazionale. Per lo sviluppo ulteriore del pacifismo, si veda il vol. di A. SAITTA, Dalla Respublica christiana agli Stati Uniti di Europa, Roma. 1948, ch'è uscito quando questo saggio era già ultimato.
[43] G. ATKINSON, Les relations de voyages du XVII siècle et l'évolution des idées, Paris, Champion, 1924.
[44] Le teorie settecentesche sul «modello» americano, prima e dopo la rivoluzione delle colonie inglesi, sono già analizzate, ameno in parte, nell'opera di F. MAZZEI, Recherches historiques et politiques sur les Etats-Unis de l’Amérique, Colle-Paris, I788, Voll. 4. Ivi (Voll. III.) è riportato anche l'opuscolo: Influence de la Rérolution de l'Amérique sur l’Europe, par un Habitant obscur de l’ancien hémisphère, che è del Condorcet, ove si discorre dei vantaggi e svantaggi che la scoperta del Nuovo Mondo recò all’Europa. Sul problema, nel suo complesso, da Buffon ai romantici, si veda: A. GERBI, Viejas polemicas sobre el Nuevo Mundo, Lima 1946; R. GONNARD, La légende du bon sauvage, Paris, 1946.
[45] Anche in Italia: oltre le note pagine di D. Bartoli, si veda: E. GIUSTI, Paragone degli europei cogli asiatici, Berlino, 1670.
[46] BAYLE, République des lettres, Paris, 1685, p. 3. E cfr. L. REAU, L'Europe française au siècle des lumières, Paris, A. Michel, 1938.
[47] D. CARACCIOLO, Paris, le modèle des nations étrangères, ou l'Europe française, Venise-Paris, 1777.
[48] Cit. da: Progetti di pace perpetua, a cura di C. CURCIO, Roma, 1946, pp. 63, 65-67.
[49] F. CHABOD, L'idea di Europa, in: Rassegna d'Italia, 1947, IV e V fascicolo. In questo studio, già ricordato, si vedano particolarmente le pagine sul Montesquieu e sul Voltaire. Cfr. anche: P. HAZARD, La pensée européenne au XVIII siècle, voll. 3, Paris, Boivin, 1946. Inoltre: B. Groethuysen, Montesquieu et l'art de rendre les hommes libres., in: Fontaine, novembre 1946, ch'esalta lo spirito di libertà come caratteristica del genio europeo. Per i precedenti dell'idea europea, è importante: W. FRITZEMEYER, Christenheit und Europa, Monaco, Berlino, 1931. Significativo come documento dell’interesse attuale per il problema, il fascicolo dedicato a «L'idea europea» della rivista Ulisse, n 4, gennaio 1948: ivi, soprattutto, l'articolo di R. Ciasca, Vicenda dei confini d'Europa, pp. 454-462.
[50] «On a dit l'Europe sauvage, l'Europe payenne, on a dit l’Europe chrétienne, peut-être dirait-on encore pis, mais il faut qu'on dise enfin l'Europe raisonnable » (Lettre à M.*** (Helvétius) preposta dagli amici di N. A. Boulanger all'edizione del 1761 dalle sue Recherches sur les origines du despotisme oriental).
[51] J. MICHELET, Introduction à l'histoire universelle (1831), in: Oeuvres, Bruxelles, 1840, I.
[52] F. GUIZOT, La civilisation en Europe, ediz. Bruxelles, 1854, p. 16. Solo in senso molto lato può essere accolta l'affermazione secondo cui «uno degli elementi che più sicuramente segnalano la presenza dell'europeismo è il senso liberale della vita» (A. SAVINIO, Europa, in: Ulisse, n. 4, 1948, I, p. 500), perché nel secolo XIX vi è l'europeismo conservatore del Metternich, quello liberale del Guizot o del Michelet, quello rivoluzionario del Mazzini.
[53] Cfr. GRANDUCA MICKHAILOWITCH, L’Empereur Alexandre, I, p. 200.
[54] LAS CASES, Memorial de Saint Hélène, Bruxelles, 1825, t. II, p.339 ; t. III, p. 174.
[55] P. HAZARD, La crise de la conscience européenne (1680-1715), Paris, 1933, II, p. 2800 e sgg. Sul Piattoli, cfr. A. D’ANCONA, Scipione Piattoli, Firenze, 1911 e G. MELEGARI, Un precursore italiano di Wilson, in: Nuova Antologia, 1 febbraio 1920 (di scarso valore). Il progetto del P. è del 1803-1805: un'analisi accurata in: D. VISCONTI, La concezione unitaria dell'Europa nel Risorgimento, Milano, F. Vallardi, 1948, pp. 87-93.
[56] C. CAPASSO, L'unione europea (1814-15), Perugia, 1932. W. ALISON PHILLIPS, The Confederation of Europe, London, Longmans, Green and Co., 1920.
[57] A. OMODEO, Figure e passioni del Risorgimento, Palermo, 1932, p. 57.
[58] Cfr. LEROUX, L'unione européenne, in: Le Globe, 22 novembre 1927. Si veda anche l’annata 1831 per la proposta del Congresso. Inoltre: VICTOR CONSIDERANT, De la politique générale et du rôle de la France en Europe, Paris, 1840.
[59] Già negli scritti di Matteo Galdi, tra il 1796 e il '98, s'affaccia l'idea di un'organizzazione europea sul modello degli Stati Uniti d'America o dei Cantoni elvetici, cioè a base democratica. Ricordo (a titolo di curiosità) che, verso il 1816-17, don Ciro Annichiarico, di Grottaglie, «l'abate brigante», predicava - tra l'una e l'altra delle scorrerie - «un ordine novello... che avrebbe dovuto stringer le nazioni d'Europa, flagellate dalla discordia e dalla guerra, nei vincoli d’una vasta federazione repubblicana»; e la piccola «repubblica salentina», ch'egli auspicava, sarebbe stato «un anello della grande Repubblica Europea» (Cfr. A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d’Italia (1815-1818); Bari, Laterza, 1942, p.130).
[60] A. SAITTA, Sull'opera di Luigi Andrea Mazzini..., in: Annali d. R. Scuola Normale Superiore di Pisa, 1941, fasc. I-II.
[61] Vol. I, p. 44.
[62] Vol. II, p. 310.
[63] «Quel giorno che l'Europa potesse, per consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte: Stati Uniti d'Europa, non solo ella si trarrebbe da questa luttuosa necessità delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma ella avrebbe lucrato cento mila milioni» (Prefazione al vol. I dell'Archivio Triennale delle cose d’Italia, pubblicato nel 1851). Su questo aspetto del pensiero del Cattaneo: F. MOMIGLIANO, Carlo Cattaneo e gli Stati Uniti d'Europa, Milano, 1919 (molto superficiale).
[64] Cfr. G. MAZZINI, La fratellanza dei popoli (1832), in: Scritti, II, p. 255 e sgg.; Id., Fede e avvenire (1836), in: Scritti, VI, p. 239 e sgg. Inoltre, nell'Ediz. Nazionale, Epistolario, vol. III, p.148.
[65] G. MAZZINI, Scritti politici ed Epistolario, Ediz. Naz., vol. XV (Politica, vol. XIII), p. 13. Id, vol. II dell'Epistolario, p. 454: La Giovine Europa mostrerà «che siamo alla vigilia di un'epoca nuova,... che il terreno è vergine, che sta a tutti il lanciarvisi, e che il primo a lanciarvisi con successo sarà il popolo iniziatore dell'epoca. Voi intendete ciò ch'io vagheggio per l'Italia». Su la Giovine Europa, cfr. H. G. KELLER, Das «Junge Europa» (1834-1836), Zürich, 1938.
[66] ALBERTO MARIO, Scritti politici, a cura di G. Carducci, Bologna, 1901, p. 193. Il precedente lontano della formula «Stati Uniti d'Europa» è in una celebre lettera di G. Washington al Lafayette: «Un giorno, sul modello degli Stati Uniti d'America, si costituiranno gli Stati Uniti d'Europa». Per una federazione degli Stati liberi d'Europa, Inghilterra compresa, si schiera A. SAFFI (Scritti, ... ecc.., Firenze, 1892 sgg., vol. XII, pp. 124-425, 432), il quale connette tale esigenza con la previsione di un futuro contrasto russo-americano (cfr. ivi, p. 175), derivandone quasi certamente lo spunto da un pensiero del TOCQUEVILLE (De la démocratie en Amerique, Paris, ed. del 1868, vol. II, p. 451).
[67] G. Mazzini a Carlo Battaglini, da Soleure... dicembre 1834. Per questa citazione e le successive, rinvio all'Edizione Nazionale degli Scritti e dell'Epistolario del Mazzini.
[68] G. MAZZINI, La Santa Alleanza dei Popoli (1849).
[69] G. Mazzini a Carlo Battaglini, lettera cit.
[70] I passi citati, in: G. MAZZINI, Condizioni e avvenire dell'Europa (1852).
[71] G. Mazzini a P. S. Leopardi, da Losanna, 2 giugno 1834.
[72] K. ENGLERT-FAYE, Vom Mythus zur Idee der Schweiz; Zürich, Atlantis Verlag, 1940.
[73] Les Etats-Unis d'Europe (1872-1888).
[74] In : Revue des Deux Mondes, 15 settembre 1870.
[75] CH. LEMONNIER, Les Etats-Unis d'Europe, Paris, 1872
[76] The First Hague Conference, Boston, 1912, Prefazione.
[77] Die Organisation der Welt; Berlin, 1912.
[78] B. CROCE, Storia di Europa, Bari, 1932, pp. 360-361. Per il '48 considerato come uno di quei momenti «nei quali l'unità storica della vita europea... balza evidente agli occhi e sembra invocare un'unità anche politica», cfr. ivi, p. 172. Concetti analoghi in: A. OMODEO, La confederazione europea, Napoli, Humus, 1945.
[79] Per ì limiti del progetto Coudenhove-Kalergi che, nel 1923, escludeva Russia e Inghilterra per ammettere in seguito (1926) la seconda alla sola unione doganale paneuropea, per il suo carattere conservatore e filotedesco, cfr. L. SALVATORELLI, Fatti e progetti dell’unità europea, in: Politica Estera, 1945, n. 4-5, p. 22. Ivi, anche per il movimento germanico della Kontinentalpolitik.
[80] G. STRESEMANN, La Germania nella tormenta, vers. Ital., Milano, 1923, vol. II, p. 183.
[81] ID., idem, vol. III, p. 398.
[82] ID., idem, vol. III, p. 28.
[83] ID., idem, vol. III, p. 364.
[84] Il testo in: Politica Estera, cit., p. 110 segg.
[85] L. STURZO, L’internazionalisrno, in: Il Mondo, New York, settembre 1946, p. 23.
[86] Cfr. F. MEINECKE, L'idea della ragion di Stato; vers. ital., Firenze, 1944, vol. II, p. 314, p. 324. Si veda, inoltre, il pensiero di E. TROELTSCH espresso in: Der Europäismus, in: Gesammelte Schriften, III, pp. 703-730.
[87] N. BOBBIO, Il federalismo e l'Europa, in: L'Unità Europea, 5 marzo 1946.
[88] In: Opere, ed. Suphan, V, 546.
[89] M. LUPINACCI, Dov’è l'Europa, in: Il Giornale, Napoli, 29-VI-1947.
[90] HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia; vers. ital., Firenze, 1947, vol. I, p. 233. Ma Hegel aggiunse pure: «L'America è il paese dell’avvenire, quello a cui in tempi futuri... si rivolgerà l'interesse della storia universale. Essa è un paese di nostalgia per tutti coloro che sono stufi dell'armamentario storico della vecchia Europa... L'America deve staccarsi dal campo su cui si è finora mossa la storia del mondo» (ivi, p.233).
[91] Cfr. L. A. SANCHEZ, A New Interpretation of the History of America, in: Hispanic American Historical Review, agosto 1943. Inoltre: L. PICCARDI, L'esperienza panamericana, in: Politica estera, cit., p. 71 e sgg. Nello stesso fasc., a p. 107, l'accenno ad un progetto dell'Unione Giuridica Internazionale per un'unione europea studiata sulla base dell'unione panamericana (giugno 1930).
[92] C. CORRENTI, Scritti scelti, vol. II, Roma, 1892, pp. 588-589.

 

NOTA EDITORIALE

La presente edizione riproduce, senza variazioni nell’ortografia e nei criteri di citazione bibliografia, il testo della prima edizione (Milano, Marzorati, 1948) dell’opera di Morandi. La numerazione delle note, distinta per paragrafi nell’edizione di riferimento, è stata sostituita con una numerazione unica e progressiva. I riferimenti alla numerazione delle pagine dell’edizione di riferimento sono riportati tra parentesi quadre e in grassetto.