[198]
Mentre l'Italia or si conforta nel pensiero d'un'êra al tutto novella,
che la virtù d'eroici figli le promette: or si turba nel sospetto
che ogni tale sua speranza possa ancor solamente risolversi nell'aggiungere
un nuovo volume a una lunga istoria d'inganni e di dolori: essa
non dovrebbe non mirare con intensa cura un'altra nazione, assai più
grande e più antica, agitarsi parimenti tra [199] la speranza
di scuotere un giogo barbaro, e la tema di cadere sott'altro giogo non
meno pernicioso perchè imposto a nome della civiltà e del
fraterno commercio dei popoli. Quando vediamo i tre più grandi
governi d'Europa intrudersi nella China e nelle vicine regioni, con quelle
medesime arti, d'ambasciatori armati, di mercanti conquistatori, di soldati
rapaci e di turbolenti missionarj, colle quali vennero già spogliati
e avviliti cento e più millioni d'uomini nell'India: quando li
vediamo apportare sempre nuove insidie e nuove ferite al diritto delle
genti in Oriente: poca fiducia possiamo concepire nei destini di quelle
nazioni dell'Occidente che dovessero mai rassegnarsi alla giustizia e
all'umanità dei potenti.
Data questa qualsiasi similitudine di condizioni fra l'India e la China,
quella gente lontana e singolare, che a parecchi fra noi nemmen quasi
sembra cosa di questo mondo sublunare, diviene immantinenti oggetto d'utile
e doveroso studio. Possiamo colà contemplare in ampie proporzioni,
e in prospettiva meno intorbidata da domestiche illusioni, le arcane cause
per le quali, nulla ostante il numero e la civiltà e la ricchezza,
una nazione può lasciarsi trarre nel vortice dell'impotenza e della
servitù.
Non è
che manchi ai Chinesi la coscienza d'esser nazione; poichè già
una volta scossero il dominio straniero dei Mogoli; e già da più
generazioni, già fin dal principio del nuovo dominio dei Manciuri,
colà millioni d'uomini vivono ascritti a ereditaria e perpetua
congiura; e una vasta ribellione, discesa dalle ancora indomite regioni
montuose, contende da parecchi anni ai dominatori le più fertili
provincie. Nè si può dire che manchi loro fierezza di propositi,
coraggio e devozione, quando si vedono popolose città interamente
desolate dalle guerre civili e straniere, e i loro difensori, anzichè
lasciare in potere dei nemici le famiglie, trucidarle di propria mano,
e gettarle nelle fiamme.
Il
pregiudicio che attribuisce sommariamente la debolezza di quei popoli
a inerzia mentale, all'odio d'ogni utile innovazione, al nessuno contatto
con altre genti, involge alcune parti di vero; ma nel suo complesso è
un grave inganno. La debolezza loro dipende veramente da cause che sono
assai meno lontane da quelle per le quali siamo caduti noi medesimi, per
sì lungo tempo, in sì basso e indegno stato. La civiltà
chinese, iniziata splendidamente venti [200] e più secoli
prima della fondazione di Roma, e quando la superba Europa era ancora
tutta barbara e in gran parte selvaggia, fu sempre e assiduamente progressiva.
E se non neghiamo i fatti più evidenti e solenni, lo è ancora
ai nostri giorni. I Chinesi, senza noi, e prima di noi, e a nostro ammaestramento
e vantaggio, trovarono la cultura del riso e quella del cotone, dello
zucchero, del tè, del limone, dell'arancio, quella della canfora,
del rabarbaro e d'altre piante salutari. Trovarono dal principio al fine
tutta l'arte di raccoglier la seta,di filarla, di tesserla, di tingerla
in colori che sono ancora un secreto per la nostra chimica. Essi, già
nei tempi di Marco Polo, or sono sei secoli, avevano scoperto l'uso del
carbon fossile, che a quell'illustre viaggiatore parve una pietra. Essi
trovarono pur da principio a fine tutta l'arte di comporre e colorare
porcellane di mirabile delicatezza; e di fare carta di seta, di gelso,
di bambù, d'aralia; di trarre tele e stuoje da specie a noi ignote
di palme, d'ortiche, di canapi, di giunchi; e ricavare pur dal regno vegetale
sevo, cera, sapone, vernici, lacche; di preparare finissimi inchiostri
e aquerelli. Essi inventarono prima di noi la polvere da foco, e la stampa;
trasmisero per mezzo degli Arabi agli Italiani la prima invenzione della
bussola. Essi, prima di noi, ridussero ad arte la concimazione, la pescicultura,
la selvicultura, la costruzione dei giardini, non solo in terra, ma persino
sopra zattere galleggianti; essi furono maestri agli Olandesi, agli Inglesi,
ai Francesi nella più gentile delle arti, la floricultura. Essi
condussero le aque a irrigare, non solo i piani, ma il pendio delle colline;
essi scavarono fin da remoti tempi il più largo e lungo di tutti
i canali navigabili del mondo; costrussero sovra un braccio di mare un
ponte di trecento pile; e con argini di fiumi e tagli di paludi, acquistarono
all'agricultura provincie che noi chiameremmo grandi regni. Nè
il Chinese rifiutò in questi ultimi anni d'accettare utili esempj;
adottò largamente le tre culture americane della patata, del maiz
e del tabacco; accolse docilmente l'innesto del vaccino, combattuto sì
lungamente in Europa; e pur troppo da soli sessant'anni si sottomise al
fatale uso e al più fatale commercio dell'opio.
Ma
la più manifesta prova d'un immenso progresso, operato in queste
ultime generazioni su tutta la superficie della China, è questa.
Mentre le memorie dei secoli più lontani attribuiscono alla China
solo tredici millioni d'abitanti; e quelle del principio dell'êra
[201] nostra sessanta millioni, questo numero nel principio
del secolo passato saliva a cento; verso la fine del secolo a trecento.
E se prestiamo fede alle ultime notizie officiali fatte raccogliere dal
governo francese, sarebbe giunto nel 1812 a 367 millioni; e nel 1860 al
prodigioso numero di 530 millioni; che fa incirca il doppio della popolazione
di tutta Europa; quasi la metà del genere umano (1).
Onde li scrittori officiali francesi, li scrittori d'un governo a cui
mancò appunto sempre l'arte di moltiplicare le sussistenze, si
fanno maraviglia che su tutta la vasta superficie della China, comprese
le più inospite montagne, possano vivere 157 abitanti per chilometro
quadro, e nelle provincie basse 262 abitanti, mentre la Francia su tutta
la sua superficie ne ragguaglia incirca 60. « Aucune grande nation
n'est parvenue à faire vivre une quantité d'hommes aussi
considérable; - magnifique résultat, obtenu par des progrès
continus depuis deux siècles ». Noi non crediamo che
il sommo della sapienza civile sia quello di gettar sulla superficie del
globo millioni di miserabili; non intendiamo disputare se un sì
rapido incremento di popolazione sia un assoluto bene o un assoluto male,
come sarebbe parso a Malthus. Ma diciamo che una nazione la quale in 150
anni trovò modo di far vivere, sovra una terra già popolata
da cento millioni d'uomini, quattrocento millioni di più,
senza avere usurpato il valore d'un centesimo alle altre nazioni della
terra, non può esservi riescita senza un immenso sviluppo di lavoro,
di capitale e d'ingegno; e che, chi la giudica da lontano una gente inerte
e decrepita, è un insensato.
Non sappiamo
poi come la nazione chinese possa dirsi avversa ad ogni contatto cogli
stranieri. La China propria ha una superficie d'un millione di miglia
quadre, che fa dieci volte l'Italia; ma vi sono altre provincie abitate
da Turchi, Mogoli, Manciuri e Tibetani; tutto l'imperio chinese fa quasi
il quadruplo della China, fa quasi quaranta volte l'Italia. E inoltre
essa tenne sempre intime relazioni colla Corea, col Giapone, col Tonchino,
colla Cocinchina, col Bhotan, col Nepale; spinse le sue armi fino al mar
[202] Caspio; fece parte dell'imperio dei Mogoli allorchè
questo abbracciava l'India e la Persia e la Mesopotamia e l'Asia Minore,
e la Russia, già da secoli cristiana.
Istituzione certamente straniera è il culto
di Budda che, oriundo dell'India, trovò asilo nella China. E sebbene
aborrito e deriso dai grandi e dai dotti, fu lasciato diffondere liberamente
nel popolo, sicchè divenne la più numerosa di tutte le sètte
religiose di quell'imperio e di tutto il mondo, nel tempo medesimo che
le sue chiese e le sue torri divennero il più notevole ornamento
delle città chinesi. Questa fu bene una grande e profonda innovazione.
Nulla era più opposto alle prische dottrine chinesi, secondo le
quali la vita dell'uomo è tutta terrestre, poichè la sua
vita futura si aggira intorno ai luoghi ove la sua famiglia sopravive;
ma il buddismo, benchè simile per tanti aspetti al papismo, si
divaga nella più astratta spiritualità, professando di considerare
tutte le cose terrestri come una vana forma del nulla.
Infine
sono solamente vent'anni, dacchè il maestro rurale, Hung-sieu-tsiuen,
avendo ricevuto, presso un mercante inglese di Canton, dal cristiano chinese
Le, alcune idee bibliche, ed essendosi per certe sue visioni antecedenti
figurato d'essere il fratello secondogenito di Cristo, si rifugiò
nelle montagne a ponente di Canton, fra quelle tribù aborigene,
non ancora assoggettate al costume e alla lingua dell'imperio. Quivi si
fece alcune miliaja di seguaci, che posero in commune i loro averi; poi
li condusse quà e là, spezzando le imagini di Budda, e insultando
i santuarj di Confucio. Sul principio del 1850, essendosi rifugiati colà
molti corsari perseguitati dalle navi britanniche, osò con essi
assalire le milizie imperiali. Allora trovossi in lega colla secreta società
della triade (San-ho-hui), che da duecento anni cospirava
a cacciare i regnanti di nazione manciura (Tsing), e riporre in
seggio quelli dell'antica stirpe chinese dei Ming; costrinse quei settarj
a trasferire in lui medesimo l'omaggio di sudditanza; e riconoscerlo capo
della nuova dinastia della Somma Pace (Tai-ping). Le milizie,
avvilite dai disastri della guerra cogli Inglesi, fuggirono avanti a quei
ribelli, che, scesi dai monti, in numero ormai di sessantamila, presero
d'assalto la gran città di Nanking, trucidando tutti i difensori
e le loro famiglie, e gettando i cadaveri nel fiume. Poi col soccorso
della società secreta dei pugnali, occuparono il ricchissimo
porto di Shang-Haï.
[203]
Tutte queste agitazioni erano fomentate dai mercanti e missionarj cristiani.
Leggiamo nei citati volumi della Commissione francese - « Les missionaires
attachent leur espoir à la cause des rebelles (p. 568) - D'indignes
marchands occidentaux introduisaient dans la ville, à plusieurs
cargaisons, la poudre de guerre, les canons et les revolvers. Ils aidaient
les insurgés de leurs conseils; mais quand le danger approchait
trop, ils se retiraient à l'ombre des pavillons inviolables de
l'Angleterre et des États Unis. Telle était leur neutralité
dérisoire » (P. 574).
Codesto sanguinoso
intreccio di tribù libere, di corsari che sfidano il cannone europeo,
di profugi, di cospiratori, fra i quali uno spruzzo d'idee bibliche genera
d'improviso una nuova religione, un esercito, un regno, non è indizio
per certo d'una gente esausta e decrepita, ma d'anime appassionate e d'imaginazioni
accese, come fra le più vigorose nazioni dell'Occidente. E come
in Occidente, l'impotenza del popolo discende dalle regioni del potere;
il quale, stringendo nella gelosa e incerta mano le forze e le ricchezze
di cinquecento millioni d'uomini, non sa poi vincere o pacare sessantamila
ribelli, nè respingere alle loro navi ventimila stranieri.
Senonchè,
quando in Europa le moltitudini rassegnate o incuranti aspettano ogni
loro salute dai potenti, questa in loro è servile ignavia e corruttela
e oblìo dei diritti che le tradizioni additano e che le leggi più
assolute non rinegano apertamente mai; poichè riconoscono instituzioni
e magistrati i quali sono supposti rappresentare la volontà e il
giudicio dei popoli. Ma nella China è credenza morale e religiosa
che la volontà e la ragione dei popoli risiedono nel supremo imperante,
e ne' suoi ministri. Perciò le leggi e le dottrine chinesi parlano
bensì altamente dei doveri; e tanto a prìncipi e
magistrati quanto al più povero cittadino; ma non parlano mai di
diritti. La legge chinese confida unicamente nella ragione del
giudice; e non accetta difensori.
Ciò
fa parte d'un ampio sistema sociale e scientifico, il quale ebbe la potenza
d'assimilare e immedesimare tutte le idee che la ragione dei popoli nel
corso di cinquemila anni venne trovando e deducendo: e di dominare tutte
le sètte indigene, anche armate e ribelli, e quante filosofie e
teologie e teocrazie penetrarono colà [204] dal Tibeto,
dall'India, dalla Persia, dall'Arabia, dalla Palestina, dall'Europa: ed
eziandio d'imporsi ai conquistatori, che sottomisero più volte
la terra di quel popolo, ma non la sua legge e la sua mente.
Al primo
albore delle memorie, i popoli della China, sebbene divisi in più
Stati, ch'erano però colonie e propagini d'un solo stipite commune,
appajono già congiunti dall'unità della lingua, delle leggi
e di tutte le usanze e le idee. Si conoscono fra loro, e ignorano o non
curano il rimanente del mondo, come se appartenessero ad un altro pianeta.
Posta fra le solitudini d'un oceano innavigato e i deserti dei barbari,
e un labirinto d'alpi nevose, le più eccelse della terra, la China
è la regione media (Tciung Kue), destinata
a dimora dell'uomo civile e morigerato, in un semicerchio di genti eslegi
e brutali; è l'imagine del cielo che le sovrasta; è l'imperio
cieliforme; è il sotto-cielo (Thian-hia).
Il suo sovrano, predestinato ad essere l'artefice dell'ordine celeste
in terra, è il figlio del cielo (Thian-tseu); è il
mediatore fra le potenze del cielo e della terra. Egli deve tener congregati
i popoli in una famiglia; difenderli dai barbari, e reggerli come
un padre regge i suoi figli.
L'istituzione
della civiltà nella China, appunto come nell'India, nella Irania,
nella Babilonia, nell'Egitto, fu agevolata dalla forma del territorio.
Esso è fecondato e unificato da due fiumi, pari ciascuno in lunghezza
di corso a dieci e più volte il Po. Nascendo vicini, poi divagandosi
l'uno verso settentrione, l'altro verso mezzodì, poi novamente
accostandosi, dopo aver d'ogni parte adunato innumerevoli confluenti,
vanno a formare colle loro alluvioni una delle più larghe e feraci
pianure del mondo. La provincia di Kiang-su, ove ambo i fiumi mettono
foce, ha 54 millioni d'abitanti, sovra una superficie (115000 chilom.
q.) ch'è poco più d'un quinto della Francia! La natura aveva
disposto; la mano dell'uomo ha compiuto.
Il maggiore di questi fiumi, detto Kiang,
cioè appunto il fiume, ovvero Yan tse kiang, cioè
figlio del mare, o piccolo mare essendochè alla sua
foce è largo dieciotto miglia, è così piano e profondo
che il riflusso del mare vi si sente fino a duecento cinquanta miglia
entro terra, sicchè le navi possono pervenire fin colà veleggiando.
Il fiume settentrionale è alquanto minore, ma precipitoso [205]
e torbido, ond'ebbe nome di fiume Giallo (Hoang-ho), come si chiama
mar Giallo (Hoang-hai) il seno poco profondo ove sbocca. Barrow
calcolò che vi apporti ogni ora due millioni di piedi inglesi di
terra; il che corrisponde a un mezzo centesimo del suo volume d'aqua.
Fa, se non erriamo, cinquecento milliardi di metri cubi ogni anno; ond'è
a credersi che nella China primitiva, cinquanta e più secoli addietro,
molte delle provincie ora abitate fossero maremme e lagune e golfi. Molti
e vasti laghi rimangono tuttavia sparsi nelle pianure.
Il
popolo chinese si accrebbe dunque, tanto per l'espansione delle sue colonie
lungo i due fiumi e le loro convalli, e per la continua assimilazione
delle tribù montane, quanto per le alluvioni che allargavano assiduamente
le terre maritime, e colmavano laghi e lagune. Ma l'uomo fin da remoti
tempi pensò a difendere con argini le pianure, e le fecondò
con canali irrigatori, derivati da molti fiumi e in un numero che oggidì
non è minore di 350. E inoltre congiunse i più grandi fiumi
con un magnifico canale navigabile che scorre parallelo al mare per poco
meno d'un migliajo di miglia. E siccome è nella direzione da settentrione
a mezzodì, così giova a permutare i prodotti d'una gran
varietà di climi e di culture.
Or siccome
la vita delle immense moltitudini che possono crescere sovra tali feraci
pianure dipende interamente dalle assidue cure poste dai magistrati intorno
agli argini e ai canali, e dalla sicurezza in cui vivono li agricultori,
i regnanti, anche stranieri e barbari, ebbero troppo imperioso interesse
a osservare costantemente negli atti loro certe norme di ragione e di
saviezza. La China fu dunque fin da lontani tempi uno Stato artificiale.
E il paragone perpetuo che colà si suol fare tra l'ordine del governo
e l'ordine della famiglia, non è in tutto una vana metafora.
Il
regnante, come figlio del cielo e suo ministro, possiede tutta la terra
e la divide fra li agricultori. Anzi egli è supposto essere il
primo agricultore del suo regno. Ogni primavera, dopo grandi oblazioni
al cielo, alla terra, ai geni dei monti e dei fiumi, e alle anime degli
antenati, egli pone mano all'aratro, apre la terra, e vi sparge
la prima semente.
I grandi
dello Stato hanno ampi poderi; ma in ragione dei loro [206] officj,
e con possesso rare volte ereditario, e che molto facilmente si perde;
poichè il padre li può diseredare come figli; e non
v'è dignità che esentui dal castigo. I regni e principati,
che ressero a principio le diverse colonie e conquiste, e che, anche aboliti,
a intervalli di tempo risursero, finirono col ridursi a poco a poco in
provincie uniformi.
Tutto
adunque nello Stato sembra a primo aspetto dipendere dai voleri del regnante.
Dalla sua mano il lavoro e la vita dei poveri; dalla sua mano li officj
e le dovizie dei grandi. Ma la necessità di dar continuità
e sicurezza a tale immensa azienda, condusse a stabilire un sistema generale
di regole e d'osservanze. Le quali, siccome erano membra d'un ordine divino
che doveva conformare la terra al cielo, così vennero considerate
come cose sacre; ed ebbero nome di riti. I riti antichi sono tremila
e trecento.
Essendosi figurato nel principe il padre universale
della nazione, si figurarono nei magistrati delle provincie i padri dei
popoli. E per assicurare l'obedienza loro a codesti padri metaforici,
si corroborò l'autorità dei veri padri sui figli, dei mariti
sulle donne, dei fratelli maggiori sui minori, dei padroni sui servi;
s'immedesimò lo Stato colla casa. Come il re fu padre dello Stato,
così il padre fu re della famiglia. Si diede ai padri una vera
giurisdizione di magistrato sui figli; e una sì esagerata responsabilità,
che i delitti dei figli vennero puniti nei genitori; e insieme coi padri
vennero mandati a morte i figli, benchè minorenni.
Tutto ciò travolgeva e snaturava il concetto
dell'educazione. Ma intanto l'educazione universale divenne oggetto supremo
della legislazione. Quando si pensa che, fin da secoli remoti, ogni villaggio
chinese ebbe la sua scôla, si vede perchè, vedendo i soldati
e marinai delle navi d'Europa quali sono pur troppo, i Chinesi giudicarono
che venissero da una terra di barbari.
Le prime
origini della civiltà chinese salgono a un personaggio ideale,
detto Pu-han-ku; il quale si dipinge vestito di foglie; e figura i primi
istitutori delle genti selvagge. Deve appartenere a una remotissima antichità;
poichè, tremila anni prima dell'êra nostra, appare un'altra
persona, forse parimenti ideale, la quale rappresenta già un progresso
mentale e morale, che non poteva [207] essersi compiuto se non
nel corso di molte generazioni. Questi vien chiamato Fu-hi; e vien detto
inventore dei numeri e della musica, la quale costituì sempre una
parte importante dei riti chinesi. Vien creduto inoltre autore del Libro
delle Forme o metamorfosi (Y-king). Questo tratta di cosmogonia e
di divinazione; poichè l'ordine terrestre, per conformarsi all'ordine
celeste, deve corrispondere ai segni che ne danno indizio; ma comprende
anche dottrine di morale e di metafisica molto astratta; e il tutto viene
significato con simboli e combinazioni di lettere e linee di senso oscurissimo.
Il Libro delle Forme chiama virtuosi li uomini che si sottomettono
alle leggi del cielo e della terra, e malvagi i ricalcitranti; promette
ai primi i sei beni della terra e minaccia ai secondi i sette mali; ma
non vi si vede alcuna menzione di premj o di pene d'un'altra vita; nè
d'un'anima distinta dal corpo, nè d'un Dio distinto dal cielo visibile.
Intorno
a ciò arsero lunghe controversie tra i domenicani inquisitori e
i missionarj gesuiti, ch'erano accusati a Roma d'essersi fatti popolari
alla China professando le dottrine e i riti chinesi; e che per giustificarsi
in Europa erano costretti a provare, che quegli antichi libri insegnavano
la vita futura e l'esistenza di Dio. Il fatto si è che, siccome
il re medesimo faceva le incruenti offerte al cielo e alla terra per mano
sua o de' suoi ministri, la China primitiva non ebbe sacerdoti.
Nel
secolo XXVII avanti l'êra nostra, o propriamente nell'anno 2698,
primo del re Hoang-ti, cominciano le date certe della cronologia
chinese. D'allora in poi quei dotti tennero diligenti memorie delle eclissi
e del principio dei regni; cioè di quelli ch'erano a mente loro
i più grandi eventi del cielo e della terra.
Dal
secolo XXII ha principio il libro degli Annali (Shu-king)
di Ki-tseu, nel quale leggiamo i nove precetti per ben governare
i regni. E sono: 1.° perfezionar sè stesso; 2.° riverire
i sapienti; 3.° amare i parenti; 4.° onorare i supremi
dignitarj; 5.° vivere in buona concordia con tutti li altri magistrati;
6.° trattare il popolo come un figlio; 7.° attrarre presso di
sè i dotti e li artefici; 8.° accogliere cortesemente li uomini
che vengono da lontano e li stranieri; 9.° trattar con amicizia
i principi vassalli.
Per ciò che riguarda li stranieri, la
glosa del Tciung Yung (cap. XX art. 11) aggiunge, che li
stranieri summentovati sono:[208] i mercanti forestieri
(shang), i trafficanti (ku), li ospiti o visitatori
(pin) e li stranieri al paese (liu). E l'articolo 13.° soggiunge,
secondo la traduzione del dottissimo sinologo Pauthier: « Reconduire
les étrangers quand ils s'en vont, aller au devant de ceux qui
arrivent pour les bien recevoir, faire l'éloge de ceux qui ont
de belles qualités et de beaux talens, avoir compassion de ceux
qui en manquent, voilà les moyens de bien recevoir les étrangers
» (2). Ciò
risponde a coloro che credono l'inospitalità un principio fisso
e originario di quella nazione.
Verso quei tempi, cioè settecento anni prima
di Mosè, regnò Yu, che aveva meritato il regno lavorando
molti anni a liberar le terre dalle aque; tanto antiche sono le opere
idrauliche presso quella venerabile nazione! Pertanto, sacrificatore e
ingegnere, il re Yu spiega il significato primitivo della voce
pontifex presso i nostri antichi padri italiani. Così le
memorie delle nazioni reciprocamente s'illustrano.
Noi non facciamo
qui l'istoria della China; un intervallo di quindici secoli ci porta al
secolo sesto avanti l'êra nostra, al tempo in cui l'Asia Minore
produsse Talete, e in Italia fiorirono li Eleati. Due scôle allora
surgono nella China, suddivisa in più Stati e comparativamente
libera; la scôla metafisica di Lao-tseu, e la scôla politica
e sociale di Khong-tseu, detto con forma latina Confucio.
La
dottrina è chiamata anche dil Tao; voce che in senso proprio
significa via, e in senso figurato: « la grande voie de
l'univers, dans laquelle marchent et circulent tous les êtres
-C'est le premier principe du mouvement universel, la cause, la
raison première de tout: du monde idéal et
du monde réel, de l'incorporel et du corporel,
de la virtualité ci du phénomène. Nous
ne pouvons nous empêcher de signaler íci un trait caractéristique
de la philosophie chinoise à toutes les époques de son histoire:
c'est qu'elle n'a aucun terme propre pour désigner la premiére
cause, et que Dieu n'a pas de nom dans cette philosophie. En
Chine, oú aucune doctrine ne s'est jamais posée comme révélée,
l'idée aussi bien que le nom d'un Dieu personnel,
sont restés hors du domaine de la spéculation ». (Pauthier,[209]
Philosophie des Chinois; nel Dictionnaire des Sciences Philosophiques.
Paris 1844).
Lao-tseu non ebbe molti seguaci; il padre dei dotti
chinesi fu per venticinque secoli, ed è ancora oggidì, Confucio.
Nato l'anno 551 avanti l'êra nostra, cioè al tempo degli
ultimi re di Roma, egli visitò i varj Stati, in cui s'era divisa
la China; predicò ai regnanti e ai loro ministri la giustizia,
l'umanità e lo studio; lasciò dieci allievi
perfetti, settantadue discepoli e tremila seguaci, molti dei quali magistrati
e prìncipi; onde in breve la sua parola ebbe autorità presso
tutta la nazione. Quanto mai di bene si operò per tutti questi
secoli nella China, venne sempre attribuito dai popoli agli insegnamenti
di Confucio; il quale, piuttosto che ammirazione d'uomo dotto, n'ebbe
culto d'uomo santo. Molti templi sono dedicati al suo nome.
Un
pajo di secoli, o poco più, dopo la morte di Confucio (A. C. 255),
i prìncipi del regno di Thsin per forza d'armi soggiogarono
sei degli altri regni confederati; diedero a tutto l'imperio il nome che
poi prevalse, prima in India (Tcina), poi presso i Romani (Sinae),
li Arabi (Tsin), e tutti i popoli moderni. Chiusero la frontiera
settentrionale con un bastione a doppio muro, munito di torri, e lungo
mille e duecento miglia. E impazienti d'un'autorità morale, ch'era
una memoria di tempi più liberi, e un limite al despotismo e un
rimprovero, fecero ardere tutti li esemplari dei libri di Confucio e degli
altri filosofi.
Tutto come in Occidente!
Ma sul principio del secolo successivo (A. C. 202),
venuta per favore dei popoli all'imperio la famiglia degli Han,
fece diligentemente raccogliere le reliquie dei manoscritti antichi; e
ordinò che si leggessero in tutte le scôle. Dotò di
vasti poderi e di privilegj la famiglia di Confucio; la quale divenne
nel corso delle generazioni una numerosa tribù, sicchè contava
nel secolo scorso undicimila persone. Decretò sacri onori a Confucio,
come a uomo saggio e santo, e patrono perpetuo dei popoli contro la tirannide,
e dei prìncipi contro le proprie passioni e li adulatori. Oggidì
non v'è città nel vastissimo regno, che non abbia dedicato
un santuario al nome e all'imagine paterna di Confucio. E i popoli onorarono
quella generosa dinastìa, assumendo il suo nome, e ancora oggidì,
dopo venti secoli, chiamandosi uomini degli Han (Han jin).
[210]
Confucio non professò di dare una scienza nuova, ma ristaurò
e continuò la tradizione primitiva e popolare. - « Il savio
disse: io commento; io dilucido; ma non compongo opere nuove; io ho fede
negli antichi e li amo. - Il savio disse: io non nacqui col dono della
scienza; io son uno che amo li antichi, e si sforza di far tesoro del
loro sapere » - (Colloquj. VII, 1, 19).
Perciò
egli raccolse e ordinò i quattro vetustissimi libri delle Forme,
degli Annali, dei Versi (Ski King), e dei Riti
(Li-ki). Il primo era antico a' suoi tempi quanto Socrate ai dì
nostri; antico già di venticinque secoli.
Nulla
egli scrisse; ma i discepoli fecero raccolta de' suoi insegnamenti e ne
composero i quattro libri classici (Sse Shu), che sono tuttora
il testo di tutte le scôle chinesi.
Il
primo si chiama il Grande Studio (Ta hio); ma consiste in
due sole pagine, seguite da breve commento di Thseng Tseu, allievo
di Confucio. - Il secondo si chiama l'Invariabil mezzo (Tciung
Yung), e fu scritto dal suo nipote Tseu Sse. - Il terzo è il
libro dei Colloquj di Confucío (Lun Yu). Il quarto
è il più lungo; e fu scritto dal suo seguace Meng Tseu,
nome la cui forma latina è Mencio (Mencius).
« La mia dottrina è semplice e facile, » - dice Confucio
nei Colloquj. E il suo discepolo Thseng Tseu soggiunge: «-
La dottrina del maestro consiste tutta nell'avere l'animo retto E AMARE
IL SUO PROSSIMO COME SÈ STESSO (Lun Yu, IV. 15) ». E un altro
suo allievo, Tseu Khung, riduce la dottrina dell'umanità a questa
formula: « giudicar li altri, paragonandoli a noi; e operare
verso di loro come vorremmo ch'essi operassero verso di noi (Lun YU,
VI. 28) ».
Questi insegnamenti furono communi a Confucio con
altri antichi. Quello che appartiene a lui si è: che ogni uomo
ricco o povero, illustre od oscuro ha egual dovere di emendare
e perfezionare sè stesso, per farsi capace di promovere
il perfezionamento altrui.
Questa
dottrina sublime forma un capitolo dell'Invariabil Mezzo; del quale
offriamo uno squarcio, onde porgere un esempio del modo concatenato
e deduttivo col quale le scôle chinesi si sforzano di
recare a forma scientifica e ad esercizio dimostrativo le loro idee: -
« Nel mondo, i soli uomini veramente perfetti possono conoscere
intimamente la propria natura, la legge del proprio essere
e i doveri che ne derivano. Potendo conoscere intimamente la [211]
propria natura, la legge del proprio essere e i doveri che ne derivano,
possono perciò conoscere intimamente la natura degli altri uomini,
la legge del loro essere, e additar loro tutti i doveri che
hanno a osservare per compiere l'ordine del Cielo. Potendo conoscere
intimamente la natura degli altri uomini, la legge del loro essere, e
additar loro tutti i doveri che hanno a osservare per compiere l'ordine
del Cielo, possono perciò conoscere intimamente la natura degli
altri esseri viventi e vegetanti, e fare che compiano la legge vitale
secondo la natura loro. Potendo conoscere intimamente la natura degli
esseri viventi e vegetanti, e fare che compiano la legge vitale secondo
la natura loro, possono perciò col proprio alto intendimento
secondare il Cielo e la Terra nella trasformazione e conservazione degli
esseri, affinchè questi conseguano il pieno loro svolgimento.
Potendo secondare il Cielo e la Terra nella trasformazione e conservazione
degli esseri, possono perciò costituire UN TERZO POTERE
INSIEME COL CIELO E COLLA TERRA » (Cap. XXII).
Questo ultimo annello della catena è veramente
aureo e prezioso. È la più alta cosa che si sia detta intorno alla
natura umana, considerata nella sua perfettibilità; considerata
come una potenza che conserva e trasforma li altri esseri viventi su la
terra. Un
tal modo di connettere i pensieri, che si potrebbe figurare colla statua
d'un Giano bifronte, si vede adoperato altrove con doppio procedimento
d'andata e ritorno, o d'ascesa e discesa. Ad esempio recheremo una delle
due pagine del Grande Studio. « I prìncipi
antichi, che amavano fomentare e ravvivare nei regni loro il lume di ragione
che riceviamo dal Cielo, attendevano prima a governar bene i regni
loro. Quelli che amavano governar bene i regni loro, attendevano prima
a ordinar bene le loro famiglie. Quelli che amavano ordinar bene
le loro famiglie, attendevano prima ad emendare sè stessi.
Quelli che amavano emendare sè stessi, attendevano prima a rettificare
il loro animo. Quelli che amavano rettificare il loro animo, attendevano
prima a render pure e sincere le loro intenzioni. Quelli che amavano
render pure e sincere le loro intenzioni, attendevano prima a perfezionare
le loro nozioni morali. Perfezionare le nozioni morali consiste nel
penetrare e scandagliare il principio delle azioni ».
E qui
comincia il ritorno:
« I principii delle azioni essendo penetrati
e scandagliati, le [212] nozioni morali vengono recate
a somma perfezione. Le nozioni morali essendo recate a somma perfezione,
le intenzioni si rendono pure e sincere. Le intenzioni essendo
pure e sincere, l'animo si riempie di rettitudine. L'animo essendo
pieno di rettitudine, la persona viene ad emendarsi e perfezionarsi.
La persona essendo emendata e perfezionata, la famiglia viene ad essere
ben regolata. La famiglia essendo ben regolata, il regno è
ben governato. Il regno essendo ben governato, il mondo è
in pace e in armonia! ».
Con questa duplice sorite Confucio ha immedesimato
la politica e la morale.
Più sovente il pensiero chinese procede da
un particolare ad altro particolare, per via d'esempio, o d'analogia,
o anche di mera similitudine poetica, che poi volontieri attinge da taluna
delle odi antiche. - « Il Libro dei Versi dice: l'augello
dorato, dal canto flebile, fa il nido nelle ombrose rupi. Il savio dice:
l'augello conosce il luogo del suo destino; e non potrà l'uomo
saper quanto l'augello? » (Commento al Grande Studio 111.
2).
Talora codeste sentenze sono espresse in modo affatto
triviale: - « Se fossimo tre viandanti, io potrei aver due maestri:
l'uomo dabbene, per imitarlo; e il malvagio, per emendarmi ».
Ma talora sono dettate dal più generoso ardimento,
come quando Meng Tseu dice al re di Liang: - « Il popolo muore di
fame per le vie; e tu non apri i publici granaj. Quando vedi li uomini
morir di fame, tu dici: non è colpa mia; è la sterilità
della terra. Non sei tu come colui che avendo trafitto uno colla spada
dicesse: non son io; è la mia spada? ... Uccidere l'uomo colla
spada o col malgoverno, che divario tu vi trovi? ... Le tue cucine ridondano
di vivande, e le tue stalle son piene di cavalli ben pasciuti; ma il popolo
ha su lo scarno volto il pallor della fame, e i campi sono sparsi di cadaveri...
Dover tuo sarebbe reggere lo Stato come se tu fossi il padre e la madre
del tuo popolo » (Meng Tseu I. 3 4).
Così
parlavano e scrivevano, cinque secoli prima dell'êra nostra, questi
Sacerdoti della ragione e dell'umanità. Era dunque naturale che
i despoti ardessero i loro libri; ed è giusto che i popoli consacrino
ancora al nome loro statue e santuarj.
Noi crediamo che il più sicuro modo di conoscere
a fondo e apprezzare una gran nazione, sia quello di addentrarsi nei secreti
del suo pensiero. Perciò ne sia concesso citare un altro passo
[213] dell'Invariabil Mezzo, che ben potrebbe nei nostri
libri di filosofia valere ad esempio del potere dell'analisi. «
Se leviamo li occhi al cielo, vediamo a prima giunta solamente uno spazio
scintillante di lumi; ma se potessimo sollevarci fino a quello spazio
luminoso, lo troveremmo immenso. Il sole, la luna, le stelle, i pianeti
vi pendono come da un filo; tutti li esseri del mondo ne sono coperti
come d'una tenda. Che se di là volgeremo li occhi alla terra, crederem
sulle prime di poterla stringere nella mano; ma se la percorreremo, troverem
ch'è vasta e profonda, perchè sostiene li eccelsi Monti
Fioriti (nel Shen-si) e non cede al peso; abbraccia nel suo grembo
i fiumi e i mari, e non ne viene sommersa; e contiene tutti i viventi.
E quei monti sembrano un frammento di rupe; ma quando esploriamo l'ampiezza
loro, li troviamo alti e vasti; e vi allignano erbe e arbori; e augelli
e quadrupedi vi fanno dimora; e vi si rinchiudono inesplorati tesori.
E l'aqua, che da lungi miriamo, sembra poter colmare appena una lieve
tazza; ma se scendiamo alla sua riva, non possiamo scandagliare la sua
profondità; e nel suo seno vivono grosse testudini e crocodili
e idre e dragoni e pesci d'ogni forma; e vi nascono preziose gioje »
(Tciung Yung XXVI. 9).
Ma per somma
sventura della sua nazione, e, non esitiamo a dire, del genere umano,
il venerabile Confucio, o per dare autorità alle sue dottrine,
o per avvalorare l'autorità delle leggi, le immedesimò colle
antiche costumanze, che poi non distinse dai sacri riti. - « Si
può con una vera e sincera osservanza dei riti reggere un regno
» (Colloq. IV, 13).
E questa inviolabilità coperse in perpetuo tutte le vanità
della vita profana, li augurj, i saluti, li inchini, i titoli, le parole,
i gesti, le vestimenta, i pennacchj, i bottoni! È prescritto nei libri
rituali in quali modi, non altrimenti, e per quanti giorni, e non meno,
nè più, debba il magistrato di tale o tal grado ritirarsi
a piangere la morte de' suoi genitori; e dimorare nei luoghi ove sono
i loro sepolcri; e in quali modi debba farne annua commemorazione nel
sacrario domestico dedicato agli antenati.
Nulla
dunque resta al libero e sincero affetto. I riti e le cerimonie essendo
uniformi per tutte le persone del medesimo grado, mentre i sentimenti
dell'animo variano secondo l'indole dei vivi [214] e il merito
dei morti, ciascuno è costretto dalla legge a dissimulare ciò
che sente, a simulare ciò che non sente. I figli delle varie donne,
che un concubinato legale ammette nella famiglia chinese, devono, giusta
i riti, considerarsi tutti come figli della moglie grande, della
matrona, come avrebbero detto i nostri Romani antichi; e perciò
anche quelli che non sono i figli di lei, devono piangere più lungamente
la sua morte che non quella della vera loro madre.
Adunque tutti li atti publici e privati cadono sotto
la giurisdizione del tribunale dei Riti (Li-pu); e quindi
sotto quella del tribunale delle Pene (Hing-pu). Le gravi
trasgressioni dei riti sono anche nei più grandi personaggi punite
col bastone, o coi tormenti, colla perdita dei pennacchi e bottoni d'onore,
degli officj, dei beni, coll'esilio nei deserti, colla morte. Ognuno vive
in continuo pericolo di cadere in fallo, in pena, in miseria; nessuna
famiglia è sicura della sua fortuna. La trasgressione d'un inchino
o d'altra mera cerimonia, essendo pareggiata dalla legge a quella dei
supremi doveri morali, ne viene gran confusione nella mente e nella coscienza
dei popoli. Domina in tutta la nazione, come nelle nostre corti, una continua
dissimulazione, coperta da una gentilezza affettata e compassata; al paragone
della quale, i modi aperti e spontanei dei naviganti e trafficanti europei
devono con molta ragione apparire al popolo chinese inculti e barbari.
Ma,
per converso, questa cortigianesca e servile disciplina pesa più
sulle famiglie potenti che non su le umili e povere; e opprime con maggior
ingombro di riguardi e di doveri la famiglia imperiale, ch'è soggetta
ad un Consiglio di vigilanza (Tsong-jin-fu). L'imperatore
medesimo soggiace alle impuni rimostranze dei censori (Tu-cia-yuan).
Inoltre egli non può prendere alcuna risoluzione se non col consenso
del Consiglio intimo (Ne-i-ko); nè può emanare
alcun comando se non per mezzo del Consiglio dei magnati (Kiun-hi-ta-cin).
Le ordinanze di questi si diramano a' sei tribunali: dei Riti, delle Pene,
delle Leggi civili, della Guerra, delle Finanze, delle Opere publiche,
e all'officio delle Provincie barbare e degli Affari esteri. E tutti questi
magistrati non si prestano a far cosa che contravenga ai riti, essendo
poi essi soggetti ad altri censori (Lu-ko). In questo labirinto
ministeriale vanno ad affondarsi oscuramente le forze d'una nazione ingegnosa,
studiosa,[215] industre e ricca, che ha tanto numero quanto due
volte l'Europa, e che trovò tutto da sè; e nulla imparò
da popolo del mondo.
Tutto
come in Occidente.
Infine,
nessuno può divenir magistrato, o come noi sogliam dire, mandarino,
se non conseguì nelle scôle il grado di dottore (tsin-sse)
o di licenziato (kin-jin). Alle scôle presiede l'istituto
degli Han-lin; i cui membri sono uomini distinti nelle lettere
e nelle scienze, ovvero discendenti di Confucio e di Mencio; e sono rivestiti
del secondo fra i nove gradi della decananza chinese. Questi gradi sono
contradistinti con un ricamo quadrato che si porta sul dorso e sul petto,
o con un bottone che si porta sul beretto officiale, e ch'è una
gemma o un corallo o un cristallo d'uno o d'altro colore.
Il governo
chinese, per nulla alterato in questi due secoli di dominio straniero
e barbaro, fa sistema colle concordi costumanze delle famiglie, coi concordi
insegnamenti delle scôle, colla filosofia, colla poesia, colla musica,
colla lingua,colla scrittura, cose tutte di cui non abbiamo qui spazio
a parlare. Confucio è il ristauratore degli antichi e l'educatore
dei pòsteri: egli rappresenta i venticinque secoli che lo seguirono,
come i venticinque secoli che lo precorsero e tutti quelli in cui si celano
senza memorie le origini della nazione e i primordj della sua civiltà.
La
religione, nel sistema di Confucio, oltre all'onorare il cielo e la terra
come esseri intelligenti e benefici, consiste in conservar le consuetudini
e il culto degli antenati. Come i lari e i penati dei Romani, sono questi
li Dei della famiglia, e quasi i soli Dei. Abitano presso i loro pòsteri;
vegliano sulle loro sorti; sono felici di vederli memori di loro e fedeli
ai loro esempli e ai loro avviamenti. Quando uno muore, si dice che andò
a raggiungere la famiglia; chi vive, si reputa come assente dal maggior
numero de' suoi. Onde la morale dei vivi, quando non siano fedeli di Budda,
non s'appoggia nel pensiero d'un luogo di pena o di premj per la vita
futura; ma nell'amore e nel rispetto dei genitori, e nel timore di dover
dopo morte udire le lagnanze loro e le riprensioni. E la teologia non
si affatica a determinare li attributi d'alcuna persona divina; ma riconosce
astrattamente una ragione [216] celeste, una necessità causale,
una via (tao), un essere impersonale, impassibile, senz'amore,
senz'odio, che penetra nella mente degli uomini perfetti, amici dell'umanità
e benefattori, sopratutto se sono re o ministri; e per mezzo dei loro
insegnamenti, dei loro sentenziosi detti, delle osservanze da loro istituite
o ristaurate, e della pura ed esemplare loro vita, si spande nei popoli
ed effettua in essi l'ordine celeste. La teologia s'immedesimò
dunque colla politica, colla legislazione e colla filosofia; non ebbe
dottrina sua propria, e distinta da quella dello Stato. Unica fra tutte
le nazioni civili, la China non ebbe altro sacerdote che il padre della
gran famiglia e i suoi ministri; e ogni padre di famiglia fu sacerdote
nel sacrario de' suoi antenati. I morti sono veramente li Dei della China
primitiva.
Un mezzo
secolo prima di Confucio, era nato Lao-tseu (A. C. 604). I suoi seguaci
narrano, che fosse canuto fin dalla natività; e che, prima di nascere,
avesse meditato nel seno di sua madre per 81 anni li 81 capitoli del suo
libro. Si dice che peregrinasse presso i barbari occidentali (Si-fan);
la sua dottrina era adunque forse una derivazione delle scôle dei
Bramini dell'India o dei Magi dell'Irania. Scrisse il Libro della ragione.
La ragione (tao) è per lui la causa prima, eterna,
assoluta, incorporea, indefinibile; è l'anima universale,
da cui tutte le altre emanano, e a cui le anime dei migliori fan ritorno.
In questo sistema, che si accosta alle altre teologie dell'Asia, la famiglia
non è avvinta al culto degli antenati, e all'assidua loro vigilanza
e custodia. I seguaci di questa dottrina (Tao-sse) fanno sètta
piuttosto teologica che filosofica; attendono anche ai sortilegj ed all'astrologia;
i confuciani li accusano di tendere all'abolizione dei riti, al discioglimento
dello Stato e ad un vano idealismo e misticismo.
Assai
più popolare divenne nella China l'antica sètta di Budda
o Fo, che staccatasi dallo stipite indiano, sei o sette secoli prima dell'êra
nostra, dopo avere indarno tentato una rivoluzione democratica contro
le caste braminiche, perseguitata col ferro e col foco, si rifugiò
nell'isola di Ceilan e nelle alpi del Tibeto; e di là pervenne
nella China, verso i tempi che fu apportato in Occidente il Cristianesimo.
Si propagò largamente presso tutti i popoli dipendenti dall'imperio
chinese, o associati alla sua civiltà, come il [217] Tibeto,
l'Annam e tutta l'India ulteriore, la Mogolia, la Manciurìa, la
Corèa e le isole del Giapone. Si allargò molto anche nelle
classi meno culte dei Chinesi; ha un sacerdozio numeroso, con gradi e
dignità simili a quelle del papismo, e con innumerevoli conventi
d'uomini e di donne. Le sue scôle dirozzarono e mansuefecero i barbari
del deserto.
Alcuni missionarj
gesuiti, penetrando nella China, ove professavano d'essere geometri, astronomi
e fonditori di cannoni, facevano colà sembiante d'essere ascritti
alle congregazioni dei Buddisti, mentre in Europa vantavano che fossero
nuove chiese cristiane da loro fondate con certi riti più conformi
all'indole di quei popoli. Da ciò nacque tra essi e i missionarj
capuccini prima, e li inquisitori domenicani poi, il famoso processo
dei riti chinesi; ebbe principio sotto papa Ludovisi (Gregorio XV),
istitutore della Propaganda di Roma (1621-1623); durò circa un
secolo, e terminò colla missione del cardinale Tournon alla China
(1701) e colla sua morte in una prigione a Macao (1710), ov'era stato
chiuso per maneggio de' Gesuiti. I quali infine vennero espulsi dal governo
chinese, che aspiravano a governare.
Nella milizia,
le due nazioni chinese e manciura vengono sempre contraposte in modo di
farsi reciproca suggezione; il che si risolve poi nel soppiantarsi a vicenda;
e così un governo intruso è sempre debole. I soldati hanno,
in luogo di stipendio, assegni di terre; attendono a coltivarle, e poco
sanno della milizia; tranne quelli che stanno su le frontiere.
I mandarini
militari son sottomessi a studj e concorsi, ma di lettere piuttosto che
d'arte militare; e sono poco stimati. I capitani delle bande di barbari
Manciuri, introdutte dagli imperatori nella China a reprimere i popoli
mal sodisfatti e tumultuanti, ebbero l'accorgimento d'impadronirsi del
governo, la cui debolezza non era per loro un secreto; e conformandosi
alle instituzioni chinesi, si fecero tolerare dai popoli. Ma non pervennero
mai a spegnere in essi la memoria dell'antico Stato. Se si aggiunge l'armamento
antiquato e vieto, che in parte consiste ancora in archi e frecce; l'ignoranza
delle scienze matematiche e fisiche degli Europei, e il continuo ondeggiare
tra una servile imitazione e una gelosa diffidenza degli stranieri; si
vede come il più popoloso imperio della [218] terra, in
preda a un governo inetto, non abbia saputo difendersi nè dagli
stranieri nè dai ribelli.
Dopo le guerre
cogli Europei, cominciò nelle provincie marittime della China,
e principalmente nelle montagne del Fo-kien, una grande emigrazione
d'operaj e d'agricultori verso la California, le Antille, l'Australia,
la Malesia. Pare che i Chinesi meridionali, per il loro temperamento,
la sobrietà, la indefessa diligenza e la sagacia, siano i soli
uomini del mondo che possano fondar colonie d'agricultori liberi nella
zona torrida. La concorrenza loro farà sì che la infame
schiavitù dei Negri rimanga abolita in forza di quel medesimo interesse
che l'ha fin qui promossa. Pare perciò che la stirpe chinese, ch'è
già la più numerosa di tutte le stirpi umane, sia predestinata
a popolare altre vaste regioni e fondar nuovi Stati; del che devono bene
esser contenti li amici dell'umanità.
La letteratura
chinese è d'una ricchezza, che parrà incredibile a chi non
pensi ch'è l'opera continua d'una numerosa nazione, la cui civiltà,
nel corso di cinquanta secoli, non ebbe alcuna di quelle lunghe e profonde
interruzioni che afflissero l'Italia e la Grecia, e spensero interamente
i Fenicj e li Egizj. Il dotto sinista Pauthier dice, che la gran
collezione d'opere scelte, fatta cominciare nel secolo scorso (1773)
dall'imperatore Kien Lung, contava già nel 1818 quasi ottantamila
volumi! E se ne aspettavano altri centomila (Encycl. Nouv.
Vol. 111 p. 537).
Oltre alle opere grammaticali, morali, istoriche, la letteratura chinese
ha drami, romanzi, novelle, vite e viaggi. Molte opere hanno forma d'enciclopedie
e dizionarj, con grandissimo numero di volumi. Molte opere riguardano
i Giaponesi, i Tibetani, i Turchi aborigeni e altri popoli; alcune sono
tradutte dal sanscrito e da altre lingue; Kien Lung fece stampare nel
suo palazzo una cronologia, desunta dai documenti. La geografia officiale
(Tai Thsing ecc.), una copia della quale adorna la gran biblioteca
di Parigi, ha più di trecento volumi.
I conoscitori
delle lettere chinesi le accusano di servile imitazione e uniformità,
forse perchè i più liberi pensatori, essendo esclusi dal
circolo degli studj officiali, rimasero facilmente ignorati. Ma noi non
possiamo dubitare che siano in gran numero; [219] dacchè
leggiamo le amare lagnanze che, già prima dell'éra nostra,
ne moveva Meng-tseu. - « Li scienziati d'ogni provincia professano
massime discordi e stravaganti. Le dottrine dei settarj Yang e Mè
riempiono l'imperio! ... La sètta di Yang riferisce ogni
cosa a sè; e non riconosce i regnanti. La sètta di
Mè, ama confusamente tutti e non riconosce le parentele...
Io, paventando i progressi che fanno queste dannose dottrine, difendo
la scienza degli uomini santi del tempo antico. Io combatto Yang
e Mè; ripudio le loro massime pervertitrici » (VI.
9).
Tutto
come in Occidente!
L'imperio
chinese deve essere stato istituito a principio da una sètta di
filosofi, come altri imperj furono istituiti da sètte di teologi,
o da squadre di conquistatori. La China, fin da' suoi primi secoli, è
una grande scôla, alla quale partecipa tutta la nazione.
Per
effetto di ciò, ai Chinesi, come per effetto d'altre cagìoni
a tutte le genti asiatiche anche più civili, manca il genio della
libertà. Ed è perciò che i liberi Greci, non
ostante la magnificenza del vivere e lo splendore delle arti, chiamavano
barbara l'Asia. Prevalse sempre in tutto l'Oriente la smania di prescrivere
e definire ogni atto della vita e ogni pensiero della mente, mentre
l'Europa, e nella barbarie e nella cultura, aspirò sempre all'uso
libero e indefinito della ragione e della volontà. Ma li
scrittori, anzichè spiegar questo fatto, lo ignorarono, lo negarono;
dissero che l'Asia era il campo dell'indefinito!
La China ebbe molte guerre civili, e fughe e uccisioni
di regnanti; ma le ribellioni furono solamente castigo ai prìncipi
malvagi, non furono occasione ai popoli di far valere i loro diritti.
In compenso, dominò sempre nella China l'idea dell'eguaglianza
degli uomini, ignota alle caste dell'India, negata sempre, anche al cospetto
dell'evangelio, in Europa. La China non ebbe mai caste; li alti
officj, appunto come in una grande scôla, si riputarono dovuti al
merito, e sopratutto alla dottrina; non alla violenza, nè
alla ricchezza, nè all'eredità, e nemmeno al voto sovente
cieco della moltitudine.
In
China, nemmeno ne' più remoti secoli, vediamo vestigia d'antropofagia,
nè di sacrificj umani, nè di auti-da-fe. Nella China
primitiva non vediamo l'idolatria, che regna in India, in Egitto,
in Fenicia, in Babilonia, in Grecia, in Italia. Vediamo toleranza dei
culti [220] stranieri (buddisti, ebraici, musulmani), se non in
quanto coprissero ambizioni straniere. Nel gesuita, i Chinesi espulsero
il facendiero, non il sacerdote. La China non separò mai la fede
dalla ragione. Essa incivilì le nazioni finitime; fu loro benefica,
non malefica. Se una famiglia di regnanti perseguitò la filosofia;
un'altra la ripose in seggio; le decretò divini onori. Mentre la
civiltà europea s'inizia coi misterj di Samotracia e d'Eleusi,
col secreto di Pitagora, coll'antro della Ninfa Egeria, colle fosche selve
dei Druidi, la scienza chinese non ebbe mai arcani: « Voi, discepoli
miei tutti quanti, diceva Confucio, credete forse ch'io abbia per voi
dottrine occulte? Io non ho dottrine occulte per voi ». (Colloq.
VI, 23).
Mentre
noi siamo giunti al libero insegnamento popolare a forza di sanguinose
rivoluzioni, e sulla ruina della feudalità prelatizia e baronale,
l'arte di scrivere, ignota ai tempi d'Omero, e tornata nel medio evo ad
essere un privilegio e quasi un secreto, fu sempre commune nella China
a tutto il popolo, benchè fosse nata colà sotto forme
immensamente più difficili. Leggiamo nella prefazione di Tciu-hi
al Grande Studio: - « Dopo la fine delle tre prime dinastie,
le istituzioni ch'esse avevano fondate, si propagarono gradatamente.
E così avvenne che nei palazzi dei re, come nelle città
grandi, ed anche nelle minori ville, non vi era luogo ove
non s'attendesse agli studj. Quando li adolescenti avevano tocco li otto
anni d'età, fossero figli di re o di prìncipi
o di plebei, andavano tutti allo Studio minore (Sao hio)...
Si insegnavano loro anche li usi del mondo, i riti, la musica,
l'arte dell'arciero e dell'auriga, lo scrivere, il computare.
Quando avevano tocco i quindici anni, allora tutti, dall'erede
dell'imperio e dagli altri figli dell'imperatore sino ai figli
dei prìncipi, dei ministri, dei governatori, dei letterati, e a
quanti figli del popolo primeggiavano per ingegno, andavano
allo Studio maggiore (Ta hio), ove s'insegnava loro il modo
di penetrare i principj delle cose, rettificare i moti dell'animo, emendarsi,
perfezionarsi e regolare li altri uomini ».
Queste istituzioni fiorirono presso i Chinesi fin dai tempi d'Omero!
Se essi le conservano ancora oggidì, non v'è ragione per
chiamarli immobili; poichè d'allora in poi trovarono molte altre
cose, che noi imparammo da loro.
[221]
Ma il sistema chinese, come tutti i sistemi d'idee che non si trovano
in contatto intimo con altri sistemi, potè bene svilupparsi e propagarsi;
non potè emanciparsi dal suo principio. I sistemi sono come
le piante, la cui vegetazione è sempre quale primamente uscì
dal germe; nè muta aspetto se non per innesto d'altra pianta. La
permanenza del suo principio non tolse però al sistema chinese
un proporzionato sviluppo dello spirito inventivo; onde generò
da sè solo continuamente e perennemente arti e studj. Non gli tolse
lo spirito espansivo; onde abbracciò nella China e nelle
regioni vicine uno spazio di quattro millioni di miglia e cinquecento
millioni d'uomini. Nessun altro sistema teologico o militare giunse mai
a tanto.
Noi
vediamo antiche presso i Chinesi molte idee d'economia publica, di sanità,
e di beneficenza. Il lavoro è onorato e promosso, non vituperato,
come nei servi della gleba dei feudi europei, o nei Negri delle nostre
colonie. Il lavoro con opportune istituzioni, antiche nella China, nate
jeri in Europa, viene accommodato ai muti, ai ciechi, ai
vecchi derelitti. Mencio oltrepassa i nostri economisti, che vedono
in un uomo solamente un pajo di braccia; egli vede nello studio
una forza produttiva equivalente alla fatica. Egli dice: «
Li uni lavorano colla mente, li altri colle braccia » (V. 4.). Nell'Esprit
des Loix, il vecchio Montesquieu fa dire ad uno degli imperatori Thang:
« I nostri padri pensavano che per ogni uomo che non zappa, e per
ogni donna che non fila, qualcuno nell'imperio deve patire la fame e il
freddo; e perciò fece chiudere molti conventi di Bonzi »
(Espr. des L. VII, 6). Codesti bonzi sono i frati del Buddismo.
Chi reputa immobile la China, se consulterà
le istorie, la vedrà in agitazione continua. La vedrà dissodare
primieramente un vasto territorio, arginare fiumi, scavar canali, diffondere
lungo le mille valli dei fiumi colonie d'agricultori, città innumerevoli;
assorbire le tribù barbare dei monti; abbracciar tutti i suoi popoli
in una sola civiltà col vincolo d'una sola lingua; inventar leggi,
arti e scrittura; e tuttociò, quando l'Europa stava pertinacemente
selvaggia e impotente. Poi scomporsi in più regni federati; e in
quella comparativa libertà, svolgere popolari e varie filosofie;
poi rannodarsi, ora in un imperio, ora in due, il Catai e il Mangì
di Marco Polo: soffrir come l'Italia due volte la conquista dei barbari;
la [222] prima volta cacciarli; la prima e la seconda ammansarli
e aggregarli alla sua civiltà. Intanto un assiduo lavoro mentale
propagava da una parte la filosofia socratica di Confucio, la filosofia
astratta di Lao Tseu, la metafisica in veste teologica dei Buddisti; infine
in pochi anni, sotto i nostri occhi, trasse dalla lettura della Bibbia
il fornite d'una nuova rivoluzione.
Herder
negò ai Chinesi il genio inventivo e progressivo: - « Questa
progenie mogolica, anche durando migliaja d'anni, non poteva, per qualsiasi
istituzione artificiale, smentir mai la sua natura. Essa ha dato quanto
l'organizzazione poteva dare; e altro non si può da essa pretendere
» (3).
Noi
pensiamo: se quando Carlomagno sottomise la barbara Sassonia alla civiltà
latina, alcun Romano o Bizantino avesse sentenziato che quella stirpe
semigotica non poteva, per qualsiasi istituzione artificiale, smentir
mai la sua natura; e ch'essa aveva dato quanto poteva dare: un tale oracolo
si troverebbe smentito anche solo dal fatto dell'apparizione in Germania
dello stesso Herder.
È più da filosofo il credere che i riti e le cerimonie e
le altre istituzioni artificiali repressero nei Chinesi la forza
geniale e spontanea. In istoria naturale e in etnografia, i Chinesi, per
il loro aspetto, poterono venir classificati coi Mogoli, come li Ostrogoti
cogli Ateniesi; ma per questo non si può indurre una necessaria,
indelebile, eterna conformità tra le idee dei Chinesi e dei Tartari,
degli Ateniesi e degli Ostrogoti. Prova ne sia la lingua, forse per effetto
del precoce uso della scrittura, rimasa monosillaba presso i Chinesi,
quando ebbe largo e libero tempo di svolgersi e divenir polisillaba presso
i Mogoli. E così pure la vita nomade dei Mogoli, e l'indole sedentaria
dei Chinesi, e il nessun amore di questi per la pastorizia, e la possibilità
che presso di questi l'agricultura sia precorsa alla pastorizia, come
presso i Messicani, o le sia stata meramente accessoria, come presso i
Peruviani.
Li ultimi
eventi tendono a introdurre, per forza d'armi e di [223] commercio,
nuovi principj nel sistema chinese, e ad aprir nuovi campi alla sua forza
espansiva. Nelle nostre colonie i Chinesi si vanno mescolando principalmente
colla libera stirpe anglobritanna. Non è possibile che questa non
le communichi le sue idee dominanti; e sono appunto quelle che mancano
al sistema chinese. Esse tendono: - a sciogliere le famiglie dai riti
antichi, dall'eccessiva autorità paterna, dalla poligamia dei grandi,
che avvilisce la donna e soffoca nel seno delle madri i generosi sentimenti
dei figli; - a istituire la proprietà intera, e libera, non avvinta
a concessione di prìncipe; - a fondare communità, municipj
e altre società deliberanti; a riformare un sistema di scrittura
che, oltre a isolar la nazione, le fa consumare nelle scôle un tesoro
inapprezzabile di tempo e di fatica; - a spalancarle i confini dell'antico
suo mondo; ad iniziarla nella nuova scienza esperimentale, questa grande
rivelazione moderna, tanto consona alla filosofia di Confucio, ch'è
la dottrina della ragione e della perfettibilità.
Le
istorie universali che, come quelle del Bossuet e del Leo e d'altri
parecchi, non fanno conto veruno di questa grandissima e degnissima parte
del genere umano, meglio si direbbero istorie parziali. Il Petavio,
benchè gesuita, fa menzione una sola volta di questo popolo, a
proposito del processo dei riti chinesi (Rationarium temporum. Append.
X).
Tutto
come in Oriente!
Siamo
Chinesi a nostro modo anche noi (4).
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